Capacitą del fallito e attivitą notarile
Capacità del fallito e attività notarile
di Daniela Boggiali
Consiglio Nazionale del Notariato - Studio n. 1-2008/B
Pubblicato sulla Rivista Studi e Materiali CNN, 2/2008, p. 681.

Sommario: 1. La riforma della legge fallimentare - 2. Gli effetti del fallimento sulla capacità del fallito - 3. Decorrenza degli effetti della dichiarazione di fallimento e sistema pubblicitario - 4. Gli effetti della chiusura del fallimento - 5. La responsabilità del notaio

1. La riforma della legge fallimentare

Il profilo probabilmente più rilevante - o quanto meno più ricorrente - della disciplina fallimentare per la professione notarile riguarda il tema della incapacità del fallito allorquando questi debba intervenire in atto.

La questione torna d’attualità a seguito della riforma della legge fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) e del c.d. decreto correttivo (d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), che hanno da un lato introdotto un nuovo sistema di pubblicità del fallimento (abolizione del registro dei falliti e obbligo di iscrizione della sentenza dichiarativa del fallimento nel registro delle imprese), e dall’altro lato modificato radicalmente, anche attraverso il ricorso alla esdebitazione, la cessazione dello stato di fallito.

Per verificare in che modo tali norme incidano sulla attività notarile occorre esaminare sia la legge fallimentare nella sua formulazione originaria, sia le novità introdotte con la riforma.

2. Gli effetti del fallimento sulla capacità del fallito

1) Effetti patrimoniali

L’art. 42 L.F. stabilisce che la sentenza dichiarativa del fallimento priva, dalla sua data, il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni (esclusi quelli elencati nell’art. 46).

L’articolo 42 L.F. è strettamente collegato all’art. 44 L.F., che ne rappresenta il corollario, in quanto stabilisce che gli atti compiuti dal fallito ed i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci nei confronti dei creditori.

Pertanto, in seguito alla dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 42 L.F. si verifica il c.d. “spossessamento” dei beni del fallito, il quale viene privato dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, e, ai sensi dell’art. 44 L.F., tutti gli atti compiuti dal fallito sono inefficaci e, quindi, non sono opponibili ai creditori precedenti la dichiarazione di fallimento.

Tale inefficacia prescinde tanto dalla idoneità degli atti in questione ad arrecare pregiudizio alla procedura fallimentare, quanto dallo stato di buona o malafede dei contraenti(1).

Sul piano patrimoniale il fallimento produce, quindi un duplice effetto: privativo a carico del fallito, che perde la capacità di disporre del proprio patrimonio, ed attributivo in favore del curatore, al quale in forza dell’art. 31 L.F. spetta l’amministrazione del patrimonio fallimentare(2).

L’inefficacia degli atti compiuti dopo la sentenza dichiarativa del fallimento è, inoltre, relativa, sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo.

Sul piano soggettivo, infatti, l’atto è inefficace nei confronti dei soli creditori anteriori alla dichiarazione del fallimento; sul piano oggettivo, invece, l’inefficacia colpisce i soli atti aventi ad oggetto i beni ricompresi nello spossessamento(3).

2) Effetti personali

Nel codice civile e nella legislazione speciale il fallimento costituisce causa di alcune incapacità personali, come quella di svolgere la funzione di tutore o curatore degli incapaci (art. 350 n. 5 c.c. e 393 c.c.), di amministratore di società per azioni (art. 2382 c.c.), di sindaco (art. 2399 c.c.), di rappresentante comune degli obbligazionisti (art. 2417 c.c.). Il fallito è, inoltre, escluso di diritto dalla veste di socio della società semplice, in nome collettivo e di accomandatario nella società in accomandita semplice (art. 2288 c.c., richiamato dagli artt. 2293 e 2315 c.c.).

Si deve altresì precisare che esisteva una serie di incapacità collegate alla perdita dell’elettorato attivo e passivo, la quale era una conseguenza della dichiarazione di fallimento. È, infatti, previsto in numerose disposizioni speciali il divieto per coloro che sono privi dei diritti politici, di iscriversi in albi professionali (notaio, avvocato, dottore e perito commercialista, etc.). Tuttavia, l’art. 2, n. 2, d.p.r. 20 giugno 1967, n. 2239 (che riproduceva l’art. 2, n. 2, t.u. 7 ottobre 1947, n. 1058) è stato abrogato con la riforma della legge fallimentare.

Pertanto, poiché il fallimento non costituisce più causa di perdita dei diritti politici, è diventato possibile per il fallito iscriversi negli albi professionali.

Quanto, invece, alla sopravvivenza delle altre tipologie di incapacità personali, sembrerebbe potersi distinguere fra quelle ricollegate all’iscrizione nel pubblico registro dei falliti ai sensi dell’art. 50 ante riforma, che perduravano sino alla cancellazione dal registro (esclusione dalle sale di borsa e dalla contrattazione dei titoli, incapacità all’ufficio tutelare, perdita della capacità di esercitare le professioni di notaio, avvocato, geometra, perito commerciale, ragioniere, titolare di farmacia, con conseguente cancellazione dai relativi albi; perdita dell’elettorato attivo e passivo), e incapacità che ne prescindono, discendendo esse direttamente dalla sentenza di fallimento.

Con riferimento alle norme del codice civile, ad esempio, rientra nella prima categoria l’art. 350, n. 5 (“Non possono essere nominati tutori e, se sono stati nominati, devono cessare dall'ufficio: …5) il fallito che non è stato cancellato dal registro dei falliti”).

Alla seconda categoria vanno invece ricondotti gli artt. 2382 (“Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l'interdetto, l'inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi”) e 2399 (“Non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall'ufficio: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall'articolo 2382”).

Parte della dottrina ritiene che le prime, in conseguenza dell’abolizione del registro dei falliti, siano probabilmente da considerare tacitamente abrogate, e che permangano, invece, le seconde(4).

Per l’opinione prevalente, invece, tanto le une quanto le altre restano in vigore, essendosi la riforma limitata ad eliminare le sanzioni consistenti nella perdita dell’elettorato attivo e passivo (si veda al riguardo la sentenza del 29 giugno 2006 con cui la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti elettorali del fallito e in ordine al suo diritto al libero esercizio di un'attività economica, in relazione alle incapacità derivanti dall’iscrizione nel pubblico registro dei falliti) nonché quelle ad esso collegate, come la possibilità di impieghi civili nello Stato, ecc.(5).

Tale ultima tesi sembra trovare un adeguato riscontro sul piano normativo: l’art. 1, comma 6, n. 4 della legge delega (l. 14 maggio 2005, n. 80) ha previsto, tra i principi e criteri direttivi ai quali avrebbe dovuto attenersi il legislatore della riforma, la modifica della “disciplina delle conseguenze personali del fallimento, eliminando le sanzioni personali e prevedendo che le limitazioni alla libertà di residenza e di corrispondenza del fallito siano connesse alle sole esigenze della procedura”.

La riforma della legge fallimentare, però, non ha espressamente previsto tale abolizione, ma, anzi, dal testo del nuovo art. 120 L.F. si evince espressamente la sopravvivenza di tali incapacità.

Il nuovo testo del comma 1 dell’art. 120 L.F., come modificato dal comma 3 dell’art. 9, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, dispone, infatti che “Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti al fallimento”.

La mancata abolizione esplicita delle incapacità personali da un lato, e il riferimento alla loro cessazione contenuto nell’art. 120 L.F. dall’altro, lasciano intendere che tali incapacità personali persistano anche dopo la riforma della legge fallimentare e a prescindere dall’abolizione del registro dei falliti, nonostante la legge delega ne avesse previsto l’eliminazione.

3. Decorrenza degli effetti della dichiarazione di fallimento e sistema pubblicitario

La disciplina della decorrenza degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento e degli adempimenti pubblicitari riguardanti la sentenza dichiarativa del fallimento è stata modificata con la riforma del diritto fallimentare e con il successivo decreto correttivo.

Anteriormente alla riforma della legge fallimentare, non era espressamente stabilito il momento in cui si producevano gli effetti del fallimento. In base al principi generali si riteneva che tali effetti, sia nei confronti del fallito, sia nei confronti dei terzi, si producessero dal momento del deposito in cancelleria della sentenza, mentre erano considerati del tutto irrilevanti tutti gli ulteriori adempimenti pubblicitari, quali, in particolare, quelli prescritti dall’art. 17 L.F.(6).

Il punto è ora disciplinato dal nuovo comma 3 dell’art. 16 L.F., come sostituito dall’art. 14 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con decorrenza dal 16 luglio 2006, il quale dispone espressamente che “La sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’articolo 133, primo comma, del codice di procedura civile. Gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 17, secondo comma”.

La norma in esame contiene una duplice novità: in primo luogo, si precisa espressamente che gli effetti della dichiarazione di fallimento si verificano dalla data della pubblicazione della sentenza; in secondo luogo, viene introdotta una scissione temporale tra efficacia della sentenza nei confronti del fallito, ed efficacia nei confronti dei terzi, la quale è connessa agli adempimenti pubblicitari disciplinati dall’art. 17 L.F.

Il vecchio testo dell’art. 17 L.F. (Comunicazione e pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento) stabiliva che “la sentenza che dichiara il fallimento è comunicata per estratto, a norma dell’art. 136 del codice di procedura civile, al debitore, al curatore e al creditore richiedente, non più tardi del giorno successivo alla sua data. L’estratto deve contenere il nome delle parti, il dispositivo e la data della sentenza. Nello stesso termine, uguale estratto è affisso a cura del cancelliere alla porta esterna del tribunale e comunicato al pubblico ministero, all’ufficio del registro delle imprese per l’iscrizione da farsi non oltre il giorno successivo al ricevimento, e alla cancelleria del tribunale nella cui giurisdizione il debitore è nato o la società fu costituita. L’estratto della sentenza è inoltre pubblicato nel foglio degli annunzi legali della provincia a cura del cancelliere”.

L’art. 15 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con decorrenza dal 16 luglio 2006, ha così modificato l’art. 17 L.F. (Comunicazione e pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento): “Entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, la sentenza che dichiara il fallimento è notificata, su richiesta del cancelliere, ai sensi dell’articolo 137 del codice di procedura civile al debitore, eventualmente presso il domicilio eletto nel corso del procedimento previsto dall’articolo 15, ed è comunicata per estratto, ai sensi dell’articolo 136 del codice di procedura civile, al curatore ed al richiedente il fallimento. L’estratto deve contenere il nome del debitore, il nome del curatore, il dispositivo e la data del deposito della sentenza. La sentenza è altresì annotata presso l’ufficio del registro delle imprese ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta. A tale fine, il cancelliere, entro il termine di cui al primo comma, trasmette, anche per via telematica, l’estratto della sentenza all’ufficio del registro delle imprese indicato nel comma precedente”.

Successivamente, l’art. 2 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, con decorrenza dal 1° gennaio 2008, ha aggiunto, tra i destinatari della notifica della sentenza dichiarativa di fallimento, il pubblico ministero. Pertanto, l’attuale formulazione dell’art. 17 L.F. è la seguente: “Entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, la sentenza che dichiara il fallimento è notificata, su richiesta del cancelliere, ai sensi dell’articolo 137 del codice di procedura civile al pubblico ministero, al debitore, eventualmente presso il domicilio eletto nel corso del procedimento previsto dall’articolo 15, ed è comunicata per estratto, ai sensi dell’articolo 136 del codice di procedura civile, al curatore ed al richiedente il fallimento. L’estratto deve contenere il nome del debitore, il nome del curatore, il dispositivo e la data del deposito della sentenza. La sentenza è altresì annotata presso l’ufficio del registro delle imprese ove l’imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta. A tale fine, il cancelliere, entro il termine di cui al primo comma, trasmette, anche per via telematica, l’estratto della sentenza all’ufficio del registro delle imprese indicato nel comma precedente”.

Il nuovo comma 2 dell’art. 17 L.F. modifica gli strumenti di pubblicità adeguando la disposizione ai più moderni mezzi di pubblicità e abroga le precedenti disposizioni che richiedevano l’affissione dell’estratto della sentenza alla porta esterna del tribunale(7).

La norma, infatti, elimina l’obbligo di comunicazione dell’estratto della sentenza alla cancelleria del Tribunale e abroga l’ultimo comma che prevedeva la pubblicazione dell’estratto nel foglio degli annunzi legali della provincia. Tali novità sono giustificate, quanto alla prima, dalla soppressione del pubblico registro dei falliti previsto dall’art. 50 della vecchia legge, norma ora abrogata; quanto alla seconda, dall’abolizione del foglio annunzi legali della provincia disposta dall’art. 31, comma 1, della legge 24 novembre 2000, n. 340.

In un primo momento era stato eliminato altresì l’obbligo di comunicazione dell’estratto al pubblico ministero sulla base della considerazione che normalmente il p.m. trae gli elementi di conoscenza della sentenza, ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione penale, dalla relazione del curatore trasmessagli ai sensi dell’art. 33 L.F. Tuttavia, in sede di decreto correttivo tale obbligo è stato ripristinato in vista della soppressione delle norme che prevedono l’iscrizione delle notizie relative al fallimento nel casellario giudiziale.

La principale novità della nuova disciplina consiste nell’annotazione della sentenza presso il registro delle imprese ove l’imprenditore ha sede legale e, se questa è diversa dalla sede effettiva, la medesima annotazione deve essere effettuata anche presso il registro delle imprese ove è stata aperta la procedura(8). A tal fine il cancelliere, anche per via telematica, trasmette l’estratto della sentenza al registro delle imprese. In questo modo risulta più semplice per i terzi venire a conoscenza dell’intervenuta sentenza, in quanto il registro delle imprese è consultabile anche per via telematica.

Dal combinato disposto dei nuovi artt. 16 e 17 L.F. emerge, pertanto, una scissione temporale e soggettiva nella produzione degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento.

Sotto il profilo temporale, rilevano due momenti: il deposito in cancelleria della sentenza e la sua iscrizione nel registro delle imprese. Sotto il profilo soggettivo, si ha una distinzione tra la generica produzione degli effetti della sentenza (che si verifica con il suo deposito in cancelleria), e l’efficacia verso “terzi”, che opera al momento dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Pertanto, nei confronti di soggetti diversi dai “terzi”, quali il fallito, i creditori concorsuali e gli organi della procedura (cioè, in sostanza, le parti del procedimento), il fallimento diventa efficace con il deposito della sentenza presso la cancelleria.

Per i “terzi”, ossia qualunque altro soggetto diverso dai precedenti, vale, invece, l’iscrizione della sentenza presso il registro delle imprese, e, pertanto, nei loro confronti dovrebbe trovare applicazione il principio generale sancito dall’art. 2193 c.c., in base al quale “I fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza. L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta”.

Sembra, tuttavia, necessario individuare l’ambito oggettivo di applicazione del nuovo disposto dell’art. 16, comma 2, L.F., valutando se la scissione temporale di efficacia contemplata in tale norma operi per tutti gli effetti della dichiarazione di fallimento, oppure se sia limitata soltanto ad alcuni di essi. Il fallimento, infatti, produce una pluralità di effetti, tra i quali, ai fini dell’attività notarile, rilevano in particolare quelli previsti negli artt. 42 e 44 L.F.

Tali norme non sono state modificate dalla riforma e, nel disciplinare lo spossessamento dei beni del fallito e la perdita della legittimazione a disporre degli stessi, si riferiscono espressamente alla “data” ed alla “dichiarazione di fallimento”.

L’art. 42, commi 1 e 2 L.F., infatti, stabilisce che “La sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento. Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi”.

L’art. 44, commi 1 e 2 L.F., dispone che “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori. Sono egualmente inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento”.

Dal tenore letterale di entrambe le disposizioni sembrerebbe evincersi che il momento in cui avviene lo spossessamento del fallito e quello a decorrere dal quale gli atti compiuti dal fallito sono inefficaci, sia quello della “data” della sentenza dichiarativa di fallimento.

Come si è visto, però, l’art. 16, comma 3, L.F. individua, per la produzione degli effetti della sentenza, due istanti successivi: il deposito in cancelleria e l’iscrizione nel registro delle imprese, i quali si verificano di regola in due momenti diversi rispetto alla “data” della sentenza, che viene pronunciata in camera di consiglio.

Pertanto, in base al dato letterale contenuto negli artt. 16, comma 3, 42 e 44 L.F. emergono i seguenti elementi: dalla data della sentenza, il fallito viene privato della disponibilità dei suoi beni e gli atti da lui compiuti sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al fallimento (artt. 42 e 44 L.F.); la sentenza che dichiara il fallimento produce i suoi effetti quando la stessa viene depositata in cancelleria; tali effetti sono, però, opponibili ai terzi quando la sentenza viene iscritta nel registro delle imprese (art. 16, comma 3, L.F.).

Al fine di coordinare tali disposizioni, sembrano possibili due diverse interpretazioni.

In base ad un primo orientamento, si potrebbe ipotizzare che tra gli artt. 42 e 44 L.F., da un lato, e l’art. 16, comma 3, L.F., dall’altro lato, esista un rapporto di specialità, nel senso che i primi due contengono delle disposizioni speciali e, quindi, prevalenti rispetto alla regola generale dettata nell’art. 16, comma 3, L.F.

Secondo tale interpretazione, quindi, l’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento decorre dal deposito in cancelleria e, per i terzi, dall’iscrizione nel registro delle imprese, salvo che non sia diversamente ed espressamente disposto in altre norme in riferimento a taluni effetti specifici, quali per l’appunto gli artt. 42 e 44 L.F., che prendono in considerazione la “data” della sentenza.

Viceversa, il differimento dell’opponibilità del fallimento al momento dell’iscrizione nel registro delle imprese opererebbe per taluni effetti minori, quali ad esempio l’obbligo di consegna della corrispondenza o di comunicazione del cambio di residenza o domicilio di cui agli artt. 48 e 49 L.F.

Si potrebbe, però, formulare una seconda e contraria interpretazione, in base alla quale la regola contenuta nell’art. 16, comma 3, L.F., potrebbe essere interpretata come un criterio avente carattere generale e sistematico, suscettibile di essere applicato a tutte le altre disposizioni in materia di effetti del fallimento.

Aderendo a questa interpretazione, nel caso in cui una disposizione preveda che la sentenza di fallimento debba produrre un determinato effetto, si dovrebbe ritenere che la norma si riferisca alla sentenza di fallimento ‘in quanto efficace’ in conformità a quanto stabilito in linea generale dall’art. 16, comma 3, L.F.

La scelta tra l’una o l’altra interpretazione coinvolge il problema del conflitto tra opposti interessi: quello dei creditori alla salvaguardia della garanzia patrimoniale costituita a loro favore dal patrimonio del fallito, tutelato negli artt. 42 e 44 L.F., e quello dei terzi beneficiari di atti di disposizione compiuti dal fallito nelle more tra il deposito in cancelleria della sentenza e il momento in cui la stessa è resa conoscibile attraverso il ricorso a forme di pubblicità legale, tutelato nel nuovo comma 3 dell’art. 16 L.F.

Tale questione, anteriormente alla riforma del diritto fallimentare, è stata affrontata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 in relazione all’art. 42 legge fallimentare, per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede che gli effetti del fallimento rispetto ai terzi decorrano dall’affissione della sentenza dichiarativa di fallimento, salvo prova contraria della conoscenza da parte del terzo della sentenza(9).

Nel caso di specie, l’ordinanza del Trib. Milano 17 febbraio 1994 rilevava che in base all’art. 44 L.F tutti gli atti compiuti dal fallito ed i pagamenti da lui eseguiti o ricevuti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori. Poiché questa sanzione di inefficacia è conseguenza dello spossessamento che colpisce il fallito per effetto della dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 42 L.F., essa si determina con la “sentenza di fallimento che priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni” e dunque, secondo l’interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, a far tempo dalla pubblicazione della sentenza(10).

Tale soluzione crea, però, gravi inconvenienti per il terzo che entra in contatto con il fallito e pone in essere con lui negozi giuridicamente rilevanti, in quanto la sanzione di inefficacia dell’atto prevista dall’art. 44 L.F. opera per il fatto stesso che l’atto sia stato compiuto dopo la dichiarazione di fallimento, a prescindere dal compimento delle formalità pubblicitarie della stessa.

In questo modo l’inefficacia si verifica senza alcuna garanzia di conoscenza del fallimento in capo al terzo e, quindi, senza possibilità per il terzo di scegliere preventivamente se compierlo o meno in relazione all’intervenuto fallimento. L’atto così compiuto è, in sostanza, inefficace a prescindere dalla buona fede del terzo contraente.

Tale situazione avrebbe potuto comportare l’illegittimità costituzionale degli artt. 42 e 44 L.F. per contrasto con l’art. 24 Cost. e, in particolare, per violazione del diritto di difesa nella parte in cui la disciplina prevista da tali norme priva il terzo della possibilità di essere tutelato nella propria attività negoziale, in quanto il terzo potrebbe subire l’inefficacia di un atto senza essere a conoscenza dello status di fallito dell’altro contraente.

Si era, quindi, suggerita un’interpretazione di tipo integrativo, proponendo che le norme in questione fossero dichiarate illegittime nella parte in cui non prevedevano che per i terzi gli effetti del fallimento si producessero solo con l’affissione della sentenza, salvo la prova contraria, da fornirsi evidentemente dalla curatela, della conoscenza dell’intervenuto fallimento.

La questione è stata, però, dichiarata infondata dalla Corte costituzionale sulla base del seguente rilievo: l’art. 24 Cost. tutela il diritto di difesa con riferimento ai profili processuali dell’esecuzione concorsuale, mentre lo spossessamento che colpisce il fallito per effetto della sentenza di fallimento costituisce un effetto sostanziale della sentenza, che incide su di un atto negoziale, senza coinvolgere il diritto di difesa, che opera invece sul piano processuale(11).

Tali conclusioni, cui era pervenuta la giurisprudenza, possono tuttavia essere riesaminate alla luce delle novità introdotte dalla riforma del diritto fallimentare, tra le quali viene in rilievo proprio il nuovo art. 16, comma 3, L.F., che espressamente contiene una disposizione a tutela dei terzi, stabilendo che per questi ultimi il fallimento diventa efficace dall’iscrizione della sentenza nel registro delle imprese.

L’introduzione di tale novità potrebbe essere interpretata come espressione della volontà del legislatore di realizzare una forma di tutela dell’affidamento dei terzi, riconducibile nell’ambito del principio generale in materia di atti soggetti all’iscrizione nel registro delle imprese di cui all’art. 2193 c.c.

Tale norma dispone quanto segue: “I fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza. L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta. Sono salve le disposizioni particolari della legge”.

In base a tale disposizione, gli effetti della pubblicità realizzata mediante il registro delle imprese hanno carattere “dichiarativo”, nel senso che consentono di opporre ai terzi la fattispecie iscritta a prescindere dall’effettiva conoscenza che quelli ne abbiano, realizzando pertanto una situazione giuridica di conoscibilità da cui la legge fa dipendere taluni effetti(12).

In caso di mancata iscrizione, infatti, i “fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione” non saranno opponibili da chi avrebbe dovuto richiedere tale formalità, a meno che non se ne provi la conoscenza da parte di colui al quale i “fatti” stessi si vogliano opporre; viceversa, il terzo può invocare a proprio favore la situazione reale non pubblicata, sempre che riesca a provarla. Avvenuta l’iscrizione, invece, i “fatti” iscritti saranno incondizionatamente opponibili, a nulla rilevando in contrario il fatto che colui al quale detti “fatti” sono opposti riesca a provare la sua ignoranza, anche incolpevole, al riguardo.

Qualora si applicassero tali principi in materia fallimentare, si avrebbe la seguente disciplina:

- fino al deposito in cancelleria della sentenza dichiarativa di fallimento, l’atto posto in essere è efficace e, eventualmente, soggetto alle revocatorie di cui agli artt. 64 e ss. L.F.;

- dopo il deposito della dichiarazione di fallimento, e prima dell’iscrizione della stessa nel registro delle imprese, gli atti eventualmente compiuti dal fallito sono inefficaci ai sensi dell’art. 44 L.F., ma tale inefficacia è inopponibile al terzo in forza dell’art. 16, comma 3, L.F., a meno che non venga provato che quest’ultimo ne fosse a conoscenza, secondo quanto stabilito dall’art. 2193 c.c. (sarebbe in tal caso sufficiente la prova della conoscenza del fallimento da parte del terzo, a prescindere dalla sussistenza degli eventuali ulteriori presupposti necessari per la revocatoria fallimentare);

- dopo l’iscrizione nel registro delle imprese della sentenza dichiarativa di fallimento, quest’ultimo è opponibile a chiunque e l’atto di disposizione posto in essere dal fallito è inefficace nei confronti dei creditori anteriori alla dichiarazione del fallimento(13).

Una simile interpretazione tiene conto della novità introdotta nell’art. 16, comma 3, L.F., ed appare coerente con il sistema della pubblicità legale, che da un lato pone a carico di chi vi abbia interesse l’onere di provvedere all’adempimento delle formalità pubblicitarie al fine di rendere determinati atti opponibili ai terzi, e dall’altro pone a carico dei terzi l’onere di verificare l’adempimento di tali formalità pubblicitarie, senza però ricevere un pregiudizio qualora le stesse non siano state eseguite.

Ovviamente questa soluzione espone i creditori a comportamenti fraudolenti del fallito che, anche dopo la dichiarazione di fallimento, ponga in essere atti di disposizione del proprio patrimonio in violazione dell’art. 42 L.F.

Occorre, però, considerare che tali atti impediscono al fallito di accedere al beneficio dell’esdebitazione di cui all’art. 142 L.F. e potrebbero integrare gli estremi del reato di bancarotta. Quanto, poi, agli effetti degli stessi, qualora si ritenga che il fallimento non ancora iscritto nel registro delle imprese sia inopponibile al terzo che non ne sia a conoscenza, si dovrebbe ipotizzare un’estensione della facoltà di ricorrere al rimedio della revocatoria(14).

In conclusione, alla luce delle considerazioni sinora svolte sulla questione del coordinamento delle disposizioni contenute negli artt. 16, comma 3, 42 e 44 L.F., sembrano essere sostenibili due diverse e opposte interpretazioni.

Da un lato, si può ritenere che la sentenza produca effetti verso terzi dalla data dell’iscrizione nel registro delle imprese, in conformità a quanto previsto nell’art. 16, comma 3, L.F., fatti salvi i casi in cui non sia espressamente stabilito diversamente. Lo stesso art. 2193 c.c., che disciplina gli effetti della pubblicità dichiarativa attuata attraverso il registro delle imprese, fa espressamente salve le diverse disposizioni di legge.

Pertanto, poiché gli artt. 42 e 44 L.F. menzionano, in riferimento agli effetti dagli stessi disciplinati, la “data” della sentenza, si potrebbe sostenere che gli atti compiuti dal fallito dopo tale data siano comunque inefficaci, a prescindere dall’iscrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Diversamente, si potrebbe ritenere che la regola contenuta nell’art. 16, comma 3, L.F., abbia una portata applicativa generale, suscettibile di valere per ogni effetto prodotto dalla dichiarazione di fallimento. Pertanto, nel caso in cui una disposizione preveda che la sentenza di fallimento debba produrre un determinato effetto, si dovrebbe ipotizzare che la norma si riferisca alla sentenza di fallimento ‘in quanto efficace’ in conformità a quanto stabilito in linea generale dall’art. 16, comma 3, L.F.

A tal fine si potrebbe aggiungere che anche anteriormente alla riforma del diritto fallimentare, la dottrina e giurisprudenza prevalenti ritenevano che, nonostante la lettera dell’art. 42 L.F. si riferisse alla data della sentenza, lo spossessamento si verificasse non dalla data della dichiarazione di fallimento, bensì da quella del deposito in cancelleria della sentenza(15). Poiché gli artt. 42 e 44 L.F. non hanno subito alcuna modifica, e poiché oggi l’art. 16, comma 3, L.F. specifica espressamente che gli effetti si producono dalla data del deposito o, per i terzi, da quella dell’iscrizione nel registro delle imprese, appare possibile applicare tale regola anche ai predetti artt. 42 e 44 L.F.

Bisogna, comunque, tenere presente che in assenza di specifiche indicazioni normative e di orientamenti giurisprudenziali sul punto, sembrano essere sostenibili entrambe le interpretazioni.

Il quadro normativo finora delineato necessita, poi, di essere integrato con le prescrizioni contenute nell’art. 45 L.F., il quale disciplina gli effetti del fallimento rispetto agli atti posti in essere dal fallito che sono soggetti a formalità pubblicitarie.

L’art. 45 L.F., anch’esso non modificato dalla riforma, dispone che “le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori”.

Tale norma ha lo scopo di tutelare i creditori, in quanto sancisce l’inefficacia nei loro confronti delle formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, qualora le stesse siano compiute “dopo la data della dichiarazione di fallimento”.

L’art. 45 L.F. è considerato, in campo fallimentare, l’applicazione del principio generale sancito, in sede di esecuzione individuale, dall’art. 2914 c.c., il quale stabilisce che “Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento: 1) le alienazioni di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, che siano state trascritte successivamente al pignoramento; 2) le cessioni di crediti che siano state notificate al debitore ceduto o accettate dal medesimo successivamente al pignoramento; 3) le alienazioni di universalità di mobili che non abbiano data certa; 4) le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atto avente data certa”(16).

In particolare, si è rilevato che l’art. 45 L.F. costituisce una norma di “saldatura del sistema”, in quanto consente, nelle procedure concorsuali «un’attuazione della responsabilità patrimoniale di portata non inferiore a quella che è attuata in modo specifico dall’esecuzione forzata individuale che la procedura concorsuale assorbe e perciò impedisce»(17).

Si deve, però, segnalare che il criterio di soluzione dei conflitti tra terzi e procedure esecutive previsto nelle due norme in esame, pur essendo simile nel contenuto, sul piano pratico opera in maniera diversa a seconda che si tratti di esecuzione concorsuale o individuale.

Con l’espressione “anteriori al pignoramento” usata nell’art. 2914 c.c. (nonché le similari “prima del pignoramento” e “dopo il pignoramento”, di cui, rispettivamente, agli artt. 2915 e 2916 c.c.) non si intende, infatti, il compimento del pignoramento, bensì la trascrizione dello stesso, in quanto tale trascrizione è espressamente richiesta dall’art. 2693 c.c. ed ha, limitatamente al pignoramento immobiliare (art. 555 c.p.c.), efficacia costitutiva(18).

Pertanto, nel rispetto dei principi generali in materia di pubblicità immobiliare, un atto stipulato prima della data del pignoramento, ma trascritto in data successiva alla trascrizione dello stesso, non è opponibile alla procedura fallimentare. Ne consegue che il meccanismo introdotto dall’art. 2914 si traduce nello stesso previsto negli artt. 2643 e 2684 c.c. per la risoluzione dei conflitti fra i diversi terzi aventi causa da uno stesso dante causa, il quale consiste nella priorità della trascrizione.

Diversamente nelle procedure fallimentari, la lettera dell’art. 45 L.F., non modificata dalla riforma, rende in opponibili ai creditori gli atti che, pur essendo compiuti prima del fallimento, siano stati trascritti o iscritti dopo la dichiarazione dello stesso(19).

Anche tale norma pone, quindi, un’esigenza di coordinamento con l’art. 16, comma 3, L.F., il quale stabilisce che la sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’articolo 133, primo comma, del codice di procedura civile, o dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese nei riguardi dei terzi.

Come si è visto per gli artt. 42 e 44 L.F., si potrebbe interpretare l’art. 45 L.F. in senso letterale, individuando, quindi, quale data di riferimento degli effetti del fallimento rispetto agli atti soggetti a formalità pubblicitarie, quella della pronuncia della sentenza e non, invece, quella del deposito in cancelleria e, ai fini dell’opponibilità a terzi, dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Allo stesso modo, ragioni di carattere logico e sistematico potrebbero suggerire una diversa interpretazione in base alla quale la scissione temporale e soggettiva degli effetti del fallimento prevista dall’art. 16, comma 3, L.F. debba trovare applicazione anche in merito alla fattispecie disciplinata dall’art. 45 L.F.

Si potrebbe, cioè, ritenere che l’inopponibilità ai creditori fallimentari degli atti, per i quali non sono ancora state adempiute le necessarie formalità pubblicitarie, decorra per il fallito dalla data del deposito in cancelleria della dichiarazione del fallimento, e per i terzi dalla data dell’iscrizione di tale dichiarazione nel registro delle imprese(20).

Secondo quest’ultima interpretazione, per stabilire se un atto, ancorché compiuto prima della dichiarazione di fallimento, ma soggetto a formalità pubblicitarie, sia o meno opponibile creditori, occorre far riferimento a un criterio diverso, a seconda che l’opponibilità sia fatta valere dal fallito o da un terzo. Il fallito potrà opporre i soli atti per i quali le formalità pubblicitarie siano state eseguite prima del deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento; i terzi, invece, potranno opporre gli atti per i quali le formalità pubblicitarie siano state eseguite anche dopo il deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento, ma prima della sua iscrizione nel registro delle imprese.

La tutela del terzo, attuata attraverso l’art. 16, comma 3, L.F., appare forse meno efficace rispetto a quella costituita dalla trascrizione del pignoramento nei registri immobiliari, soprattutto in considerazione del fatto che non sempre è possibile riscontrare in modo oggettivo l’esistenza dei presupposti di fallibilità in capo all’altro contraente, in presenza dei quali si rende opportuno effettuare una visura presso il registro delle imprese.

Il terzo, infatti, potrebbe non sapere che l’altro contraente sia una persona soggetta a fallimento, magari perché socio illimitatamente responsabile di società assoggettabile a fallimento. Tuttavia, la pubblicità nel registro delle imprese costituisce pur sempre una maggiore forma di garanzia per il terzo rispetto al solo deposito della sentenza presso la cancelleria del tribunale, in quanto il registro delle imprese è facilmente consultabile, anche in via telematica. Tale forma di tutela appare, inoltre, coerente con il carattere generale dello spossessamento fallimentare, il quale colpisce beni di diversa natura, mobili e immobili(21).

Qualora si aderisse alla tesi dell’applicabilità dell’art. 16, comma 3, L.F., tanto agli artt. 42 e 44 L.F., quanto all’art. 45 L.F., si verificherebbe la situazione descritta nel seguente schema riepilogativo:

Data di compimento degli atti

Regime di pubblicità

Regime di efficacia

Atti compiuti prima del deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento

Non soggetti a formalità pubblicitarie

Revocabilità ex artt. 64 e ss.

 

Soggetti a formalità pubblicitarie eseguite prima del deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento

Revocabilità ex artt. 64 e ss.

Soggetti a formalità pubblicitarie eseguite dopo il deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento, ma prima dell’iscrizione nel registro delle imprese

Inopponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento da parte del fallito; opponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento da parte dei terzi, a meno che non si provi che i terzi ne erano a conoscenza ex art. 2193 c.c.

Soggetti a formalità pubblicitarie eseguite dopo l’iscrizione nel registro delle imprese

Inopponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento tanto da parte del fallito, quanto da parte dei terzi

Atti compiuti dopo il deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento, ma prima della sua iscrizione nel registro delle imprese

Non soggetti a formalità pubblicitarie

Inopponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento da parte del fallito; opponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento da parte dei terzi, a meno che non si provi che i terzi ne erano a conoscenza ex art. 2193 c.c.

 

Soggetti a formalità pubblicitarie

Stesso regime degli atti compiuti prima del deposito in cancelleria della dichiarazione di fallimento

Atti compiuti dopo l’iscrizione nel registro delle imprese della dichiarazione di fallimento

Soggetti o meno a formalità pubblicitarie

Inopponibili ai creditori anteriori alla data del fallimento tanto da parte del fallito, quanto da parte dei terzi

Occorre, comunque, ribadire che le soluzioni sopra esposte valgono soltanto se si aderisce alla tesi che individua nell’art. 16, comma 3, L.F. una norma di portata generale, il cui ambito di applicazione comprende tutti gli effetti della sentenza di fallimento.

Appare, infine, opportuno precisare che non è stato modificato l’art. 88 L.F. il quale prevede, relativamente ai beni immobili, l’obbligo del curatore di notificare un estratto della sentenza alla Conservatoria dei Registri Immobiliari per consentirne la trascrizione(22). L’adempimento di questa pubblicità non rileva ai fini dell’opponibilità del fallimento, per la quale vale comunque la regola dettata dall’art. 16, comma 3, L.F.(23).

Quanto, infine, alle incapacità personali del fallito, in assenza di disposizioni specifiche al riguardo, e in considerazione dell’abrogazione del pubblico registro dei falliti, dovrebbe valere la regola contenuta nell’art. 16, comma 3, L.F.

4. Gli effetti della chiusura del fallimento

1) Il nuovo art. 120 L.F.

La vecchia formulazione dell’art. 120 L.F. prevedeva quanto segue:

“Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e decadono gli organi preposti al fallimento.

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi”.

L’art. 110 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, con decorrenza dal 16 luglio 2006, ha così modificato il secondo comma della norma in esame:

“Le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite.

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti.

Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all’articolo 634 del codice di procedura civile”.

Successivamente, l’art. 9 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, con decorrenza dal 1 gennaio 2008, ha aggiunto nel comma 1 dell’art. 120 L.F. le parole “e le conseguenti incapacità personali”.

L’attuale formulazione dell’art. 120 L.F., che disciplina gli effetti della chiusura del fallimento, è pertanto la seguente:

“Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti al fallimento.

Le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite.

I creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi, salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti.

Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all’articolo 634 del codice di procedura civile”.

Per effetto dei recenti interventi normativi, le conseguenze della cessazione del fallimento sulla capacità patrimoniale e personale del fallito sono disciplinate in modo unitario nell’art. 120 L.F.

Occorre, comunque, esaminare tanto gli effetti della cessazione del fallimento sul piano della capacità patrimoniale, anche alla luce dell’introduzione del nuovo istituto dell’esdebitazione, quanto gli effetti riguardanti le incapacità personali, tenuto conto dell’abolizione del registro dei falliti e della soppressione dell’istituto della riabilitazione.

2) La cessazione degli effetti patrimoniali del fallimento

Anche anteriormente alla riforma della legge fallimentare, l’art. 120 L.F. prevedeva che con la chiusura del fallimento si avesse la cessazione degli effetti dello stesso sul patrimonio del fallito e la decadenza degli organi preposti al fallimento.

Per effetto della chiusura vengono, dunque, meno gli effetti di cui agli artt. 42 e 44 L.F. e pertanto cessa lo spossessamento del fallito, che riacquista la capacità di amministrare e disporre dei suoi beni, mentre il curatore perde l’amministrazione del patrimonio fallimentare.

Ai sensi dell’art. 119 L.F., la chiusura del fallimento viene dichiarata con decreto motivato del tribunale su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio.

Il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, è intervenuto sulla norma in esame, prevedendo per il decreto di chiusura del fallimento un sistema di pubblicità ed efficacia analogo a quello stabilito per la sentenza dichiarativa di fallimento.

L’art. 9 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, ha, infatti, riscritto così i commi 2 e 3 dell’art. 119 L.F.:

“Contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta è ammesso reclamo a norma dell’articolo 26. Contro il decreto della corte d’appello il ricorso per cassazione è proposto nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dalla notificazione o comunicazione del provvedimento per il curatore, per il fallito, per il comitato dei creditori e per chi ha proposto il reclamo o è intervenuto nel procedimento; dal compimento della pubblicità di cui all’articolo 17 per ogni altro interessato.

Il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo, senza che questo sia stato proposto, ovvero quando il reclamo è definitivamente rigettato”.

Nella relazione di accompagnamento si legge quanto segue: “Lo stesso comma 2, lettera b), inserisce nell’art. 119 un comma dopo il terzo, per stabilire il momento dal quale il decreto di chiusura acquista efficacia, facendo coerente applicazione della regola generale di cui all’art. 741, primo comma, del codice di procedura civile, coordinata con la ricorribilità per cassazione, di cui al comma precedente”.

Dalla formulazione della norma si evince che il decreto di chiusura del fallimento è soggetto alle stesse forme di pubblicità previste per la dichiarazione di fallimento, ivi compresa l’iscrizione nel registro delle imprese.

Quanto, invece, alla sua efficacia, occorre distinguere a seconda che siano o meno state promosse delle impugnazioni.

In assenza di reclamo, il decreto acquista efficacia decorsi dieci giorni dalla comunicazione o dalla notificazione del provvedimento per il curatore, per il fallito, per il comitato dei creditori e per chi ha chiesto o nei cui confronti è stato chiesto il provvedimento; per gli altri interessati, tale termine decorre, invece, dall'esecuzione delle formalità pubblicitarie disposte dal giudice delegato o dal tribunale, se quest’ultimo ha emesso il provvedimento, secondo quanto dispone l’art. 26, comma 3, L.F.

Nel caso, invece, in cui sia stato proposto reclamo, occorre attendere il rigetto definitivo dello stesso.

L’art. 121 L.F. disciplina, poi, i casi di riapertura del fallimento, che può avvenire entro cinque anni dal decreto di chiusura quando il fallimento si chiude con la ripartizione finale dell’attivo, o quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura.

La riapertura del fallimento viene disposta dal tribunale, con sentenza in camera di consiglio, la quale è anch’essa soggetta alle forme di pubblicità di cui all’art. 17 L.F.

Il comma 2 dell’art. 123 L.F. stabilisce che “Sono privi di effetto nei confronti dei creditori gli atti a titolo gratuito e quelli di cui all’articolo 69, posteriori alla chiusura e anteriori alla riapertura del fallimento”.

Pertanto, anche in seguito alla chiusura del fallimento, che comporta la cessazione dello spossessamento e il riacquisto della capacità di disporre dei propri beni in capo al fallito, potrebbe verificarsi la riapertura della procedura fallimentare. In questo caso, nel lasso di tempo che intercorre tra la chiusura e la riapertura del fallimento, si ha l’inefficacia degli atti a titolo gratuito e di quelli compiuti tra coniugi ex art. 69 L.F.

Occorre, però, tenere presente che l’inefficacia conseguente alla riapertura del fallimento ha carattere eventuale, in quanto è subordinata al verificarsi dei presupposti di cui all’art. 121 L.F. (quando il fallimento si è chiuso con la ripartizione finale dell’attivo, o nel corso della procedura si è accertato che la sua prosecuzione non consentiva di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura, e quando entro cinque anni dal decreto di chiusura risulta che nel patrimonio del fallito esistano attività in misura tale da rendere utile il provvedimento o quando il fallito offre garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi).

Il carattere eventuale della riapertura del fallimento non consente, quindi, di valutare preventivamente se un atto a titolo gratuito o compiuto ex art. 69 L.F. sia destinato a divenire inefficace ai sensi dell’art. 123, comma 2, L.F.

Inoltre, la riapertura ex art. 121 L.F. è fondata su fatti e circostanze sopravvenute al venir meno della procedura, e, pertanto, non dà luogo ad una revoca del decreto di cessazione.

Ne consegue che gli effetti della chiusura del fallimento si producono in tutti i casi di cessazione della procedura, comprese le ipotesi contemplate dai nn. 3 e 4 dell’art. 118 L.F., nelle quali si potrebbe verificare la riapertura del procedimento e l’inefficacia dell’attività compiuta dall’ex fallito ai sensi del comma 2 dell’art. 123 L.F., la quale ultima ha carattere eventuale e non è suscettibile di essere accertata preventivamente(24).

La chiusura del fallimento potrebbe, poi, determinare un effetto ulteriore, il quale consiste nella liberazione del fallito dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, in base a quanto stabilito negli artt. 142-144 L.F., che disciplinano il nuovo istituto dell’esdebitazione.

L’esdebitazione è un istituto a carattere premiale, il cui effetto consiste nel rendere inesigibili nei confronti del debitore già dichiarato fallito i debiti concorsuali non soddisfatti integralmente (art. 143, comma 1, L.F.).

Essa può essere disposta nel decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore, qualora sussistano le condizioni previste dall’art. 142 L.F. (aver cooperato con gli organi della procedura, non aver in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura, non aver violato le disposizioni di cui all’articolo 48 L.F., non aver beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta, non aver distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito, non esser stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti simili).

In base all’art. 144 L.F., l’esdebitazione produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo; in tale caso, l’esdebitazione opera per la sola eccedenza alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado.

Formalmente, le norme in materia di esdebitazione hanno preso il posto di quelle sulla riabilitazione. Tuttavia, non sussiste alcun rapporto di continuità se non per la collocazione dei due istituti, i quali divergono tra loro sia nei presupposti che negli effetti: il primo determina l’inesigibilità nei confronti del fallito dei debiti concorsuali non soddisfatti integralmente; il secondo, che è stato abrogato con la riforma, faceva cessare le incapacità personali del fallito(25).

Si deve, poi, precisare che le disposizioni in materia di esdebitazione si applicano anche alle procedure di fallimento pendenti alla data del 16 luglio 2006 (data di entrata in vigore del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5).

L’art. 19 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che detta una particolare disciplina transitoria in materia di esdebitazione, dispone, infatti, quanto segue: “Le disposizioni di cui al Capo IX “della esdebitazione” del Titolo II del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni, si applicano anche alle procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5. Qualora le procedure fallimentari di cui al comma 1 risultino chiuse alla data di entrata in vigore del presente decreto, la domanda di esdebitazione può essere presentata nel termine di un anno dalla medesima data”.

3) La cessazione delle incapacità personali

Come si è in precedenza rilevato, il nuovo testo dell’art. 120, comma 1, L.F., come modificato dall’art. 9 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (con decorrenza dal 1 gennaio 2008), prevede espressamente che “Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali e decadono gli organi preposti al fallimento”.

Nella relazione di accompagnamento al d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169, si legge quanto segue: “La sostituzione – da parte del comma 3 – del primo comma dell’articolo 120 del r.d. è conseguenza dell’abrogazione dell’art. 50 e della soppressione dell’istituto della riabilitazione civile: le incapacità speciali che colpiscono il fallito non possono che cessare tutte automaticamente con la chiusura fallimento. Il nuovo primo comma dell’articolo 120 chiarisce, quindi, che con la chiusura della procedura fallimentare cessano non solo tutti gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito, ma anche tutte le conseguenti incapacità personali del fallito medesimo, qualunque sia la fonte normativa che le preveda”.

Pertanto, in seguito alla modifica introdotta nel decreto correttivo della riforma del diritto fallimentare, deve ritenersi che anche le incapacità personali conseguenti alla dichiarazione di fallimento si estinguano per effetto del decreto di chiusura del fallimento.

Anteriormente alla riforma della legge fallimentare, era invece necessaria la riabilitazione, che valeva a far cessare le incapacità personali (es. quelle previste dagli artt. 48 e 49 L.F.) che colpiscono il fallito per effetto della sentenza dichiarativa del fallimento (art. 142 L.F.).

Poiché tale istituto è stato abrogato a decorrere dal 16 luglio 2006 (data di entrata in vigore del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), è sorta la questione se per i procedimenti pendenti a tale data sia ancora necessario ricorrere alla riabilitazione del fallito o se, invece, l’entrata in vigore della nuova legge fallimentare abbia determinato la definitiva eliminazione di tale istituto, anche per i fallimenti ante riforma.

Già la prima giurisprudenza di merito formatasi sul punto aveva escluso che, per i soggetti iscritti nel registro dei falliti prima della riforma, si potesse ancora applicare il procedimento di riabilitazione.

Secondo Trib. Vicenza, 18 agosto 2006, in virtù della riforma del diritto fallimentare gli ex falliti devono essere cancellati dal registro senza che sia necessaria la domanda di riabilitazione(26).

Nel medesimo senso, lo stesso Trib. di Vicenza 20 luglio 2006 ha affermato che “il venir meno dell’istituto della riabilitazione, conseguente all’entrata in vigore della riforma della legge fallimentare, ha determinato una sorta di riabilitazione ex lege per tutti gli iscritti al registro dei falliti. E poiché le norme introdotte dalla riforma trovano in subiecta materia immediata applicazione, deve essere ordinata l’immediata cancellazione dal registro dei falliti di tutti i nominativi che vi sono attualmente iscritti”.

Nella stessa pronuncia si è altresì precisato che la norma transitoria di cui all’art. 150 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 riguarda solo le procedure di fallimento in corso (fatta eccezione per il riferimento al ricorso), ovvero tutte le fattispecie soggette ad una evoluzione processuale nell’ambito della procedura fallimentare, mentre per ciò che concerne i presupposti o condizioni di fallibilità o le conseguenze della chiusura del fallimento ovvero per le norme attributive o eliminative di status e condizioni, o della legittimazione ad agire, le norme vigenti devono intendersi già applicabili anche alle procedure pendenti o per le quali sia già stato depositato il ricorso e ciò ad evitare inique disparità di trattamento in casi in cui deve prevalere il favor personae.

Analogamente, secondo Trib. Alba, decreto 15 dicembre 2006, per effetto della abrogazione dell’istituto della riabilitazione da parte del d. lgs. n. 5/2006, che ha altresì eliminato il pubblico registro dei falliti, qualora venga proposto ricorso per riabilitazione, dovrà in ogni caso ordinarsi la cancellazione del nominativo del ricorrente dal pubblico registro dei falliti ed ordinarsi la cessazione di ogni incapacità civile derivante dalla dichiarazione di fallimento (nel caso di specie, il fallimento del ricorrente era stato dichiarato chiuso in data 3 luglio 2006).

Infine, più recentemente, Trib. Roma 31 maggio 2007, aveva affermato che il d. lgs. n. 5/2006 ha eliminato l’obbligo della cancelleria di inviare l’estratto della sentenza dichiarativa di fallimento al Casellario giudiziale ed ha abrogato le norme sulla riabilitazione del fallito. Poiché tuttavia nessuna disposizione di legge indica in quali casi l’iscrizione al Casellario giudiziale possa essere cancellata, se non si vuole affermare che la sentenza di fallimento e il decreto di chiusura debbano rimanere per sempre iscritti, ovvero che debba persistere indefinitamente il relativo effetto, in quanto nessuna riabilitazione potrà più intervenire, occorre ritenere, quale interpretazione costituzionalmente orientata, che tutte le iscrizioni pregresse debbano essere eliminate d’ufficio ovvero su ordine del giudice, mentre le sentenze successive al 16 luglio 2006 non dovranno essere comunicate – e quindi non saranno iscritte – al Casellario(27).

Sul punto è da ultimo intervenuta la Corte Costituzionale, che con sentenza del 27 febbraio 2008, n. 39, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 50 e 142 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto da tali norme deriva la sopravvivenza delle incapacità personali del fallito oltre la chiusura della procedura concorsuale.

In motivazione si rileva come le norme censurate, configurando le incapacità personali del fallito quali conseguenza automatica della dichiarazione di fallimento e, soprattutto, prevedendo il loro permanere dopo la chiusura della procedura per lungo tempo fino alla cancellazione dall’albo a seguito dell’esito favorevole del giudizio di riabilitazione, violerebbero l’art. 3 Cost., perché dispongono un’irragionevole sanzione ed equiparano situazioni diverse, prescindendo da ogni valutazione delle cause del dissesto dell’imprenditore. Per gli stessi motivi, gli artt. 50 e 142 L.F., nel testo anteriore alla riforma, contrasterebbero inoltre con i diritti della persona, con il principio della libertà di iniziativa economica e anche con le disposizioni dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo quanto ritenuto in numerose decisioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui istituzionalmente è attribuito il compito di interpretare la CEDU.

In particolare, si è sottolineato che “i sospetti di incostituzionalità si appuntano non soltanto sull’automatismo delle incapacità del fallito ma anche sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale”.

In sostanza, per effetto della riforma della legge fallimentare da un lato, e della sentenza Corte Costituzionale del 27 febbraio 2008, n. 39, dall’altro, in tutte le procedure fallimentari le incapacità del fallito cessano alla chiusura del fallimento, senza che sia necessario ricorrere alla riabilitazione, che richiedeva i cinque anni di prove effettive e costanti di buona condotta.

Se, infatti, la procedura ha avuto inizio prima del 16 luglio 2006, trova applicazione la disciplina anteriore alla riforma. In merito a tale disciplina la Corte Costituzionale, con sentenza 27 febbraio 2008, n. 39, ha però dichiarato l’illegittimità degli artt. 50 e 142 L.F. che contenevano le norme sul pubblico registro dei falliti e sulla riabilitazione. Pertanto, deve ritenersi che le speciali incapacità del fallito permangono per la sola durata della procedura fallimentare e, una volta che il fallimento sia chiuso, decadono senza che sia necessario richiedere la riabilitazione, la quale veniva riconosciuta se nei successivi cinque anni fossero state date prove effettive e costanti di buona condotta.

Nel caso, invece, di procedimento instaurato a partire dal 16 luglio 2006, trova applicazione la nuova formulazione dell’art. 120, comma 1, L.F., il quale sancisce espressamente che le incapacità personali cessano alla chiusura del fallimento.

5. La responsabilità del notaio

La riforma del diritto fallimentare non sembra aver modificato le conclusioni cui era pervenuta la dottrina, secondo la quale l’intervento in atto di un soggetto dichiarato fallito non dovrebbe incidere sulla ricevibilità dello stesso da parte del notaio.

Come si è in precedenza rilevato, la dichiarazione di fallimento produce effetti patrimoniali e personali, che consistono nella perdita della capacità di disporre dei propri beni e di rivestire determinati incarichi. In particolare, l’art. 44 L.F. sancisce espressamente l’inefficacia rispetto ai creditori di tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti o ricevuti dopo la dichiarazione di fallimento.

L’inefficacia degli atti compiuti dal fallito dopo la data della sentenza dichiarativa del fallimento non ne implica, però, l’invalidità e, pertanto, tali atti, pur essendo inopponibili ai creditori anteriori al fallimento, non devono essere considerati “proibiti dalla legge”(28).

Sul piano della ricevibilità dell’atto, ne consegue che l’intervento di un soggetto dichiarato fallito non comporta la violazione dell’art. 28 l. not., perché un simile atto è inefficace e non, invece, invalido.

Sul piano della responsabilità disciplinare, occorre verificare se possa sussistere violazione dell’art. 54 reg. not., il quale dispone che “I notari non possono rogare contratti, nei quali intervengano persone che non siano assistite od autorizzate in quel modo che è dalla legge espressamente stabilito, affinché esse possano in nome proprio od in quello dei loro rappresentanti giuridicamente obbligarsi”.

Tale norma viene interpretata nel senso che il notaio non possa ricevere atti nei quali intervengono parti la cui incapacità risulti per tabulas o da indagini ed accertamenti che la legge pone espressamente a carico del notaio stesso(29).

Occorre, però, rilevare che la dichiarazione di fallimento non priva il fallito della capacità di “giuridicamente obbligarsi” ai sensi dell’art. 54 reg. not.; gli artt. 42 e 44 L.F., infatti, non vietano al fallito di assumere obbligazioni, ma si limitano a stabilire che gli atti compiuti dopo il fallimento sono in opponibili ai creditori. Ne consegue, pertanto, che il fallito conserva la legittimazione a compiere atti in proprio nome, fatta salva l’inefficacia degli stessi nei confronti dei creditori anteriori al fallimento(30).

Si può, pertanto, concludere nel senso che il ricevimento di atti posti in essere da soggetto dichiarato fallito non costituisca violazione né dell’art. 28 l. not., né dell’art. 54 reg. not.


(1) In tal senso la costante giurisprudenza di legittimità; per tutte, Cass. 6 settembre 1996, n. 8130, in Fall., 1997, 492; Cass. 9 luglio 1994, in Fall., 1995, 161.
(2) N. Rocco Di Torre Padula, Sub art. 42, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 691.
(3) A. Jorio, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2000, 341; G. De Ferra - L. Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Comm. L. fall. Scialoja Branca, sub. Art. 42-50 Bologna-Roma, 1986, 47; F. Vassalli, Diritto fallimentare, I, Torino, 1994, 254.
(4) A. Garra, sub art. 50, in Il nuovo fallimento, a cura di F. Santangeli, Milano, 2006, 241.
(5) S. Ronco, Gli effetti del fallimento sulla persona del fallito, in Il diritto fallimentare riformato, Commento sistematico a cura di G. Schiano Di Pepe, Padova, 2007, 144; Fondazione Luca Pacioli, Circolare, La riforma del diritto fallimentare - Il fallimento: gli effetti personali per il fallito, cit.; F. Iozzo, sub artt. 48-49, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006, 749; G.U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 231, per il quale l’eliminazione del Registro – o albo – dei falliti comporta il venir meno delle limitazioni personali per il fallito, mentre debbono ritenersi sussistenti le norme che non gli consentono determinate attività, anche di ordine patrimoniale, in quanto la sua privazione dei poteri di amministrazione e disposizione dei beni non può non concernere anche l’esercizio di tali facoltà riguardo a beni di terzi.
(6) Nel senso che la sentenza dichiarativa di fallimento produce effetti sin dal deposito in cancelleria l’unanime giurisprudenza. V. per tutte Cass., 7 luglio 1981, n. 4434, in Giur. it., 1982, I, 1, 25, App. Roma, 26 settembre 1990, in Fallimento, 1981, 674; Cass., S.U. 6 agosto 1990, n. 7937, in Fall. e proc. conc., 1991, 343.
(7) Su tale punto, P. Carbone, Sub art. 17 L.F., in CNN Notizie del 23 aprile 2008.
(8) Delle due annotazioni previste dalla norma in esame, soltanto quella presso il registro delle imprese della sede legale può determinare, in senso tecnico, un’iscrizione ai sensi dell’art. 11 d.p.r. 7 dicembre 1995 n. 581, con la conseguenza che soltanto da essa conseguirà l’effetto pubblicitario previsto dall’art. 16 comma 3°, laddove l’annotazione presso il Registro della sede effettiva dell’impresa ha la sola funzione di pubblicità-notizia; v. M. Montanaro, sub art. 17, in La riforma del diritto fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, p. 97 e ss.
(9) C. cost. 6 giugno 1995, n. 228, in Fall., 1995, 1174, con nota di L. Panzani.
(10) Secondo la tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza anteriormente alla riforma del diritto fallimentare, gli effetti del fallimento decorrono non dalla data della pronuncia, ma da quella del deposito della stessa in cancelleria. In tal seno, Cass. 5 gennaio 1972, n. 27, in Dir. fall., 1972, II, 383; Cass. 18 marzo 1975, n. 1043, in Giust. civ., 1975, I, 923; Cass. 7 luglio 1981, n. 4434, in Giur. comm., 1982, II, 637 con nota di D. Vicari, Effetti della sentenza dichiarativa di fallimento e buona fede del terzo; Cass. 13 dicembre 1988, n. 6777, in Il fall., 1989, 505; Cass. 22 novembre 1991, n. 12573, in Il fall., 1992, 379; Cass. 16 aprile 1992, n. 4705, in Il fall., 1992, 911; Cass. 11 marzo 1994, n. 2382, in Il fall., 1994, 819. In dottrina nel senso della giurisprudenza maggioritaria si sono espressi A. Macchia, Decorrenza degli effetti della sentenza di fallimento, in Il fall., 1989, 552; U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, II, 623 ss.; L. Bianchi D’Espinosa, Data della dichiarazione di fallimento ed interruzione del processo, in Giur. compl. cass. civ., 1955, II, 90; P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1969, 142 ss.; P.L. Tomaiuoli, Esecutorietà ed efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento, in Giur. it., 1954, I, 2, 927; Id., Sulla data di operatività della dichiarazione di fallimento, in Foro It., 1956, IV, 252; G.U. Tedeschi, Della dichiarazione di fallimento, in Legge fallimentare, Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1974, 455 ss.; G. Di Giandomenico, Sulla data della sentenza di fallimento, in Riv. dir. comm., 1974, II, 191; U. Apice, Da quando ha effetto la dichiarazione di fallimento?, in Consulenza, 1978, 68. Esiste, poi, una tesi minoritaria, secondo la quale gli effetti della sentenza di fallimento decorrerebbero dalla data della deliberazione e non, invece, da quella del deposito in cancelleria. In tal senso, R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II, 764; V. Andrioli, voce Fallimento, in Enc. diritto, Milano, 1967, vol. XVI, 342 e ss.; C. Celoria – P. Pajardi, Commentario della legge fallimentare, Milano-Messina, 1960, I, 145 ss.; S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1990, 68. In giurisprudenza la tesi minoritaria è stata seguita da Cass. 30 maggio 1956, n. 1833, in Foro it., 1956, I, 1100; in Dir. fall., 1956, II, 275, con nota adesiva di R. Provinciali; in Giur. it., 1956, I, 1, 756, con nota critica di P.L. Tomaiuoli; da Cass. 18 marzo 1975, n. 1043, in Foro it., 1976, I, 1526.
(11) In passato, la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha sempre negato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 in relazione alla violazione del diritto di difesa. Si è affermato che il decorrere degli effetti della sentenza di fallimento dalla data del deposito e l’irrilevanza della concreta conoscenza dell’apertura della procedura concorsuale da parte dei destinatari degli atti compiuti dal fallito non contrasta con il diritto sancito dall’art. 24 Cost. in quanto si tratta di scelte del legislatore, giustificate da obiettive esigenze pubblicistiche inerenti la procedura fallimentare, che non incidono sulla tutela processuale dei diritti dei terzi e non si traducono nell’imposizione di prestazioni a loro carico, ma operano sul piano degli effetti sostanziali di determinati atti, relativamente ai rapporti con i terzi. In tal senso Cass. 7 luglio 1981, n. 4434, cit.; Cass. 13 dicembre 1988, n. 6777, cit. Nel senso della manifesta infondatezza della questione cfr. anche Trib. Palermo 27 maggio 1986, in Il fall., 1986, 1269. La questione di legittimità costituzionale era già stata posta e sempre ritenuta manifestamente infondata dal giudice a quo, con riguardo ad altre norme costituzionali, in particolare gli artt. 3, 41, 47 Cost, da Trib. Catania 31 maggio 1989, in Dir. fall., 1989, II, 1191; App. Catania 19 settembre 1986, ivi, 1986, II, 850; Trib. Catania 28 febbraio 1984, in Banca Borsa e titoli di credito, 1986, II, 110.
(12) S. Pugliatti, La trascrizione. La pubblicità in generale, in Tratt. Cicu-Messineo, XIV, Milano, 1957, 1, 223 ss. F. Ferrara-F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1993, si riferiscono a una «causa oggettiva di opponibilità» del fatto; A. Pavone La Rosa, Il registro delle imprese, Milano, 1954, 118, opera una distinzione fra efficacia dichiarativa e notificativa, che tuttavia non sembra essere stata accolta dalla dottrina successiva; G. Ragusa Maggiore, Il registro delle imprese, in Il cod. civ. Comm. Schlesinger , Milano, 1996, 118.
(13) G. Cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in La Riforma della legge fallimentare, a cura di S. Ambrosiani, Bologna, 2006, 100; F. Santangeli, Sub art. 16, in Il nuovo fallimento, a cura di Fabio Santangeli, Milano, 2006, 87; N. Rocco Di Torre Padula, Sub art. 42, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., 693 e ss.; A. Garra, Sub art. 44, in Il nuovo fallimento, cit., 221; S. Pacchi, Sub art. 42, in La riforma del diritto fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, 284, scrive «Tenendo conto dei dubbi di legittimità costituzionale (se pure ritenuti sempre infondati dalla Corte costituzionale) che in passato erano stati sollevati a proposito della decorrenza dello spossessamento dal deposito della sentenza in cancelleria e non dall’adempimento delle formalità pubblicitarie previste nell’art. 17, la Riforma ha ritenuto doveroso mettere un punto fermo nell’art. 16, comma 3, stabilendo che per i terzi gli effetti della sentenza dichiarativa decorrono dalla data dell’iscrizione nel registro delle imprese». La stessa autrice, però, Sub art. 44, cit., 292, sostiene che l’atto compiuto dopo il deposito in cancelleria della sentenza è inefficace, senza che abbia rilievo «la buona fede del terzo, perché l’esistenza della sentenza dichiarativa di fallimento – irrilevante essendo anche l’eventuale mancato rispetto degli adempimenti pubblicitari previsti per la sentenza dichiarativa di fallimento perché tale pronuncia assurge a giuridica esistenza con il deposito in cancelleria – implica la conoscenza della perdita da parte del fallito del diritto di amministrare e disporre, né l’assenza del pregiudizio come conseguenza diretta dell’atto».
(14) Tale tesi è espressamente sostenuta da L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, 99, il quale rileva quanto segue: «La sopravvivenza delle norme del 1° e 2° comma dell’art. 44 implica che gli atti compiuti dal fallito dopo il fallimento sono inefficaci indipendentemente dalla iscrizione della sentenza nel registro delle imprese. La previsione che gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data dell’iscrizione nel registro delle imprese significa però che l’inefficacia non è opponibile ai terzi di buona fede. Pertanto: a) chi, dopo la dichiarazione di fallimento, esegue in buona fede un pagamento al fallito, inefficace ex art. 44, 2° comma, rimane tuttavia liberato se la sentenza non è stata ancora iscritta nel registro delle imprese; b) chi, dopo la dichiarazione di fallimento, in buona fede riceve un pagamento od acquista un bene o un diritto in base ad un atto che è inefficace ex art. 44, 2° comma, è parimenti tutelato se la sentenza non è stata iscritta nel registro delle imprese: in tal caso la tutela dell’amministrazione fallimentare si sposta sul piano della revocabilità, dovendosi estendere il rimedio revocatorio agli atti successivi al fallimento quando nei confronti del terzo non possa essere fatta valere l’inefficacia ex art. 44».
(15) V. la precedente nt. 12.
(16) S. Satta, Diritto Fallimentare, Padova, 1990, 151; G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 159; G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1995, 154; in giurisprudenza, Cass. 5 giugno 1987, n. 4915, in Fall., 1987, 1168; Cass. 25 novembre 1982, n. 6382, in Foro it., 1983, 971; G. Cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, cit., 92 e ss.
(17) G. De Ferra, Sub art. 45, in G. De Ferra – L. Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Comm. L. fall. Scialoja Branca, sub. Art. 42-50, Bologna-Roma, 1986, 62.
(18) S. Mazzamuto, L’esecuzione forzata, in Tratt. Rescigno, 20, Torino, 1985, 218.
(19) V. da ultimo Cass. 17 marzo 2000, n. 3106 in Giust. civ., Mass., 2000, 588 secondo la quale l’opponibilità al fallimento del venditore di un suo atto di vendita immobiliare postula non solo che l’atto medesimo abbia data certa, ma anche che sia trascritto in data anteriore all’apertura della procedura concorsuale. In senso conforme cfr. Cass., 5 giugno 1985, n. 3358, in Fallimento, 1986, 150 la quale, sulla base di tale principio, ha escluso l’opponibilità al fallimento di un atto di trasferimento immobiliare trascritto in un giorno successivo, ovvero lo stesso giorno della dichiarazione di fallimento. Per un commento all’art. 45 L.F. v. Andrioli, Fallimento (dir. priv.), in Enc. del dir., XVI, Milano, 1967, p. 393.
(20) Seguono tale interpretazione N. Rocco Di Torre Padula, Sub art. 45, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., 733; A. Garra, Sub art. 45, in Il nuovo fallimento, cit., 225; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., 101. In senso contrario, S. Pacchi, Sub art. 45, in La riforma del diritto fallimentare, cit., 296.
(21) L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., 102, osserva che nel fallimento il richiamo alle regole generali sulla pubblicità immobiliare «è apparso inconciliabile con le esigenze di una procedura che investe l’intero patrimonio del debitore e priva il fallito del potere non solo di disporre di beni e diritti, ma anche di ricevere pagamenti e persino assumere obbligazioni. La soluzione seguita è stata allora quella di ricollegare la perdita del potere di disposizione – e correlativamente l’inefficacia degli atti del fallito – alla dichiarazione di fallimento: perciò il successivo acquirente di immobili non è tutelato ancorché trascriva il suo acquisto prima della trascrizione della sentenza di fallimento e purché la sentenza sia stata iscritta nel registro delle imprese».
(22) Si osservi che solo con il d. lgs. 169 del 12 settembre 2007 il legislatore ha sostituito il termine “annotato” con il più corretto “trascritto”. Era tuttavia pacifico, anche sotto la vigenza della norma precedente, che, in realtà, la sentenza andasse non annotata, bensì trascritta. Nello stesso senso si era pronunciata l’Agenzia del Territorio con la circolare n. 3 del 23 aprile 2003 (in Dir. fall., 2003, II, 525).
(23) In questo senso v. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, p. 1335; S. Satta, Diritto Fallimentare, Padova, 1996, p. 353; G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1998, p. 335.
(24) In tal senso la dottrina prevalente: G.U. Tedeschi, Della chiusura del fallimento, in Commentario Scialoja - Branca, art. 118-145, Bologna - Roma, 1977, 58; V. Andrioli, voce Fallimento (diritto civile), in Enc. Dir., 453, G. Ragusa Maggiore – C. Costa, Le procedure concorsuali. Il fallimento, III, Torino, 1997, 612.
(25) G.B. Nardecchia, Riabilitazione civile: incerte soluzioni interpretative, Nota a App. Torino 24 maggio 2007 e Trib. Palmi 16 luglio 2007, in Il fall., 2007, 1334.
(26) In Guida al dir., 2006, fasc. 39, 57, con nota di F. Silla.
(27) In tal senso si è pronunciata anche la dottrina: R. Grondona, La chiusura del fallimento, in Il diritto fallimentare riformato, Commento sistematico a cura di G. Schiano Di Pepe, Padova, 2007, 486; F. Iozzo, sub artt. 48-49, in Il nuovo diritto fallimentare, cit., 760; Fondazione Luca Pacioli, Circolare, La riforma del diritto fallimentare - Il fallimento: gli effetti personali per il fallito. Documento n. 7 del 30 marzo 2007.
(28) Si afferma, infatti, che “tutti gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono validi e vincolanti lo stesso” e che “essi sono però inefficaci rispetto alla massa dei creditori se hanno per oggetto beni e diritti ricompresi nello spossessamento” (G.F. Campobasso, Diritto commerciale, Contratti-Titoli di credito- Procedure concorsuali, Vol. 3, Torino, 1992, 323; ma sul punto possono consultarsi i contributi dottrinali di numerosi Autori, tra i quali: D. Mazzocca, Manuale di diritto fallimentare, artt. 42 e 44, Napoli, 1986; R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1970).
(29) In tal senso C. Falzone – A. Alibrandi, v. Capacità (giuridica e di agire), in Dizionario enciclopedico del notariato, Roma, 1974, 430, i quali ritengono che si abbia violazione dell’art. 54 reg. not. nei seguenti casi: quando l’incapacità della parte deve essere accertata dal notaio in base ad un obbligo di legge (ad es., art. 2022 c.c. per i titoli di credito, o l’art. 15 t.u. 14 febbraio 1963, n. 1343 in materia di debito pubblico); quando l’incapacità emerge dalle verifiche effettuate in sede di accertamento dell’identità personale delle parti (ad es. la minore età di un contraente).
(30) P. Boero, La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, Torino, 1993, 186.

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