Gli adeguamenti a norme inderogabili ex art. 223- bis disp. att. cod. civ.
Gli adeguamenti a norme inderogabili ex art. 223- bis disp. att. cod. civ.
di Antonio Ruotolo
Consiglio Nazionale del Notariato - Studio n. 5277/I
Pubblicato nella rivista Studi e Materiali CNN, Milano, 2/2004, p. 786 ss.

1. La norma - 2. Gli adeguamenti a norme inderogabili e le conseguenze del mancato adeguamento - 3. Talune ipotesi di adeguamenti a norme inderogabili nella s.p.a. In particolare, il funzionamento e le competenze degli organi sociali - 4. segue: altre ipotesi di adeguamenti/adattamenti necessari nella s.p.a. Le clausole relative al recesso, alla disciplina e alla circolazione delle azioni. Cenni sull’oggetto sociale - 5. Adeguamenti necessari nella s.r.l.

1. La norma

L’art. 223- bis, disp. att. cod. civ., che permette alla società già esistente di adeguare – adattare lo statuto alle disposizioni introdotte dalla riforma, è una norma che sinora, sia nella sua prima versione che in quella derivata dal c.d. decreto correttivo, non sembra avere avuto una piena applicazione. Nel senso che è raro rinvenire ipotesi in cui dal 1° gennaio 2004 si sia proceduto a detti adeguamenti-adattamenti ricorrendo ai quorum semplificati ivi previsti: adeguamenti-adattamenti vi sono certamente stati, ma ad essi si è provveduto o con il ricorso ai quorum previsti per le modificazioni statutarie, o, forse con maggiore frequenza, ricorrendo ad assemblee totalitarie. Ma è verosimile ritenere che, approssimandosi la fatidica data del 30 settembre 2004, con la “corsa agli adeguamenti dell’ultimo minuto”, detta disposizione sia destinata a trovare finalmente integrale applicazione.

Il testo dell’art. 223-bis, disp. att. cod. civ., come modificato dall'art. 5, D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, dispone che:

«Le società di cui ai capi V, VI e VII del titolo V del libro V, del codice civile, iscritte nel registro delle imprese alla data del 1° gennaio 2004, devono uniformare l'atto costitutivo e lo statuto alle nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004.

Le decisioni di trasformazione della società a responsabilità limitata in società per azioni possono essere prese entro il 30 settembre 2004, anche in deroga a clausole statutarie, con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti più della metà del capitale sociale.

Le deliberazioni dell'assemblea straordinaria di mero adattamento dell'atto costitutivo e dello statuto a nuove disposizioni inderogabili possono essere assunte, entro il termine di cui al primo comma, a maggioranza semplice, qualunque sia la parte di capitale rappresentata in assemblea. Con la medesima maggioranza ed entro il medesimo termine possono essere assunte le deliberazioni dell'assemblea straordinaria aventi ad oggetto l'introduzione nello statuto di clausole che escludono l'applicazione di nuove disposizioni di legge, derogabili con specifica clausola statutaria; fino alla avvenuta adozione della modifica statutaria e comunque non oltre il 30 settembre 2004, per tali società resta in vigore la relativa disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31 dicembre 2003.

Le modifiche statutarie necessarie per l'attribuzione all'organo amministrativo, al consiglio di sorveglianza o al consiglio di gestione della competenza all'adeguamento dello statuto alle disposizioni di cui all'articolo 2365, secondo comma, del codice sono deliberate dall'assemblea straordinaria con le modalità e le maggioranze indicate nei commi precedenti.

Fino alla data indicata al primo comma, le previgenti disposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle disposizioni inderogabili del presente decreto.

Dalla data del 1° gennaio 2004 non possono essere iscritte nel registro delle imprese le società di cui ai capi V, VI e VII del titolo V del libro V del codice civile, anche se costituite anteriormente a detta data, che siano regolate da atto costitutivo e statuto non conformi al decreto medesimo. Si applica in tale caso l'articolo 2331, quarto comma, del codice.

Le società costituite anteriormente al 1° gennaio 2004 possono, in sede di costituzione o di modificazione dello statuto, adottare clausole statutarie conformi ai decreti legislativi attuativi della legge 3 ottobre 2001, n. 366. Tali clausole avranno efficacia a decorrere dal momento, successivo alla data del 1° gennaio 2004, in cui saranno iscritte nel registro delle imprese con contestuale deposito dello statuto nella sua nuova versione»(1).

2. Gli adeguamenti a norme inderogabili e le conseguenze del mancato adeguamento

Occorre esaminare la portata delle novità introdotte dal c.d. decreto correttivo sugli statuti delle società già esistenti alla data del 31 dicembre 2003.

In primo luogo, non essendo stata modificata la relativa disciplina, permane l’obbligo per le società di capitali e cooperative di uniformare, rispettivamente entro la data del 30 settembre e del 31 dicembre 2004, l'atto costitutivo e lo statuto alle nuove disposizioni inderogabili.

Occorre qui ribadire come dal possibile conflitto della norma statutaria con le «nuove disposizioni inderogabili» non conseguono effetti così dirompenti per la società tali da produrre il suo scioglimento.

L’equivoco è nato dalla non felice formulazione delle disposizioni di diritto transitorio e, soprattutto, dall’incongruenza della Relazione Illustrativa, nella quale si legge che dal carattere inderogabile delle nuove disposizioni, deriverebbe «la logica conseguenza che, in caso di mancato adeguamento, le società non possano ulteriormente operare, sì che si è prevista una causa di scioglimento ope legis» (Relazione, par. 16).

Ne è derivata una ricerca accurata volta all’identificazione della fattispecie dalla quale, in virtù del mancato adeguamento, sarebbe derivato lo scioglimento della società, ricerca nella quale sono stati coinvolti alcuni dei più illustri studiosi del diritto commerciale, che tuttavia hanno concluso negativamente: la società sopravvive.

È noto come l’unica vera ipotesi che in astratto potrebbe dar luogo allo scioglimento della società, sia rappresentata dal mancato tempestivo adeguamento del capitale delle S.p.A. a 120.000 euro – ipotesi simile a quella verificatasi con la legge 904 del 1977, che aveva elevato il minimo a 200 milioni e che imponeva un termine per l’adeguamento, pena lo scioglimento.

Ma tale ipotesi teorica trova un suo ridimensionamento proprio nella riforma, posto che il mancato adeguamento del capitale, infatti, non incide sulla sorte della società, poiché per l’art. 223 ter delle disposizioni di attuazione “le società per azioni costituite prima del 1° gennaio 2004 con un capitale sociale inferiore a centoventimila euro possono conservare la forma della società per azioni per il tempo, stabilito antecedentemente alla data del 1° gennaio 2004, della loro durata”.

Solo decorsa tale data, se i soci decidessero di prorogare la società, sarebbe necessario provvedere all’adeguamento del capitale sociale, verificandosi altrimenti una causa di scioglimento per riduzione al di sotto del minimo legale(2).

Discorso a parte concerne l’ipotesi in cui la società già costituita, per la perdita di oltre un terzo del capitale, si trovi a dover deliberare la riduzione e il contemporaneo aumento ex art. 2447, c.c. Secondo una prima opinione i richiami contenuti nell’art. 2447 non fanno alcun riferimento alle norme transitorie, e ciò sia con riguardo al quantum della perdita che con riguardo al limite minimo della ricostituzione. Di conseguenza, poiché la norma transitoria non avrebbe alcuna efficacia nella fattispecie prospettata, il minimo di capitale cui far riferimento dovrebbe essere quello previsto dalla riforma (120.000 euro). Ma tale ricostruzione è stata efficacemente confutata, poiché «è vero che l’art. 2447 fa riferimento alla perdita di oltre un terzo del capitale che lo riduce al di sotto del minimo stabilito dall’art. 2327 e nell’inciso finale della norma prevede la ricostituzione del capitale ad una cifra non inferiore al detto minimo; e vero altresì che la norma richiamata indica come capitale minimo centoventimila euro. Tuttavia la disciplina di attuazione e transitoria riveste carattere di normativa eccezionale e come tale deroga alla disciplina generale. Diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che, contrariamente a quanto fa la dottrina da ultimo citata, per verificare se la riduzione del capitale è tale da obbligare a una sua ricostituzione, si debba fare riferimento non al capitale proprio della vecchia società (di regola 100 mila Euro o comunque un capitale inferiore a 120 mila euro) ma al limite stabilito per la generalità dei casi (ma non per il caso di specie) dall’art. 2327. Infatti, l’art. 2447,c.c., richiama genericamente l’art. 2327 in materia di capitale minimo due volte: la prima, per identificare la perdita che costringe alla riduzione e la seconda, per identificare il capitale da ricostituire. Ragioni di simmetria giuridica sembrano impedire che per la prima verifica si possa invocare il valore di cui alla norma transitoria (ossia 100 mila euro) e nella seconda il valore di cui al novellato art. 2327,c.c. Qualora, poi, si ritenga che in entrambi i richiami il legislatore abbia inteso riferirsi al nuovo valore, si svilirebbe il significato della disciplina di attuazione della riforma, visto che la società si ritroverebbe un capitale già per 1/6 inferiore al minimo di legge. La ricostruzione sopra riportata e qui criticata sembra poi travisare lo stesso dato letterale della norma. Infatti, l’art. 223-ter fa riferimento all’anzianità della società non all’anzianità del capitale. E’ la società costituita prima del 1 gennaio 2004 ad essere interessata dalla norma, non il capitale costituito prima del 1 gennaio 2004. Per sostenere che il capitale ricostituito debba essere pari al nuovo minimo, si dovrebbe affermare che la perdita del capitale di cui all’art. 2447,c.c., comporti l’immediata estinzione della società e la ricostituzione del capitale comporti in realtà la costituzione di una nuova società. Tale ricostruzione pare insostenibile. Sembra, pertanto, che le società costituite prima del 1 gennaio 2004 che, successivamente a tale data, perdano il capitale in modo da rientrare nella previsione dell’art. 2447,c.c., possano ricostituire il capitale sino ad una cifra pari al loro capitale originario (che può quindi essere inferiore ai 120 mila euro ma naturalmente superiore a 100 mila euro). La ricostruzione adottata pare avere conseguenze anche in tema di convocazione dell’assemblea e relativo ordine del giorno. Infatti, la convocazione dell’assemblea recante nell’ordine del giorno la previsione dell’adozione dei soli provvedimenti di cui all’art. 2447, c.c., non consentirà ad una società di vecchia costituzione di elevare l’originario capitale sino al nuovo minimo, essendo necessario che detto adeguamento sia espressamente previsto nell’ordine del giorno stesso»(3).

Quali allora le conseguenze del mancato adeguamento alle disposizioni inderogabili?

Sono state profilate due opinioni al riguardo.

La prima, rilevato come la riforma non soltanto non contempli lo scioglimento ope legis (o nullità sopravvenuta) come conseguenza del mancato adeguamento, ma sembra enunciare una regola opposta, laddove al 5° comma dell’art. 223 bis prevede che sino al 30 settembre 2004, le previgenti disposizioni dell’atto costitutivo e dello statuto «conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle disposizioni inderogabili del presente decreto», appare orientata nel senso della inefficacia sopravvenuta delle clausole; nel senso che esse sono destinate a perdere la loro efficacia dal 1° ottobre 2004(4).

Secondo altra opinione, invece, ricorrerebbe un’ipotesi di nullità della clausola per contrasto con norme inderogabili sopravvenute(5).

Ma, in entrambi i casi, sia che si opti per l’una o per l’altra interpretazione, le conseguenze della inefficacia o invalidità delle clausole sono ridimensionate dal fenomeno della sostituzione di diritto (art. 1419 cod. civ., ultimo comma) con il regime legale, sostituzione che comunque andrà differita al 1° ottobre 2004, poiché sino a tale data le vecchie clausole conservano efficacia anche se non sono conformi alle disposizioni inderogabili(6). In altre parole, non si sono riscontrate conseguenze ulteriori derivanti dal mancato adeguamento, tali da involgere la stessa sopravvivenza della società, sicché lo scenario apocalittico delineato dalla Relazione non trova alcun riscontro normativo(7).

Gli adeguamenti alle nuove norme inderogabili si sostanziano, innanzitutto, in modificazioni dell’assetto statutario essenzialmente volte ad evitare che operi quel meccanismo di sostituzione automatica di quelle clausole, nulle o inefficaci, perché incompatibili con il nuovo ordinamento(8).

Qui appare chiaramente condivisibile l’affermazione secondo la quale lo spettro di siffatti interventi tende a porsi in un rapporto di proporzionalità diretta rispetto al grado di analiticità dello statuto adottato dalla società e di proporzionalità inversa rispetto alla derogabilità della disciplina della forma societaria assunta(9).

Quanto, invece, alla differente espressione utilizzata nel decreto correttivo («deliberazioni … di mero adattamento», in luogo delle «deliberazioni necessarie all'adeguamento») non sembra che vi si possano ricondurre particolari conseguenze(10).

In definitiva, la vera novità della norma transitoria che disciplina il passaggio dei vecchi statuti al nuovo diritto societario, per quel che concerne la conformazione degli stessi alle nuove disposizioni inderogabili, è rappresentata dal diverso ambito applicativo, poiché non è più rinvenibile la possibilità di adeguamenti semplificati volti a conformarsi alle disposizioni derogabili mediante il collegamento con adeguamenti/adattamenti a disposizioni inderogabili.

Restano sostanzialmente invariate, invece, le modalità attraverso le quali procedervi, e cioè il ricorso a deliberazioni dell’assemblea straordinaria a maggioranza semplice, qualunque sia la parte di capitale rappresentata in assemblea («dai soci partecipanti», nel vecchio testo).

Il legislatore, nella consapevolezza che le novità introdotte con la riforma, per la loro ampiezza e rilevanza, imporranno a tutte le società di capitali esistenti di tenere un’assemblea per l’adeguamento del proprio statuto, ha inteso da un lato (pensando alle società con larga base azionaria) favorire l’adozione di tale «necessaria» deliberazione assembleare, e dall’altro (pensando alle società a ristretta base sociale) impedire che, applicandosi quozienti costituivi o deliberativi particolarmente elevati, la minoranza, in presenza di una deliberazione appunto «necessaria» ai fini dell’adeguamento dello statuto vigente alla riforma, faccia valere il proprio quoziente c.d. impeditivo per strappare alla maggioranza alcune indebite concessioni.

Dunque, una norma «anti-stallo», funzionale non solo agli interessi della maggioranza semplice del capitale, ma anche a quelli generali del mercato, rispetto al quale l’intera riforma, con le nuove possibilità che essa offre, risulta funzionale.

Ma, al contempo, una norma che – non prevedendo alcun quorum costitutivo, né in prima convocazione, né nelle convocazioni successive alla prima; stabilendo che per il quorum deliberativo è in ogni caso sufficiente il voto favorevole della maggioranza semplice dei presenti, da calcolarsi, trattandosi di società di capitali, non per capi, ma per quota di capitale rappresentato; e altresì derogando anche agli eventuali più elevati quorum previsti dallo statuto – stravolge le regole generali in tema di quozienti costitutivi e deliberativi, ed è, quindi, norma di stretta interpretazione(11).

Ecco perché, il legislatore – nella riformulazione dell’art. 223 bis - meglio chiarisce l’ambito di applicazione della facoltà di intervenire sugli statuti esistenti a maggioranza semplificata, così evitando che per converso la riforma possa divenire occasione per dei colpi di mano della maggioranza in danno della minoranza.

Secondo Alcuni poi, in questo ambito, l’unico tipo di intervento consentito alla stessa maggioranza semplificata consiste nella sostituzione della precedente clausola con una nuova clausola che si limiti a recepire il contenuto della norma di legge inderogabile introdotta dalla riforma, senza alcun margine di discrezionalità da parte dell’assemblea(12). Diversamente, da parte di Altri, si è sostenuto che l’intervento potrebbe estendersi anche alle ipotesi in cui ciò comportasse l’adozione di scelte discrezionali, purché necessariamente dipendenti dalla modificazione imposta dalle nuove norme inderogabili(13).

Per evitare la sostituzione automatica, la quale sarebbe comunque foriera di incertezze per i soci e per i terzi, è quindi data alle società la facoltà di avvalersi di quanto previsto dal primo periodo dell’attuale comma 3: e cioè di ricorrere, entro il 30 settembre 2004, a deliberazioni di mero adattamento dell'atto costitutivo e dello statuto a nuove disposizioni inderogabili che saranno assunte dall'assemblea straordinaria a maggioranza semplice, qualunque sia la parte di capitale rappresentata in assemblea.

Ma la paventata conseguenza della sostituzione automatica non si realizza immediatamente. Dispone infatti il comma 5 dell’art. 223-bis (che riproduce integralmente il comma 4 della precedente formulazione) che «fino alla data indicata al primo comma» (il 30 settembre 2004), «le previgenti disposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle disposizioni inderogabili del presente decreto».

In sostanza risulterebbe sospesa l’operatività delle nuove norme imperative che trovino una regolamentazione difforme nello statuto, sino alla scadenza del periodo transitorio (30 settembre 2004), mentre ove lo statuto non contenga una clausola difforme alla nuova disciplina inderogabile, questa sarebbe applicabile alla società sin dal 1° gennaio 2004 (data di entrata in vigore della riforma)(14).

Va in definitiva evidenziato come l’intervento sullo statuto volto ad eliminare le clausole in contrasto con norme inderogabili e ad evitare il meccanismo di sostituzione automatica si sostanzia in un onere per la società al quale non può ricondursi altra conseguenza.

Diversamente è a dirsi, tuttavia, per ciò che concerne la posizione degli amministratori e dei sindaci della società per i quali si è configurato un vero e proprio obbligo che si sostanzia nel verificare la ricorrenza dei presupposti soggettivo ed oggettivo di cui alla normativa, nel predisporre, in caso di ricorrenza dei medesimi presupposti, un testo di statuto da sottoporre all’assemblea, e nel convocare l’assemblea stessa in tempo utile perché questa adotti la deliberazione di modificazione dello statuto entro il termine ultimo fissato dal legislatore(15).

3. Talune ipotesi di adeguamenti a norme inderogabili nella s.p.a. In particolare, il funzionamento e le competenze degli organi sociali

Veniamo ora all’esame di alcune ipotesi di adeguamenti a norme inderogabili che possono profilarsi per gli statuti di s.p.a. già costituite alla data del 1° gennaio 2004, l’individuazione delle quali, al di là di talune ipotesi che comunque appaiono discusse, può esser utile più che altro ai fini del ricorso alle maggioranze agevolate.

Giova anzitutto precisare come i suddetti adeguamenti riguardino essenzialmente le norme sul funzionamento della società (lo «statuto» secondo la terminologia tradizionale e utilizzata dal legislatore per le società per azioni) e non anche l’atto costitutivo, che attiene alla genesi della società ed assume pertanto una rilevanza essenzialmente storica, e per il quale la transitorietà dei dati in esso contenuti non può non portare al disinteresse per la rielaborazione di dati acquisiti e non dinamici, in quanto preposti ad una fase che ha avuto il suo felice esito con l’iscrizione(16).

Una prima ipotesi concerne una clausola che stabilisca la competenza degli amministratori ad assumere partecipazioni in imprese comportanti l'assunzione della responsabilità illimitata laddove la nuova norma (art. 2361, secondo comma) prevede espressamente che tale assunzione debba essere deliberata dall’assemblea(17).

Altro esempio è costituito dall’adeguamento delle clausole che prevedano la libera facoltà degli amministratori di una s.p.a. di sottoporre all’assemblea la decisione relativamente ad oggetti attinenti la gestione (come consentiva l’art. 2364 comma 1 n. 4 cod. civ., ante riforma), laddove in base al n. 5 del nuovo testo dell’art. 2364 l’assemblea ordinaria «delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell'assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti», con la conseguenza che l’assemblea delibera ora sugli altri oggetti attribuiti «dalla legge» alla sua competenza, e non più dall’atto costitutivo. Sicché è da escludersi la possibilità che le clausole statutarie riservino all’assemblea la competenza decisionale su determinate operazioni di gestione. L’assemblea potrà sì autorizzare, sulla base di una espressa previsione statutaria operazioni come l’acquisto o l’alienazione di partecipazioni rilevanti o di aziende, ma tale competenza all’autorizzazione, espressamente ammessa dall’art. 2364, n. 5, non varrà a far venir meno la connessa responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti(18).

Ulteriore contrasto con nuove norme inderogabili si riscontra nelle clausole che prevedano termini per l’approvazione del bilancio d’esercizio corrispondenti a quelli indicati dall’originario art. 2364, comma 2 c.c. (richiamato dal capoverso dell’art. 2487 cod. civ. in tema di s.r.l.), ma difformi da quelli, più brevi, espressi in giorni, ora fissati (come massimi) dalle norme riformate.

E così, per esempio, ove si tratti di clausola che espressamente preveda l’approvazione del bilancio nel termine di quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio sociale, termine che non corrisponde mai a quello di 120 giorni previsto dalla riforma (i quattro mesi non corrispondono in realtà ai 120 giorni, nemmeno se il termine dell’esercizio è fissato al 31 dicembre poiché vi sono gli anni bisestili). Analogamente va adeguata la clausola dell’atto costitutivo che stabilisca un termine maggiore quando particolari esigenze lo richiedono (ovvero nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato), giacché il riferimento deve esser portato a 180 giorni e non più a sei mesi, secondo quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 2364 post riforma(19).

In contrasto con norma inderogabile sembrerebbe essere la clausola statutaria che attribuisca all'organo amministrativo il compito di approvare il regolamento assembleare, spettante, per legge, all’assemblea ordinaria (art. 2364, primo comma, n. 6)(20).

Nella riformulazione delle relative competenze, è evidente come l’assemblea straordinaria sia venuta a perdere la competenza ex lege per l'emissione di obbligazioni; e, tuttavia, una competenza in tale materia dipendente da apposita clausola statutaria non può comunque esser considerata in contrasto con norme inderogabili, posto che l’art. 2410 post riforma stabilisce che tale emissione è deliberata dagli amministratori, salvo che la legge o lo statuto non dispongano diversamente. La questione sarà comunque ripresa in seguito.

In tema di assemblea, è dubbio se siano in contrasto con le nuove norme inderogabili quelle clausole che considerino totalitaria l’assemblea alla quale intervengano oltre a tutti i soci, anche tutti i componenti degli organi di amministrazione e di controllo (e non la sola maggioranza di questi ultimi, come oggi prevede il comma 4 dell’art. 2366).

Si è infatti rilevato come per le società di nuova costituzione, i soci potrebbero certamente prevedere, mediante regolamentazione pattizia, presupposti più severi per l’assemblea totalitaria, conformi alla precedente disciplina, richiedendo quindi la presenza sia dell’intero organo amministrativo che dell’intero organo di controllo. Secondo autorevole dottrina(21), infatti, nulla vieta che con apposita clausola statutaria si aggiunga la necessità di ulteriori (rispetto a quelle di legge) presenze per integrare i presupposti dell’assemblea totalitaria: ad esempio, richiedendosi – se, del caso, soltanto per alcune materie (si pensi all’approvazione del bilancio) - la partecipazione di tutti gli amministratori e/o dei sindaci e/o, appunto, del revisore. In tal caso la mancata osservanza dei presupposti individuati dallo statuto, in difetto di regolare convocazione ma in presenza dei presupposti di legge per una totalitaria, porterebbe a deliberazioni giammai nulle per mancata convocazione, bensì non conformi allo statuto/atto costitutivo ai sensi degli artt. 2377 e 2479-ter, comma 1. Secondo tale opinione, non si può dire che una clausola statutaria che riproduca i vecchi presupposti dell’assemblea totalitaria - cioè la necessaria compresenza di tutti i componenti degli organi sociali, oltre che di tutti i soci - “sia nulla, perché le nuove disposizioni degli artt. 2366, comma 3, e 2479-bis, comma 5, per certo non si oppongono all’aumento dei presupposti ivi stabiliti ad opera dello statuto, per potersi rimediare ad una convocazione mancante o irregolare. Tuttavia, se si considera che la clausola statutaria intendeva riprodurre i presupposti di legge e non derogarvi, si può sostenere che possa essere oggetto di adeguamento in conformità alle nuove norme (sotto il profilo considerato) «non inderogabili»(22).

E se ciò è possibile per le società di nuova costituzione, altrettanto dovrebbe esserlo per le società già costituite alla data del 1° gennaio 2004, per cui si rientra, anche qui, nel contrasto con norme derogabili(23).

Proseguendo nell’esame della disciplina dell’assemblea, sembrerebbe da escludere il contrasto con una nuova norma inderogabile della clausola statutaria che preveda la possibilità di convocazione dell'adunanza da parte dei soci che rappresentino meno del decimo del capitale sociale (art. 2367, primo comma, il quale appunto fa riferimento al dovere per gli amministratori o per il consiglio di gestione di convocare senza ritardo l’assemblea quando ne sia stata fatta domanda da tanto soci che rappresentino almeno il decimo del capitale sociale o la minore percentuale prevista nello statuto); mentre il contrasto sussiste per quelle clausole che impongano percentuali più alte del decimo (riproducendo ad esempio il precedente quorum, previsto dall’art. 2367 vecchia formulazione, del quinto)(24). Così come il contrasto con norma inderogabile sussiste per la clausola che, in difformità da quanto oggi previsto dal comma 3 dello stesso art. 2367, consenta la convocazione su richiesta dei soci per argomenti sui quali l’assemblea a norma di legge delibera su proposta o sulla base di progetti degli amministratori.

Sono inoltre incompatibili con norme inderogabili quelle clausole che dettino regole sulle maggioranze assembleari, contrastanti con le nuove disposizioni contenute negli art. 2368 e 2369 c.c.(25)

In tema di assemblea di s.p.a. occorre, ancora, porre attenzione ad eventuali clausole statutarie attuali che stabiliscano un termine per il deposito pre-assembleare delle azioni: con la riforma il termine è stato soppresso ma l’introduzione, negli statuti di società già esistenti di una clausola che preveda siffatto deposito, potrebbe avvenire, secondo parte della dottrina, utilizzando il disposto dell’art. 223 bis, comma 3, seconda parte.

Diversamente è per le c.d. «società aperte» (società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: art. 2325 bis c.c.) la cui disciplina particolare prevede la possibilità di un termine di deposito pre-assembleare, non superiore a due giorni (art. 2370 comma 2). In tale ultima ipotesi il contrasto con la norma inderogabile riguarderebbe quindi la previsione di un termine superiore(26).

Sempre a proposito di «società aperte», in contrasto con norma inderogabile sono quelle clausole che introducano meccanismi di voto scalare o di voto massimo, che sono ammessi solo per società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il cui statuto può prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti (art. 2351, comma 3, cod. civ.)(27).

Parimenti in contrasto con norma inderogabile risultano essere quelle clausole che consentano modalità di verbalizzazione delle riunioni assembleari non conformi a quanto previsto - in particolare, con riferimento alla specificazione della posizione da ciascuno tenuta in fase di votazione - dal nuovo art. 2375, primo comma, cod. civ.(28).

Così come il contrasto con norma inderogabile dovrebbe riguardare la clausola che deroghi alla competenza del presidente dell'assemblea in ordine alla verifica della regolarità della costituzione, all’accertamento dell'identità e della legittimazione dei presenti, a regolare lo svolgimento dell’assemblea e all’accertamento dei risultati delle votazioni ex art. 2371, comma 2(29).

Infine, per chiudere il discorso sull’assemblea (ma si potrebbe ulteriormente estendere la casistica)(30), in contrasto con norme inderogabili sarebbero quelle clausole che prevedano un «sistema» di impugnazione delle delibere assembleari non conforme a quello imperativamente stabilito dagli artt. 2377 ss. c.c. (ad esempio: che escludano il diritto di impugnare una delibera annullabile in capo al socio astenuto, ovvero riconoscano detto diritto a tutti indistintamente i singoli soci, indipendentemente dalla loro quota di partecipazione)(31).

Passando poi all’amministrazione e al controllo, si sono ritenute in contrasto con norme inderogabili quelle clausole che accordino al presidente del consiglio di amministrazione poteri inferiori a quelli previsti dall’art. 2381, comma 1 (convocazione del consiglio di amministrazione, fissazione dell'ordine del giorno, coordinamento dei lavori, adeguata informazione sulle materie iscritte all'ordine del giorno), poteri che possono solo esser ampliati, ma non ristretti dallo statuto; che prevedano la delegabilità a singoli amministratori o al comitato esecutivo della predisposizione dei progetti di fusione e di scissione (art. 2381, quarto comma); che dispongano la sostituzione per cooptazione degli amministratori in mancanza di una maggioranza di amministratori nominati dall'assemblea (art. 2386, primo comma); e, infine, per le «società aperte» che prevedano che il potere di denuncia al collegio sindacale spetti ad una percentuale di soci superiore al cinquantesimo del capitale sociale (art. 2408, secondo comma)(32).

Secondo alcuni, poi, sarebbero in contrasto con norme inderogabili quelle clausole che sanciscano l'obbligo dell'amministratore non delegato in conflitto di interessi di astenersi dalla deliberazione (art. 2391, primo comma)(33). La questione tuttavia presenta dei margini di opinabilità in quanto è vero che l’obbligo di astensione dell’amministratore in conflitto di interessi non è più riprodotto nell’art. 2391 post riforma, ed è sostituito dall’obbligo di motivare adeguatamente le ragioni e la convenienza dell’operazione; ma da ciò non sembra agevolmente potersi desumere l’inammissibilità di una previsione statutaria che reintroduca il “vecchio” obbligo di astensione (naturalmente “in aggiunta” a quanto prevede la nuova normativa).

Ma anche qui, altre ipotesi potrebbero aggiungersi.

Ad esempio, negli statuti potrebbero poi rinvenirsi clausole che, riproducendo le norme ante riforma (art. 2384-bis cod. civ. richiamato dall’art. 2487 cod. civ. in tema di s.r.l.), espressamente consentano alla società di opporre ai terzi in mala fede l’estraneità rispetto all’oggetto sociale degli atti compiuti dai legali rappresentanti dell’ente.

Ma deve rilevarsi come, dal 1° gennaio 2004, la disciplina della rappresentanza sia unificata, e più non distingua gli atti rientranti nell’oggetto sociale da quelli estranei (art. 2384 e 2475 bis novellati)(34).

Sembrerebbero infine in contrasto con norme inderogabili quelle clausole contenute negli statuti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio che richiedano quozienti diversi da quelli imperativamente accordati per la tutela delle minoranze(35).

Particolare attenzione va poi rivolta alla distinzione tra controllo sulla gestione e controllo contabile, introdotta con la riforma.

Per ciò che concerne le s.p.a. (ovviamente ci si riferisce a società che, in quanto costituite prima della riforma, abbiano necessariamente adottato il sistema tradizionale), il controllo contabile è infatti, in linea generale, affidato a un revisore contabile o a una società di revisione iscritti nel registro istituito presso il Ministero della giustizia (art. 2409 bis, primo comma).

Tuttavia, per le «società aperte» il controllo contabile deve essere esercitato da una società di revisione iscritta nel registro dei revisori contabili, la quale, limitatamente a tali incarichi, è soggetta alla disciplina dell'attività di revisione prevista per le società con azioni quotate in mercati regolamentati ed alla vigilanza della Consob (comma 2); mentre, per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e che non siano tenute alla redazione del bilancio consolidato lo statuto può prevedere che il controllo contabile sia esercitato dal collegio sindacale. In tal caso il collegio sindacale è costituito da revisori contabili iscritti nel registro istituito presso il Ministero della giustizia (comma 3).

In pratica, si verrà a concretare una difformità dalla norma inderogabile per le «società aperte» che contengano clausole che attribuiscono al collegio sindacale il controllo dei conti. Dovrebbe, tuttavia, al riguardo operare il disposto del comma 5 dell’art. 223 bis per il quale le previgenti disposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia sino al 30 settembre 2004.

Per le altre società che non abbiano interesse a procedere alla nomina di un revisore o all’affidamento della funzione ad una società di revisione, è opportuna la introduzione di una clausola statutaria che affidi il controllo contabile al collegio sindacale, a condizione che tutti i sindaci effettivi siano revisori contabili.

Tuttavia va ricordato che sono proprio le modifiche apportate dalla riforma al controllo contabile della società per azioni alla base della riformulazione dell’art. 223-bis da parte del decreto correttivo(36).

4. segue: altre ipotesi di adeguamenti/adattamenti a norme inderogabili nella s.p.a. Le clausole relative al recesso, alla disciplina e alla circolazione delle azioni. Cenni sull’oggetto sociale

Fra le ulteriori ipotesi di adeguamenti a norme inderogabili nella s.p.a., rilevano anzitutto quelli in materia di disciplina del recesso, per la quale, occorre tuttavia preliminarmente ricordare come l’art. 223-vicies ter, disp. att., disponga l’esclusione del diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, per i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal comma 2 dell’art. 2437 cod. civ. ovvero dallo statuto, purché deliberate entro il 30 giugno 2004.

Vi sono, tuttavia, clausole che risultano incompatibili con la riforma.

Tali potrebbero essere quelli derivanti da clausole, già inserite negli statuti, che escludano la possibilità del recesso parziale (art. 2437, primo comma) o che riconoscano la legittimazione all’esercizio del recesso al solo socio presente dissenziente o assente, e non anche a quello presente, ma astenutosi dalla votazione (art. 2437, primo comma); o, ancora, che limitano il diritto come conseguente alle sole deliberazioni riguardanti il cambiamento dell'oggetto e del tipo di società ed il trasferimento della sede della società all'estero (art. 2437, primo comma)(37).

Ma anche quelle clausole che prevedano modalità di esercizio del recesso, di liquidazione della quota e di determinazione del valore delle azioni del socio receduto più gravose o più restrittive o comunque difformi da quelle inderogabilmente stabilite dalla legge (artt. 2437 bis, 2437 ter e 2437 quater)(38).

Allo stesso modo è dato riscontrare ipotesi di incompatibilità con la nuova disciplina per quelle clausole che prevedano in capo all’azionista che abbia trasferito azioni non liberate una responsabilità solidale con l’acquirente per un periodo inferiore a quello stabilito dall’art. 2356 c.c. (tre anni dall’annotazione nel libro dei soci dell’avvenuto trasferimento: laddove la precedente norma faceva riferimento ad un termine triennale dal trasferimento) o che nel subordinare il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali, stabiliscano regole di determinazione del corrispettivo – in ipotesi di acquisto delle azioni da parte della società o degli altri soci conseguente al rifiuto del placet – difformi da quelle previste dall’art. 2437-ter c.c. (così l’art. 2355 bis, comma 2 c.c.)(39).

Si è, inoltre, segnalato il possibile contrasto con norma inderogabile per quella clausola che preveda, in caso di comunione di azioni, che la nomina del rappresentante comune degli azionisti avvenga con modalità difformi da quelle previste dagli artt. 1105 e 1106 c.c. (oggetto di richiamo ad opera dell’art. 2347, primo comma c.c.)(40); o che accordi il diritto d’intervento in assemblea anche ai titolari di azioni senza voto o, con riferimento alle decisioni sulle quali non hanno diritto di voto, agli azionisti a voto limitato (in deroga al principio enunciato dall’ art. 2370, comma 2 c.c., secondo cui possono intervenire all'assemblea soltanto «gli azionisti cui spetta il diritto di voto»); o, infine, che consenta agli amministratori, trascorsi quindici giorni dalla pubblicazione della diffida del socio moroso – e sempre che non si opti per l’azione esecutiva nei confronti di quest’ultimo – di far vendere direttamente le azioni, senza averle preventivamente offerte agli altri soci in proporzione della loro partecipazione (come invece prescrive il primo comma dell’art. 2344 c.c.)(41).

Il novellato art. 2328 cod. civ. (così come l’art. 2463 cod. civ. in tema di S.r.l.) prevede come elemento essenziale dell’atto costitutivo “l’attività che costituisce l’oggetto sociale”: sembra tuttavia doversi escludere che la riformulazione della norma faccia sorgere un obbligo di adeguamento a norma inderogabile(42).

Riguardo alle operazioni sul capitale, si è ritenuta in contrasto con norme inderogabili sia la clausola che preveda la limitazione della riduzione volontaria del capitale solo alle ipotesi di esuberanza rispetto all'oggetto sociale (art. 2445) sia quella che stabilisca in capo ai soci sottoscrittori, in caso di aumento di capitale a pagamento, l’obbligo di versare alla società una percentuale superiore al venticinque percento del valore nominale delle azioni sottoscritte (art. 2439, comma 1)(43).

E tuttavia, in ordine all’art. 2439, va rilevato come la norma imponga l’obbligo, all'atto della sottoscrizione, di versare alla società almeno il venticinque per cento del valore nominale delle azioni sottoscritte (in luogo dei tre decimi previsti dalla precedente formulazione della norma)(44).

Si può dubitare, tuttavia, della sua effettiva inderogabilità anche «verso l’alto», posto che il versamento per legge deve essere «almeno» pari al 25%.

Secondo un’opinione, sarebbero oggetto di adeguamento a norma inderogabile quelle clausole che legittimino l’emissione di obbligazioni nel limite del capitale versato ed esistente, laddove secondo l’art. 2412 cod. civ. la società può emettere obbligazioni al portatore o nominative per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio approvato, limite che peraltro può esser superato nelle ipotesi previste dal comma 2 dello stesso articolo; nonché quelle clausole che stabiliscano che i titoli obbligazionari contengano indicazioni diverse da quelle previste dal nuovo art. 2414(45). Ma si può obiettare, quanto al primo profilo, come tale adeguamento non possa considerarsi necessitato: a ben vedere non è detto che l’ampliamento della base sulla quale calcolare il limite (massimo) dell’emissione impedisca alla società di regolare statutariamente con requisiti più rigorosi (e conformi alla precedente disciplina) detto limite.

Mentre, per ciò che concerne la liquidazione, si ritiene che le regole della fase di liquidazione della società siano inderogabili (artt. 2484 e ss.)(46).

Infine, appaiono in contrasto con norme inderogabili quelle clausole, contenute negli statuti delle «società aperte» che prevedano la devoluzione ad arbitri delle controversie fra i soci o fra questi e la società, nonché quelle promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, posto che l’art. 34 del D.lgs., 5 del 2003 permette di introdurre tali clausole negli atti costitutivi di società con eccezione di quelle che fanno ricorso la mercato del capitale di rischio(47).

5. Adeguamenti a norme inderogabili nella s.r.l.

Meno numerose - fors’anche per il più ampio spazio, rispetto a quello riconosciuto nella s.p.a, che la riforma attribuisce all’autonomia privata con corrispondente restrizione dell’ambito dell’imperatività – sono le ipotesi di «adeguamenti obbligatori» che la dottrina, all’indomani della pubblicazione del D.lgs n. 6/2003, ha individuato nella disciplina degli statuti di s.r.l. preesistenti al 1° gennaio 2004, alcuni dei quali sono già stati evidenziati come comuni alla disciplina delle s.p.a.

Fra queste ultime vi sono quelle clausole che concernono i termini per l’approvazione del bilancio di esercizio, il recesso, l’opponibilità a terzi dell’estraneità all’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori, le regole sullo scioglimento e la liquidazione non conformi alla disciplina legale.

Ma, a fianco a queste, ne sono state individuate alcune specifiche della s.r.l.

Così, ad esempio, si sono reputate in contrasto con norme inderogabili, quelle clausole (invero piuttosto improbabili) che assegnino all’organo amministrativo la competenza in ordine al compimento di ogni atto di gestione, ivi incluse quelle operazioni implicanti «una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci», che la legge rimette ora indefettibilmente alla deliberazione dei soci (art. 2479, comma 2, n. 5 c.c.)(48).

E tuttavia andrebbe a tal proposito rilevato come il contrasto si potrebbe avere solo nell’ipotesi in cui la clausola testualmente riconoscesse agli amministratori il potere di compiere ogni atto di gestione inclusi (espressamente) quelli comportanti «una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci». Giacché se la clausola fosse limitata al «compimento di ogni atto di gestione», senza ulteriori specificazioni, non si avrebbe contrasto con la citata norma, ma i profili di illegittimità potrebbero derivare solo dal concreto (e distorto) esercizio di tali poteri.

Ancora in contrasto con norme inderogabili sarebbero quelle clausole che riconoscano la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari annullabili all’organo amministrativo nella sua collegialità (anziché a ciascun amministratore individualmente, come ora previsto dall’art. 2479-ter c.c. per le decisioni dei soci – anche non assembleari – «che non sono prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo»)(49).

Infine, anche in considerazione dell’indirizzo prevalente in dottrina in ordine alla unitarietà della partecipazione sociale che emerge dal nuovo testo dell’art. 2468(50), sembra doversi dubitare della conformità a norma inderogabile della clausola statutaria che preveda la suddivisione del capitale sociale in quote che rappresentino il multiplo di una determinata unità di misura (di regola l’euro) e che attribuiscano ad esse uguali diritti.


(1) Si tralascia, in questa sede, l’esame delle disposizioni contenute nei commi 6 e 7, attinenti alla «prima fase», decorrente dalla fine di gennaio del 2003 al 31 dicembre dello stesso anno.
(2) Spada, Riflessioni sul regime transitorio del nuovo diritto delle società di capitali, in Riv. Not., 2003, 635 s.. Sul punto anche De Angelis, Modifiche statutarie obbligatorie, Relazione al Seminario di studi su “Il nuovo diritto societario nelle s.p.a. e nelle s.r.l.”, Roma 16 ottobre 2003; Abriani, Gli adeguamenti obbligatori degli statuti delle società di capitali alla riforma del diritto societario, relazione tenuta al seminario organizzato dal Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, Venezia-Mestre, 6 giugno 2003, in Società, 2003, 1306 s., 1304.
(3) Busi, Le novità in materia di aumento e di riduzione del capitale previste nella riforma, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studi sulla riforma del diritto societario, Milano, 2004, 401 ss.
(4) Abriani, op. cit., 1306 s.; Montagnani, Appunti su alcune disposizioni transitorie della riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2003, I, 644 s.; Morera, Gli adeguamenti dell’atto costitutivo e dello statuto alle nuove disposizioni in materia di s.p.a. (art. 223 bis, disp. att. c.c.), in Riv. Not., 2003, 839; Bartalena, L’adeguamento dell’atto costitutivo della s.r.l., in Società, 2004, 665 ss.
(5) Spada, op. cit., 636; Enriques – Scassellati Sforzolini, Adeguamenti statutari: scelte di fondo e nuove opprortunità nella riforma societaria, in Notariato, 2004, 69 s.
(6) Mascheroni - Ruotolo, Gli adeguamenti statutari obbligatori e facoltativi (a seguito del decreto legislativo n. 6 del 2003), in Consiglio Nazionale del Notariato, Studi sulla riforma del diritto societario, Milano, 2004, 772; Salafia, Amministrazione e controllo: le modifiche statutarie conseguenti alla riforma societaria, in Società, 2004, 137 ss.; Rescigno, Il passaggio al nuovo diritto delle società di capitali: considerazioni sparse sull’art. 223-bis e non solo, in Corr. Giur., 2004, 110, nonché gli Autori citati nelle note precedenti; in tal senso anche Circolare Assonime 23 marzo 2004, n. 13. Da ultimo,Tassinari, Il mancato adeguamento degli statuti societari alla riforma, studio n. 5166, in corso di pubblicazione.
(7) Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 772.
(8) Delineato da Spada, op. cit., 636
(9) Abriani, op. cit., 1302.
(10) Secondo Tassinari, in Caccavale, Magliulo, Maltoni, Tassinari, La riforma della società a responsabilità limitata, 2° ed., Milano, 2004, 540 ss., il legislatore, con la nuova formulazione, non ha voluto innovare il precetto dell’art. 223 bis, ma semplicemente procedere ad una interpretazione autentica.
(11) Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 780
(12) Tassinari, op.ult. cit., 540 ss..
(13) CN Milano, Massima n. 5, pubblicata ne Il sole 24 Ore, 10 marzo 2004, secondo il quale « Il “mero adattamento a norma inderogabile” si ha non solo quando il contrasto di una clausola statutaria con la nuova normativa implichi un unico modo di configurare la clausola affinché risulti conforme alla nuova normativa, ma anche quando la nuova normativa impone l’introduzione nello statuto di una clausola assente e in tale introduzione si abbiano dei margini di libertà, come avviene ad esempio per il recesso nella s.r.l. in forza dell’art. 2473 c.c. (laddove impone di disciplinarne “le relative modalità”). In simili situazioni si può dire che la regola della maggioranza semplice, motivata dalla indispensabilità dell’adeguamento, si estende inevitabilmente ai profili di discrezionalità concessi dalla disposizione alla quale viene adattata la clausola. Ciò, tra l’altro, si desume dalla constatazione che, se così non fosse, mancherebbe una vera ragione per permettere l’adattamento a maggioranza semplice, posto che una mera uniformazione alla nuova normativa inderogabile si verificherebbe sempre di diritto mediante sostituzione automatica della clausola affetta da nullità sopravvenuta.».
(14) Così circolare Assonime, 23 marzo 2004, n. 13.
(15) Sul punto Tassinari, Il mancato adeguamento degli statuti societari alla riforma, in CNN Notizie del 18 giugno 2004.
(16) Come ben evidenziato da Avagliano, Gli adeguamenti degli statuti delle società per azioni: in particolare le società bancarie, dattiloscritto.
(17) Morera, op. cit., 841.
(18) Colombo, Amministrazione e controllo, in Consiglio Notarile di Milano - Scuola del Notariato della Lombardia - Federnotizie, Il nuovo ordinamento delle società, cit., 175 ss.. Le clausole che devolvono alla competenza assembleare decisioni relative alla gestione dell’impresa sociale risultano incompatibili con i rigorosi limiti posti per le società azionarie dall’art. 2364, n. 5, c.c. (ai sensi del quale l’assemblea in sede ordinaria può deliberare soltanto «sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti»), in coerenza con il principio generale, scolpito dall’art. 2380 bis c.c, secondo cui «la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori» (e v. anche gli artt. 2409 novies e 2409 septiesdecies c.c.). Tali disposizioni vengono a delineare uno scenario normativo che impone di intervenire correttivamente non soltanto sulle clausole che (non limitandosi a richiedere mere autorizzazioni) assegnino vere e proprie competenze gestionali all’assemblea dei soci, ma altresì su quelle previsioni statutarie che lascino agli amministratori la facoltà di sottoporre discrezionalmente all’assemblea la decisione su qualsiasi fatto di gestione o ancora subordinino all’autorizzazione assembleare categorie indeterminate, o comunque troppo ampie, di operazioni inerenti all’amministrazione della società (così Abriani, op. cit., 1303). Sul punto anche Circolare Assonime, 23 marzo 2004, cit., nonché Salafia, Amministrazione e controllo: le modifiche statutarie conseguenti alla riforma societaria, cit., 139; Morera, op. cit., 841 e, diffusamente, Enriques – Scassellati Sforzolini, op. cit., 71.
(19) Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 773; Circolare Assonime, 23 marzo 2004, cit.; Abriani, op. cit., 1303; Enriques – Scassellati Sforzolini, op. cit., 71. Sul punto anche Zanelli, Della funzione notarile, dell’autonomia delle parti, della nullità inequivoca e dell’inesistenza delle condizioni previste dalla legge di riforma, in Cont. e impr., 2003, 615 s.
(20) Morera, op. cit., 841 s.
(21) Rescio, in Il sovrano in esilio: riflessioni e problemi in tema di assemblea e decisione dei soci, Consiglio Nazionale del Notariato, Studi sulla riforma del diritto societario, cit., 372.
(22) Ma vedi, riguardo alle perplessità su di una previsione statutaria di s.r.l. che stabilisca la necessaria presenza di tutti gli amministratori e dei sindaci, Magliulo, op. cit., 308, nt. 100, secondo il quale l’art. 2479-bis ultimo comma dovrebbe essere norma diretta a tutelare l’interesse, di rilevanza pubblica e pertanto sottratto alla disponibilità delle parti, della operatività della società; il che peraltro sarebbe confermato dalla circostanza che il comma 5 del citato articolo dispone che la deliberazione si intende in ogni caso validamente adottata una volta osservate le prescrizioni ivi indicate.
(23) Enriques – Scassellati Sforzolini, op. cit., 71. Ritiene invece necessario eliminare dette clausole Morera, op. cit., 842.
(24) Morera, op. cit., 842.
(25) Ad esempio, clausole che prevedano che l'assemblea ordinaria deliberi in seconda convocazione con quorum costitutivi e deliberativi superiori a quelli previsti dall'art. 2369, terzo comma, per la nomina delle cariche sociali e l'approvazione del bilancio (art. 2369, quarto comma); ovvero che prevedano per l'assemblea straordinaria in seconda convocazione un quorum costitutivo inferiore a quello di un terzo del capitale sociale ed un quorum deliberativo inferiore a quello di due terzi del capitale presente in assemblea (art. 2369, terzo comma). Sul punto, diffusamente, Abriani, op. cit., 1303; Morera, op. cit., 842. In tal senso anche Circolare Assonime, 23 marzo 2004, cit.
(26) Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 773; Morera, op. cit., 842.
(27) Abriani, op. cit., 1305.
(28) Così Abriani, op. cit., 1303. Ma anche Morera, op. cit., 842.
(29) Morera, op. cit., 842.
(30) Es., clausole che prevedano, in una società «chiusa», l’impossibilità, per una persona, di rappresentare in assemblea più di dieci soci (cfr. art. 2372, comma 6, c.c.) o che stabiliscano il diritto dei soci intervenuti in assemblea di chiedere il rinvio dell’adunanza fino ad un termine inferiore a cinque giorni (cfr. art. 2374, comma 1, c.c.).
(31) Così Morera, op. cit., 842.
(32) Morera, op. cit., 843.
(33) Morera, op. cit., 843.
(34) Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 774; Abriani, op. cit., 1302 s.;
(35) Abriani, op. cit, 1305.
(36) Per questi aspetti si rinvia ai commenti della norma in esame pubblicati all’indomani dell’entrata in vigore del decreto correttivo.
(37) Morera, op. cit., 843. In tema di s.r.l., si veda l’art. 2473. Il recesso è oggi consentito anche in rapporto alle ipotesi in cui l’atto costitutivo abbia previsto il mero gradimento (art. 2355 bis), nonché, per le s.r.l., per il caso di aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione (art. 2481 bis). La sostituzione automatica, derivante da un mancato adeguamento, andrà qui intesa come integrazione delle ipotesi di recesso statutariamente previste in origine, con le ulteriori cause introdotte dalla riforma.
(38) La sostituzione automatica riguarderà quindi la clausola recante criteri di determinazione del valore della quota da liquidare al socio receduto o un procedimento di liquidazione difformi da quelli imposti dalla riforma. Mascheroni – Ruotolo, op. cit., 776.
(39) Abriani, op. cit., 1303 s., per il quale «su un piano distinto sembrano doversi invece collocare le clausole di mero gradimento non contenenti il correttivo della necessaria designazione di un acquirente alternativo gradito: si tratta infatti di clausole la cui illegittimità era già affermata dalla prevalente giurisprudenza con riferimento all’ordinamento previgente. Al riguardo la novità introdotta dalla riforma consiste, da un lato, nella precisazione che l’obbligo di acquisto va posto “a carico della società o degli altri soci” (ma non dovrebbero esservi ostacoli a soggiungere: “o da persona concordemente indicata” dalla prima o dai secondi), dall’altro nella possibile previsione dell’ulteriore correttivo, costituito dal riconoscimento del diritto di recesso al socio che non può alienare la partecipazione per il rifiuto del gradimento».
(40) L’applicabilità in via analogica delle citate norme era già sostenuta prima della riforma dalla dottrina (per tutti, Angelici, Le azioni, in Comm. Schlesinger, Milano, 1992, 42).
(41) Per queste ipotesi Abriani, op. cit., 1304, sia pure in senso dubitativo.
(42) Paolini, In tema di oggetto sociale: spunti per una riflessione sistematica alla luce della nuova disciplina dei tipi s.p.a. e s.r.l., in Consiglio Nazionale del Notariato, Studi sulla riforma del diritto societario, Milano, 2004, 108 ss. , per la quale non appare configurabile la necessità di adeguamento delle clausole relative all’oggetto sociale negli statuti già formati ex art. 223 bis disp. att. e trans. Ritiene invece che le clausole statutarie nelle quali l’oggetto sia individuato in modo generico e indeterminato debbano essere necessariamente rivedute affinché risultino precisate in maniera dettagliata le specifiche attività economiche al cui svolgimento l’organizzazione societaria sia preordinata De Angelis, op. cit.
(43) Morera, op. cit., 844.
(44) Per un approfondimento sull’obbligo di versamento del 25 % dopo la riforma, Spolidoro, I conferimenti in danaro, in Tratt. Colombo – Portale, 1 **, Torino, 2004.
(45) Morera, op. cit., 841 s.
(46) Abriani, op. cit., 1303; Morera, op. cit., 844.
(47) Abriani, op. cit., 1305.
(48) Abriani, op. cit., 1303.
(49) Ancora Abriani, op. cit., 1303.
(50) Fra gli altri, Magliulo, in Caccavale, Magliulo, Maltoni, Tassinari, La riforma della società a responsabilità limitata, 2° ed., Milano, 2004, 33; Maltoni, ibidem, 148.

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