Scissione di confidi e trasformazione di enti diversi dai confidi in confidi
Scissione di confidi e trasformazione di enti diversi dai confidi in confidi
di Daniela Boggiali
Consiglio Nazionale del Notariato - Studio n. 169-2006/I
Pubblicato nella rivista Studi e materiali CNN, Milano, 1/2007, p. 230 ss.

Sommario: 1. La disciplina del d.l. 269/2003 - 2.– Scissione: a) la disciplina applicabile - 3. Segue: b) i quorum della delibera di scissione - 4. Segue: c) effetti della scissione - 5. Segue: d) divieto di distribuzione di avanzi di gestione e obblighi di devoluzione - 6. Trasformazione di società di capitali e cooperative in confidi

1. La disciplina del d.l. 269/2003

Ai sensi dell’art. 13 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con l. 24 novembre 2003, n. 326, i confidi sono “i consorzi con attività esterna, le società cooperative, le società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, che svolgono l’attività di garanzia collettiva dei fidi”. La stessa norma definisce attività di garanzia collettiva dei fidi “l’utilizzazione di risorse provenienti in tutto o in parte dalle imprese consorziate o socie per la prestazione mutualistica e imprenditoriale di garanzie volte a favorirne il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario”.

Il confidi è, quindi, un ente organizzato in forma di consorzio con attività esterna, società cooperativa o società consortile al quale partecipano piccoli e medi imprenditori con lo scopo di essere agevolati nell’accesso ai finanziamenti delle proprie imprese. Il confidi realizza tale scopo non attraverso l’erogazione diretta di credito in favore dei propri partecipanti, bensì attraverso la prestazione di garanzie per la concessione di finanziamenti da parte di banche e altri soggetti che operano nel settore finanziario. Le garanzie offerte dal confidi sono costituite, di regola, da un fondo rischi e da fideiussioni prestate da tutti i partecipanti a garanzia delle obbligazioni che questi ultimi assumono con gli enti finanziatori. Il fondo rischi è generalmente formato dai conferimenti dei partecipanti al confidi e da sovvenzioni pubbliche o private; esso viene costituito in pegno irregolare oppure resta di proprietà del confidi ed è soggetto ad espropriazione in caso di insolvenza delle imprese finanziate(1). Le fideiussioni danno vita a un monte fideiussorio o fondo fideiussione, il quale costituisce di regola una garanzia sussidiaria rispetto alla garanzia reale offerta dal fondo rischi, in quanto nella prassi statutaria viene in genere previsto che i creditori possano escutere la fideiussione soltanto in caso di incapienza del fondo rischi(2).

I commi 38 e 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003, prevedono la possibilità per i confidi di trasformarsi o fondersi in altri confidi. Alle operazioni di fusione possono partecipare società, associazioni, anche non riconosciute, fondazioni e consorzi diversi dai confidi purché il consorzio o la società incorporante o che risulta dalla fusione sia un confidi o una banca che, in base al proprio statuto, esercita prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci ai sensi del comma 29 dell’art. 13, d.l. 269/2003.

Pertanto, le operazioni espressamente previste e disciplinate dai commi 38 e 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003 sono le seguenti:

- trasformazione di un confidi in uno dei tipi associativi previsti per lo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi e, precisamente, in consorzi con attività esterna, società cooperative, società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative e banche che, in base al proprio statuto, esercitano prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci ai sensi del comma 29 dell’art. 13, d.l. 269/2003;

- fusione di confidi con altri confidi o con società, associazioni, anche non riconosciute, fondazioni e consorzi diversi dai confidi purché il consorzio o la società incorporante o che risulta dalla fusione sia un confidi o una banca che, in base al proprio statuto, esercita prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci ai sensi del comma 29 dell’art. 13, d.l. 269/2003.

Non sono, invece, espressamente considerate né la trasformazione di un ente diverso dal confidi in un confidi né la scissione. Al fine di valutare se il silenzio relativo a tali operazioni debba intendersi o meno come un divieto implicito di scissione o trasformazione di un ente diverso dal confidi in un confidi, occorre esaminare sia le finalità delle norme speciali sulla trasformazione e fusione dei confidi, sia l’eventuale incompatibilità tra la disciplina specifica dei confidi e le operazioni di trasformazione di un ente diverso dal confidi in un confidi o di scissione.

La disciplina delle trasformazioni e fusioni di confidi in altro confidi è contenuta nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003; il comma 40, in particolare, nel disciplinare il procedimento di fusione, rinvia alle disposizioni di cui al libro V, titolo V, capo X, sezione II, del codice civile, ad eccezione delle seguenti deroghe:

- qualora gli statuti dei confidi partecipanti alla fusione e il progetto di fusione prevedano per i consorziati eguali diritti, senza che assuma rilievo l’ammontare delle singole quote di partecipazione, non è necessario redigere la relazione degli esperti prevista dall’art. 2501-sexies c.c., come modificato dalla riforma delle società;

- il progetto di fusione deve necessariamente determinare il rapporto di cambio sulla base del valore nominale delle quote di partecipazione, secondo un criterio di attribuzione proporzionale.

Il comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003 detta una norma comune ai procedimenti di trasformazione e fusione, la quale deroga a quanto previsto dagli artt. 2500-septies, 2500-octies e 2545-decies c.c., introdotti dalla riforma delle società, in quanto prevede che le deliberazioni assembleari necessarie per le trasformazioni e le fusioni previste dai commi 38, 39 e 40 siano adottate con le maggioranze previste dallo statuto per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria. Pertanto, se il confidi è un consorzio o una società consortile, in deroga all’art. 2500-octies c.c., la delibera di trasformazione non necessita del voto favorevole della maggioranza assoluta dei consorziati o della maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo per lo scioglimento anticipato del consorzio. Se il confidi è una cooperativa, in deroga all’art. 2545-decies c.c., per la delibera di trasformazione non occorre né il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa né dei due terzi di essi, se la cooperativa ha meno di cinquanta soci, né occorre il voto favorevole dei due terzi dei votanti se all’assemblea sono presenti il venti per cento dei soci e la società ha più di diecimila soci(3).

I commi 42 e 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, disciplinano gli effetti delle trasformazioni e fusioni eseguite in conformità delle prescrizioni contenute nei precedenti commi 38, 39, 40 e 41, prevedendo che:

- le trasformazioni e le fusioni previste dai commi 38, 39, 40 e 41 non comportano in alcun caso per i contributi e i fondi di origine pubblica una violazione dei vincoli di destinazione eventualmente sussistenti. Pertanto, quando il confidi si trasforma o si fonde in altro confidi, opera una presunzione legale di compatibilità di tale operazione con eventuali vincoli di destinazione gravanti su contributi e fondi pubblici;

- le società cooperative le quali divengano confidi sotto un diverso tipo associativo a seguito di fusione o che si trasformano ai sensi del comma 38 non sono soggette all’obbligo di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione di cui all’art. 11, comma 5, della l. 31 gennaio 1992, n. 59, a condizione che nello statuto del confidi risultante dalla trasformazione o fusione sia previsto l’obbligo di devoluzione del patrimonio ai predetti fondi mutualistici in caso di eventuale successiva fusione o trasformazione del confidi stesso in enti diversi dal confidi ovvero dalle banche di cui al comma 29 che, in base al proprio statuto, esercitano prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci.

In merito a tali norme occorre innanzitutto rilevare che la disciplina contenuta nelle precedenti disposizioni riguarda esclusivamente i procedimenti di trasformazione e fusione di un confidi in altro confidi. Il fatto, però, che la legislazione speciale disciplini esclusivamente l’ipotesi di un confidi che si trasformi o si fonda in altro confidi non significa che sia vietata l’eventuale trasformazione o fusione di un confidi in un ente diverso dal confidi. Tale ultima possibilità è, invece, testualmente prevista dal comma 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, dal quale si desume che sussiste l’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici nel caso in cui una cooperativa di garanzia collettiva fidi deliberi la fusione o la trasformazione in enti diversi dal confidi ovvero dalle banche che, in base al proprio statuto, esercitano prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci.

Emerge, pertanto, che lo scopo dei commi 38-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 non è quello di individuare i casi nei quali sia consentita la trasformazione o la fusione di un confidi, bensì quello di disciplinare la specifica ipotesi di trasformazione o fusione in altro confidi. In particolare, il fatto che l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione sia un altro confidi giustifica le deroghe al procedimento di fusione o trasformazione regolato dal codice civile (commi 40 e 41), la presunzione legale di compatibilità di tali operazioni con i vincoli di destinazione relativi ai contributi e fondi di origine pubblica (comma 42), e, infine, la mancanza dell’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici nel caso in cui per effetto della trasformazione o della fusione si abbia il trasferimento del patrimonio da una cooperativa ad una società non cooperativa (comma 43).

Le norme riguardanti la trasformazione e la fusione dei confidi, contenute nel d.l. 269/2003, possono essere interpretate come un regime speciale che si giustifica sia in relazione al carattere neutrale delle operazioni di trasformazione che avvengono all’interno della categoria dei confidi, sia in relazione al favore nei confronti dei processi di concentrazione derivante dalla fusione tra confidi.

Sotto il primo profilo, infatti, l’ammissibilità della trasformazione di un confidi, anche qualora esso sia costituito in forma di cooperativa a mutualità prevalente, in un diverso tipo associativo rientrante nella categoria dei confidi dimostra l’intento, da parte del legislatore, di non ostacolare operazioni considerate non rischiose in quanto non distolgono il patrimonio dell’ente dalla destinazione allo svolgimento di identiche attività di garanzia collettiva dei fidi(4).

Sotto il secondo profilo, attraverso i processi di concentrazione dei confidi si realizza un incremento patrimoniale dell’ente, con conseguente aumento della capacità di prestare garanzie volte a favorire il finanziamento dei partecipanti da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario. La concentrazione dei patrimoni consente, infatti, di incrementare il fondo rischi e il fondo fideiussione del confidi, riducendo così la percentuale di rischio a carico degli enti finanziatori(5).

In conclusione, si può affermare che l’art. 13, d.l. 269/2003 non contiene un astratto divieto di compiere operazioni diverse dalla trasformazione o fusione di un confidi in altro confidi. Tuttavia, premesso che le operazioni diverse da quelle elencate nei commi 38 e 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003, non sono vietate, sembra opportuno verificare se si debba o meno escludere che esse siano soggette alla disciplina di favore di cui ai commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Tenuto conto della ratio di tali norme, sembrerebbe che le stesse possano essere applicate anche a fattispecie diverse da quelle di cui ai commi 38 e 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003 nel caso in cui si sia in presenza di operazioni che non comportino la sottrazione di elementi patrimoniali allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi, oppure che producano un effetto di concentrazione patrimoniale in favore di un confidi. A tal fine, sembra opportuno esaminare la disciplina applicabile a due operazioni specifiche: la scissione di un confidi e la trasformazione di società di capitali e cooperative in confidi.

2. Scissione: a) applicabilità del d.l. 269/2003

In virtù delle considerazioni finora svolte, si deve innanzitutto ritenere che la mancata previsione dell’ipotesi di scissione nell’art. 13, d.l. 269/2003, non possa essere interpretata come un divieto al compimento di tale operazione.

Ritenuta ammissibile la scissione di un confidi, si potrebbe porre la questione se quest’ultima sia regolata esclusivamente dalle norme del codice civile, oppure se sia possibile applicare o meno per analogia le disposizioni contenute nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 per i processi di trasformazione e fusione tra confidi.

In particolare, i commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, nel disciplinare la trasformazione e fusione dei confidi introducono deroghe al procedimento di fusione o trasformazione regolato dal codice civile (commi 40 e 41), stabiliscono una presunzione legale di compatibilità di tali operazioni con i vincoli di destinazione relativi ai contributi e fondi di origine pubblica (comma 42), e, infine, prevedono la mancanza dell’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici nel caso in cui per effetto della trasformazione o della fusione si abbia il trasferimento del patrimonio da una cooperativa ad una società non cooperativa (comma 43). Tali norme si pongono, quindi, come una disciplina avente carattere di specialità rispetto a quella contenuta nel codice civile e, pertanto, occorre verificare l’ammissibilità di un’eventuale applicazione alle fattispecie non espressamente previste, quali appunto la scissione. L’applicazione della disciplina contenuta nel d.l. 269/2003 alle scissioni potrebbe, infatti, essere in contrasto con il divieto di analogia contenuto nell’art. 14 prel., il quale stabilisce che “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

In merito alla questione dell’ambito di applicazione del divieto contenuto nell’art. 14 prel., è stato, però, rilevato che “Quanto alla legge eccezionale non deve credersi che tale sia ogni legge che fa eccezione a una regola: l’ordinamento giuridico assai spesso detta regole derogatorie che tuttavia non necessariamente debbono considerarsi eccezionali in senso stretto […]. Eccezionali senza alcun dubbio sono infatti solo le norme che dettano regole che derogano a principi cardine dell’ordinamento, cosicché la loro estensione al di là dei limiti fissati dalla legge creerebbe nell’ambito del sistema condizioni di contraddittorietà”(6).

Occorre, quindi, verificare se le singole disposizioni speciali contenute nei commi 40-43 dell’art. 13 d.l. 269/2003 costituiscano o meno delle deroghe al normale procedimento di fusione e trasformazione tali da non consentire un’applicazione al di fuori dei casi espressamente previsti.

In particolare, il comma 40 dell’art. 13, d.l. 269/2003 dispone che qualora gli statuti dei confidi partecipanti alla fusione e il progetto di fusione prevedano per i consorziati eguali diritti, senza che assuma rilievo l’ammontare delle singole quote di partecipazione, non è necessaria la relazione degli esperti prevista dall’art. 2501-sexies c.c., e in ogni caso il progetto di fusione deve determinare il rapporto di cambio sulla base del valore nominale delle quote di partecipazione, secondo un criterio proporzionale. Tale disposizione sembra il logico adattamento della norma sulla perizia e il rapporto di cambio ad una realtà, quale quella dei confidi con uguali diritti di partecipazione, in cui non sembra possibile la sussistenza di un problema di rapporto di cambio.

Il comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003 sembra, invece, costituire una vera e propria deroga al procedimento di fusione e trasformazione, perché prevede testualmente che “anche in deroga a quanto previsto dagli articoli 2500-septies, 2500-octies e 2545-decies del codice civile, introdotti dalla riforma delle società, le deliberazioni assembleari necessarie per le trasformazioni e le fusioni previste dai commi 38, 39 e 40 sono adottate con le maggioranze previste dallo statuto per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria”. Appare possibile ritenere che tale deroga sia giustificata dalle predette esigenze di concentrazione e di passaggio tra i vari tipi associativi compatibili con lo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi.

I commi 42 e 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, stabiliscono che le fusioni e trasformazioni in confidi non comportano in alcun caso una violazione dei vincoli di destinazione eventualmente sussistenti su contributi e fondi di origine pubblica e, inoltre, prevedono la mancanza dell’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici nel caso in cui per effetto della trasformazione o della fusione si abbia il trasferimento del patrimonio da una cooperativa ad una società non cooperativa. Tali norme hanno natura di disposizioni speciali, ma possono anch’esse essere ritenute espressione del favore del legislatore nei confronti delle operazioni di concentrazione e di passaggio tra i vari tipi associativi compatibili con lo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi.

In base a tali considerazioni si può, dunque, ritenere che la disciplina speciale delle operazioni di trasformazione e fusione di confidi, contenuta nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, corrisponda all’esigenza di incrementare la stabilità, le dimensioni e il patrimonio di tali enti.

In tale prospettiva, si può ritenere che i commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, pur contenendo disposizioni speciali in materia di trasformazione e fusione, non sembrano porsi in contrasto con alcun principio cardine dell’ordinamento giuridico, ma, al contrario, soddisfano l’interesse del legislatore a favorire l’attività di raccolta di finanziamenti alle imprese che partecipano ai confidi(7).

La disciplina contenuta nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, pur avendo natura di legge speciale, sembra dunque suscettibile di essere applicata estensivamente anche ad altre fattispecie diverse da quelle in essa considerate, purché l’applicazione al di fuori dei casi previsti dalla legge non sia in contrasto con gli scopi perseguiti dal legislatore, che nel caso di specie consistono nella realizzazione di un effetto di concentrazione o stabilità patrimoniale nell’ambito dell’attività di garanzia collettiva dei fidi.

In merito, dunque, alla questione se le disposizioni contenute nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 per i processi di trasformazione e fusione tra confidi possano essere applicate anche alla scissione, occorre valutare se gli effetti di tale operazione siano o meno in contrasto con l’esigenza di favorire l’incremento e la stabilità patrimoniale dei confidi. Si deve, quindi, verificare se la scissione determini o meno la sottrazione di elementi patrimoniali allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi.

La scissione, attraverso la quale ai sensi dell’art. 2506, comma 1, c.c., “una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società” è un’operazione polivalente, nel senso che essa costituisce uno strumento destinato a realizzare funzioni economiche differenti, nell’ambito delle quali non è possibile individuarne una tipica, valevole per tutte le ipotesi ed idonea ad essere utilizzata come strumento di interpretazione ed applicazione della disciplina della scissione stessa(8). Ad esempio, la scissione può essere utilizzata sia per creare un decentramento organizzativo di un’azienda scomponibile in più rami, al fine di separare attività economicamente diverse, o per le quali risulta più conveniente una gestione separata, sia per realizzare un’operazione di concentrazione patrimoniale e crescita aziendale, attraverso lo strumento della scissione per incorporazione o della scissione di più società in favore di un numero minore di beneficiarie(9).

La scissione comporta, in ogni caso, il passaggio di elementi patrimoniali dall’ente che si scinde a quello beneficiario, che può essere preesistente o di nuova costituzione. Pertanto, nel caso in cui l’ente beneficiario sia a sua volta un confidi, gli elementi patrimoniali assegnati al beneficiario continueranno ad essere destinati allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi.

Al contrario, quando un confidi si scinde in favore di ente diverso dal confidi, si verifica una distrazione di elementi patrimoniali dallo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi. Secondo l’opinione prevalente in dottrina, infatti, in caso di scissione il patrimonio da assegnare all’ente beneficiario dovrebbe avere necessariamente un valore positivo e, pertanto, il confidi che si scinde subisce un decremento patrimoniale(10).

Si può, quindi, ipotizzare che le scissioni in favore di confidi producano effetti analoghi alle operazioni di fusione e trasformazione disciplinate nei commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, perché in questo caso il fatto che l’ente beneficiario sia un confidi comporta la destinazione di risorse patrimoniali all’attività di garanzia collettiva dei fidi. Le scissioni in favore di enti diversi dai confidi producono, invece, la dispersione di elementi patrimoniali dallo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi, la quale è in contrasto con le finalità dei commi 38-43 dell’art. 13 del d.l. 269/2003, che consistono nel favorire o l’incremento patrimoniale dell’ente, come in caso di fusione, o la conservazione della destinazione del patrimonio dell’ente allo svolgimento di identiche attività di garanzia collettiva dei fidi, come in caso di trasformazione.

In base a tali considerazioni appare ragionevole applicare i commi 40-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 alle operazioni di scissione quando l’ente beneficiario della scissione sia a sua volta un confidi, perché in questo caso gli elementi patrimoniali assegnati in sede di scissione non vengono distratti dalla destinazione allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi e, pertanto, viene rispettata la ratio della disciplina speciale dei confidi.

Quando, invece, l’ente beneficiario della scissione non è un confidi, la sottrazione di elementi patrimoniali allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi impedisce di applicare estensivamente la disciplina contenuta nei commi 38-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003(11).

Tali conclusioni non sembrano porsi in contrasto con altre norme in materia di confidi, tenuto conto del fatto che in caso di scissione in favore di un altro confidi si devono comunque rispettare, tanto per l’ente che si scinde, quanto per l’ente beneficiario, i limiti di cui ai commi 12 e 14 dell’art. 13, d.l. 269/20036. Il comma 12 prevede, infatti, che “il fondo consortile o il capitale sociale di un confidi non può essere inferiore a 100 mila euro, fermo restando per le società consortili l’ammontare minimo previsto dal codice civile per la società per azioni”. Il comma 14 aggiunge che “il patrimonio netto dei confidi, comprensivo dei fondi rischi indisponibili, non può essere inferiore a 250 mila euro. Dell’ammontare minimo del patrimonio netto almeno un quinto è costituito da apporti dei consorziati o dei soci o da avanzi di gestione. Al fine del raggiungimento di tale ammontare minimo si considerano anche i fondi rischi costituiti mediante accantonamenti di conto economico per far fronte a previsioni di rischio sulle garanzie prestate”. La disciplina speciale impone, pertanto, ai confidi un limite minimo non solo di capitale sociale, a prescindere dal fatto che il confidi sia una società di capitali, ma anche di patrimonio netto(12).

Il rispetto del doppio limite di 100 mila euro di capitale e 250 mila euro di patrimonio tanto da parte del confidi che si scinde, quanto da parte del confidi beneficiario della scissione, sembra costituire un elemento sufficiente a garantire la stabilità patrimoniale dei confidi che partecipano a operazioni di scissione. Nonostante, dunque, attraverso la scissione si verifichi una riduzione del patrimonio dell’ente che si scinde, tale operazione può essere considerata non rischiosa al pari della trasformazione, purché l’ente assegnatario sia a sua volta un confidi. In questo caso, infatti, non solo non si ha distrazione di elementi patrimoniali dallo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi, ma devono anche essere rispettati i limiti dimensionali che il legislatore reputa necessari per l’attività di confidi, quali i 100 mila euro di capitale e i 250 mila euro di patrimonio.

3. Segue: b) i quorum della delibera di scissione

Ai sensi dell’art. 2502 c.c., espressamente richiamato dall’art. 2506-ter, comma 5, c.c., il quale è a sua volta oggetto di rinvio da parte dell’art. 2545-novies, comma 2, c.c., la scissione delle società di capitali e cooperative è deliberata secondo le norme previste per la modificazione dell’atto costitutivo o statuto.

Nel caso in cui la scissione implichi altresì una trasformazione della società, se si accoglie la tesi secondo la quale devono essere rispettati i quorum previsti per le trasformazioni(13), quando alla scissione partecipa una società di capitali la deliberazione deve essere assunta ai sensi dell’art. 2500-septies c.c. con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, e comunque con il consenso dei soci che assumono responsabilità illimitata. Quando, invece, il confidi è un consorzio o una società consortile, ai sensi dell’art. 2500-octies c.c., la delibera di trasformazione necessita del voto favorevole della maggioranza assoluta dei consorziati o della maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo per lo scioglimento anticipato del consorzio. Quando, infine, il confidi è una cooperativa, ai sensi dell’art. 2545-decies c.c., per la delibera di trasformazione occorre il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa o dei due terzi di essi, se la cooperativa ha meno di cinquanta soci, e occorre il voto favorevole dei due terzi dei votanti se all’assemblea sono presenti il venti per cento dei soci e la società ha più di diecimila soci

Se, però, l’ente beneficiario della scissione è a sua volta un confidi, in virtù delle considerazioni finora svolte potrebbe trovare applicazione il comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Pertanto, anche in deroga a quanto previsto dagli artt. 2500-septies, 2500-octies e 2545-decies c.c., le deliberazioni assembleari necessarie per la scissione potrebbero, forse, essere adottate con le maggioranze previste dallo statuto per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria.

A questo proposito sembra, però, opportuno fare una precisazione. Per la trasformazione di una cooperativa, l’art. 2545-decies c.c. stabilisce che occorre il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa o dei due terzi di essi, se la cooperativa ha meno di cinquanta soci. Quando, invece, la società ha più di diecimila soci, occorre il voto favorevole dei due terzi dei votanti se all’assemblea sono presenti in proprio o per delega il venti per cento dei soci. Per deliberare la trasformazione di una cooperativa con più di diecimila soci, se all’assemblea partecipa il venti per cento dei soci sarebbe, quindi, sufficiente il voto favorevole di due quindicesimi dei soci.

Tale quorum risulta essere inferiore a quello richiesto per le delibere dell’assemblea straordinaria previsto dal comma 42 dell’art. 13, d.l. 269/2003. In questa particolare ipotesi il quorum stabilito dal codice civile sarebbe, quindi, più favorevole rispetto a quello dettato dalla disciplina speciale sui confidi.

4. Segue: c) effetti della scissione

In merito agli effetti della scissione, si deve innanzi tutto rilevare che quando l’ente beneficiario è un altro confidi, può trovare applicazione il comma 42 dell’art. 13, d.l. 269/2003, il quale stabilisce una presunzione legale di compatibilità delle operazioni di trasformazione e fusione in altri confidi con gli eventuali vincoli di destinazione gravanti su contributi e fondi pubblici.

Diversamente, quando la scissione avviene in favore di ente diverso dal confidi, premesso che a livello teorico tale operazione non è vietata, occorrerà verificare se di fatto si violano i vincoli di destinazione gravanti sui contributi e sui fondi di origine pubblica dei quali l’ente abbia eventualmente beneficiato. Si può presumere che i vincoli di destinazione siano violati quando gli elementi patrimoniali derivanti da contributi e fondi di origine pubblica vengano assegnati in sede di scissione a una beneficiaria diversa dal confidi.

In tal caso, si può ipotizzare che l’inosservanza dei vincoli di destinazione costituisca una causa di decadenza dal finanziamento pubblico, in quanto il rispetto del vincolo costituisce, di regola, un onere per l’acquisto e la conservazione del finanziamento. Deve, pertanto, ritenersi che se la scissione di fatto sottrae il patrimonio del fondo allo scopo per il quale il finanziamento era stato concesso, l’ente decade dal finanziamento. Appare, invece, dubbio se l’inosservanza del vincolo di destinazione possa o meno incidere sulla validità della scissione, tenuto conto del fatto che non esiste un’apposita norma di legge che sancisca la nullità degli atti commessi in violazione del vincolo di destinazione eventualmente gravante sul finanziamento pubblico(14).

In merito agli effetti prodotti dalla scissione sui fondi vincolati presso le banche a garanzia delle operazioni effettuate nei confronti dei soci del confidi, dovrebbero trovare applicazione le norme che disciplinano la sorte delle garanzie in caso di scissione del soggetto che le ha prestate. A tal fine sembra opportuno esaminare separatamente l’ipotesi in cui il fondo rischi forma oggetto di pegno irregolare e quella in cui lo stesso resta in proprietà del confidi.

Nel primo caso, il confidi, che è terzo rispetto all’obbligazione principale intercorrente tra la banca finanziatrice e l’impresa finanziata partecipante al confidi, vincola il fondo rischi depositato presso la banca in favore di quest’ultima, che ai sensi dell’art. 1851 c.c. acquista la facoltà di disporre del fondo vincolato e, in caso di inadempimento, è tenuta a restituire soltanto l’eccedenza rispetto all’ammontare dei crediti garantiti(15). Con il pegno irregolare, quindi, il creditore garantito acquista la proprietà dei beni oggetto del pegno e il soggetto che ha prestato la garanzia acquista il diritto alla restituzione integrale dei beni pignorati in caso di adempimento dell’obbligazione garantita, o dell’eccedenza rispetto all’ammontare dei crediti garantiti in caso di inadempimento.

Nel caso di specie, la scissione del confidi determinerebbe una modifica del soggetto titolare del diritto alla restituzione dei fondi vincolati. Pertanto, la banca conserverebbe la titolarità e la facoltà di disporre dei beni oggetto del pegno irregolare e sarebbe poi tenuta a restituire gli stessi alla società risultante assegnataria in base a quanto previsto nel progetto di scissione o in conformità di quanto previsto dall’art. 2506-bis, comma 2, c.c., per l’ipotesi in cui la destinazione di un elemento dell’attivo non sia desumibile dal progetto.

Nel caso, invece, in cui il fondo rischi sia soltanto depositato presso la banca, senza, però, essere costituito in pegno irregolare, il confidi ne conserva la titolarità e, pertanto, forma oggetto di responsabilità patrimoniale generica ai sensi dell’art. 2740 c.c. In caso di scissione del confidi, la titolarità dei beni si trasferisce, quindi, alle società beneficiarie della scissione in conformità di quanto stabilito nel relativo progetto; i creditori dell’ente scisso sono garantiti, oltre che attraverso la facoltà di opposizione alla scissione, dall’art. 2506-quater, comma 3, c.c., il quale stabilisce che ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico.

Per quanto riguarda, infine, gli effetti prodotti dalla scissione sulle eventuali perdite dell’ente, dovrebbe trovare applicazione l’art. 2506-bis, comma 3, c.c., il quale stabilisce che degli elementi del passivo, la cui destinazione non è desumibile dal progetto, rispondono in solido le società beneficiarie e, in caso di scissione parziale, la società scissa e le società beneficiarie.

5. Segue: d) divieto di distribuzione di avanzi di gestione e obblighi di devoluzione

Il comma 18 dell’art. 13, d.l. 269/2003, stabilisce che “i confidi non possono distribuire avanzi di gestione di ogni genere e sotto qualsiasi forma alle imprese consorziate o socie, neppure in caso di scioglimento del consorzio, della cooperativa o della società consortile, ovvero di recesso, decadenza, esclusione o morte del consorziato o del socio”.

Si rende, quindi, necessario verificare se attraverso la scissione si realizzi una distribuzione di utili o avanzi di gestione in favore dei partecipanti. A tal fine si può osservare che la scissione realizza la scomposizione del patrimonio di una società, che viene attribuito, in tutto o in parte, ad altre società, con conseguente attribuzione ai soci della società originaria di partecipazioni nelle società beneficiarie del trasferimento patrimoniale.

Tale operazione non realizza una distribuzione di utili, in quanto il patrimonio della società originaria viene trasferito ad un’altra società e non, invece, ai soci, i quali ricevono non utili o altri elementi patrimoniali, bensì azioni o quote delle società beneficiarie della scissione(16).

Occorre, infine segnalare che quando il confidi è una società cooperativa, se le società beneficiarie della scissione risultino essere enti diversi dalle cooperative, si pone il problema della sovrapposizione tra il comma 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 e l’art. 2545-undecies c.c.

Il comma 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 stabilisce, infatti, che “le società cooperative le quali divengono confidi sotto un diverso tipo associativo a seguito di fusione o che si trasformano ai sensi del comma 38 non sono soggette all’obbligo di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione di cui all’articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59, a condizione che nello statuto del confidi risultante dalla trasformazione o fusione sia previsto l’obbligo di devoluzione del patrimonio ai predetti fondi mutualistici in caso di eventuale successiva fusione o trasformazione del confidi stesso in enti diversi dal confidi ovvero dalle banche di cui al comma 29”.

Alla luce delle considerazioni finora svolte in merito agli effetti della scissione, si può ritenere che tale norma sia applicabile nell’ipotesi in cui l’ente beneficiario della scissione sia un confidi. Diversamente, trova applicazione l’art. 2545-undecies c.c., per effetto del quale il valore effettivo del patrimonio, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti, deve essere devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

6. Trasformazione di società di capitali e cooperative in confidi

La trasformazione di una società per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni o cooperativa(17) in un confidi non è espressamente elencata tra le fattispecie di cui ai commi 38 e 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003, i quali si riferiscono o alla trasformazione di un confidi in altro confidi, o alla fusione tra confidi.

In base alle considerazioni finora effettuate, il silenzio del legislatore non può essere interpretato come un divieto di compiere le operazioni non espressamente menzionate nell’art. 13 del d.l. 269/2003. A ciò si può, inoltre, aggiungere che la trasformazione di società di capitali o cooperative in confidi determina di regola la destinazione di elementi patrimoniali allo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi. Sembrerebbe, forse, possibile applicare in via analogica la disciplina di favore contenuta nei commi 38-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, i quali sono volti a non ostacolare le operazioni di trasformazione che non comportino una distrazione di patrimoni dallo svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi.

In particolare, in merito alle maggioranze necessarie per l’approvazione della delibera di trasformazione, l’eventuale estensione dei quorum agevolati all’ipotesi di trasformazione di una società di capitali o cooperativa in confidi sarebbe coerente con la ratio sottesa alla disciplina in esame, perché tale tipo di operazione comporterebbe la destinazione di elementi patrimoniali allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi.

Analoghe conclusioni potrebbero valere anche per verificare la sussistenza o meno dell’obbligo di devoluzione a carico di cooperativa che non svolge attività di garanzia collettiva dei fidi, la quale si trasforma in confidi costituito in forma diversa dalla cooperativa. Appare, cioè, ragionevole ritenere che in tal caso possa essere applicato per analogia il comma 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 stabilisce che “le società cooperative le quali divengono confidi sotto un diverso tipo associativo a seguito di fusione o che si trasformano ai sensi del comma 38 non sono soggette all’obbligo di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione di cui all’articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59, a condizione che nello statuto del confidi risultante dalla trasformazione o fusione sia previsto l’obbligo di devoluzione del patrimonio ai predetti fondi mutualistici in caso di eventuale successiva fusione o trasformazione del confidi stesso in enti diversi dal confidi ovvero dalle banche di cui al comma 29”.


(1) D. Vittoria, I problemi giuridici dei consorzi fidi, Napoli 1981, 130; G. Cabras, Le garanzie collettive per i finanziamenti alle imprese, Milano 1986, 175. G.D. Mosco, Attuale disciplina e prospettive di evoluzione dei consorzi e delle cooperative di garanzia, in Giur. Comm., 1994, 850, osserva che “è il fondo rischi il vero elemento patrimoniale di riferimento dei confidi, in base al quale le banche commisurano l’ammontare complessivo del credito”. Sui sistemi di patrimonializzazione dei confidi, v. B. Lo Giudice, Le garanzie personali prestate dai confidi e il fondo rischi. Analisi delle possibili clausola statutarie, Studio n. 58-2006/I approvato dal Gruppo di studio Consorzi fidi il 15 dicembre 2005 e pubblicato su CNN Notizie 14 aprile 2006.
(2) A. Stagno D’Alcontres, Consorzi fidi e finanziamento delle imprese, in Il finanziamento agevolato delle imprese a cura di S. Mazzamuto, Milano, 1987, 526.
(3) Sorgono dubbi in merito alla concreta utilità della deroga all’art. 2500-septies c.c., contenuta nel comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Il comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003 disciplina, infatti, le operazioni di trasformazione di un confidi in altro confidi e quelle di fusione tra uno o più confidi o tra un confidi e società, associazioni, anche non riconosciute, fondazioni e consorzi diversi dai confidi purché il consorzio o la società incorporante o che risulta dalla fusione sia un confidi o una banca che, in base al proprio statuto, esercita prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci ai sensi del comma 29 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Poiché l’art. 2500-septies c.c. disciplina il procedimento di trasformazione delle società per azioni, a responsabilità limitata e in accomandita per azioni, tale norma non si sarebbe comunque applicata nell’ipotesi di trasformazione del confidi in altro confidi, in quanto tali enti possono costituirsi esclusivamente in forma di consorzi con attività esterna, società cooperative e società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, i cui procedimenti di trasformazione sono regolati dagli artt. 2500-octies e 2545-decies c.c. e non, invece, dall’art. 2500-septies c.c. Occorre, quindi, prendere in considerazione la fusione alla quale partecipi una società per azioni, a responsabilità limitata o in accomandita per azioni nel caso in cui la società o il consorzio incorporante o risultante dalla fusione sia un confidi ai sensi del comma 39 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Si deve segnalare che è stata sollevata la questione se in caso di fusione tra società che comporti anche la trasformazione di un ente partecipante, la relativa decisione debba essere adottata ai sensi dell’art. 2502 c.c. con le maggioranze previste per le modifiche dell’atto costitutivo o statuto, oppure se occorrano i quorum specifici dettati in materia di trasformazione dagli artt. 2500-septies, 2500-octies e 2545-decies c.c. Secondo una prima tesi, è stato, infatti, rilevato che in seguito alla riforma del diritto societario “l’art. 2502 c.c. costituisce una speciale disposizione agevolativa propria del procedimento di fusione, che si sovrappone, derogandole, alle ordinarie regole proprie della trasformazione o delle altre modificazioni statutarie in generale” (F. Magliulo, La fusione delle società, Milano, 2005, 108). Esiste, però, un diverso orientamento, secondo il quale la fusione di una società di capitali che comporti anche la trasformazione del tipo sociale debba essere approvata dai soci applicando, anche in seconda convocazione, i quozienti e la disciplina sanciti per la trasformazione dell’ente (M. Maltoni, Fusione, scissione e società di persone, in Studi e materiali, Milano, 2005, 1248). Se si accoglie la prima tesi, la deroga all’art. 2500-septies c.c. sarebbe priva di significato, perché se si ritenesse applicabile l’art. 2502 c.c., la fusione di una società di capitali in favore di un confidi dovrebbe essere deliberata non con il quorum previsto dall’art. 2500-septies c.c., bensì con quello stabilito dall’art. 2502 c.c., il quale è pressoché identico a quello sancito nel comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Al contrario, se si aderisce alla tesi secondo cui in caso di fusione che implichi una trasformazione si devono rispettare i quorum previsti per la trasformazione, verrebbe in rilievo la deroga all’art. 2500-septies c.c. contenuta nel comma 41 dell’art. 13, d.l. 269/2003. Un ulteriore ambito di applicazione della deroga all’art. 2500-septies c.c. potrebbe, infine, riguardare l’ipotesi di trasformazione di una società per azioni, a responsabilità limitata o in accomandita per azioni in un confidi, per la quale v. infra par. 6.
(4) Nella logica del d.l. 269/2003, sembra, dunque, che le diverse forme associative ivi contemplate (consorzi con attività esterna, cooperative, società consortili) siano “equipollenti” e ugualmente meritevoli di tutela ai fini dello svolgimento dell’attività di garanzia collettiva dei fidi, senza che vi sia una preferenza del legislatore per l’una o l’altra forma. E’ quindi rimessa in toto ai soci o consorziati la scelta del tipo associativo e, in coerenza con tale opzione, il legislatore detta una disciplina agevolativa della trasformazione tendente a facilitare il passaggio da un tipo ad un altro, oltre a favorire i processi di concentrazione
(5) La circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 21 giugno 2004, n. 28/E, nel commentare l’art. 13, d.l. 269/2003 rileva che “L’intervento del legislatore, in particolare, è stato rivolto da un lato al riordino del settore, tramite l’introduzione di una compiuta disciplina dell’attività e dei soggetti, dall’altro a promuovere l’evoluzione dei confidi attraverso la trasformazione in veri e propri enti finanziari, non più necessariamente operanti attraverso la concessione di garanzie reali, nonché l’attivazione di processi di fusione e trasformazione volti ad incrementarne le dimensioni, la stabilità e il patrimonio”.
(6) F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 50. In giurisprudenza, secondo Cass. 26 agosto 2005, n. 17396, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2006, 936, con nota di F. Signorelli, Il privilegio previsto dall’art. 2751 bis, n. 5 codice non è applicabile al credito per compenso di appalto d’opera, le norme eccezionali in quanto tali «non sono suscettibili di interpretazione analogica, ma possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di un’operazione logica diretta ad individuare il reale significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività, anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale, e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore, e quindi di estendere la “regula juris” a casi non espressamente previsti dalla norma, ma dalla stessa implicitamente considerati». Cass. 1 settembre 1999, n. 9205, in Giust. Civ., 2000, 82, rileva che «L’interpretazione estensiva di disposizioni “eccezionali” o “derogatorie”, rispetto ad una avente natura di “regola”, se pure in astratto non preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito della norma eccezionale o derogatoria già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata». Analogamente, secondo Cass. 28 marzo 1981, n. 1800, in Notiziario di giurisprudenza del lavoro, 1982, 104 «per le disposizioni di diritto singolare, è vietata soltanto la interpretazione analogica, mentre è consentita quella estensiva; ma neppure a quest’ultima può farsi luogo se la ratio legis non persuada che il legislatore ebbe in mente di estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati».
(7) Il regime di favore riguardante la trasformazione e la fusione dei confidi contenuto nel d.l. 269/2003 è, infatti, coerente con i principi stabiliti nel Secondo Accordo di Basilea, elaborato dal Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria, il cui fine è quello di garantire la stabilità delle banche dei Paesi del Gruppo dei 10, indirizzando ulteriormente le politiche Bancarie in ambito di stabilità patrimoniale.
(8) Sulla valenza economica della scissione, v. G. Farneti – G. Savioli, La scissione di società, Milano, 1993, 86; Fiori, Le scissioni nell’economia e nei bilanci delle aziende, Milano, 1995, 61; M. Caratozzolo, I bilanci straordinari, Roma, 1988, 93; T. Onesti – I. Romagnoli, La scissione di società. Aspetti economici, civilistici e contabili, Torino, 1996, 15; Macchioni, L’operazione di scissione: un’analisi economico-aziendale, Padova, 1996, 52; Mainardi, Gestioni straordinarie d’azienda: la scissione, Padova, 1997, 18; R. Perotta, La scissione, in R. Perotta – G.M. Garegnani, Le operazioni di gestione straordinaria, Milano, 2005, 272; M. Benvenuto – S. Vita, Trasformazioni. Fusioni. Scissioni, Torino, 1994, 409.
(9) In tal senso, G. Scognamiglio, Le scissioni, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 2004, 67. La scissione può, inoltre, essere utilizzata per ulteriori scopi e precisamente: frammentazione di una compagine sociale litigiosa, attraverso l’attribuzione di azioni o quote delle società beneficiarie non proporzionali all’originaria partecipazione dei soci; attuazione di uno scioglimento senza liquidazione ai sensi dell’art. 2506, comma 3, c.c.; resistenza ad un’o.p.a. ostile attraverso la riduzione della consistenza patrimoniale della società bersaglio; creazione di un gruppo c.d. verticale, che consente la separazione tra la gestione delle partecipazioni, attribuita ad una società holding, e la gestione delle attività imprenditoriali, affidata alle società controllate; creazione di un gruppo c.d. orizzontale, mediante il ricorso alla scissione proporzionale, che consente al socio di controllo di conservare la posizione dominante nelle beneficiarie ed agevola l’adozione di un piano comune di coordinamento tra ciascun ente; privatizzazione di enti pubblici da realizzarsi in maniera graduale, attraverso la scissione di un ramo di azienda da attribuire ad una società appositamente creata; trasferimento di singoli cespiti patrimoniali, realizzato attraverso lo strumento della scissione avente ad oggetto tali beni, in alternativa alla cessione degli stessi (G. Scognamiglio, Le scissioni, cit., 67 e ss.).
(10) G. Scognamiglio, Le scissioni, cit., 154, ritiene ammissibile il trasferimento per scissione di un patrimonio negativo soltanto in caso scissione parziale in favore di società preesistenti e a condizione che la società destinata ad incorporare il patrimonio in perdita abbia le riserve necessarie a coprire tali perdite.
(11) Si potrebbe, forse, ipotizzare l’applicazione estensiva dei commi 38-43 dell’art. 13, d.l. 269/2003 alla scissione di confidi in favore di ente diverso dal confidi soltanto nell’ipotesi – ove ritenuta ammissibile - in cui il patrimonio trasferito tramite scissione sia negativo, perché di fatto non si verificherebbe una sottrazione di elementi patrimoniali allo svolgimento di attività di garanzia collettiva dei fidi.
(12) Per l’analisi della nozione di patrimonio netto, v. B. Lo Giudice, Le garanzie personali prestate dai confidi, cit.
(13) Sul punto, v. retro par. 1, nota 3.
(14) G. Petrelli, I confidi costituiti in forma di società cooperativa, in Studi e materiali, Milano, 2005, 1664, rileva che la disciplina agevolativa anteriore al d.l. 269/2003, rimasta in vigore, detta “disposizioni la cui inosservanza avrebbe potuto comportare, al massimo, la non concedibilità dei contributi previsti da leggi statali o regionali”, ma che non incide sulla validità degli atti compiuti in assenza dei requisiti richiesti per ottenere le agevolazioni.
Manca, inoltre, relativamente ai confidi, una norma analoga a quella contenuta nell’art. 2500-octies c.c., il quale stabilisce che la trasformazione “non è comunque ammessa per le associazioni che abbiano ricevuto contributi pubblici oppure liberalità e oblazioni del pubblico”. Tale divieto di trasformazione ha lo scopo di introdurre una sorta di salvaguardia nei confronti di un’utilizzazione strumentale di organismi che possono aver fruito di un trattamento di favore (si pensi alle ONLUS) e a tutelare la pubblica fede (M. Sarale, Commento all’art. 2500-octies c.c., in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna, 2004, 2295). Tale norma, che riguarda esclusivamente la trasformazione degli enti non profit, risponde, inoltre, alla ratio di tutela dell’affidamento dei terzi, enti pubblici o soggetti privati, circa la destinazione delle risorse offerte ai fini ideali per le quali sono state richieste o comunque prestate.
In materia di confidi non solo manca un divieto analogo a quello contenuto nell’art. 2500-octies c.c., ma, inoltre, la trasformazione in ente diverso dal confidi è testualmente prevista nel comma 43 dell’art. 13, d.l. 269/2003, il quale prevede l’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici “in caso di eventuale successiva fusione o trasformazione del confidi stesso in enti diversi dal confidi”.
(15) Per tale ricostruzione, v. G. Bollino, «Fondo rischi» e pegno irregolare, in Consorzi-fidi e cooperative di garanzia, Napoli, 1982, 126.
(16) Tale conclusione non varia sia che si accolga la tesi secondo la quale la scissione avrebbe la natura di modifica del contratto sociale, sia la tesi secondo la quale la scissione avrebbe la natura di fenomeno successorio con effetti traslativi. Secondo la prima tesi “l’essenza della fusione e della scissione si colloca a livello di struttura organizzativa, a livello quindi dell’organizzazione in senso oggettivo dell’attività: fusioni e scissioni sono infatti aggregazioni e separazioni, somme e divisioni, di questa struttura, mentre non sono fenomeni la cui essenza si possa cogliere in termini di trasferimento di beni a qualunque titolo tra soggetti. Volendo usare termini marcatamente descrittivi, dovrei allora dire che nei fenomeni in esame non circolano beni e rapporti rispetto a soggetti” (P. Ferro-Luzzi, La nozione di scissione, in Giur. Comm., 1991, 1068). In base alla seconda tesi, attraverso la scissione si realizzerebbe un trasferimento di beni dalla società che si scinde alla beneficiaria, e tale trasferimento avrebbe natura di conferimento o successione a titolo universale o particolare o, ancora, la natura di vicenda estintivo-costitutiva (per la ricostruzione di tali tesi ed ulteriori approfondimenti v. G. Scognamiglio, Le scissioni, cit., 119). Premesso che alle scissioni potrebbero estendersi le conclusioni alle quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità in materia di fusione (Cass. S.U. 8 febbraio 2006, n. 2637 attribuisce alla fusione la natura di fenomeno modificativo e non estintivo-costitutivo), resta il fatto che in sede di scissione i soci ricevono quote o azioni della società beneficiaria e non, invece, utili o avanzi di gestione.
(17) Con riferimento alle società cooperative, la fattispecie di trasformazione che assume rilievo ai fini della questione in esame è quella di una cooperativa, che non svolge attività di garanzia collettiva dei fidi, la quale si trasforma in confidi costituito in forma diversa dalla cooperativa. Nel caso, invece, di cooperativa che decida di iniziare a svolgere l’attività di garanzia collettiva dei fidi conservando la tipologia della cooperativa, si è in presenza di una modifica dell’oggetto sociale, ma non anche di una trasformazione.

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