Il patto di famiglia. Rassegna ordinata di dottrina nella sua prima interpretazione
Il patto di famiglia. Rassegna ordinata di dottrina nella sua prima interpretazione
di Giovanni Casu
Consiglio Nazionale del Notariato
Pubblicato nella rivista Studi e Materiali CNN, 2/2006, p. 1823.
1. Premessa
Il patto di famiglia, istituito con legge 14 febbraio 2006. n. 55, in vigore dal 16 marzo 2006, ha inciso così fortemente sull’assetto del diritto successorio, da costituire oggetto di forti discussioni contrapposte tra i primi commentatori. La Fondazione Italiana per il Notariato ha riservato all’argomento tre convegni di studio svoltisi a Milano, Napoli e Palermo. Il mondo accademico ha disputato a lungo sull’argomento, cercando di delineare un assetto sistematico per il nuovo istituto (1).
Il presente documento non vuole rappresentare un nuovo studio i nteso a prendere posizione sui vari argomenti, ma mira soltanto a costituire una sintesi, il più possibile oggettiva e asettica, sulle problematiche più rilevanti per il notariato.
Occorre infine sottolineare che al presente documento non va riservato quello spessore di attendibilità e di relativa autorevolezza che si è soliti attribuire ai prodotti dell’ufficio studi del Consiglio nazionale del notariato, sia perché, si ripete, non si può ancora prendere posizione su alcuno dei problemi trattati, trattandosi di argomenti bisognevoli di ulteriore maturazione interpretativa; sia perché ancora sul nuovo istituto non si è pronunciata la giurisprudenza.
2. Origini e iter parlamentare
Il patto di famiglia, disciplinato dalla legge 14 febbraio 2006. n. 55, trova la sua origine nella Raccomandazione della Commissione CE del 7 dicembre 1994 (94/1069/CEE) sulla successione delle piccole e medie imprese, nella quale si sollecitavano gli Stati membri a rendere più razionali ed efficienti le norme successorie che regolano il trasferimento delle imprese di piccole e medie dimensioni alla morte dell’imprenditore (2). In detta Raccomandazione si auspicava espressamente l’attenuazione del divieto dei patti successori e la trasformazione della riserva calcolata in natura in riserva calcolata in valore (3).
Il problema venne ripreso e approfondito nella Comunicazione della Commissione CE n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese (4).
Nel nostro Paese la Raccomandazione CE fu recepita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, che promosse una ricerca elaborata da un gruppo di lavoro che operò dal giugno 1996 al giugno 1997 (5), ricerca dalla quale scaturì un articolato che venne presentato e illustrato in un convegno di studio svoltosi a Macerata nel 1997 (6). I risultati di questo convegno offrirono lo spunto per la presentazione di un disegno di legge da parte del Sen. Andrea Pastore (7), che non venne approvato nel corso della XII legislatura, ma fu ripresentato nell’identico contenuto nel corso della legislatura testé conclusa e contribuì all’approvazione della legge in esame.
Nel procedere a delineare un progetto di riforma, il gruppo di studio si prefisse di impedire che nel trasferimento successorio dell’attività imprenditoriale si creasse un assetto litigioso, in collegamento con l’inevitabile ampliamento della base proprietaria e del frazionamento del controllo aziendale che si verificano come effetto inevitabile di una successione ereditaria (8).
E per procedere ad un assetto negoziale in vita del disponente, che valesse a scongiurare detti pericoli, ci si è trovati di fronte a due ostacoli normativi da elidere o comunque da restringere: a) il principio dell’insensibilità della natura dei beni nella disciplina delle successioni a causa di morte (nel senso che nel regime giuridico in vigore tutti i beni che rientrano nel patrimonio del de cuius, ivi compresa l’azienda, hanno identico trattamento); b) il divieto dei patti successori.
Per superare gli intralci normativi in materia successoria, il gruppo di studio si è prefisso i seguenti obiettivi: a) preservare l’unità del bene produttivo; b) favorire l’univocità del controllo; c) anticipare in vita il trasferimento dell’impresa.
E questo risultato lo si è ottenuto disegnando il c.d. patto di famiglia che, in sintesi, significa riallocare consensualmente il controllo sull’azienda, effettuando una sorta di disciplina stralcio dei beni aziendali ed anticipando quindi la vicenda successoria (9).
Il gruppo di studio si è confrontato con gli ordinamenti stranieri in materia ed ha effettuato una scelta che tiene conto da una parte del diritto tedesco (sul punto dell’anticipazione della successione per una determinata categoria di beni ereditari), da un’altra parte del diritto francese (sul punto di garantire ai legittimari un ristoro finanziario sulla loro quota di legittima) (10).
Va subito precisato che lo schema di progetto di legge prodotto dal gruppo di studio prevedeva due articoli, uno riservato al patto di famiglia ed un altro riservato al patto d’impresa: quest’ultimo stabiliva la possibilità per le società di capitali (si prevedeva la società per azioni, ma si riteneva sul piano interpretativo la norma applicabile anche alle società a responsabilità limitata) di prevedere clausole statutarie disciplinanti a favore della società, dei soci o dei terzi il diritto di acquistare le azioni nominative cadute in successione. Per il riscatto di esse, poi, ad un prezzo corrispondente al valore delle azioni, si prevedeva un termine di 60 giorni dalla comunicazione alla società dell’avvenuta successione (11).
Questo meccanismo del patto d’impresa era stato con qualche modifica recepito nel disegno di legge del Senatore Pastore, ma non è stato tradotto in legge, salvo uno scarno accenno al trasferimento della partecipazione sociale, accenno peraltro già oggetto di critiche in dottrina (12).
3. Scopi
La nuova legge, nella sostanza, come accenna la relazione accompagnatrice del provvedimento allo stato di progetto (13), si propone di soddisfare “l’esigenza di consentire all’imprenditore di disporre in vita della propria azienda in favore di uno o più dei propri discendenti, purché con l’accordo dei rimanenti discendenti e dell’eventuale coniuge”.
La nuova legge, nell’intento dei suoi autori, mira sostanzialmente a derogare ad una norma rigida come quella del divieto dei patti successori, conciliando ad un tempo l’esigenza dell’imprenditore di trasmettere l’azienda e le partecipazioni sociali ad un proprio parente in grado di continuare il successo imprenditoriale del titolare, con l’altra esigenza di non privare i congiunti legittimari delle loro attese successorie.
Si è anche sottolineato che con il patto di famiglia le esigenze dell’impresa, entrate in conflitto con le regole civilistiche che governano il diritto successorio, sono prevalse, segnando una netta divergenza tra il trattamento dei mezzi di produzione (governati dal patto di famiglia) e il trattamento dei beni di reddito (governati dal diritto successorio) (14).
Il tutto si riduce ad un patto che interviene tra imprenditore attuale, il soggetto assegnatario dell’impresa e i congiunti aventi titolo alla legittima; per effetto di esso l’azienda (o la partecipazione sociale) viene dismessa a favore del soggetto favorito, ma gli altri congiunti vengono contemporaneamente tacitati in danaro o in natura.
Tuttavia gli Autori più attenti (15) nei loro commenti non si sono limitati ad affermare che scopo della legge sia soltanto quello di favorire un trapasso generazionale nell’impresa (vale a dire non soltanto un’esigenza soggettiva dell’attuale titolare d’impresa di affidarne la gestione a soggetto discendente ritenuto valido e congruo allo scopo di una continuazione dell’attività d’impresa in modo confacente alle esigenze di una conduzione efficace dell’azienda), ma altresì l’esigenza di evitare che l’azienda subisca traumi di spezzettamento, perdendo quel carattere di completezza che costituisce uno degli elementi portanti del suo ruolo nel campo economico.
Particolarmente efficace nella sua sintesi quanto afferma un Autore particolarmente sensibile al nostro problema, quando afferma che il patto di famiglia “risponde alla finalità di preservare l’unità del bene produttivo, di favorire l’unicità del controllo, evitando la frammentazione che si determina con la successione ereditaria, di permettere di anticipare in vita il trasferimento dell’impresa e, dunque, l’investitura della leadership nel complesso produttivo” (16).
4. Problemi
I problemi che scaturiscono dalla novella, alla luce delle riflessioni che ne hanno tratto i primi commentatori di essa, possono essere così elencati:
a) il patto di famiglia si sostanzia in un patto tra vivi, oppure in un patto mortis causa?
b) il patto di famiglia ha natura di contratto bilaterale, oppure natura di contratto plurilaterale (occorre o meno, ai fini della sua validità, la presenza di tutti legittimari esistenti al momento del patto)?;
c) Quale è il significato dell’espressione “partecipazioni sociali” (occorre o meno una partecipazione qualificata)?;
d) Il patto, che va stipulato con atto pubblico a pena di nullità, pretende la presenza dei testimoni?
e) Il disponente richiede una specifica qualificazione imprenditoriale (occorre che egli sia imprenditore effettivo)?
f) Il soggetto tenuto a liquidare i legittimari deve essere necessariamente l’assegnatario o può essere lo stesso disponente?
g) All’apertura della successione del disponente, esiste il pericolo che la dismissione dell’azienda sia posta in discussione in qualche misura?
5. Atto tra vivi o atto mortis causa?
La risposta al quesito non è priva di effetti, perché se si riconosce al patto di famiglia il valore di un atto mortis causa, occorre concludere che, una volta intervenuta la successione di colui che ha trasferito l’azienda o la partecipazione sociale, bisogna, al momento della morte, effettuare la riunione fittizia di tutti i beni dell’imprenditore, ivi inclusa l’azienda trasmessa, allo scopo di ricalcolare la misura della legittima soprattutto a vantaggio di colui che non abbia potuto partecipare al patto.
A parte una prospettazione isolata come ipotesi di lavoro(17) non sembra peraltro che gli interpreti siano dell’avviso che possa trattarsi di atto mortis causa. Essi, pertanto concordano sul fatto che il patto di famiglia è un atto tra vivi, che si realizza quando l’imprenditore che trasferisce è ancora in vita, che nel tempo in cui viene stipulato produce i suoi effetti e che in tale momento occorre valutare eventuali vizi o imperfezioni del patto (18).
Con molta efficacia, pertanto, è stato sottolineato che il patto di famiglia è concorrenziale non al testamento, bensì alla donazione (19).
Assodato che si tratta di atto tra vivi e precisato che la legge lo qualifica come contratto, occorre affermare che ad esso sia applicabile l’intera disciplina valevole per i contratti: vizi della volontà, possibilità di realizzazione del patto ricorrendo a un rappresentante, etc.
6. Eccezione ai patti successori?
Non sembra che il patto di famiglia debba essere valutato come eccezione al divieto dei patti successori, ancorché sul piano formale il legislatore tale lo consideri.
E’ stato evidenziato che messa di fronte al tradizionale divieto dei patti successori, la critica ha auto buon gioco nel negarne, non solo com’è ovvio l’applicabilità, ma la stessa attinenza logica alla figura del patto (20).
Si è anche chiarito che il patto di famiglia non appare riconducibile al patto successorio dispositivo, i cui effetti decorrono sempre dal momento dell’operatività della successione del disponente e non immediatamente come accade invece nel nostro caso (21).
Al limite il patto di famiglia può essere riguardato come patto successorio rinunciativo, perché esso è caratterizzato dal fatto che i partecipanti al patto rinunciano fin d’ora ad aggredire beni che sarebbero loro spettanti nel momento dell’operatività della successione (22).
Queste conclusioni sono state affermate anche dalla dottrina che si è occupata del problema nella fase di passaggio tra la presentazione del provvedimento allo stato di progetto e il momento della sua traduzione in legge, dottrina per la quale “si può affermare con assoluta certezza che il patto di famiglia che si vorrebbe introdurre nel codice civile attraverso l’inserimento di un art. 734-bis non configura un patto successorio perché ciò che forma oggetto dell’attribuzione è l’azienda nella consistenza che ha al momento dell’atto dispositivo, l’effetto attributivo è immediato e allo stesso modo immediata è anche la determinazione del soggetto o dei soggetti beneficiari” (23).
E subito dopo questo Autore afferma che “la vera portata innovativa della norma…non consiste in una deroga al divieto di patti successori, bensì in una disattivazione dei meccanismi di tutela che l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e segnatamente la riduzione e la collazione” (24).
Ad analoghe conclusioni perviene altra dottrina (25) quando afferma che il contratto in esame “non configura alcun patto successorio, anche perché le parti contraenti potranno liberamente accettare l’eredità dell’imprenditore o rinunciarvi quando si aprirà la sua successione, avuto riguardo ai beni relitti e a quelli donati, esclusa l’assegnazione dell’azienda o partecipazione effettuata con il contratto stesso”. E, conclude questo Autore, che il richiamo al divieto dei patti successori è stato effettuato “al fine di evitare ogni dubbio e quindi eventualmente salvare il patto stesso dal relativo divieto”.
Va da sé che le osservazioni che precedono partono tutte dal presupposto che il patto successorio vietato dall’art. 458 c.c. sia caratterizzato da un atto tra vivi che abbia per oggetto una disposizione testamentaria, fermi restando i due momenti distinti: quello della data del patto tra vivi e quello successivo del trapasso mortis causa che si verificherà solo al momento della morte del de cuius.
Nel nostro caso si ha qualcosa di diverso, sia nel senso che i due momenti del trasferimento del bene sono cumulati in un solo momento (la data del patto di famiglia); sia nel senso che non tanto si regolamenta una trasmissione ereditaria futura, quanto se ne anticipa la regolamentazione al momento traslativo del bene, che si verifica in vita del disponente e il trasferimento negoziale che così si realizza anticipa la successione, ma soltanto in parte (limitatamente all’azienda e alla partecipazione societaria trasferita) e, in ogni caso, rende i beni trasmessi insensibili alla futura successione e del tutto estranei a quest’ultima.
Secondo la dottrina, insomma, più che un patto successorio si avrebbe un’anticipazione in vita di un negozio traslativo di un bene, che non potrà più essere considerato come bene ereditario, anche se, rispetto a detto bene, vengono soddisfatti contestualmente in vita interessi (dei legittimari) sostanzialmente analoghi a quelli che si verificherebbero in una trasmissione ereditaria (26).
Nella sostanza la dottrina non ha mancato di rilevare che il collegamento con il divieto dei patti successori potrebbe essere solo indiretto, per il fatto che con il patto di famiglia vengono congelati e resi inapplicabili alcuni principi che operano nel momento in cui si tratta di calibrare gli interessi che sorgono, al momento della successione, fra persone appartenenti allo stesso ceppo familiare (è il caso della collazione attinente alla riunione fittizia dei beni e dell’azione di riduzione delle donazioni ricevute in vita (27).
E si è anche chiarito che il patto di famiglia, pur non costituendo eccezione al divieto dei patti successori, vi si richiama in una certa misura, perché esso in sintesi costituisce un’anticipata successione, che si sostanzia in una eccezionale anticipata rilevanza e nella sottoposizione agli strumenti dell’autonomia privata inter vivos di quegli interessi che, anteriormente alla riforma, dovevano ritenersi ad essa sottratti fino al tempo della morte (28).
7. Parti essenziali del patto
Al patto di famiglia debbono partecipare necessariamente tutti i legittimari conosciuti ed esistenti alla data del patto?
Trattasi di problema focale per il nuovo istituto: il patto di famiglia può sorgere esclusivamente per effetto di un contratto instaurato fra il disponente e l’assegnatario dell’azienda o della partecipazione societaria, senza che ad esso abbiano partecipato i legittimari? In altre parole, la presenza di tutti i legittimari è indispensabile per far nascere il patto di famiglia?
Per rispondere al problema è necessario - sul piano logico - superare un ostacolo: da parte di taluno si afferma che il patto di famiglia ha natura divisionale, come si evincerebbe anche dalla collocazione del nuovo istituto nel Titolo dedicato alla divisione (Libro II, Titolo IV del codice civile). Se ciò fosse esatto, ne deriverebbe come ineliminabile l’obbligo di fare presenziare al patto di famiglia tutti i condividenti. Ma questa soluzione, è stato chiarito, non appare priva di critiche, sia perché tra i soggetti che partecipano al patto non vi è alcuna comunione di beni, sia perché gli scopi dell’istituto non sono di carattere divisionale, ma ubbidiscono alla realizzazione di distinti interessi (29).
Secondo una opinione, il patto di famiglia è passibile di nullità se non partecipano ad esso tutti coloro che, alla data dell’atto, hanno la veste di legittimari del titolare dell’azienda o delle partecipazioni societarie trasmesse con il patto (30).
Questa opinione ha il vantaggio di fondarsi sul testo letterale della norma (l’art. 768-quater, primo comma c.c. utilizza l’espressione “debbono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”); ma, sostanzialmente, essa si basa sull’esigenza di non vulnerare oltre certi limiti la forte divaricazione che con il patto di famiglia si verifica nell’assetto normale del diritto successorio: anticipazione del valore di determinati beni al momento anteriore alla morte del de cuius e insensibilità dei beni stessi al momento dell’apertura della successione, sottrazione ex lege dei beni trasmessi sia all’azione di riduzione sia alla collazione; la tacitazione in via di principio delle aspettative dei legittimari in danaro e non in natura; l’ordinaria tacitazione delle aspettative stesse con danaro dell’assegnatario dell’azienda o della partecipazione e non con beni dell’imprenditore.
Per dare sostegno sistematico a questa conclusione, gli Autori che si sono occupati del problema o hanno fortemente argomentato la portata di eccezione della disciplina sul patto di famiglia (31); o hanno qualificato il patto di famiglia alla stessa stregua di un negozio divisionale, pretendendo in tal caso la necessaria presenza di tutte le parti condividenti, ivi inclusi i legittimari (32); oppure hanno posto in risalto l’interesse dei legittimari a negoziare il proprio diritto di legittima ed hanno posto in luce che, in caso contrario, si verificherebbe un effetto negoziale a svantaggio di terzi che non hanno partecipato al negozio, in contrasto con il principio che il negozio produce effetti soltanto fra le parti e non nei confronti dei terzi (33); o infine hanno precisato che la necessaria presenza di tutti i legittimari ha lo scopo di tradurre concretamente e negozialmente la legittima in natura (come tale disegnata dal diritto successorio) in legittima calcolata in valore (come tale disegnata dal patto di famiglia) (34).
Certamente da queste opinioni traspaiono, da un lato, conclusioni in linea con l’impostazione sistematica avallata da Gazzoni; da un altro lato lo sforzo di ridurre all’essenziale il portato eccezionale della nuova disciplina, allo scopo di rispettare al massimo i principi del diritto successorio tramandati dal diritto romano (35). Si intuisce come, partendo da questa impostazione, o si conclude in modo netto per l’invalidità del patto di famiglia privo della presenza di tutti i legittimari (36), o, senza pervenire ad affermare l’invalidità del patto, si propende per la soluzione di ritenere indispensabile la presenza di tutti i legittimari sul piano di una composizione negoziale che non offra margini alla lite giudiziaria, senza eludere del tutto la possibilità che l’interpretazione corretta possa essere in futuro anche quella contraria (37).
A fronte di questa opinione è stata manifestata una contraria opinione, secondo la quale il patto di famiglia sarebbe valido ancorché stipulato con la sola presenza del disponente e dell’assegnatario dell’azienda o della partecipazione societaria (38). Non sarebbe, cioè, indispensabile, né ai fini di validità, né a fini di efficacia del patto, la presenza di tutti i legittimari, ancorché si tratti di legittimari valutati tali se la successione venisse aperta al momento del patto.
Anche a favore di questa opinione vi sono due argomenti prevalenti, uno di carattere formale ed un altro di carattere sostanziale: il primo è espresso nel verbo “partecipare” riferito ai legittimari, che esprimerebbe una posizione defilata rispetto all’intervento delle parti, finendo per circoscrivere la portata negoziale dei legittimari al patto (la loro presenza sarebbe in funzione del calcolo del valore dell’azienda, sulla cui base va calcolato il valore della quota di legittima spettante ad ognuno dei legittimari) (39).
L’argomento sostanziale, manifestato a voce in qualche congegno, consiste nella considerazione che, ritenendosi il contrario, basterebbe un legittimario dissidente (e quindi non partecipante al patto) per mettere in crisi tutta l’operazione, in tal modo svuotando tutta la portata del nuovo istituto. E pertanto l’argomento sostanziale consiste nel privilegiare il passaggio d’azienda rispetto all’interesse dei legittimari che, partecipando al patto, non verrebbe vulnerato (a meno che essi non gradissero che sia favorito altro discendente nel trasferimento dell’azienda).
Il maggior fautore di questa opinione appare Caccavale (40). Questo Autore abbandona i criteri interpretativi basati esclusivamente sul testo della norma e si concentra sulla ragione giustificativa della riforma: se questa ha lo scopo di agevolare il trapasso generazionale per consentire all’azienda una continuità nella produttività, appare evidente che si vuole perseguire un interesse generale (la produttività aziendale nell’economia), di fronte al quale gli interessi personali dei componenti della famiglia dell’imprenditore (e pertanto i diritti di legittima che ne conseguono) debbono soccombere o passare in secondo piano. Pertanto quello che conta è il contratto di trasferimento dell’azienda da imprenditore a discendente e su questo trasferimento di titolarità per la salvaguardia di un interesse generale non può svolgere un ruolo primario l’interesse personale dei legittimari non assegnatari, i quali, rispetto al contratto di trasferimento dell’azienda, devono essere considerati come ”terzi” analogamente ai legittimari sopravvenuti previsti dall’art. 768-sexies.
Se, continua nella sostanza questo Autore, essi vanno valutati come “terzi”, non possono essere ritenuti parti nel negozio che documenta il patto di famiglia, ma vanno soltanto invitati ad intervenire, con conseguenze sul contratto, tenuto conto dell’invito o del mancato invito ad intervenire.
A seconda che si privilegi la prima soluzione (A) (il patto non è valido se manca la presenza anche di un solo legittimario), oppure la seconda soluzione (B) (il patto è comunque valido e la presenza di tutti i legittimari ha soltanto lo scopo di impedire le liti future e di negoziare sul valore dell’azienda trasmessa) si offre una lettura diversa dell’art. 768-sexies, primo comma del codice civile, per il quale “all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali”.
Chi sostiene la soluzione A afferma che questa norma va interpretata nel senso che essa debba riferirsi esclusivamente ai legittimari sopravvenuti al patto, cioè ai legittimari che non hanno partecipato al patto perché alla data di esso non erano ritenuti tali (figlio naturale nato dopo, nuovo coniuge, etc.).
Chi invece sostiene l’opinione B afferma che la norma valga per tutti coloro che non abbiano partecipato al patto, a prescindere dal momento in cui sia sorta la qualità di legittimario (e quindi che la disposizione si applichi anche ai legittimari che, regolarmente invitati al patto, perché individuati già allora come legittimari, non abbiano aderito all’invito).
Ma non vi è alcun dubbio che i sostenitori dell’opinione sub A siano preoccupati di salvaguardare i legittimari (e per essi le norme generali in materia di successione), mentre i sostenitori dell’opinione sub B siano preoccupati di salvaguardare il trasferimento dell’azienda (estendendone in tal modo la concreta realizzabilità).
In un convegno è stata profilata come situazione che potrebbe porre in crisi l’istituto la circostanza di un figlio naturale la cui natura di figlio debba esser accertata giudizialmente e che pertanto debba decorrere un grande lasso di tempo per ottenere il disconoscimento della paternità o il riconoscimento di figlio naturale, il che potrebbe bloccare il patto di famiglia, in attesa del risultato della lite in corso che debba percorrere tutti i gradi di giudizio.
Questa fattispecie, si è detto, appare suscettibile di porre in crisi l’affermazione della necessaria presenza dei legittimari per la validità del patto di famiglia, perché trattasi di circostanza non concretamente riscontrabile al momento del patto, ma riscontrabile successivamente ad esso, con il risultato di far decorrere gli effetti del riconoscimento (e quindi la qualificazione del soggetto come legittimario) al momento del patto, senza peraltro possibilità di riscontro in questo momento.
Un Autore percorre un’altra strada per giungere alla conclusione della indispensabile necessità della presenza di tutti i legittimari non assegnatari al contratto che costituisce il patto di famiglia: la circostanza che le quote di legittima (malgrado il silenzio del legislatore in proposito) possono essere concretamente liquidate in misura maggiore rispetto al loro valore matematico di legge; il che implica l’esigenza della presenza al patto di tutti i legittimari interessati, allo scopo di rendere le quote di legittima così fissate insuscettibili a qualsiasi futura revisione al momento dell’apertura della successione dell’assegnante (41).
Gli argomenti a favore e contro le opposte conclusioni sono numerosi e ricorrenti. Il comportamento consigliabile dovrebbe essere quello di evitare le liti e quindi di fare confluire tutti i legittimari presenti (42).
Degno di attenzione è anche l’aspetto delle conseguenze derivanti sul patto di famiglia allorquando uno dei legittimari presenti e non rientrante nella categoria dei legittimari sopravvenuti, non sia fatto comparire. Per alcuni Autori in tal caso si ha la sanzione della nullità del patto e quindi il discorso non può essere portato oltre: o compaiono tutti o il patto non si conclude perché esso non sarebbe idoneo a produrre alcun effetto.
Per coloro che non si rassegnano ad un’interpretazione dell’istituto così rigorosa, si tratta di accertare come possa recuperarsi la posizione del legittimario pretermesso al patto (e quindi da non valutare come legittimario sopravvenuto). Secondo un’opinione, finora peraltro rimasta isolata (43), il legittimario non partecipante al patto ha il potere di far valere integralmente il suo diritto di legittimario in sede di apertura della successione: in quella fase egli potrebbe richiedere collazione e riduzione coinvolgendo nella valutazione e nel calcolo anche i beni assegnati in sede di patto di famiglia, beni che andrebbero rivalutati riportando il loro valore alla data dell’apertura della successione. In questo modo per questo legittimario il patto di famiglia non avrebbe l’effetto di un’assegnazione di beni definitivamente esclusa dalla massa ereditaria.
Si intuisce come se fosse esatta questa opinione tutta la costruzione del meccanismo ideato dal legislatore con il patto di famiglia verrebbe a cadere: non apparirebbe infatti congruo affermare che i beni assegnati con il patto di famiglia abbiano un valore per alcuni (i legittimari partecipanti al patto) e un valore diverso per altri (i legittimari non partecipanti al patto ancorché esistenti alla data del patto): per i primi il valore dei beni coinvolti nel patto verrebbe cristallizzato alla data del patto, per i secondi il valore dovrebbe essere ricalcolato alla data dell’apertura della successione (44).
E non va dimenticato di rilevare che per un’altra dottrina (45) la presenza dei legittimari non assegnatari non è necessaria ai fini della validità del patto di famiglia. Essi peraltro devono essere invitati a partecipare al patto: se l’invito è avvenuto, il contratto è pienamente valido anche per i legittimari non partecipanti al patto; se l’invito non è avvenuto, gli assenti possono richiedere non l’invalidità del patto, ma soltanto il concreto accertamento della misure delle quote di legittima loro spettanti.
Perviene ad una soluzione in larga misura diversa, percorrendo strade argomentative originali, Salvatore Tondo (46). Egli parte dalla norma prevista dall’art. 768-sexies c.c., che a suo giudizio non va interpretata come norma intesa a disciplinare i diritti dei legittimari sopravvenuti rispetto al patto, bensì come norma esclusivamente intesa a disciplinare il diritto dei legittimari non assegnatari esistenti alla data del patto e non partecipanti ad esso.
In sostanza, per questo Autore, è indispensabile ipotizzare l’esistenza di “due successioni distinte, l’una al momento del patto (successione anticipata) e l’altra a quello della morte dell’ereditando (successione ordinaria), da considerare, quanto più possibile, in maniera autonoma”.
I legittimari sopravvenuti (per i quali oltretutto sarebbe impropria la qualifica di “terzi” cui fa riferimento la rubrica dell’articolo) non possono sconvolgere fortemente l’assetto del patto di famiglia, per cui essi saranno da ritenere legittimari comuni per i quali non deve più essere posto in discussione l’assetto negoziale effettuato con il patto di famiglia; per essi pertanto non può trovare alcuna applicazione la norma contenuta nell’art. 768-sexies.
Ai legittimari non sopravvenuti (e quindi esistenti alla data del patto) va riconosciuto il diritto di partecipare al patto, da valutare come onere. In caso di mancata loro partecipazione, il patto resta valido nei loro confronti ed essi conservano il diritto, previsto dall’art. 768-sexies, di chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art. 768-quater, aumentata degli interessi legali.
Per questo Autore la norma racchiude una sorta di sanzione per la mancata partecipazione al patto: se avessero partecipato, avrebbero contribuito alla valutazione del bene azienda e all’individuazione del giusto valore delle quote di legittima; non avendo partecipato al patto si devono accontentare di quanto hanno stabilito i partecipanti al patto e chiedere in aggiunta soltanto gli interessi.
8. Forma del contratto
La norma sulla forma dell’atto è oltremodo scarna: “a pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico”.
La ragione giustificativa della forma vincolata è da porre in collegamento con la natura del patto di famiglia, che rappresenta una sorta di successione anticipata e il cui scopo è quello di rendere insensibili alcuni principi propri del diritto successorio, principi che se dovesse applicarsi il diritto successorio sarebbero i seguenti: a) valutazione dell’intera massa ereditaria al momento della morte; b) la collazione e l’azione di riduzione irrinunciabili prima della morte del disponente; c) riunione fittizia dei beni dell’asse ereditario allo scopo di procedere alla divisione.
Probabilmente, data la regola che tutti i negozi mortis causa debbono sottostare a rigorose norme formali e considerato che nel nostro caso molte regole usuali del diritto successorio non trovano applicazione, il legislatore, per congruenza di forme, ha ritenuto opportuno garantire la serietà del patto di famiglia prescrivendo la forma vincolata dell’atto pubblico.
Del resto non si è mancato di evidenziare che la richiesta dell’atto pubblico è in linea con l’art. 2556, secondo comma c.c., riformato dalla legge 12 agosto 1993, n. 310, per il quale il trasferimento di azienda richiede una determinata forma allo scopo di consentirne l’iscrizione nel registro delle imprese (47).
Trovano pertanto integrale applicazione le norme formali della legge notarile. Unico punto interrogativo è il seguente: è necessaria la presenza dei testimoni?
Dopo la recente riforma legislativa sull’obbligo di assistenza dei testimoni tracciata dalla legge 28 novembre 2005, n. 246, per la presenza dei testi occorre un’espressa previsione legislativa, che nel nostro caso manca, oppure occorre fare riferimento a precise tipologie negoziali, quali la donazione e i contratti di matrimonio. L’unico dubbio pertanto resta il seguente: il patto di famiglia come va qualificato: è esso assimilabile agli atti di liberalità? Se la risposta a quest’ultimo interrogativo è affermativa, la presenza dei testimoni è indispensabile; in caso contrario, la presenza dei testi non è indispensabile.
Mentre un progetto di legge parlava di donazione dell’azienda, il testo di legge finale, sulla base del progetto elaborato dal noto gruppo di studio, parla genericamente di atto pubblico. Non vi è alcun dubbio che si tratti di un contratto unitario, non frazionabile in distinti contratti quante sono le singole disposizioni o le distinte attribuzioni che lo caratterizzano. Pertanto, dato il concatenarsi di interessi che si verifica nel suo seno, ad esso non appare attribuibile esclusivamente una funzione donativa, anche se la gratuità dell’attribuzione, come avviene in genere per la trasmissione successoria, non possa negarsi.
Nella difficoltà di catalogare in modo incontrovertibile la natura tipologica del patto di famiglia (donazione, donazione modale, negozio di natura divisoria) gli Autori consigliano la prudenza e manifestano l’opportunità di far presenziare i testi (48).
Non è stata prevista nel testo di legge la possibilità di consentire l’accettazione con atto separato, come avviene per la donazione; certamente ciò appare indicativo del fatto che non ci si trova di fronte ad un comune atto di donazione, ma può anche significare che non si è potuto accogliere questa eventualità perché il patto di famiglia può avere struttura di atto plurilaterale, restìo come tale ad una possibile accettazione separata (49).
9. Significato dell’espressione “partecipazioni sociali”
Anche sul significato di questa espressione vi è in dottrina contrasto di vedute.
Si parte dal presupposto, ormai accettato da tutti, che l’espressione coinvolga sia la partecipazione in società di capitali, sia quella in società di persone. Unico punto di esclusione viene ritenuta la partecipazione in società di godimento, giacché quest’ultima non ha alcun connotato di impresa (50).
Per il resto, data la neutralità della norma che non prevede particolari condizionamenti, la dottrina si ripartisce tra coloro che pretendono una partecipazione societaria qualificata (cioè in grado di esprimere anche un controllo imprenditoriale sulla società) e coloro che ritengono qualsiasi partecipazione societaria, anche quella priva di connotato imprenditoriale, suscettibile di dare spazio ad un patto di famiglia.
I primi puntano tutto sulla ragione giustificativa della norma: se con essa si intende agevolare un trasferimento di azienda per favorire la trasmissione intergenerazionale degli assetti d’impresa, appare indispensabile far riferimento al cedente come imprenditore ed all’oggetto ceduto come strumento d’impresa (51). Di qui l’affermazione che può cedere la partecipazione societaria ricorrendo al patto di famiglia colui che sia in grado di gestire l’impresa o come socio di controllo, o come unico accomandatario, o come socio di società a responsabilità limitata titolare di uno specifico diritto di amministrare ex art. 2648, terzo comma c.c., o comunque come socio cui venga riconosciuto specifico potere gestorio in seno alla società (52).
I secondi non disconoscono questa ragione giustificativa della norma, ma ad essa aggiungono un’altra ragione giustificativa: l’esigenza di tutelare l’unicità dell’impresa, di impedirne lo spezzettamento, garanzia di produttività aziendale; sulla base di questa ragione giustificativa anche una semplice partecipazione societaria va tutelata e pertanto anche per essa trova giustificazione la sua inclusione nel patto di famiglia (53).
Quest’ultima soluzione secondo un’opinione dottrinale si prospetta come preferibile, prevalentemente allo scopo di evitare all’operatore giuridico compiti del tutto impropri e di difficile assolvimento, costringendolo a sceverare le partecipazioni societarie accoglibili e quelle non accoglibili nel patto di famiglia (54).
E sulla soluzione favorevole a non discriminare tra partecipazioni qualificate e le altre si pone anche chi evidenzia come l’effettiva padronanza della società risiede spesso nei patti parasociali, di difficile individuazione, per cui accertare in concreto chi sia dotato di effettivi poteri gestori apparirebbe problema di estrema difficoltà e certamente non auspicabile per la fattispecie in discorso (55).
10. Qualificazione imprenditoriale del disponente?
Altro problema sollevato in dottrina è quello di stabilire se il soggetto che cede l’azienda o la partecipazione societaria nell’ambito del patto di famiglia debba o meno rivestire la qualità di imprenditore commerciale.
La legge non reca chiarezza in proposito, perché nell’art. 768-bis fa riferimento all’imprenditore per il trasferimento di azienda e al titolare per il trasferimento delle partecipazioni societarie. Mentre, proseguendo nella qualificazione del cedente nel patto di famiglia, questi viene sempre qualificato come imprenditore: l’art. 768-quater parla di “successione nel patrimonio dell’imprenditore”; l’art. 768-sexies, analogamente, parla di “apertura della successione dell’imprenditore”. E questa diversità di espressione è il sintomo, per gli interpreti, di una qualificazione atecnica dell’espressione “imprenditore” utilizzata dal legislatore.
Tuttavia anche su questo piccolo problema la dottrina si divide: per alcuni Autori non si può avere patto di famiglia se il soggetto che cede l’azienda o la partecipazione societaria non ha la qualità di imprenditore commerciale (56); mentre per altri Autori la portata della norma non può essere spinta a tanto, se si vuole evitare che il proprietario di azienda non possa effettuare il patto di famiglia cedendo l’azienda all’affittuario, oppure all’usufruttuario di essa, che sia ad un tempo suo discendente (ed è risaputo che imprenditore dell’azienda è chi la esercita anche in veste di affittuario o di usufruttuario e non certamente chi ne possiede la proprietà, ma non effettui atti di esercizio di essa) (57).
Infatti non manca chi afferma che il legislatore abbia utilizzato l’espressione “imprenditore” “in modo atecnico, in termini economici e non giuridici, onde è tale anche il titolare dell’azienda locata o concessa in usufrutto”, per concludere che ciò che conta è che l’impresa sia in attività e non sia cessata, anche se si finisce per affermare che, anche se la dimensione dell’azienda (grande o piccola o media) non sia richiesta, un’azienda medio-piccola sia il connotato ideale per una congrua applicazione del nuovo istituto (58).
Questo discorso è stato approfondito in dottrina più sul piano della ragione giustificativa della norma che sul piano di una sua interpretazione letterale e, soprattutto, in ordine alla fattispecie della cessione di partecipazione societaria, argomento in ordine al quale il problema della qualifica del soggetto imprenditore ha finito per coincidere con il problema della necessità o meno di individuare la partecipazione societaria come porzione d’impresa.
In dottrina si è evidenziato che, tenuto conto del fatto che già esistono nel nostro ordinamento giuridico fattispecie negoziali intese a favorire la continuità dell’impresa (è il caso del maso chiuso, da ultimo disciplinato dalla legge della Provincia di Bolzano 28 novembre 2001, n. 17; è il caso dell’erede conduttore di impresa agricola montana cui viene riconosciuto il diritto di liquidare le quote degli eredi non conduttori ai sensi degli articoli 4 e 5 della legge 31 gennaio 1994, n. 97) e, da ultimo, della riflessione che pretendendo la qualità di imprenditore commerciale nel soggetto che cede l’azienda si finirebbe per sfociare in una norma incostituzionale perché intesa a differenziare irrazionalmente gli imprenditori commerciali da tutti gli altri proprietari di azienda; si finisce per affermare che non sia indispensabile la qualità di imprenditore commerciale per consentire che la cessione di azienda rientri nel meccanismo del patto di famiglia (59).
11. Chi deve liquidare il legittimari?
L’art. 768-quater secondo comma dispone che devono provvedere alla liquidazione dei legittimari non assegnatari “gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali”. Lo stesso articolo stabilisce poi che la liquidazione può avvenire in denaro o in natura; che l’assegnazione può avvenire anche con successivo contratto cui intervengano tutti i soggetti del contratto precedente; e infine che i beni assegnati ai legittimari non assegnatari “sono imputati alle quote di legittima loro spettanti”, “secondo il valore attribuito in contratto”.
Queste le norme, le quali hanno offerto argomento di profonde dispute, prevalentemente rivolte ad accertare se il denaro o il bene in natura liquidato ai legittimari non assegnatari debba necessariamente provenire dall’assegnatario dell’azienda o della partecipazione, o possa provenire anche dal disponente.
Non vi è alcun dubbio che nella formulazione definitiva della norma deve essere l’assegnatario dell’azienda o della partecipazione societaria ad effettuare la liquidazione, perché presumibilmente si è ritenuto che l’azienda o la partecipazione societaria siano beni di entità tale da consentire detta liquidazione (60). Ma può in concreto accadere che l’azienda sia decotta o che la partecipazione concerna una società in sofferenza economica; allora si pone il problema seguente: allorquando il bene assegnato con il patto di famiglia non sia in grado di consentire la liquidazione dei legittimari non assegnatari, oppure allorquando l’assegnatario non abbia sufficienti mezzi propri per provvedervi, può provvedervi il disponente?
Se al quesito si risponde negativamente (che cioè nella fattispecie del patto di famiglia non possa essere fatta rientrare la liquidazione diretta dal cedente ai legittimari non assegnatari) in ossequio al disposto letterale della norma, occorre escludere le fattispecie di precarietà economica dalla possibilità di realizzazione del patto di famiglia. Se invece si risponde affermativamente (che cioè nella fattispecie del patto di famiglia possa essere fatta rientrare la liquidazione diretta dal cedente ai legittimari non assegnatari), occorre rintracciare, a fronte dell’apparente formale contrarietà del dettato normativo, argomenti sostanziali che giustifichino questa conclusione; ma, soprattutto, occorre stabilire come vadano qualificate queste attribuzioni aggiuntive disposte dal disponente a favore dei legittimari non assegnatari: fanno esse parte del patto di famiglia o debbono essere ritenute donazioni estranee al patto di famiglia?
E’ evidente che se vanno ritenute donazioni estranee al patto di famiglia, ad esse non potrà applicarsi la norma dell’art. 768-quater ultimo comma, per cui “quanto è ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”. E quindi si tratterebbe di attribuzioni donative assoggettate alle comuni regole della collazione e della riduzione al momento della morte del disponente.
Trattasi evidentemente di norme non troppo chiare. Infatti non si è mancato di rilevare una certa incongruità nel dettato normativo, il quale da una parte prevede che i beni provengano dall’assegnatario, da un’atra parte considera questi beni come imputabili alla legittima loro spettante, ma per la successione di soggetto (il disponente) diverso da quello che ha liquidato i beni (il beneficiario).
Anzi proprio la stranezza di questa norma, che prevede la legittima con riferimento al cedente e che qualifica “a citazione di legittima” la liquidazione effettuata dal beneficiario dell’azienda o della partecipazione societaria, rappresenta elemento formale per giustificare, per un Autore (61) la norma stessa, che altrimenti non avrebbe giustificazione se non dovesse essere fatta rientrare nel patto di famiglia. Si ipotizza in tal caso un’assegnazione diretta dal disponente ai legittimari non assegnatari e l’implicita rinuncia di questi ultimi ad esercitare la collazione e l’azione di riduzione, ottenendosi una parte del meccanismo insito nel patto di famiglia. Pertanto si conclude affermando che non appare contrario alla logica del patto di famiglia accogliere l’opinione che sia lo stesso disponente ad avvantaggiare con beni propri il diritto di liquidazione spettante ai legittimari (62).
Si nota, in una parte della dottrina (63), il desiderio di superare il dato formale della norma, e quindi di affermare la possibilità che i legittimari non assegnatari siano direttamente tacitati dal disponente, per la prevalente esigenza di favorire l’utilizzazione del patto di famiglia, che, ragionando diversamente, finirebbe in ambiti di ristretta applicazione.
Il problema che occorre superare per pervenire ad un’appagante soluzione che abbia una certa plausibilità sul piano dei principi è duplice: a) operando in tal modo si rischia di incorrere nel divieto dei patti successori sanzionato dall’art. 458 c.c.? b) Ancorché non si incorra nel divieto predetto, simile comportamento del disponente (ripetesi: diretta attribuzione dall’imprenditore ai legittimari non assegnatari) è estraneo al patto di famiglia o può essere ricompreso a pieno titolo nella disciplina di quest’ultimo?
Qualche Autore (64) non esclude a priori la possibilità che sia il cedente ad assegnare i beni soddisfattivi delle attese dei legittimari non assegnatari ed anzi afferma che presumibilmente sarà questa la soluzione in concreto più utilizzata, ma non si nasconde il pericolo che ciò possa violare il divieto dei patti successori, anche se non tenta di approfondire questo pericolo.
Altro Autore, invece, che approfondisce il problema dell’eventuale impatto sul divieto dei patti successori nel caso di assegnazione diretta proveniente dall’imprenditore è Tassinari (65), il quale peraltro esclude che il divieto ex art. 458 c.c. possa venire in questione nel nostro caso, sia perché comunque non si avrebbe un patto successorio istitutivo (che troverebbe applicazione soltanto nel caso di trasferimento del bene al momento della morte, mentre nel nostro caso il trasferimento di verificherebbe in vita); né un patto successorio dispositivo (che presupporrebbe un negozio all’insaputa del disponente, mentre nel nostro caso l’attribuzione avverrebbe direttamente dal disponente); né un patto successorio rinunciativo (perché nel nostro caso non si verificherebbe alcuna rinuncia, ma anzi un beneficio da parte dell’assegnatario dell’azienda).
Escluso pertanto, per questa dottrina, che possa parlarsi di patto successorio, la fattispecie di una diretta attribuzione del bene ai legittimari non assegnatari da parte del disponente imprenditore non sarebbe viziata da nullità, ma darebbe luogo ad un negozio pienamente valido.
Si tratta ora di affrontare il secondo problema: la fattispecie può essere fatta rientrare nel patto di famiglia, oppure essa presenta caratteri di estraneità all’istituto del patto di famiglia e deve pertanto ritenersi disciplinata in modo diverso?
La maggioranza degli Autori (66) ritiene che l’attribuzione dell’imprenditore in sostituzione di quella legislativamente prevista a carico del legittimario assegnatario, non possa essere riguardata come bene da assoggettare alla stessa disciplina prevista per l’azienda e per le partecipazioni societarie; bensì come una donazione (diretta o indiretta) da parte del disponente, a beneficio dell’assegnatario. Donazione, pertanto, che concerne un bene aggiunto rispetto all’oggetto ordinario del patto di famiglia (azienda o partecipazione societaria); bene, quindi, che va assoggettato a collazione e a riduzione.
In questo modo, in questa dottrina, il bene aggiunto, ancorché esso entri nell’assetto negoziale che coinvolge il patto di famiglia, perché rappresenta uno strumento per rendere operativo il patto stesso, tuttavia non va assoggettato all’identica disciplina del patto. Pertanto esso non entra nel meccanismo della successione anticipata. Il cedente imprenditore provvede ad attribuire ai legittimari non assegnatari (o direttamente o per il tramite del legittimario assegnatario opportunamente sovvenzionato) denaro o beni in natura destinati a sollevare l’assegnatario da un debito che egli non sarebbe in grado di adempiere. Tutto ciò pertanto costituisce un vantaggio per il solo assegnatario, non più costretto ad assolvere al suo debito con beni propri. Pertanto il legittimario assegnatario riceve l’azienda o la partecipazione societaria senza essere tenuto a smembrarne il contenuto per assolvere al suo debito nei confronti degli altri legittimari e quindi egli ha il grosso vantaggio di godere di un bene assegnatogli senza obblighi di smembramento; questo però è un vantaggio che egli deve conteggiare in sede di successione futura: egli sarà pertanto tenuto, aperta la successione, a collazione e a riduzione nel limiti delle quote versate dal disponente per suo conto ai legittimari non assegnatari.
Seguendo questa dottrina, la fattispecie può esplicarsi con una certa plausibilità: a) il patto di famiglia trova applicazione diretta e nella misura del bene aziendale trasferito vengono calcolate le quote di legittima; b) i legittimari non assegnatari hanno ricevuto quanto loro spettante e non debbono assoggettare i beni ricevuti a collazione o a riduzione, e sotto questo profilo è ininfluente il fatto che il bene a loro favore sia trasferito dal legittimario assegnatario o dal cedente imprenditore, perché in ogni caso ricorre il quantum di legittima proprio del patto di famiglia; c) il legittimario assegnatario riceve un vantaggio aggiuntivo e deve assoggettare detto vantaggio a collazione e a riduzione.
12. Azienda e legittima tra patto di famiglia e diritto successorio
Un problema ugualmente sollevato in dottrina è il seguente: all’apertura della successione del disponente, esiste il pericolo che la dismissione dell’azienda sia posta in discussione in qualche misura? Esiste cioè la possibilità di effettuare un certo collegamento tra il trasferimento di azienda o di partecipazione sociale realizzato in vita e tutta la disciplina traslativa del patrimonio che si verifica alla morte del soggetto che ha trasferito in vita la sua azienda?
Detto in altre parole: nella valutazione delle quote spettanti ai legittimari al momento della morte del de cuius, può in qualche misura farsi rientrare anche il valore del bene azienda trasferito in vita dal de cuius? Possono, cioè, coloro che non sono stati avvantaggiati dall’assegnazione del bene usufruire di una ripartizione del patrimonio relitto dal de cuius più vantaggiosa per una mancata loro valorizzazione in costanza del patto di famiglia?
Opportunamente è stato chiarito (67) che le due masse (quella derivante dal patto di famiglia e quella che si verificherà in sede di apertura della successione del de cuius) sono tra loro del tutto distinte, incomunicabili, non confrontabili, non avendo nessuna delle due incidenza sull’altra. E’ come se si verificassero due distinte successioni (una anticipata in vita dal disponente; l’altra a seguito della morte); è come se si trattasse di successioni appartenenti a soggetti diversi, ancorché presumibilmente disponente e beneficiari risultino in gran parte le stesse persone.
In altre parole, con il patto di famiglia “nei conteggi ereditari si debbono tenere fuori le attribuzioni eseguite mediante patto di famiglia” (68) e per supportare questa conclusione si pone l’accento sull’art. 768-quater, terzo comma, per il quale “i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti”; articolo letto in collegamento con la norma contenuta nel comma precedente (che parla di “pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dall’art. 536 e seguenti”), e con la norma contenuta nell’ultimo comma dell’art. 768-quater (per cui “quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”). In definitiva, per trarne la conclusione che il richiamo all’art. 536 e ss. del codice civile non serve tanto a rendere operativa detta disciplina anche per i beni liquidati in sede di patto di famiglia, quanto per stabilire le misure entro le quali procedere in sede di liquidazione derivante dal patto di famiglia.
Analogamente è stato affermato che il patto di famiglia è volto ad impedire ogni discussione post mortem, “onde lo stralcio dell’azienda o partecipazione dalla successione ereditaria, anche per quanto riguarda la potenziale quota disponibile assegnata al discendente, discussione che sarebbe invece inevitabile ove il valore aziendale o della partecipazione dovesse essere ricalcolato dopo l’apertura della successione, atteso il tempo trascorso” (69). E, conclude questo Autore affermando che se così fosse, per impedire ciò, occorrerebbe una rinuncia da parte dei legittimari ad ogni futura pretesa relativa alla propria quota di legittima, rinuncia per la cui validità occorrerebbe apposita norma, che nel nostro ordinamento peraltro manca.
Occorre pertanto concludere, seguendo questa opinione dottrinale (70), che nella fase di apertura della successione non occorre rifare i calcoli inserendo nella valutazione anche i beni assegnati in sede di patto di famiglia, i quali ultimi vanno ormai considerati beni esclusi dalla successione.
13. Conclusioni
La maggioranza degli Autori parla di contratto plurilaterale, in tal modo attribuendo ai legittimari non assegnatari la qualità di parte essenziale del contratto (71). Non manca peraltro chi parla non di contratto plurilaterale, bensì di contratto trilaterale (disponente da una parte; discendente assegnatario da un’altra parte; l’insieme dei legittimari non assegnatari da un’altra parte ancora). I legittimari non assegnatari vengono ritenuti in tal modo unica parte plurisoggettiva, il che impone di ritenere la loro dichiarazione di volontà come atto collettivo (72).
Si tende peraltro in dottrina ad evidenziare che i due aspetti del patto (da una parte l’attribuzione della proprietà dell’azienda o della partecipazione societaria al discendente assegnatario; da un’altra parte la liquidazione della legittima ai legittimari non assegnatari) non devono essere trattati come negozi distinti, ma devono ritenersi aspetti fusi nello stesso contratto del quale costituiscono entrambi parte integrante.
Si intuisce, pertanto, come in tal modo al patto di famiglia vada attribuita una configurazione del tutto autonoma rispetto alle varie tipologie contrattuali previste dal codice (73), in quanto trattasi di contratto in parte con effetti reali (per quanto concerne il trasferimento dell’azienda o della partecipazione societaria), in parte con effetti obbligatori (allorquando l’assegnatario assuma l’impegno di soddisfare i legittimari con strumenti futuri di pagamento); in parte in funzione donativa (nei rapporti tra disponente e assegnatario), in parte in funzione divisoria o ripartitoria (74).
Si parla anche di donazione modale (75), ma da taluno si esclude il modus, sul presupposto che questo non è previsto pattiziamente, ma stabilito per legge (76).
Si parla anche, ma con minore sicurezza, di contratto a favore di terzi.
Il contratto può essere stipulato in una sola data, oppure in date diverse, a patto che in questo caso tutte le parti siano presenti. Viene suggerito lo sdoppiamento del contratto in due date allo scopo di consentire, alla data successiva, l’assolvimento dei debiti dell’assegnatario nei confronti dei legittimari non assegnatari, assolvimento che potrebbe richiedere tempi lunghi, in considerazione dell’incapienza del bene trasferito, oppure dell’incapienza del patrimonio personale dell’assegnatario.
Emerge pertanto la ricostruzione, effettuata con nitidezza e sintesi in dottrina (77), secondo la quale il patto di famiglia è il contratto con il quale determinati beni del patrimonio di un soggetto vengono definitivamente espunti dalla futura massa ereditaria dello stesso soggetto e trattati come un anticipo di successione, non più recuperabili in tale sede.
Trattandosi di contratto, sua caratteristica ne è l’irrevocabilità, salvo espressa pattuizione di recesso.
Quali consigli offrire per la soluzione del nostro problema?
E’ difficile offrire soluzioni sicure prima che l’istituto riceva un’adeguata maturazione in dottrina e prima che su di esso abbia portato la sua attenzione la giurisprudenza. Pertanto nella prime applicazioni il consiglio non potrebbe essere che il seguente: usare la massima cautela e, ad evitare l’insorgenza di liti, acquisire il massimo di consenso da parte di tutti coloro che possono essere ritenuti possibili attori del patto di famiglia.
(1) La dottrina che si è occupata del problema, in prima battuta e con riflessioni “a caldo”, è la seguente: AMADIO, Il patto di famiglia: profili funzionali e interessi tutelati, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 16 giugno 2006 a Palermo dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa ; BARALIS, Attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; BOLANO, I patti successori e l’impresa alla luce di una recente proposta di legge, in I contratti, 2006, 89; BOLOGNESI, La continuità generazionale dell’impresa: codificazione del patto di famiglia, in Impresa. Diritto e pratica commerciale, 2006, 5 e ss.; BUSANI, Patto di famiglia e governance dell’impresa trasferita, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; CACCAVALE, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in CNN Notizie, 22 marzo 2006; CALO', Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, in Foro it., 1989, I, 1170; CONDO’, Il patto di famiglia, in Federnotizie, 2006; DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006. Il commento, in I contratti, 2006, 511; DE ROSA, Il patto di famiglia per l’impresa, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 12 maggio 2006 a Napoli dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; FIETTA, Patto di famiglia, in CNN Notizie del 14 febbraio 2006; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Judicium.it; IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not., 1997, 1373; IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not., 1997, 1371 e segg.; INZITARI, Ambito di applicazione soggettivo e oggettivo del patto di famiglia, in Relazione svolta ad un convegno di studi organizzato da Paradigma a Milano il 29 marzo 2006; LA PORTA, La posizione dei legittimari sopravvenuti, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 12 maggio 2006 a Napoli dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; LUPETTI, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006; MAGLIULO, Profili causali del patto di famiglia in relazione alla disciplina della collazione, riduzione ed imputazione: reductio ad successionem e segregazione patrimoniale, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 12 maggio 2006 a Napoli dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, in Contratto e impresa, 2005, 539; MASCHERONI, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati. L’ordinamento successorio italiano dopo la legge 14 febbraio 2006 n. 55, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; MERLO, Il patto di famiglia, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006; MISEROCCHI, Il patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; PETRELLI, La nuova disciplina dei patti di famiglia, in Riv. not., 2006, 407; PISCHETOLA, Il “Patto di famiglia”, studio inedito, per quanto ne consta; RIZZI, Compatibilità con le nuove disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; RIZZI, I patti di famiglia. Analisi dei contratti per il trasferimento dell’azienda e per il trasferimento di partecipazioni societarie, Opera in attesa di pubblicazione; STELLA RICHTER jr, Il “patto di impresa” nella successione nei beni produttivi, in Riv. dir. priv., 1998, 255 e segg.; TASSINARI, Il patto di famiglia per l’impresa e la tutela dei legittimari, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa; TONDO, Patto di famiglia. Appunti, Studio inedito per quanto ne consta; ZABBAN, La posizione degli altri soggetti legittimari nel patto di famiglia, in Relazione svolta ad un convegno di studi organizzato da Paradigma a Milano il 29 marzo 2006; ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Riv. dir. priv., 1998, 256; ZOPPINI, Il patto di famiglia non risolve le liti, in Il sole-24 Ore, 3 febbraio 2006, pag. 27; ZOPPINI, Profili sistematici della successione “anticipata” (note sul patto di famiglia), Scritto dedicato al Prof. Giorgio Cian e che apparirà negli Studi in suo onore; ZOPPINI, I profili di governance del “patto di famiglia”: il ruolo del cedente dopo la stipula del patto, Relazione svolta al convegno di studi organizzato da Paradigma a Milano il 29 marzo 2006.
(2) Cfr. Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee 31 dicembre 1994 L 385. Sulle varie vicissitudini che hanno contrassegnato l’attività della CE nel tentativo di salvaguardare gli interessi delle medie e piccole imprese alla nascita e durante il loro sviluppo v. CALÒ, Le piccole e medie imprese: cavallo di Troia di un diritto comunitario delle successioni?, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 217 e segg.
(3) Cfr. CALÒ, Op. cit., pag. 220.
(4) Pubblicata in Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee C 93/2 del 28 marzo 1998, risalente ad un simposio organizzato dalle Comunità Europee nei giorni 28 e 29 gennaio 1993 inteso a definire le pratiche migliori nel campo della trasmissione delle imprese. In tale occasione si constatò che il 30 per cento circa delle imprese europee avrebbe dovuto affrontare a breve il problema della trasmissione e che un terzo circa di esse sarebbe sparito per difetto di meccanismi adeguati di trasmissione. Di qui l’invito agli Stati comunitari a cercare procedure garantistiche su un problema così delicato.
(5) Il gruppo di lavoro aveva per tema la successione nell’impresa di famiglia, era coordinato dai professori Antonio Masi e Pietro Rescigno ed era composto dai professori Guido Alpa, Andrea Fedele, Giuseppe B. Portale, Salvatore Tondo, Mario Stella Richter jr., Andrea Zoppini, dal tributarista Paolo Puri e dai notai Marco Ieva e Nicola Raiti.
(6) Di questo convegno, imperniato sul tema “Successione nell’impresa e società a base familiare” e svoltosi nell’Università di Macerata il 24 marzo 1997, danno notizia IEVA, Op. cit., 1371 e segg. e STELLA RICHTER jr, Op. cit., 255 e segg.
(7) Si tratta del disegno di legge 2799, presentato il 2 ottobre 1997 in Senato.
(8) Tant’è che si è dichiarato che “l’impresa ha una sua dinamica interna che la vicenda successoria inevitabilmente interrompe”: così ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., 256. Proseguendo nell’approfondimento del tema, questo Autore è pervenuto alla conclusione che il patto di famiglia rappresenti la convalidazione normativa del passaggio da un anticipo di successione (vietata) ad una successione anticipata (consentita con il patto di famiglia).
(9) Così sostanzialmente ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., 261.
(10) V. ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., 262.
(11) V. per un’illustrazione del patto d’impresa l’ampia analisi di STELLA RICHTER jr, Op. cit., 255 e segg.
(12) ZOPPINI, Il patto di famiglia non risolve le liti, cit., pag. 27, per il quale la modifica, del resto già ricavabile dalla normativa in vigore, si presterebbe ad operazioni elusive.
(13) Proposta di legge n. 3870, Camera dei Deputati, presentata l’8 aprile 2003 a firma di un gruppo di Deputati, con l’On. Buemi come primo firmatario. Va comunque chiarito che un quasi identico disegno di legge pendeva in Senato a firma di un gruppo di Senatori a con il Sen. Andrea Pastore come primo firmatario: Disegno di legge n. 1353, presentato il 23 aprile 2002. La proposta di legge n. 3870 è stata approvata dalla Camera dei Deputati in prima lettura. Pervenuta in Senato, essa ha assorbito nella discussione anche il testo del disegno di legge Pastore n. 1353.
(14) MASCHERONI, Op. cit.
(15) Tra questi v. TASSINARI, Op. cit.
(16) ZOPPINI, I profili di governance del “patto di famiglia”: il ruolo del cedente dopo la stipula del patto, cit.
(17) Avanzata da CACCAVALE, Op. cit. ma dallo stesso Autore disattesa.
(18) Così MASCHERONI, Op. cit.; TASSINARI, Op. cit.; ZABBAN, Op. cit.; AMADIO, Op. cit.; DE ROSA, Op. cit.; MAGLIULO, Op. cit.
(19) Così TASSINARI, Op. cit.
(20) In tal senso AMADIO, Op. cit., il quale non ha mancato di rilevare che il profilo dell’efficacia nel quale si viene ad esprimere detta dottrina appare incompleto.
(21) Così MAGLIULO, Op. cit.
(22) Ritengono che il patto di famiglia possa essere ricompreso fra i patti successori dispositivi o rinunciativi MASCHERONI, Op. cit.; MAGLIULO, Op. cit.
(23) Così IEVA, Op. cit., 1373.
(24) Così IEVA, Op. cit., 1374.
(25) GAZZONI, Op. cit. Sullo stesso piano appare orientata la prevalente dottrina: v. PISCHETOLA, Op. cit., il quale correttamente afferma che affinché possa parlarsi di patto successorio occorre disporre convenzionalmente della propria successione, o comunque stipulare un atto con cui si disponga dei diritti che possano spettare su una successione non ancora aperta o si rinunci ai medesimi, circostanze che mancano tutte nella fattispecie del patto di famiglia. Analogamente v. ZABBAN, Op. cit., il quale dalla conclusione che il patto di famiglia non costituisca eccezione al divieto dei patti successori trae lo spunto per una interpretazione della disciplina del patto di famiglia non in termini di rigore, e quindi aperta a soluzioni intese a favorire un’interpretazione allargata del dettato normativo.
(26) Non manca del resto di rilevare la scarsa significatività che viene ad assumere il patto successorio come strumento di ostacolo per il varo del patto di famiglia, e come invece il patto di famiglia vada visto nel quadro della disciplina intesa a regolare una vicenda successoria anche prima della morte, TASSINARI, Il patto di famiglia per l’impresa e la tutela dei legittimari, Relazione svolta al Convegno di studio organizzato il 31 marzo 2006 a Milano dalla Fondazione per il notariato e destinata ad essere pubblicata sui Quaderni della Fondazione stessa.
(27) Così in modo efficace v. PISCHETOLA, Op. cit.,
(28) AMADIO, Op. cit.
(29) E’ questo l’ostacolo di fondo individuato anche da AMADIO, Op. cit., per la soluzione del problema, anche se questo Autore perviene alla conclusione che l’assetto divisorio non presuppone necessariamente la comunione dei beni da dividere, ed anche se egli perviene alla conclusione che nel patto di famiglia sia indispensabile la presenza di tutti i legittimari, peraltro con argomentazioni ulteriori che saranno più avanti evidenziate.
(30) V. per tutti GAZZONI, Op. cit.; MAGLIULO, Op. cit.
(31) V. BARALIS, Op. cit.; che si tratti di norma eccezionale è opinione anche di AMADIO, Op. cit.
(32) MASCHERONI, Op. cit.; GAZZONI, Op. cit.; TASSINARI, Op. cit.; ZOPPINI, Op. cit.; MERLO, Op. cit.; PISCHETOLA, Op. cit.; AMADIO, Op. cit.; MAGLIULO, Op. cit.,. Quest’ultimo Autore chiarisce che l’affinità con la divisione è costituita soltanto dalla impossibilità di perseguire la funzione contrattuale senza la partecipazione di tutti i soggetti destinatari dell’effetto tipico previsto.
(33) GAZZONI, Op. cit.; MASCHERONI, Op. cit.
(34) In tal senso v. AMADIO, Op. cit.
(35) BARALIS, Op. cit.
(36) GAZZONI, Op. cit.; BARALIS, Op. cit.
(37) MASCHERONI, Op. cit., il quale non si nasconde che possano esservi casi patologici in cui la partecipazione totale dei legittimari presenti non è realizzabile e che ciò renderà l’istituto meno praticabile nelle famiglie numerose; ma a suo giudizio questo non rappresenta argomento sufficiente per immaginare che la giurisprudenza si esprima per la tesi liberistica. E’ evidente, in queste riflessioni, l’intento di attendere prudenzialmente che provenga una certa maturazione sul problema soprattutto da parte dell’attività giudiziaria, senza che ciò possa apparire una netta posizione di contrasto strutturale alla soluzione opposta.
(38) CACCAVALE, Op. cit.; ZABBAN, Op. cit., il quale si sofferma sulla possibilità che si abbia patto di famiglia anche se esista soltanto il legittimario assegnatario e concretamente non esistano (perché manchino del tutto) legittimari non assegnatari; ed utilizzando anche questo argomento egli, sulla base dell’autonomia negoziale che nel caso del patto di famiglia ritiene ampio, sul presupposto che non sarebbe violato alcun patto successorio, perviene alla conclusione che non sia indispensabile la presenza dei legittimari ancorché questi esistano al momento dell’atto.
(39) CACCAVALE, Op. cit.
(40) CACCAVALE, Op. cit.
(41) Così sostanzialmente FIETTA, Op. cit.
(42) E’ questa, del resto, la posizione assunta da DE ROSA, Op,. cit. e da MASCHERONI, Op. cit., che rinviano ogni futura loro presa di posizione ad un consolidato indirizzo della giurisprudenza.
(43) PETRELLI, Op. cit.
(44) Questa appare del resto, nella sostanza, la posizione di AMADIO, Op. cit., quando sostiene che la mancanza del legittimario non assegnatario al momento del patto non si traduce nella nullità del patto, ma dà luogo all’inopponibilità del patto nei suoi confronti; il legittimario stesso può peraltro far valere in modo pieno tutti i suoi diritti al momento in cui si apre la successione, ricorrendo a tutti i meccanismi del diritto successorio.
(45) CACCAVALE, Op. cit.
(46) TONDO, Op. cit.
(47) In tal senso v. INZITARI, Op. cit.
(48) Cfr. LUPETTI, Op. cit., il quale auspica che il problema sia risolto legislativamente; MERLO, Op. cit.; FIETTA, Op. cit., il quale ultimo afferma che presumibilmente il legislatore, non prevedendo espressamente la presenza dei testi, ne ha indirettamente sanzionato la non necessità, pur trattandosi di atto rivestente carattere donativo. Ritiene invece che non sia necessaria la presenza dei testi DE ROSA, Op. cit. Esclude invece espressamente la presenza dei testi, sul presupposto che il patto di famiglia non possa essere qualificato come donazione, MAGLIULO, Op. cit.
(49) Così PISCHETOLA, Op., cit.
(50) PETRELLI, Op. cit.; TASSINARI, Op. cit.; GAZZONI, Op. cit., il quale parla di società immobiliare come “mero schermo unitario, di regola a scopo fiscale, della proprietà del singolo o di singoli cespiti”.
(51) BARALIS, Op. cit.; LUPETTI, Op. cit.; GAZZONI, Op. cit., che in caso contrario pone un problema d’incostituzionalità della norma per irragionevolezza, giacché verrebbe trattata diversamente senza alcuna giustificazione la cessione di una partecipazione societaria e la cessione di un quadro di valore; DE ROSA, Op. cit.
(52) LUPETTI, Op. cit.
(53) CACCAVALE, Op. cit.; TASSINARI, Op. cit.
(54) Cfr. MASCHERONI, Op. cit., il quale afferma che un’interpretazione riduttiva aprirebbe orizzonti di incertezza applicativa poiché nel dettato legislativo mancano i riferimenti possibili per un’operazione così delicata. Ed infatti questo Autore perviene alla conclusione che, dato il silenzio del legislatore e soprattutto allo scopo di non ampliare gli orizzonti d’incertezza interpretativa, anche le “società di godimento”, cioè le società senza impresa, dovrebbero rientrare nel patto di famiglia.
(55) Così PISCHETOLA, Op., cit.; DE ROSA, Op. cit.
(56) Cfr. in tal senso ZOPPINI, Op. cit.; BALESTRA, Op. cit.; BUSANI, Op. cit.
(57) In special modo FIETTA, Op. cit.; DE ROSA, Op. cit.
(58) GAZZONI, Op. cit. Analogamente v. FIETTA, Op. cit., il quale conclude affermando che pur rivestendo l’art. 768-bis carattere definitorio, tuttavia non si può attribuire pregnanza in tal senso ad uno dei termini dalla stessa norma utilizzato, come accade per il caso del termine “imprenditore”.
(59) Così INZITARI, Op. cit.; PETRELLI, Op. cit.; DE ROSA, Op. cit.
(60) Ancorché in uno dei progetti di legge preparatori del patto di famiglia (Disegno di legge n. 1335 del Sen. Pastore) sia detto espressamente che la norma sopra richiamata “disciplina l’ipotesi che l’imprenditore effettui altre assegnazioni ai propri legittimari, nel qual caso i beni assegnati saranno imputati alle loro quote di legittima; tale assegnazione si determina non solo nel caso di assegnazioni contenute nello stesso contratto, ma anche in un contratto successivo”.
(61) PETRELLI, Op. cit.
(62) PETRELLI, Op. cit.; DE ROSA, Op. cit.
(63) CONDO’, Op. cit.; LUPETTI, Op. cit.; PISCHETOLA, Op. cit.; PETRELLI, Op. cit.; MASCHERONI, Op. cit., il quale peraltro auspica che il problema sia risolto de iure condendo; DE ROSA, Op. cit.; TONDO, Op. cit.
(64) MERLO, Op. cit.; PISCHETOLA, Op. cit., quest’ultimo senza particolare approfondimento.
(65) TASSINARI, Op. cit.
(66) TASSINARI, Op. cit.; ZOPPINI, Op. cit.; PETRELLI, Op. cit.; MASCHERONI, Op. cit.; BUSANI, Op. cit.; FIETTA, Op. cit.; TONDO, Op. cit.
(67) TASSINARI, Op. cit.; ZOPPINI, Op. cit.; MASCHERONI, Op. cit.
(68) V. TASSINARI, Op. cit.
(69) GAZZONI, Op. cit.
(70) E la conclusione è accolta anche da MASCHERONI, Op. cit., il quale esclude espressamente l’ipotesi di riunione fittizia ex art. 556 c.c. coinvolgendo nella riunione anche i beni facenti arte del patto di famiglia.
(71) Cfr. in tal senso DELFINI, Op. cit.; MASCHERONI, Op. cit.;
(72) In tal senso v. GAZZONI, Op. cit.
(73) PETRELLI, Op. cit., rifiuta di inserire il patto di famiglia in uno degli schemi contrattuali tipici preesistenti, per la forte compenetrazione costruita fra l’attribuzione del bene azienda con l’obbligo da parte dell’assegnatario di liquidare i legittimati. Conclude pertanto trattarsi di un contratto che ha una sua funzione tipica di natura complessa. Parla di causa mista o complessa, in parte di liberalità e in parte solutoria, LUPETTI, Op. cit.; qualifica il patto di famiglia come contratto tipico, perché espressamente inserito nella disciplina codicistica, RIZZI, I patti di famiglia, cit; DE ROSA, Op. cit. parla di “nuovo tipo contrattuale”.
(74) Pur non disconoscendo funzioni in parte donative in parte ripartitorie, non tralascia di evidenziarne configurazioni parzialmente sfumate nell’assetto unitario che governa la fattispecie del patto di famiglia PISCHETOLA, Op. cit.
(75) Così MERLO, Op. cit.; CONDO’, Op. cit.; CACCAVALE, Op. cit.
(76) Esclude che possa parlarsi di donazione modale MAGLIULO, Op. cit.
(77) Da GAZZONI, Op, cit.; Anziché di successione anticipata preferisce parlare di segregazione patrimoniale MAGLIULO, Op. cit.
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