NULLITÀ SPECIALI E RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO
NULLITÀ SPECIALI E RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO
di Mario Nuzzo
Consiglio Nazionale del Notariato - Studio n. 271-2008/C
Pubblicato in Studi e Materiali, 1/2009, 103
1. Il problema
E’ opinione diffusa che la più recente legislazione speciale introduca ipotesi di nullità dei contratti che impongono un complessivo ripensamento dei risultati tradizionalmente acquisiti in questa materia, attribuendo al nomen nullità nuove e più complesse funzioni rispetto a quella ricevuta dalla tradizione.
Ciò introduce un’interna tensione tra esigenze logico formali di coerenza del sistema, cui si collega la concezione della nullità come insieme chiuso, in cui le cause di nullità sono deducibili, in via di conseguenzialità logica, dai principi generali su cui si fonda la disciplina degli atti di autonomia privata, ed esigenze pratiche della disciplina operativa che inducono a considerare la nullità come un “prodotto” del diritto positivo che non segue astratte geometrie logiche, ma detta regole variabili in relazione alle specifiche esigenze di protezione degli interessi in gioco.
Il che sembra trovare puntuale riscontro nella legislazione speciale più recente, segnata da un lato dal gradato atteggiarsi dell’inderogabilità delle norme di settore in rapporto alla natura degli interessi protetti; dall’altro dall’emergere progressivo di norme di protezione di classi di contraenti tipicamente ritenute meritevoli di protezione.
Si pensi agli articoli 127 del Testo Unico bancario e 23 e 24 del Testo Unico dell’intermediazione finanziaria i quali configurano come relative tutte le nullità dei contratti bancari e finanziari in essi disciplinati, introducendo così una deroga sistematica al principio espresso nell’art. 1421 c.c. il quale stabilisce che, salvo diversa disposizione di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Nello stesso senso è orientata la disciplina dei contratti dei consumatori in cui l’operatività di “norme imperative di protezione”, che rispondono all’esigenza pratica di graduare il trattamento della nullità adeguandolo alla tutela degli interessi particolari di una classe di contraenti, determina, oltre che una diffusa previsione di casi di nullità relative, una generale deroga all’art. 1419 comma 1 c.c. il quale stabilisce che la nullità parziale importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte che colpita da nullità. Si afferma così il diverso principio per cui la nullità di singole clausole non determina la caducazione dell’intero contratto, ma lo stralcio delle clausole viziate, restando fermo per il resto il contratto in concreto stipulato.
Il che non esclude peraltro che, in alcuni casi, i quali pure sembrerebbero caratterizzati da identità di ratio, la legge si limiti a stabilire la nullità senza dettare regole specifiche in tema di legittimazione, ponendo così il problema dell’applicabilità per analogia delle regole in tema di nullità speciali.
Parte della dottrina ritiene infatti che, pur in presenza di una diffusa utilizzazione della nullità relativa e della nullità parziale necessaria nella legislazione speciale, il principio ordinante del nostro ordinamento positivo in tema di nullità rimanga quello disegnato dal codice civile, che pone la nullità a tutela di interessi generali (1), come tali indisponibili da parte dei privati, collegando a tale fondamento, secondo un principio di necessità logica, le regole dell’inefficacia assoluta e originaria del contratto nullo e quelle dell’insanabilità, imprescrittibilità, assolutezza della relativa azione; con la conseguenza che la nullità relativa potrebbe operare solo nei limiti positivamente definiti dall’art. 1421 c.c. e cioè nei soli casi in cui essa è espressamente prevista dalla legge. In tutti gli altri casi opererebbero invece le regole generali in tema di nullità assoluta e di nullità parziale.
In diversa prospettiva si collocano le opinioni che, pur perseguendo diverse linee di pensiero, rilevato come già all’interno del codice civile, siano individuabili regole di nullità non coerenti con i caratteri ascritti in via generale all’istituto (2), concordano nel ritenere la nullità istituto di diritto positivo mediante il quale il legislatore detta regole adeguate alle variabili esigenze di protezione degli interessi in gioco (3), non seguendo astratte geometrie logiche ma concrete esigenze operative (4); il che induce a revocare in dubbio il dogma della necessaria unità della relativa disciplina, sollecitando l’attenzione verso le norme che nel sistema del codice e nella legislazione speciale stabiliscono regole diverse in relazione alla specifica natura dell’interesse protetto (5).
La questione non ha rilievo solo teorico; essa introduce nel dialogo della dottrina una serie di riflessioni sui limiti di applicabilità della disciplina generale della nullità come riflesso della necessità di tutela differenziata dei contraenti in relazione alle loro qualità soggettive o alle oggettive esigenze di protezione del mercato in cui esse operano, inducendo a prestare maggior attenzione alle regole operative che se correttamente valutate contribuiscono significativamente a sdrammatizzare il dibattito, liberandolo da alcuni dei condizionamenti imposti dalla dogmatica più tradizionale.
La presenza di regole operative diverse per il caso di violazione di norme poste a tutela di interessi generali o invece a tutela dell’interesse di una delle parti pone il problema dell’individuazione di un nucleo di regole comuni ad entrambe le ipotesi e che sia perciò idoneo a giustificare l’uso del nomen nullità.
Proprio l’analisi della legislazione speciale e della elaborazione di essa da parte di dottrina e giurisprudenza evidenzia a mio avviso che il nome nullità indica nel sistema attuale l’insieme di regole in tema di insanabilità, imprescrittibilità, opponibilità della sentenza di nullità nei confronti dei terzi, che, in assenza di speciali disposizioni che apportino deroghe alla disciplina generale, si applica a tutti i casi di nullità, assoluta o relativa che sia.
Ciò che caratterizza le nullità speciali è dunque l’inapplicabilità delle regole in tema di legittimazione all’esercizio dell’azione di nullità di chiunque vi abbia interesse, di rilevabilità d’ufficio della nullità e di nullità parziale (6).
L’introduzione di questi principi nello stesso tessuto della disciplina generale dei contratti sembra poi confermare che, quantomeno nell’ambito dei contratti dei consumatori, le regole operative che caratterizzano le c.d. nullità speciali costituiscono attuazione di un principio generale e dunque sono suscettibili, nel silenzio del legislatore, di applicazione analogica (7), il che in concreto significa un ulteriore ampliamento dell’area di tali nullità.
Il dibattito sul tema non si è però esaurito; parte della dottrina continua infatti a ritenere che, se il discorso si imposta in termini di “validità - nullità” del contratto o della clausola considerata non si può sfuggire all’alternativa “essere - non essere” dell’atto di autonomia, sotteso a quella scelta (8), mentre solo in caso di inefficacia, non di nullità, il contratto sarebbe suscettibile di una disciplina gradata degli effetti coerente agli interessi ritenuti meritevoli di protezione.
Altra dottrina per raggiungere risultati pratici analoghi ha proposto che nei casi in cui la legge prevede testualmente casi di nullità relativa il rimedio debba essere ricondotto al concetto e alla disciplina dell’annullabilità (9).
Nessuna di queste scelte è indifferente sotto il profilo applicativo.
Negare la nullità significa infatti escludere l’applicabilità della relativa disciplina anche per le parti non espressamente derogate dalla legge; il che, ad esempio, ha indotto parte della dottrina ad ipotizzare anche di recente la possibilità di convalida delle c.d. nullità speciali, la prescrittibilità dell’azione, la non applicabilità in via analogica della disciplina della rilevabilità d’ufficio.
Queste opinioni sembrano condizionate dalla premessa logico sistematica dell’unità della disciplina della nullità dettata dagli artt. 1418 ss.c.c., il che necessariamente induce a porre il problema del confronto tra quella disciplina e ogni altra figura in termini di compatibilità – incompatibilità, finendo con l’escludere l’applicabilità diretta delle regole generali alle figure che presentano significative differenze con il fondamento e il nucleo essenziale della nullità di parte generale.
Ciò che il diritto positivo vigente sembra revocare in dubbio è però proprio la monolitica unità della categoria della nullità.
2. Storia e dogma nel concetto di nullità
Già nel sistema del codice, se si supera la tranquillizzante armonia concettuale dei risultati raggiunti, e si approfondisce l’esame della disciplina positiva all’interno della quale si svolge il pensiero della dottrina tradizionale, si nota che l’apparente unità della disciplina si dissolve con riferimento ad ipotesi particolari (10).
Anche la dottrina meno recente aveva infatti individuato, nell'ambito della disciplina della nullità, regole particolari applicabili al solo negozio illecito, affermando, ad esempio, che deve escludersi la possibilità di convalescenza del negozio illecito e che neppure è possibile la sua conversione; ciò in quanto “la conversione può avvenire soltanto nel caso che si tratta di nullità derivante per mancanza di qualche requisito materiale o formale imposto per l'efficacia dell'atto .... “.
Il che non si verifica nel negozio illecito il quale è perfetto e completo nei suoi elementi sostanziali, ma la nullità lo colpisce come sanzione repressiva dell'ordine giuridico.
A ciò si aggiunge che in caso di nullità del negozio per illiceità, nessuna delle parti può chiedere all'altra il risarcimento dei danni, in quanto secondo il nostro ordinamento l'obbligo di riparazione del danno sorge quando uno dei contraenti ignorava o poteva ignorare la causa che dà luogo alla nullità. Nel caso di negozio illecito invece la possibilità di conoscenza è in re ipsa, e d'altra parte la nullità non è imputabile ad una sola delle parti, ma ad entrambe.
La dottrina più recente dopo aver ripreso queste soluzioni alle quali in maggioranza aderisce, ha individuato altre ipotesi in cui la disciplina generale della nullità subisce deroghe in tema di negozi illeciti; si è così sostenuto che il testamento o la donazione nulla non sono suscettibili di conferma ex artt. 590 e 799 c.c. in quanto l'illiceità dell'atto del de cuius finisce sempre per riprodursi e ripercuotersi sull'atto di conferma del successore che, pertanto, risulta parimenti illecito.
Lo stesso codice stabilisce che il contratto di lavoro, benché nullo o annullabile, produce effetti per il tempo in cui ha avuto esecuzione «salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa» (art. 2126), e assoggetta a disciplina particolare la transazione illecita e la prova della simulazione quando la domanda è diretta a far valere l'illiceità del contratto dissimulato. Com'è noto la più autorevole dottrina precisa che la regola dettata in tema di transazione va estesa a tutti i negozi di composizione della lite su negozio illecito. Nella stessa prospettiva si è anche ritenuto che l'effetto c.d. sanante disciplinato dall'art. 2652, n. 6, c.c. non possa prodursi in caso di negozio illecito.
L'esame della realtà normativa sembra dunque evidenziare l'esattezza della opinione espressa da chi afferma che già nel sistema del codice civile il ricorso alla formula puramente negativa «negozio nullo», per esprimere unitariamente ogni ipotesi di insufficienza della fattispecie alla quale consegua l'assoluta inidoneità dell'atto alla produzione dei suoi effetti, tradisce la complessità che il fenomeno esprime sul piano dell’ordinamento.
Si manifesta così l'esigenza di penetrare il proprium delle singole figure considerate, muovendo dal convincimento che il legislatore nel disciplinare ciascuna di esse affronta il problema pratico della composizione di interessi divergenti, secondo modelli che l'interprete deve di volta in volta individuare, con specifico riferimento al particolare dato normativo.
Se queste osservazioni sono esatte, l'intera materia va riesaminata criticamente.
Caduta la premessa della identità delle conseguenze giuridiche discendenti dalla formula legislativa «negozio nullo», assume infatti nuovo rilievo l’indagine volta ad accertare se, in relazione ai dati concreti offerti dal nostro ordinamento, questa categoria debba ritenersi in sé chiusa e omogenea o se invece si manifestino, anche al suo interno, articolazioni che consentono distinzioni e graduazioni tra le varie figure che la tradizione scientifica riunisce sotto quel nome.
3. Disciplina delle nullità speciali e sue conseguenze sulle normative correlate
Il problema che si è così individuato non riguarda solo il tema specifico della disciplina propria della nullità; esso si estende a profili ulteriori in presenza di situazioni di contatto tra questa disciplina e l’insieme delle regole che, dando quella disciplina per presupposta, ne derivano conseguenze in altri settori dell’ordinamento.
Un esempio significativo della necessità di uno sforzo sistematico, volto a ricomporre il sistema traendo dalle discipline particolari tutte le conseguenze operative in esse implicite, emerge dalla considerazione che attiene alla stessa nozione di nullità relativa l’attribuzione al contraente protetto della facoltà di scelta tra l’esercizio dell’azione di nullità e la domanda di esecuzione del contratto. Da ciò deriva che, in quest’ultimo caso, deve ritenersi che, anche nel caso in cui la nullità consegua al difetto della forma prescritta dalla legge per la validità, il contraente protetto possa fornire la prova dell’esistenza e del contenuto dell’accordo, la quale invece sembrerebbe preclusa dall’insieme delle norme dettate dagli articoli 2725, 2729, 2739 c.c. che escludono che possa essere provato con testimoni, con presunzioni, o con il giuramento un contratto per il quale la legge prescrive la forma scritta a pena di nullità (11). Disciplina che dottrina e giurisprudenza prevalenti estendono anche alla confessione in applicazione del principio secondo cui “i contratti per i quali la legge prescrive la forma scritta ad substantiam sono nulli, e quindi giuridicamente irrilevanti se non rivestono tale forma, e pertanto, la prova della loro esistenza e dei diritti che ne formano oggetto, richiede necessariamente la produzione in giudizio della scrittura relativa”.
Risulta così evidente l’esistenza di un problema di raccordo tra disciplina delle nullità speciali e disciplina della prova, la cui soluzione assume rilievo centrale per l’effettivo funzionamento del sistema di tutela disegnato dal legislatore (12).
Anche in questo caso si tratta in sostanza di indagare quale sia la ratio fondamentale delle norme limitative della prova dei contratti per la cui validità è richiesta la forma scritta per accertare se le innovazioni introdotte nella disciplina della nullità possano consentire, in applicazione di quella stessa ratio, un’interpretazione volta a modulare la regola sulla prova in coerenza con quella sulla nullità.
E’ opinione generalmente condivisa che la disciplina dei limiti di prova del contratto a forma “vincolata” sia corollario dalla regola sostantiva che impone quella peculiare forma di esternazione dell’atto al fine della sua validità; già con riferimento al codice civile del 1865 si affermava infatti che “quando è richiesta dal codice civile la forma scritta a pena di nullità, essendo la scrittura requisito sostanziale del negozio, il suo difetto non può che comportare la nullità assoluta”. (13)
La forza della regola era allora tale da imporre il suo rispetto anche nell’ambito del diritto commerciale improntato, per le caratteristiche sue proprie, all’antiformalismo degli atti: così la dottrina non dubitava che qualora la scrittura fosse richiesta solemnitatis causa dal codice civile, neppure il carattere commerciale dell’atto potesse rendere ammissibile la prova (14) perché “un atto che non ha esistenza giuridica per la legge civile, non crediamo possa averla per la legge commerciale” (15).
Ciò in quanto “il duplice carattere di forma probante e di prova formale che è insito nella caratteristica intrinseca della scrittura, conduce storicamente e logicamente ad una specie di fungibilità fra la prova scritta e la forma simbolica, per cui di fronte alle esigenze meramente processuali di un dato ordine di rapporti giuridici, la prova scritta potrà sostituire la forma e viceversa; oppure, quando alle esigenze probatorie si aggiungeranno le esigenze sostantive, l’una si identificherà con l’altra, rendendo praticamente superflua la distinzione (pertanto effettiva e possibile) fra la ragion processuale e la ragione materiale della forma scritta richiesta “ad substantiam” (16).
Questi principi continuano ad operare nel sistema del codice vigente in cui il divieto di provare con mezzi diversi dal documento il contratto per il quale la forma è richiesta sotto pena di nullità è costruito ancor oggi come conseguenza diretta e necessaria della regola sostanziale sulla forma.
In questo senso si è sostenuto che il significato reale dell’art. 2725 comma 2 c.c. va individuato nell’eccezionale autorizzazione alla parte che abbia perduto senza sua colpa il documento che gli forniva la prova del contratto, di provvedere alla ricostruzione del documento (17), eccezione che contribuisce a confermare ulteriormente la regola sostantiva secondo cui nei contratti solenni si ritiene sussistente l’accordo negoziale – che perciò può formare oggetto di prova - soltanto nella ipotesi in cui la volontà contrattuale sia trasfusa in scrittura, consentendo non di prescindere dalla documentazione del contratto, ma piuttosto - eccezionalmente - dalla attuale esistenza del documento.
Con l’ulteriore conseguenza che ove il documento contrattuale sia stato consegnato da un contraente all’altro, che si rifiuti poi di restituirlo, resta preclusa al primo che intenda far valere i diritti scaturenti dal contratto la possibilità di ricorso alla prova testimoniale, non ricorrendo un’ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell’art. 2724, n. 3 c.c., ma un’ipotesi di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del precedente n. 2 di detta norma, con la conseguente esclusione di ogni deroga al divieto della prova testimoniale, anche se volta al limitato fine della preliminare dimostrazione dell’esistenza del documento, allo scopo di ottenere un ordine di esibizione da parte del giudice a norma dell’art. 210 c.p.c.
4. Nullità per difetto di forma e limiti alla prova
L’intero ragionamento si basa sul presupposto che, essendo la forma scritta ad un tempo elemento di esistenza dell’atto e prova dell’atto stesso, il divieto di accertare il negozio tramite qualsiasi altro mezzo istruttorio ha natura di ordine pubblico, non di interesse privato, e la sua violazione è soggetta, per ciò stesso, al regime delle nullità assolute.
Risulta così evidente che secondo questa interpretazione le regole contenute negli articoli 2725, 2729 e 2739 c.c. sono considerate conseguenza diretta e necessaria della disciplina della nullità e della logica interna che la governa la quale induce a ritenere che la nullità, da qualunque causa derivante, si risolva in irrilevanza dell’autoregolamento costruito dalle parti e dunque in inesistenza giuridica del contratto; ciò si traduce sul piano della disciplina operativa nelle regole concorrenti della legittimazione assoluta, della rilevabilità d’ufficio, della imprescrittibilità e della insanabilità della nullità.
Né potrebbe a mio avviso ritenersi che il problema possa essere aggirato aderendo alla proposta di qualificare diversamente le ipotesi qui ricondotte alla figura della nullità relativa, nell’illusione che qualificate quelle ipotesi come inefficacia, anziché come nullità, possa automaticamente ritenersi risolto il problema per l’inapplicabilità alla mera inefficacia della disciplina dettata dagli articoli 2725 ss. c.c. per il caso di nullità. Da un lato, infatti, la dottrina più attenta allo studio dell’inefficacia in senso stretto ritiene che i problemi di disciplina dell’inefficacia originaria e definitiva, quale sarebbe appunto quella conseguente al difetto della forma imposta dalla legge, vadano risolti mediante l’applicazione in via analogica delle norme che disciplinano la nullità (18); il che priva la diversa qualificazione della capacità di giustificare l’applicazione di una diversa disciplina. Dall’altro sta il fatto che la scelta del rimedio della nullità relativa corrisponde con evidenza ad una consapevole scelta del legislatore il quale specificamente collega al difetto di forma la nullità del contratto dimostrando con ciò di volere l’applicazione di tutte le regole di nullità non derogate.
Resta dunque all’interprete il compito di cercare altre soluzioni per dar coerenza al sistema risolvendo in via interpretativa i problemi di raccordo tra sistemi di regole distinti ma intrinsecamente coordinati nelle loro logiche ordinanti.
La ratio del principio per cui la nullità per difetto di forma necessariamente determina l’inammissibilità della prova con mezzi diversi dal documento del contratto nullo, è nell’incompatibilità logica tra la prova di un fatto volta al fine di fondare su di esso una pretesa e la circostanza che il fatto da provare, pur essendo storicamente avvenuto, è però in sé assolutamente inidoneo alla produzione di qualunque conseguenza giuridica.
L’intero ragionamento si regge dunque su una premessa indispensabile: che la nullità per difetto di forma sia prevista a tutela di un interesse generale e che perciò si risolva necessariamente in assoluta irrilevanza del contratto mancante della forma prescritta.
Resta da verificare se questa premessa possa valere anche per il caso delle nullità speciali. In questo caso, per definizione, la tutela è accordata ad una delle parti del contratto secondo un meccanismo incompatibile con l’irrilevanza o inesistenza giuridica del contratto mancante di forma, stante la facoltà di scelta tra esercizio dell’azione di nullità e domanda di esecuzione del contratto spettante al soggetto nel cui interesse la nullità è prevista, la quale necessariamente suppone la rilevanza e l’esistenza giuridica del contratto e la sua piena idoneità a produrre i suoi effetti tipici.
L’esistenza in diritto positivo di diverse “funzioni” del requisito di forma prescritto dalla legge, e di diversi modelli di nullità in relazione alla natura dell’interesse protetto, rafforza il convincimento che l’indagine debba essere condotta liberandosi dalle incrostazioni concettuali legate a letture basate su rigorose ma astratte premesse che portano a generalizzare il modello ritenuto più coerente alle premesse dogmatiche cui si aderisce, per prestare invece attenzione al ruolo che le norme, o i gruppi di norme considerati, assumono nel sistema, alla ratio ad esse sottesa, al valore che rappresenta per l’ordinamento.
E’ opinione diffusa che la ricostruzione tradizionale della nullità per difetto di forma si basi sostanzialmente sull’analisi delle fattispecie previste dall’art. 1350 c.c. in relazione alle quali già prima dell’entrata in vigore del codice attuale si era sostenuto che la forma ad substantiam serve principalmente come mezzo di pubblicità, ed è perciò richiesta quando sia in gioco anche l’interesse di terzi come avviene quando il contratto trasferisce diritti reali su beni immobili, collegandosi direttamente alle regole in tema di trascrizione (19); opinione fortemente condivisa dalla Relazione al codice nella quale si afferma che “in relazione all’aumento delle categorie degli atti soggetti a trascrizione è stato accresciuto il numero di quelli soggetti alla solennità della forma scritta. Salvo per quanto si riferisce al contratto di rendita perpetua o vitalizia, che, pur non essendo soggetto a trascrizione, deve farsi per iscritto, vi è parallelismo, riguardo ai contratti tra l’art. 1 della tutela dei diritti e l’art. 179 del libro delle obbligazioni” (20).
E’ in relazione a questo fondamento, e in particolare all’esigenza di tutelare gli interessi dei terzi, che la nullità per difetto di forma viene ritenuta di ordine pubblico e dunque soggetta alle regole generali della disciplina codicistica della nullità.
Ma se è così risulta altresì evidente che quando la ratio della regola di forma non è quella della tutela di interessi collettivi di cui le parti non possono disporre, ma la tutela di interessi particolari disponibili dalle parti e ciò positivamente risulta dalla norma che attribuisce al contraente protetto il potere di decidere se far valere la nullità o chiedere l’esecuzione del contratto in relazione alla sua individuale valutazione del proprio interesse, non solo cambia la regola di nullità, ma anche quella ad essa correlata sulla prova.
Se infatti il fondamento del divieto di prova dei contratti formali con mezzi diversi dal documento è nel fatto che nei contratti solenni si ritiene sussistente l’accordo negoziale – che perciò può formare oggetto di prova - soltanto nella ipotesi in cui la volontà contrattuale sia trasfusa in scrittura, mentre in mancanza di questa il contratto deve considerarsi “inesistente” e perciò non suscettibile di prova, sembra evidente che questa stessa premessa limita l’applicabilità della regola alle ipotesi di nullità che si coordinano alla tutela di interessi generali, non disponibili dalle parti e perciò assoggettate alle regole della legittimazione di chiunque abbia interesse all’esercizio dell’azione, della rilevabilità d’ufficio della nullità, della sua insanabilità e imprescrittibilità.
Una regola diversa dovrà applicarsi invece ai casi in cui la funzione della regola di forma è la tutela di interessi che per legge restano nella disponibilità della parte. In questo caso, infatti per rendere effettiva questa tutela non basta l’applicazione di una regola speciale in tema di nullità ma è necessario che l’intera disciplina, e dunque anche quella della prova, sia coordinata con la natura e con la qualità del potere attribuito alle parti; con la conseguenza che in caso di nullità relativa dovrà riconoscersi alla parte legittimata all’esercizio dell’azione anche il potere di provare con ogni mezzo l’esistenza e il contenuto del contratto o della clausola di cui eventualmente chiede l’esecuzione.
Si manifesta così un’ulteriore duttilità del sistema che pur in mancanza di una espressa previsione legislativa consente, in via interpretativa, di articolare la regola dell’art. 2729 c.c. in relazione ai diversi modelli di nullità oggi esistenti nel nostro ordinamento e alla natura degli interessi sottesi a ciascuno di essi. Si distingue infatti tra il caso della nullità assoluta, cui il divieto di prova con mezzi diversi dal documento si applica con tutto il suo rigore, e il caso della nullità relativa in relazione alla quale va invece distinta: a) la regola da applicare nel caso in cui la parte cui è attribuita la scelta tra nullità ed esecuzione del contratto scelga la nullità, con la conseguenza che troverà applicazione la regola del divieto di prova del contratto o della clausola carenti di forma dai quali nessuno potrà trarre vantaggio o danno, stante la sua assoluta inidoneità alla produzione di effetti giuridici; b) la regola da applicare nel caso in cui il contraente protetto chieda l’esecuzione del contratto o della clausola nella quale invece, essendo il contratto produttivo dei suoi effetti, dovrà ritenersi che ciascuna delle parti sia ammessa alla prova in relazione al proprio interesse sostanziale.
Questa constatazione, rendendo evidenti i nessi tra discipline formalmente diverse ma intimamente collegate, fornisce uno schema di ragionamento utilizzabile anche in altre direzioni, a cominciare dai problemi relativi al coordinamento tra la disciplina delle nullità speciali e il principio di insanabilità del negozio nullo.
5. Il problema della sanatoria
L'idea della insanabilità costituisce, secondo la tradizione, conseguenza necessaria della concezione della nullità come reazione dell’ordinamento alla violazione o elusione di norme poste a tutela di interessi generali, per definizione indisponibili da parte dei privati. Da ciò la necessità logica, prima ancora che per scelta del legislatore, della non convalidabilità del negozio nullo e l’effetto solo processuale e non sostanziale della rinunzia all’azione di nullità, che può produrre solo perdita della legittimazione del rinunziante all’esercizio dell’azione, ferma l’inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti tipici, la legittimazione di chiunque altro abbia interesse a far valere la nullità e la sua rilevabilità d’ufficio. Si osserva infatti che ove fosse consentito un diverso effetto risulterebbe vanificato il principio d'indisponibilità delle cause di nullità e svuotata sul piano dell’effettività la sostanza dell'art. 1423 cod. civ. (21).
L’unica via per recuperare un negozio nullo è la sua ripetizione o rinnovazione che, ove ciò sia possibile, realizza l’eliminazione della causa di nullità (22). In coerenza con le premesse dogmatiche appena ricordate non si realizza, in tal modo, alcun effetto sanante e il nuovo negozio può produrre effetti soltanto ex nunc. Il che si verifica anche quando il meccanismo si attui mediante rinvio alle pattuizioni del titolo nullo che non vengono riprodotte per esteso nel nuovo atto (23); si afferma infatti che anche in questo caso non è il negozio nullo a produrre gli effetti conseguenti al regolamento in esso contenuto, costituendo esso “elemento completivo di una nuova e separata fattispecie, in quanto documento attestante il contenuto di una vicenda effettuale riferibile ad un altro titolo (24)”.
Il progressivo e sempre più accentuato emergere di casi di nullità non coerenti con questo disegno complessivo indebolendo le premesse dogmatiche della costruzione rimette in discussione queste regole operative, sostituendo anche qui all’idea dell’impossibilità logica di una sanatoria dell'atto nullo quella di una scelta del legislatore destinata ad operare solo nei limiti delle norme in cui positivamente si esprime. Parte della dottrina deduce da ciò che l’art. 1423 c.c. significa solo quanto in esso è espresso, e cioè che il contratto nullo non si può convalidare “se la legge non dispone diversamente”.
Si apre così una diversa linea di ricerca che tenta di svincolarsi dalle rigidità delle soluzioni tradizionali con una linea di ragionamento che, per attenuare il carattere “eversivo” delle proprie proposte, si lega alla lettera della norma osservando che “un'interpretazione antiletterale non è in grado di reggersi e di prosperare sic et simpliciter su di un assioma, per quanto autorevole questo abbia ad essere” (25).
Su questa base l’indagine si volge alla ricognizione dei meccanismi di sanatoria diversi dalla convalida in concreto disciplinati dal diritto positivo.
(26) L’analisi può utilmente prendere le mosse dall’art. 15 comma 8 D. lgs. 19 agosto 2005 n. 192 il quale stabilisce che in caso di violazione dell'obbligo previsto dall' art. 6 , comma 3 il contratto è nullo e la nullità può essere fatta valere solo dal compratore; com’è noto l’art. 6 comma 3 stabilisce che “nel caso di trasferimento a titolo oneroso di interi immobili o di singole unità immobiliari già dotati di attestato di certificazione energetica [...] detto attestato è allegato all'atto di trasferimento a titolo oneroso, in originale o in copia autenticata” (27).
Secondo l’opinione comunemente condivisa, la ratio della norma va individuata nell’interesse a creare una corretta informazione sui costi energetici considerata idonea a innestare un circuito virtuoso che, attraverso l’incidenza del contenimento di tali costi sul valore economico del bene oggetto del contratto (28), favorisce la scelta di sistemi capaci di favorire il risparmio energetico.
A tal fine la norma stabilisce che, per la stipula, è necessaria l'esibizione al notaio del documento richiesto; non sono, dunque, sufficienti per evitare la nullità né la semplice dichiarazione del notaio di aver riscontrato l'esistenza del documento stesso, né l'autodichiarazione della parte.
Il sistema presenta qualche analogia con quello disciplinato dall'art. 46 del T.U. n. 380/2001 in materia edilizia il quale stabilisce un regime di nullità assoluta per tutti gli atti che, in forma pubblica o privata, costituiscono o trasferiscono diritti reali su beni immobili e che non rechino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Lo stesso articolo al comma 4 prevede però che tali atti possano essere confermati anche da una sola delle parti, mediante un atto successivo, della stessa forma del precedente e contenente la menzione omessa, nel caso la mancata menzione degli estremi del pregresso non sia dipesa da un'insussistenza oggettiva dello stesso al tempo della stipula. Si tratta di un'integrazione formale successiva di un contratto nullo, per legge “sanabile” mediante la posteriore acquisizione del requisito documentale mancante (29), il che consente al titolo di produrre l’ effetto traslativo cui è diretto.
Un sistema analogo è infine previsto dall'art. 30 comma 2 del T.U. 380/2001 il quale commina la nullità per gli atti che non alleghino all'atto rogato un valido certificato di destinazione urbanistica. Il comma 4 bis (30) dell'art. 30 prevede infatti che tali negozi possano essere confermati mediante un successivo atto che abbia gli stessi requisiti di forma del pregresso e che riporti il documento mancante.
La presenza di queste norme pone un problema di carattere generale; si tratta di stabilire se da esse possa trarsi un principio che rende la disciplina operativa prevista per queste fattispecie applicabile anche a casi non espressamente regolati ma rispetto ai quali può rilevarsi identità di ratio.
In concreto si tratta, ad esempio, di stabilire se il meccanismo di sanatoria sopra esposto possa applicarsi analogicamente in caso di mancanza dell’attestato di certificazione energetica.
Per questa via il problema torna ai problemi generali in tema di nullità di cui si è in precedenza discusso.
Se infatti si ritiene coessenziale all’idea di nullità la violazione di interessi generali ad opera del negozio nullo e, in relazione a ciò l’assoluta inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti tipici, la rilevabilità della nullità da chiunque vi abbia interesse, la rilevabilità d’ufficio della nullità e la sua insanabilità, con la conseguenza di qualificare tutte le norme che introducono deroghe a questo regime come norme eccezionali e dunque di stretta interpretazione e non suscettibili di applicazione analogica, la soluzione più “liberale deve necessariamente escludersi (31).
Questa conclusione non è invece necessaria se si tiene conto più che del dogma, della realtà operativa del nostro ordinamento.
E’ opinione ormai comunemente condivisa che il sistema complessivo abbia subito ad opera della legislazione speciale, e anche ad opera di modifiche introdotte nel corpo del codice civile, articolazioni sconosciute alla tradizione, in relazione alle quali possono individuarsi gruppi di regole o blocchi di legislazione speciale i quali non rispondono alla ratio che fonda la disciplina generale dei contratti fissata nel codice civile, ma tende ad attuare interessi diversi, spesso di rilievo anche costituzionale.
Se così è, anche i concetti di norma speciale ed eccezionale subiscono variazioni, nel senso che ciò che è eccezionale rispetto ai principi codicistici ricevuti dalla tradizione può non esserlo rispetto ai principi che governano, in attuazione di interessi pure generali, uno specifico settore; con la conseguenza che le norme che a questo si riferisco possono, al suo interno, essere applicate analogicamente.
In questa chiave il problema dell’applicazione analogica delle norme prima ricordate si pone in diversa prospettiva.
Esse sono infatti volte alla tutela del sistema urbanistico e della qualità delle costruzioni in esso realizzate vietando la circolazione di fabbricati che non siano conformi a standard minimi ritenuti rilevanti a tal fine (32).
Se così è può anche ipotizzarsi un passaggio successivo.
Nei casi di nullità relativa potrebbe infatti ritenersi che sia coerente al sistema di equilibrio tra gli interessi in gioco che la norma tende a realizzare una soluzione volta a sostenere che il venir meno dell'interesse del soggetto protetto dalla norma ad agire in giudizio per far valere la nullità in quanto l’interesse protetto dalla norma si è pienamente realizzato, determinando il venir meno della possibilità di far valere il vizio non rilevabile d’ufficio dal giudice in presenza di una dichiarazione espressa della parte di volersi avvalere degli effetti del contratto, consenta in via definitiva la produzione degli effetti negoziali tipici. Con la conseguenza che anche il contratto successivamente rogato potrà ritenersi valido e pienamente produttivo degli effetti cui è volto.
6. L’art. 28 della legge notarile e gli orientamenti della giurisprudenza
Considerazioni in parte analoghe possono farsi anche con riferimento ai problemi relativi all’applicabilità alle nullità speciali dell’art. 28 L.N.
Com’è noto in una prima fase la giurisprudenza era costante nel ritenere che l'art. 28, 1° comma, n. 1, l. 16 febbraio 1913, n. 89, che vieta al notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico, si riferisse non solo agli atti specificamente vietati, ma a tutti gli atti contrari a disposizioni di legge e, cioè, non aderenti alle norme giuridiche di ordine formale e sostanziale per essi previste a pena di nullità o annullabilità (33).
Successivamente questo orientamento è stato superato da un diverso indirizzo più sensibile alle linee evolutive che si sono appena delineate. Si è così affermato che il divieto imposto dall'art. 28 comma primo n. 1 della l. 16.2.1913, n. 89 di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, attiene ad ogni vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell'atto, con esclusione, quindi dei vizi che comportano l'annullabilità o l'inefficacia dell'atto, ovvero la stessa nullità relativa (34).
Si osservò infatti che se nessuno mette in dubbio, infatti, che il notaio (come qualunque altro pubblico ufficiale) debba ispirare la sua attività al pieno rispetto della legge, ciò non significa che ogni violazione di tale obbligo, che sia causa di invalidità del negozio, debba essere punita con le sanzioni previste per la violazione dell'art. 28, specie in presenza nella stessa legge notarile di altre norme le quali puniscono con sanzioni meno gravi specifiche violazioni che pure comportano l'invalidità del negozio.
Da ciò un'interpretazione dell'art. 28 c. 1 L.N. più coerente alla sua ratio quale risulta, in primo luogo, dai lavori preparatori dai quali risulta che il ministro Zani propose di modificare il n. 1 dell'art. 28 cit., sostituendo alla dizione "atti espressamente vietati dalla legge" una diversa formula con la quale si precisava che "per i negozi che non hanno o non potrebbero avere efficacia giuridica, o che comunque sono in qualsiasi modo suscettibili di impugnativa per nullità, revocazione, rescissione, il notaio ha l'obbligo di avvertire di ciò le parti prima di procedere al compimento dell'atto e riceverà l'atto solo quando esse insistano, facendo menzione di questo avvertimento da lui fatto e delle risposte avute".
Tale proposta non venne trasfusa nel testo definitivo, non perché si ritenne di dover punire con particolare severità qualsiasi inosservanza della legge da parte del notaio, che potesse riflettersi sull'invalidità o inefficacia dell'atto rogato, ma perché, come specificò il ministro Finocchiaro - Aprile, che succedette a Zani, la dizione dell'art. 28 n. 1 doveva intendersi in senso restrittivo, riservando il giudizio in ordine alla mera impugnabilità dell'atto o alla sua inefficacia all'esclusiva competenza del giudice.
A ciò va aggiunto che la formula dell'art. 28 n. 1 l. not. corrisponde a quella dell'art. 24 del precedente testo unico del 1879 n. 4900, che ripeteva quella dell’art 1122 c.c. 1865 il quale stabiliva la nullità per illiceità della causa in caso di violazione di leggi proibitive, o quando essa è “contraria ai buoni costumi o all'ordine pubblico".
Nel sistema del passato codice la nozione di "leggi proibitive" aveva una portata rigorosa individuando “le norme che impongono insormontabili divieti, ponendosi al vertice dei valori protetti dall'ordinamento; cosicché la loro violazione rende il contratto illecito”.
Il che sembra trovare oggettiva conferma nel rilievo che l'art. 28 n. 1 menziona, oltre agli atti espressamente proibiti dalla legge, anche quelli contrari al buon costume o all'ordine pubblico, indicando con ciò che i tre parametri di valutazione si pongono sullo stesso piano e dunque si riferiscono ai casi cui sia il codice attuale che quello previgente determinano la nullità assoluta dell’atto.
A ciò la Cassazione aggiunge che “non si può trascurare il fatto che gli "atti proibiti dalla legge" non possono coincidere con gli atti annullabili i quali possono essere suscettibili di convalida o di ratifica e comunque, prima che intervenga una sentenza di annullamento, producono gli effetti di un atto valido, e, prescritta l'azione di annullamento, acquistano la piena efficacia di un atto valido ab inizio. Il che comporta che considerarli atti proibiti dalla legge sarebbe un assurdo, in quanto significherebbe che la legge da un lato proibisce che essi vengano posti in essere, però dall'altro riconosce loro, se stipulati, efficacia giuridica”.
Argomenti cui si aggiunge il rilievo del carattere eccezionale dell’art. 28 l. not. rispetto all'obbligo di prestare la propria attività stabilito dall’art. 27 della stessa legge che sembra confermare ulteriormente l’interpretazione restrittiva della norma in esame.
La più recente legislazione sembra infine confermare quest’orientamento: si pensi agli artt. 17 e 18 legge 28.2.1985, n. 47 (in tema di condono edilizio), che, oltre a parificare espressamente l'atto pubblico alla scrittura privata autenticata, parlano di atti che "sono nulli e non possono essere stipulati" (analogamente l'art. 40), salva tuttavia la precisazione contenuta nell'art. 21, secondo cui l'art. 28 l. not. non si applica nel caso di atti "convalidabili", cioé nelle ipotesi in cui sia possibile la "conferma", di cui all'art. 17, c. 4 (il che equivale a dire che in tali casi l'atto è ricevibile dal notaio).
Da ciò la conclusione che gli "atti proibiti dalla legge" sono solo quelli posti in essere in violazione di norme che hanno valore assoluto, tale da non consentire possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuno dei destinatari della norma.
Tali sono tutte le ipotesi di nullità “generale” riconducibili alla disciplina dettata dagli articoli 1418 s.s. c.c., con l’avvertenza che l'avverbio "espressamente", che nell'art. 28 comma 1 l. not. qualifica la categoria degli "atti proibiti dalla legge" va inteso come "inequivocamente", il che consente di comprendere nell’ambito di operatività della norma anche i casi di nullità virtuale con riferimento ai quali esista un consolidato orientamento interpretativo dottrinale e giurisprudenziale.
La ratio della normativa in esame, e le sue stesse origini storiche, impongono infatti di ritenere che al notaio non possono addossarsi compiti ermeneutici (con le connesse responsabilità) in presenza di incertezze interpretative oggettive; l'irricevibilità dell'atto si giustifica quando il divieto possa desumersi in via del tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo ormai consolidato sul punto.
La giurisprudenza successiva specifica che la contrarietà a norma imperativa rilevante ai fini dell’art. 28 è ravvisabile in ogni caso in cui il divieto ha carattere assoluto, tale da non consentire possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuno dei destinatari della norma. Con la conseguenza che la ragione sostanziale della esclusione dall’ambito di applicabilità dell’art. 28 dei casi di nullità speciale è che essa, per definizione, non può essere fatta valere da chiunque, ma solo dalla parte a cui la legge assegna detta facoltà espressamente ed esclusivamente, né può essere rilevata d'ufficio dal giudice se non nel caso in cui ciò sia necessario per l’effettiva tutela della parte protetta dalla norma considerata.
Ciò non significa che le parti siano prive di protezione; oltre all’eventuale responsabilità disciplinare rimane comunque a carico del notaio l'obbligo di avvertire le parti dell'esistenza del vizio, per quella che è stata definita la funzione "antiprocessuale" dell’attività notarile, avente ad oggetto la certezza dei rapporti giuridici, alla cui tutela è essenzialmente preordinata la sua attività.
La mancanza di detto avvertimento, o la concreta insufficienza dello stesso, renderanno il notaio responsabile, secondo le regole generali, nei confronti della parte che abbia subito danno dall’omissione.
NOTE
(1) Questa posizione è efficacemente sintetizzata da MESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di diritto civile e commerciale, fondato da Cicu e Messineo, XXI, t. 2., Milano, 1972, p. 231; sul punto v. anche SCALISI, voce “Inefficacia”, a) Diritto privato, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 332; TOMMASINI, voce Nullità (dir. priv.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 897.
(2) Sull’emersione di interessi collettivi ma privati tutelati dal legislatore espressamente con lo strumento della nullità, e non con il regime dell’annullabilità, quale espressione della scelta del legislatore di non aderire alla linea di pensiero che tradizionalmente fonda la distinzione tra nullità e annullabilità sulla natura dell’interesse protetto e sulla crescente utilizzazione dello schema della nullità, temperato nelle sue conseguenze operative, per dar tutela agli interessi di natura privata, di particolari categorie di contraenti, G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, Padova, 1973, p. 97. Sul tema Cfr. anche G.B. FERRI, Appunti sull’invalidità del contratto (dal codice civile del 1865 al codice civile del 1942), in Rivista del diritto commerciale, 1996, I, 1, p. 385, nota 28, secondo il quale “a meno di non voler dilatare la portata della formula “interesse pubblico” oltre i suoi naturali confini, anche tecnici, (finendo, in tal modo, per considerare pubblico ogni interesse disciplinato dalle norme dell’ordinamento statuale, per il solo fatto che una norma dello Stato lo disciplini), non è difficile constatare come, tutt’altro che di rado, una norma imperativa venga posta a tutela anche di un interesse squisitamente privato. Anche per questo, il primo comma dell’art. 1418 c.c., prevede che alla violazione di norme imperative possa conseguire una sanzione diversa dalla nullità. Inoltre, vi sono ipotesi in cui, pur conseguendo la sanzione della nullità alla violazione di una norma imperativa, l’interesse da questa protetto non sembra, di certo, avere natura pubblica”; ROPPO, Il controllo sugli atti di autonomia privata, in Riv. crit. dir priv., 1985, p. 485 ss.; GENTILI, Le invalidità, in I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, Torino, 1999, p. 1272, il quale espressamente rileva che molte ipotesi di nullità sono chiaramente disposte a tutela di interessi privati, sebbene largamente diffusi e connessi a specifici ruoli socio-economici (il consumatore, il risparmiatore, l’utente di beni immobili per usi abitativi e simili)”.
(3) Sull’esigenza di penetrare “il proprium delle singole figure considerate, muovendo dal convincimento che il legislatore nel disciplinare ciascuna di esse affronta il problema pratico della composizione di interessi divergenti, secondo modelli che l’interprete deve di volta in volta individuare, con specifico riferimento al particolare dato normativo” cfr., nella dottrina più recente, M. NUZZO, voce Negozio giuridico, IV, Negozio illecito, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990, p. 3 ss.. Sul tema v. anche FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, p. 32, 91 e 83 ss.: secondo il quale il negozio nullo esprime una “formula aperta” alla quale è da riconoscere il significato richiesto dalle diverse e contingenti ragioni di impiego di essa; PASSAGNOLI, Le nullità speciali, Milano, 1995, p. 69 ss; MONTICELLI, Contratto nullo e fattispecie giuridica, Padova, 1995, p. 65 ss..
(4) Per una efficace sintesi di queste posizioni, v.PASSAGNOLI, op. cit., p. 72, il quale rileva che “in mancanza di canoni sistematici alternativi, il rigido schema classico continua a trovare ampio ed acritico consenso, grazie al facile, ma oggi tanto più inappagante, espediente dell’eccezionalità di ogni fattispecie deviante: atteggiamento riduttivo, questo, al fondo del quale non è difficile scorgere l’esigenza, di certo pressante in sede applicativa, di criteri di soluzione semplici e, per quanto possibile, uniformi”.
(5) Analizza in questa prospettiva la disciplina della nullità PASSAGNOLI, op. ult. cit., passim.
(6) Cfr. M. NUZZO, Commento all’art. 1469-quinques, comma. 1° e 3°, in Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore, a cura di C. M. Bianca e F. D. Busnelli, in Leggi civ. comm., 1997, 1220 ss. ove si evidenzia come l’esame della disciplina positiva confermi “un quadro complessivo nel quale la presenza di interessi differenziati e meritevoli di diversa protezione, induce una speciale disciplina, caratterizzata dalla legittimazione all’azione del solo soggetto protetto e dalla inapplicabilità dell’art. 1419 comm 1 c.c.”.
(7) Cfr. PASSAGNOLI, op. cit., p. 185.
(8) Così AURICCHIO, La simulazione nel negozio giuridico, Napli, 1957, p. 65. V. anche SCALISI, voce “Inefficacia”, in Enc.del dir., XXI, Milano, 1971, p. 343 ss., in particolare p. 347; FEDELE, La invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, 1943, p. 161; MOSCATI, Vincoli di indisponibilità e rilevanza dell’atto traslativo, in Riv. Dir.civ., 1972, I, p. 276; CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, s.d., ma Napoli, 1963, p. 345.
(9) NAVARRETTA, in Commentario al Capo XXIV bis diretto da Bianca eBusnelli, in Le nuove Leggi civili commentate,
(10) M. NUZZO, voce “Negozio giuridico” (IV). “Negozio illecito”, in Enc.giur.Treccani, XX, Roma, 1990, p. 2; PASSAGNOLI, op.cit. passim; spec. P. 173 ss.
(11) Per tutti, PATTI, Prova testimoniale. Presunzioni, Art. 2721 – 2729, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna – Roma, 2001, p. 66 ss..
(12) Il problema era già stato evidenziato, con specifico riguardo alla nullità per difetto di forma del contratto di locazione degli immobili ad uso abitativo, da M. NUZZO, La forma del contratto di locazione degli immobili ad uso abitativo tra regole di validità e disciplina della prova, in Le locazioni urbane. Vent’anni di disciplina speciale, a cura di Cuffaro, Torino, 1999, p. 154 ss..
(13) CONSOLO, Trattato della prova per testimoni, Torino, 1909, p. 22.
(14) Sotto tale profilo, appare suggestiva nella sistematica del codice civile del 1865 la mancata menzione nella sezione dedicata alla prova testimoniale del divieto della prova per testi per i contratti “solenni”. E’ noto come in quel codice le regole sulla forma scritta del contratto ricevessero sistemazione nel capo del codice dedicato alla prova delle obbligazioni, nella cui sede l’art. 1314 enumerava gli atti che “devono essere fatti per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità”. Da tale disposizione la dottrina dominante traeva la conseguenza dell’inammissibilità di qualsiasi mezzo istruttorio diverso dallo scritto in ragione non della inadeguatezza del mezzo istruttorio rispetto al fatto da provare, ma dell’impossibilità di fornire la prova di un fatto che, se non fosse appartenuto al mondo giuridico secondo la veste formale richiesta dalla legge, doveva qualificarsi come inesistente.
E’ da ricordare che nel codice vigente l’originaria disposizione dell’art. 1314 non venne eliminata ma trasferita di sede, dalla disciplina della prova delle obbligazioni ai requisiti essenziali del contratto, con una scelta sistematica che già in sé formalizzando l’immedesimazione fra forma probante e prova della forma, imponeva come conseguenza necessaria di essa, la soluzione accolta nel secondo comma dell’art. 2725 c.c .
(15) CONSOLO, op. loc. cit.. Per una critica di questa impostazione v. VIVANTE, La prova testimoniale in materia commerciale, nota a App. Brescia 9 novembre 1897, in Giur. it., 1898, I, sez. II, p. 194 e ss. Sul principio secondo cui la prova per testi è vietata quando la legge esige la forma scritta ad substantiam actus, per tutti v. LESSONA, Teoria delle prove, Vol. IV, Firenze, 1908, p. 54; COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano, Milano, 1924, p. 535.
(16) Così BIONDI, Contributo alla teoria dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale. Saggio storico e critico, Roma, 1937, p. 116.
(17) Cass. 24 febbraio 1996, n. 1455, secondo la quale “ai sensi del combinato disposto degli artt. 2725 e 2724 n. 3 c.c., colui che invoca a proprio favore un documento che assume essere andato perduto, deve, in deroga alle limitazioni imposte dalla legge, dimostrare le seguenti circostanze: a) l’esistenza del documento stesso; b) il suo contenuto, al fine di stabilire la sua validità formale e sostanziale; c) la perdita verificatasi senza sua colpa. In particolare per la prova del contenuto non è sufficiente una mera e generica indicazione, ma occorre l’allegazione dei suoi elementi costitutivi. parimenti la dimostrazione della perdita incolpevole del documento deve emergere da una prova preventivamente e specificamente dedotta, e non può essere desunta per implicito dalle condizioni personali e soggettive della parte”.
(18) Per una analisi complessiva cfr. FOSSATI, L’inefficacia del contratto, Napoli, 1990, p. 149 ss.; SCALISI, voce Inefficacia, cit., p. 344. E’ da rilevare che anche la dottrina che nega a questa conclusione valore generale, preferendo una soluzione più duttile, volta ad adeguare la disciplina agli interessi di volta in volta sottesi alle singole norme e ai casi di inefficacia da esse regolati, finisce per dar rilievo a questi elementi al solo fine della applicabilità della disciplina della conversione e della nullità parziale al negozio inefficace(Cfr. per una perspicua sintesi di queste posizioni, SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950, p. 70; ID., voce Inefficacia, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 10). Anche sotto questo profilo peraltro la conclusione più ampiamente condivisa è nel senso che rispetto all’inefficacia originaria e definitiva trovino applicazione, in linea di principio, anche le norme dettate in tema di conversione del negozio nullo e di nullità parziale (Cfr. in questo senso FEDELE, Della nullità del contratto, Commentario al codice civile di D’Amelio e Finzi, I, Firenze, 1948, par. 12; CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1963, p. 376; BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Vassalli, Torino, 1960, p. 506; voce “Conversione del negozio giuridico” (diritto vigente), in Novissimo Digesto italiano, IV, Torino, 1959, p. 811 ss.; MOSCO, La conversione del negozio giuridico, Napoli, 1947, p. 377 ss.; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano, 1947, p. 361; SCALISI, voce Inefficacia, cit., p. 343. Contro l’estensione analogica della disciplina della conversione al caso dell’inefficacia, SCIALOJA, Nullità ed inefficacia, in Saggi di vario diritto, Roma, 1927, p. 27; SCOGNAMIGLIO, Lezioni sul negozio giuridico, Bari, 1962, p. 530; AURICCHIO, In tema di conversione del negozio illecito, in Riv. Dir. Comm.,1954, II, p. 264.).
(19) Cfr., in questo senso, già i lavori preparatori al codice di commercio del 1882 nei quali si afferma “noi non dobbiamo considerare la scrittura soltanto sotto l’aspetto materiale del trapasso di proprietà, ma dobbiamo anche considerarla nei rapporti con i terzi, e per questo, se venditore o acquisitore sia anche un commerciante, se la cosa abbia potuto in un determinato momento essere oggetto di commercio, non per questo si sottrae a quella legge generale di guarentigia comune, che è stabilita con l’istituto della trascrizione. E siccome, per avere la trascrizione, che è necessaria perché la vendita porti il suo effetto nei rapporti con i terzi, è pur necessario che l’atto sia scritto, onde essere presentabile all’ufficio delle ipoteche perché segua la trascrizione, gli è per la necessità stessa delle cose che, se anche non vi fosse quell’alinea che è preziosa per impedire contestazioni, si dovrebbe affermare che l’art. 1314 del codice civile non potè essere in alcuna guisa derogato” (Lavori preparatori, II, 2, 371). In dottrina v. GIORGI, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno Italiano, I, 7, Firenze, 1907, p. 334.
(20) Relazione del Guardasigilli a S. M. il Re Imperatore, n. 83, in Codice Civile illustrato con i lavori preparatori, Roma, 1939-1947.
(21) Cfr. F. MACIOCE, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1992, pag. 176 ess.
(22) Per tutti si veda F.MESSINEO, Il contratto in generale, 2, in Tratt. Dir. civ. e comm.,Milano, 1972,pag. 391 e ss.
(23) Così R. TOMMASINI, Nullità (dir. priv.), in Enc. Dir., XXVIII, Milano, 1978, pag. 896 e ss.
(24) Così S. PAGLIANTINI, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007, pag. 80.
(25) Cfr. S. PAGLIANTINI, op. cit., pag. 196.
(26) E’ necessario precisare che di seguito si fa riferimento ad alcune norme del D. Lgs. 192/2005, modificato dal D. Lgs. 311/2006, che ad oggi risultano abrogate ad opera del’art. 35, co. 2 bis del D.L. 112/2008 (v. CNN Notizie del 6.8.2008)
(27) In tema di locazione il comma 4 dell'art. 3 prevede che “detto attestato è messo a disposizione del conduttore o ad esso consegnato in copia dichiarata dal proprietario conforme all'originale in suo possesso”.
(28) In tal senso anche G. CASU, Normativa su rendimento energetico e commerciabilità dei fabbricati, in Riv. Notariato, 2007, 1, pag. 33 e ss.
(29) Così S. PAGLIANTINI, op. cit., pag. 201.
(30) Tale comma è stato così introdotto nel testo dell'art. 30 T.U. 388/2001 ad opera dell'art. 12, comma 4, L. 28 novembre 2005 n. 246
(31) In questo senso E. QUADRI - F. BOCCHINI, Diritto privato, Torino, 2006, pag. 725 e ss.
(32) Così G.CASU, op. cit., pag. 34 e ss.
(33) Com’è noto parte della giurisprudenza di merito e gran parte della dottrina riteneva da tempo che l'art. 28, comma 1 si riferisse, stante la lettera della legge, solo "agli atti espressamente vietati dalla legge o contrari all'ordine pubblico ed al buon costume" con la conseguenza che solo per tali atti si riteneva possibile sanzionare il notaio con la sospensione, a norma dell'art. 138, comma 2, l. not.. La giurisprudenza di legittimità al contrario costantemente riteneva che il divieto dell'art. 28, c. 1, n. 1, si riferisse a tutti gli atti contrari a disposizioni di legge, e cioé non aderenti alle norme giuridiche di ordine formale e sostanziale per essi previste a pena di nullità o annullabilità (Per tutte, in questo senso, cfr Cass. 10/11/1992, n. 12081; Cass. 21/04/1983, n. 2745; Cass. 21/04/1983, n. 2744; Cass. 22/10/1990, n. 10256)..
Il principio sotteso a questa interpretazione era che il notaio deve svolgere la sua attività nell'ambito del rispetto della piena legalità; se così non fosse verrebbe infatti meno la fiducia che il pubblico deve, invece, nutrire in lui. A ciò si aggiungeva che se il notaio non ispirasse la sua condotta, al più rigoroso rispetto della legge e riuscissero, quindi attaccabili, in quanto viziati, i rapporti posti in essere dalle parti con il suo intervento, verrebbe ad essere turbata la certezza dei rapporti giuridici, alla cui tutela è essenzialmente preordinata la funzione del notaio, il quale non è passivo strumento di registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma pubblico ufficiale vincolato ad operare in modo che l'atto cui dà vita abbia piena e definitiva efficacia giuridica e sia tale da non dare vita a contestazioni tra le parti.
(34) Cass. 7/11/2005, n.21493, in Vita Notar., 2006, 1, 372; Cass. 1/2/2001, n. 1394; Cass. 1997 n. 11128.
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