Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati.
Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati.
Appunti per uno studio sul Patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie.
di Ciro Caccavale
Notaio in Napoli
L'elevato tasso di problematicità dell'istituto
Se come per gioco l'interprete volesse attribuire agli istituti giuridici caratteri umani, al "Patto di famiglia" dovrebbe essere accordato sicuramente quello della introversione, tanto esso si mostra refrattario a svelare all'osservatore gli aspetti più significativi della sua natura, nonostante la notorietà cui è assurto già solo nei pochi giorni che sono trascorsi da quello in cui è stato accolto nell'ordinamento positivo.
Sull'abbrivio di sollecitazioni rivolte, in varie sedi, dall'Unione Europea [nota 1] ai suoi stati membri, al fine di razionalizzare, per più versi, la successione ereditaria (nella gestione) delle imprese, il legislatore nazionale è finalmente intervenuto, con la legge 14 febbraio 2006, n. 55 [nota 2], pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 1° marzo 2006, n. 50 [nota 3], introducendo per l'appunto la nuova fattispecie del "Patto di famiglia", allo scopo, dichiarato nella Relazione di accompagnamento della relativa proposta, di «… conciliare il diritto dei legittimari con l'esigenza dell'imprenditore che intenda garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più dei propri discendenti …» [nota 4].
Vale subito evidenziare che il divisato scopo riceve l'imprimatur del diritto non soltanto, come potrebbe apparire a prima vista, in funzione delle ragioni del singolo imprenditore, ma, come può facilmente comprendersi consultando gli evocati provvedimenti comunitari, anche in relazione al più generale interesse del mercato alla razionale organizzazione e conduzione delle imprese economiche [nota 5] e forse anche, nel senso che si chiarirà nel proseguio, verso la capacità di esse imprese di attrarre investimenti di capitale.
Negli stessi lavori parlamentari si legge, infatti, che «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell'esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all'esercizio dell'autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all'attività di impresa» [nota 6].
Bisogna anzi prendere atto, senza ipocrisie, che proprio l'interesse, di carattere generale, alla promozione dell'attività di impresa [nota 7], piuttosto che quello, privato, di ciascun imprenditore, alla autoregolamentazione del proprio assetto patrimoniale, costituisce il vero fondamento del nuovo istituto [nota 8], atteso che, rispetto alle istanze di autodeterminazione di ogni privato soggetto di diritto, nessuna gradazione assiologica sarebbe concepibile tra le diverse componenti del suo patrimonio: beni produttivi e beni di mero godimento, mobili e immobili, materiali e immateriali.
è con riguardo a tutti essi che la rigidità del sistema successorio determina una compressione del potere di autonomia ed è pertanto sempre con riguardo ad essi tutti che tale rigidità avrebbe dovuto essere stemperata, qualora il temperamento ora apportato fosse stato motivato dalla considerazione della intrinseca insensatezza [nota 9] delle limitazioni con esso rimosse.
Se è già l'individuazione delle finalità perseguite con la riforma a pretendere che l'interprete sappia guardare oltre le pur addotte ragioni del rispetto della autonomia privata, i problemi più complessi insorgono, sul piano esegetico, nella puntuale definizione dei caratteri tipologici e delle modalità operative del nuovo congegno negoziale [nota 10].
La sua disciplina è contenuta nel capo V-bis del codice civile, che si compone degli articoli dal 768-bis al 768-octies e la cui introduzione nel codice civile è preceduta, nell'allogamento, ma ancor prima (almeno a prima vista) in senso logico, dalla modifica dell'art. 458 c.c.
Ora, un iniziale motivo di grave problematicità dipende proprio dalle modalità con le quali la pregiudiziale modifica del divieto dei patti successori [nota 11] è stata formulata.
Il citato art. 458 dichiara adesso, nel suo incipit, che, rispetto al divieto che vi è contenuto, è «fatto salvo quanto disposto dagli art. 768-bis e seguenti».
Il punto è, tuttavia, che l'art. 458, c.c. contempla non un solo divieto, bensì tre distinti divieti, quante sono le categorie tipologiche dei patti successori, i quali, come ben noto, si distinguono in patti successori istitutivi [nota 12], patti successori dispositivi [nota 13] e (cc. dd.) patti successori rinunciativi [nota 14].
Si può anche assumere, se si preferisce - ma la ricostruzione appare concettualmente meno corretta - che il divieto sia unico [nota 15] e nondimeno le fattispecie vietate appartengano a tre distinte classi [nota 16]; v'è, in ogni caso, che la lettera della nuova disposizione al vaglio lascia nel dubbio l'individuazione del tipo di patto successorio cui la deroga afferisce.
è vero che la disposta "salvezza" delle regole portate dall'istituto in commento viene inserita nel primo periodo dell'art. 458 c.c., il quale concerne i patti istitutivi, mentre quelli dispositivi e rinunciativi sono contemplati nel secondo periodo dello stesso articolo, epperò il profilo sintattico non può essere sopravvalutato, in quanto la collocazione della previsione derogatoria nelle prime battute della norma, può essere dipesa proprio dalla circostanza che nel lessico corrente il divieto in questione viene menzionato al singolare e che anche il legislatore, muovendo dalla terminologia comune, non si sia preoccupato di riferire la deroga a questo o quel particolare divieto, ma, per l'appunto, al generale divieto, affinché, rispetto ad esso, la deroga stessa operi poi per quanto di competenza.
è verosimile che, nell'anteporre la previsione di salvezza del nuovo istituto, il legislatore si sia lasciato trasportare dall'entusiasmo per la assoluta novità introdotta nell'ordinamento e dall'intento, dunque, di dare ad essa immediata risonanza.
D'altra parte, poiché nel riferirsi al Patto di famiglia, l'art. 458 c.c. si limita a rinviare alle norme dettate nella sedes materiae che di esso è propria, ed è a tali norme che l'interprete deve dunque rivolgersi per accertarne la natura, ne consegue che quelle soltanto sono anche le norme in grado di chiarire il tipo di deroga che il divieto in questione effettivamente subisce e, ancor prima, se di deroga effettivamente si tratti.
Ecco che viene subito alla ribalta la disposizione dell'art. 768-bis, che proclama di contenere la nozione del Patto di famiglia e che, a ragione di ciò, si prospetta come risolutiva dell'intera questione.
A dispetto delle illusioni suscitate dal suo titolo e dal carattere definitorio della regola che vi è espressa, l'interprete deve constatare, tuttavia, dopo averla più volte riletta, - quasi incredulo della sua lacunosità -, che la norma si mantiene su un piano di assoluta genericità e non riesce a specificare quali siano attributi e proprietà della fattispecie che valgono a caratterizzarla, non solo rispetto all'alternativa dell'onerosità o gratuità, ma anche, per l'appunto, in relazione alla dicotomia funzionale, che qui soprattutto può interessare, degli atti inter vivos e degli atti a causa di morte.
L'accertamento dell'appartenenza del Patto di famiglia all'una o all'altra delle due categorie negoziali menzionate da ultimo, come anche l'accertamento del suo carattere oneroso o gratuito, con le connesse ricadute in tema di forma (in riferimento alla quale, è il caso di notarlo subito, l'art. 768-ter non richiede espressamente la partecipazione dei testimoni all'atto, che pure pretende pubblico), resta tuttora affidata all'investigazione ermeneutica.
Né le incertezze si esauriscono in tali questioni.
Sia, o meno, la convenzione al vaglio connotata dalla causa di morte - e implichi, o meno, dunque, una deroga al divieto dei patti istitutivi - si pongono dubbi, del pari in modo impellente, anche in ordine alla individuazione delle parti che necessariamente devono intervenirvi.
Certo, l'art. 768-quater pretende che al contratto partecipino «anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari» ove, al momento della sua conclusione, «si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore».
Nondimeno l'art. 768-sexies contempla, a certi effetti, l'ipotesi che lo stesso «coniuge» o «altri legittimari» «non abbiano partecipato al contratto».
è obbligatorio chiedersi, allora, se, a dispetto dell'apparente imposizione del citato art. 768-quater, la partecipazione al contratto, concluso tra disponente e uno o più dei suoi discendenti, non sia per ogni altro legittimario, che può anche essere il solo coniuge [nota 17], soltanto facoltativa.
Se così fosse, il Patto di famiglia si configurerebbe come un contratto essenzialmente bilaterale, tra colui che trasferisce l'azienda o le partecipazioni societarie e i suoi discendenti che ne acquistano la titolarità, e che, per la sua efficacia, nemmeno postula l'adesione dei terzi esclusi.
La questione è allo stato aperta e, per le evidenti implicazioni che ne derivano, l'interprete non può rinviarne oltre la soluzione, che pure si profila tutt'altro che piana.
Così come dovrà necessariamente chiarire se la titolarità delle partecipazioni societarie [nota 18], anch'esse possibili oggetto del Patto di famiglia, debba risultare, o meno, in qualche modo ulteriormente qualificata [nota 19].
Se, sulla base del testo letterale della legge, sembrerebbe sufficiente, perché il patto possa essere validamente concluso, che le partecipazioni dedottevi siano nella titolarità di chi ne disponga [nota 20], si insinua subito il dubbio che le partecipazioni in parola debbano anche costituire strumento per l'esercizio, da parte del disponente, dell'attività di impresa, di modo che il disponente stesso possa anche qualificarsi, almeno in senso lato, come imprenditore.
Potrebbe ritenersi, infatti, che soltanto in quel caso la nuova disciplina sia veramente funzionale alla conservazione, in occasione del trasferimento endo-familiare delle partecipazioni societarie, di quella compattezza ed incisività gestionale dell'impresa che essa auspica.
Epperò, concomitanti considerazioni di ordine sostanziale rendono pure credibile l'interpretazione di segno opposto.
Il problema merita di essere accennato sin dalle prime mosse e in anticipo rispetto al successivo approfondimento, rimesso ad una specifica parte che sarà dedicata alla trattazione dei profili soggettivi della nuova fattispecie in quanto involge la più puntuale individuazione delle stesse finalità che la legge persegue.
In una prospettiva che concentri l'attenzione sul solo momento del governo dell'impresa [nota 21], assumendosi che occorra preservare, altresì per il tramite delle partecipazioni societarie, pur sempre risolutezza e capacità gestionale, occorre invero considerare che risulta enormemente difficile rinvenire una discriminante che, per ogni tipo di società, in modo esaustivo valga a far discernere, nell'ambito delle partecipazioni societarie, quelle dotate di apprezzabile peso nella cura dell'attività sociale e quelle che, invece, ne siano sprovviste, cosicché, potrebbe assumersi che, per non sacrificare alle ragioni della disciplina successoria le une, sia preferibile accettare l'eventualità che, del nuovo regime, beneficino anche le altre.
Nel solco della medesima direttrice, non sarebbe fuori luogo rilevare, inoltre, che anche la stessa parcellizzazione delle partecipazioni prive di peso gestionale è in grado talvolta, in vario modo, di ripercuotersi negativamente sul funzionamento della società, a causa della disaffezione che, nei loro titolari, può provocare verso l'andamento dell'attività di quest'ultima.
Diversamente, intendendo come di più ampio raggio gli scopi avuti di mira dalla legge di riforma, si può ipotizzare, finalmente, che questa sia volta ad assicurare l'efficienza dell'impresa anche sul piano della sua capitalizzazione e che abbia allora garantito più ampie facoltà di disporre delle partecipazioni al capitale di rischio, al fine di accrescerne il grado di appetibilità (anche) per proprio accentuare la forza dell'impresa di attrarre investimenti.
Alle incertezze di carattere per così dire ontologico, si aggiungono quelle riconducibili a questioni che possono definirsi di secondo grado ovvero concernenti la disciplina di dettaglio, delle quali non tutte necessitano ovviamente di ricevere risposta già in sede di prima riflessione, quando l'aspirazione a padroneggiare la materia in ogni suo risvolto e le ragioni dell'operatività pratica, che pure faticano ad essere contenute, devono fare i conti con l'esigenza, logicamente prioritaria, di innanzitutto conoscere l'oggetto dell'indagine nella sua prima essenza.
Ecco, prima dunque di ogni altro ragionamento, i profili effettuali più salienti, di cui consta l'essenziale novità dell'istituto.
Si tratta del complesso risultato, del quale esso istituto si prefigge di consentire la realizzazione mediante un'articolata combinazione di congegni tecnici, per cui:
- l'azienda o le partecipazioni societarie che sono oggetto del patto vengono in considerazione come massa autonoma, ai fini della determinazione del valore delle quote di legittima, rispetto alla restante massa ereditaria dell'imprenditore o del socio che ne compie l'assegnazione a favore di uno o più dei suoi discendenti;
- il valore di tali cespiti viene assunto, e cristallizzato, in quello che gli va riconosciuto al momento della conclusione del patto, in funzione proprio della determinazione di dette quote;
- queste, a loro volta, almeno temporaneamente, vengono calcolate in relazione a coloro che risultano essere legittimari quando il patto stesso viene perfezionato;
- sulla base delle quote così stabilite, che pure competono ad essi legittimari solo in via ipotetica, è attribuita a costoro una pretesa attuale da far valere nei confronti degli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie; il tutto per la conseguenza ultima che,
- allo scopo, - che già poc'anzi si è avuto modo di porre in evidenza -, di promuovere l'efficienza dell'impresa che vi inerisce, l'assegnazione dell'una o delle altre venga resa inattaccabile da future rivendicazioni dei legittimari e tendenzialmente irreversibile nella sua incidenza economica nella sfera patrimoniale di essi assegnatari, i quali per l'appunto sono affrancati da azioni di riduzione e da obblighi di collazione.
Diviene subito chiaro, allora, che questione di estrema importanza, e gravemente lasciata incerta nella legge, è anche quella che riguarda l'esatta individuazione del livello di autonomia di cui godono i cespiti assegnati con il patto, rispetto alla successiva vicenda ereditaria del disponente: questione che impone di accertare se, in virtù del patto, essi cespiti vengono resi del tutto avulsi dalla restante massa ovvero se soltanto sono considerati secondo peculiari modalità, e pur sempre rientrano in gioco all'apertura della successione, in relazione alla c.d. riunione fittizia, per determinare in via definitiva le quote di legittima di ciascun legittimario (ex art. 556 c.c.).
La natura inter vivos del contratto di trasferimento
Della natura inter vivos della convenzione traslativa dell'azienda o delle partecipazioni societarie si può discutere, ça va sans dire, in quanto si assuma il concetto nella accezione che lo contrappone a quello della natura mortis causa, - e che denota la funzionalità dell'atto ad istanze temporali del disponente, quali afferenti hic et nunc alla sua vita -, e non in quel significato per cui esso si pone come alternativo al concetto dell'atto di ultima volontà, che è dominato dall'esclusiva rilevanza dell'interesse del disponente e in relazione al quale ogni negozio giuridico, che non sia il testamento, in special modo se a struttura contrattuale, necessariamente andrebbe definito di tipo inter vivos.
Nella bipartizione che ora viene in rilievo, ciò che conta è il ruolo causale, o meno, assunto dalla morte del soggetto che compie l'attribuzione.
Senza che occorra dilungarsi su nozioni basilari che costituiscono un dato oramai acquisito negli studi civilistici, è sufficiente ricordare, avvalendosi di una fortunata definizione formulata da una nota dottrina, la quale dell'argomento si è specificatamente occupata, che nell'atto a causa di morte quest'ultima costituisce «l'evento dal quale ha origine la stessa situazione su cui l'atto è destinato ad operare, in quanto essa è appunto la situazione che verrà a sussistere, e quale verrà a sussistere, dopo la morte del soggetto» [nota 22], cosicchè l'atto stesso è volto a disciplinare «rapporti e situazioni che vengono a formarsi, in via originaria, con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione» [nota 23].
Sarebbe anche ultroneo appuntare l'attenzione sulle differenze che intercorrono tra l'atto mortis causa e l'atto post mortem o trans mortem [nota 24], dove la morte assolve alla più modesta funzione di modalità, e non causa, della fattispecie.
Ciò che vale porre in risalto è che, se a causa di morte, l'entità dell'attribuzione si determina soltanto al verificarsi della morte del disponente e, «in nessun caso, il negozio deve produrre, durante la vita di questo, effetti prodromici e comunque vincoli di indisponibilità reale sui beni che ne costituiscono l'oggetto» [nota 25]: si suole ripetere, infatti, che l'attribuzione stessa ha sempre ad oggetto un'entità residua ed è sempre (almeno per implicito) sottoposta alla condizione sospensiva della premorienza del disponente al suo beneficiario [nota 26].
Ora, se la natura inter vivos o mortis causa dipende dall'attualità, o meno, dell'attribuzione, anche in termini, eventualmente, di una aspettativa giuridicamente tutelata, e tuttavia la nuova disciplina è in proposito del tutto silente, gli sforzi dell'interprete devono indirizzarsi, innanzitutto, nell'individuare un punto fermo da cui muovere il ragionamento.
In via preliminare è il caso di osservare che non possono riporsi troppe speranze nella formulazione della norma definitoria, ove il verbo "trasferire", che denota l'azione del Patto di famiglia, è utilizzato al presente e non al futuro, come invece sarebbe apparso più opportuno per una fattispecie ancora inefficace quando venga conclusa.
La coniugazione secondo il tempo presente rappresenta sicuramente un indizio interpretativo da non trascurare, epperò non costituisce elemento decisivo, in quanto essa può venire del pari adottata per esprimere un'attitudine e così, nel caso di specie, l'idoneità dell'atto a determinare il trasferimento.
D'altronde, l'uso del presente potrebbe anche spiegarsi con la circostanza che la fattispecie sia valutata, per i suoi effetti, in rapporto al momento stesso in cui possa produrli; in funzione, cioè, della proiezione nel futuro del punto dal quale la si osservi.
E invero, ad esempio, ai sensi dell'art. 649 c.c., «quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa determinata o altro diritto appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette», e non invece si trasmetterà, dal testatore al legatario, nel «momento» - a partire dal quale la disposizione assume rilevanza - «della morte del testatore».
Si è detto, dunque, dell'importanza di stabilire un punto di partenza dotato di un minimo di obiettiva condivisibilità.
Ebbene, se, a tenore dell'art. 768-quater, secondo comma, «gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previsto dagli articoli 536 e seguenti …», è ragionevole ipotizzare che sia anche stata garantita loro una congrua considerazione giuridica delle rispettive posizioni.
Poiché l'operazione comporta immediati sacrifici economici, a carico degli assegnatari, è logico ritenere, in altri termini, che l'ordinamento non abbia mancato di volere che questi ultimi, in ordine all'assegnazione disposta a loro favore, conseguano, con il Patto, pretese anche giuridicamente azionabili: e invero la praticità e la possibilità di proficua utilizzazione del patto si prospettano direttamente proporzionali al grado di tutela ad essi stessi riservata.
Innanzitutto, dunque, il Patto di famiglia è configurato come privo, in via di principio, anche per l'assegnante, di ogni facoltà di revoca (arg. ex art. 768-septies).
Evidentemente la disposta irrevocabilità non sarebbe sufficiente, di per sé, ad assicurare una seria affidabilità, ove non ne conseguisse pure una vincolatività di un qualche significato.
L'atto a causa di morte, dal canto suo, può essere concepito, o come appieno revocabile da parte del beneficiante, o anche irrevocabile, purché solo non comporti, come si è ricordato, vincoli di indisponibilità a suo carico.
Stante la pienezza del potere di disposizione insita nella causa mortis, è soluzione congrua, quando non sia prevista facoltà di revoca, al fine di procurare all'accordo quella stabilità cui aspira, e che ad esso può essere tipologicamente consentita, che all'accordo medesimo vengano anche fatte produrre, in questa o quella gradazione, immediate e definitive conseguenze giuridiche, che, volte per l'appunto ad evitare che l'irrevocabilità si risolva in mero attributo verbale, ancora risultino essere compatibili con la persistenza della natura, sua propria, di atto a causa di morte.
Come può anche desumersi dall'esempio dell'Erbvertrag del diritto tedesco [nota 27], l'irrevocabilità della convenzione ereditaria di attribuzione di un legato postula, per ragioni di coerenza, quantomeno la definitiva consumazione del potere del beneficiante di disporre ulteriormente a causa di morte dei medesimi beni già assegnati in convenzione.
In direzione di una più accentuata stabilità dell'attribuzione, e per scongiurare il rischio che la stessa preclusione a poter ancora disporre con testamento risulti di fatto vanificata, se ne può anche far conseguire, opportunamente, la proibizione, per esso beneficiante, di compiere successivi atti di donazione incompatibili con l'originario contratto successorio.
Se il divieto di effettuare successivi lasciti a causa di morte incide sull'ultima propaggine degli interessi terreni del beneficiante, anche il divieto di eseguire ulteriori liberalità, pur coinvolgendo il soddisfacimento di istanze connesse con la conduzione di vita di quest'ultimo, non compromette la realizzazione dei suoi più significativi interessi pratici. In definitiva, stante la contiguità delle istanze che sono sottese al compimento di attribuzioni donative, da un lato, e di attribuzioni mortis causa, dall'altro, un simile divieto potrebbe anche riguardarsi come la logica conseguenza della già realizzata soddisfazione di quello stesso bisogno che la vietata liberalità intenderebbe riproporre.
Ma poi l'integrità della causa di morte risulterebbe ancor più evidente se il divieto fosse circoscritto alle sole donazioni che il beneficiante volesse effettuare all'esclusivo scopo di ledere le ragioni del beneficiario del contratto successorio.
Del resto, l'inosservanza del divieto potrebbe operare sul piano meramente obbligatorio, cosicché, ferma la validità della donazione, ad esso beneficiario spetterebbe di agire, per essere reintegrato nei propri diritti, soltanto quando si sarà aperta la successione, nei confronti degli eredi del suo beneficiante.
Epperò, un obbligo di tale natura, che in definitiva non comprime l'autonomia del disponente a causa di morte, in quanto la sua inosservanza rileva soltanto quando egli sarà oramai morto ed è destinata a ripercuotersi nell'esclusiva sfera patrimoniale di terzi soggetti, risulterebbe compatibile con la persistenza del carattere successorio del contratto anche se fosse esteso ad ogni tipo di atto negoziale, non solo di liberalità, ma pure a titolo oneroso.
Insomma, le ragioni del buon senso imporrebbero di ritenere che, se il Patto di famiglia fosse un atto mortis causa, e quindi un patto successorio istitutivo, e segnatamente di attribuzione di un legato, da un lato la persistenza del potere di disposizione dell'assegnante meriterebbe di essere chiaramente sancita, dall'altro tale potere, ancora vivido, dovrebbe subire un qualche affievolimento, pur solo nell'ambito dello spettro di possibilità poc'anzi delineato.
Di contro, tanto del riconoscimento di siffatto potere, quanto della portata e delle modalità della predetta vincolatività, pur così tanto attenuata, non si scorgono tracce nella nuova disciplina.
Nessuna norma si preoccupa di prevedere le prospettate conseguenze giuridiche, che pure dovrebbero essere implicate dalla natura successoria del contratto in commento e che, come ancora una volta dimostra l'esperienza dell'ordinamento tedesco, necessiterebbero di essere puntualmente regolamentate in quanto non risultano già sancite nella disciplina di diritto comune dei contratti, la quale si rivela invece immediatamente fruibile per il Patto di famiglia di natura inter vos.
V'è in definitiva che al Patto di famiglia tale natura inter vivos deve essere necessariamente riconosciuta [nota 28] per la semplice ma decisiva ragione che il patto stesso non è disciplinato quale atto mortis causa, mentre, se tale fosse proprio la sua natura, occorrerebbe anche che, nell'ordinamento positivo, fosse contemplata una specifica regolamentazione [nota 29], ad essa natura funzionale, altrimenti irreperibile. [nota 30]
La struttura bilaterale del contratto
A parte la questione del carattere inter vivos o mortis causa del patto, la tematica della sua natura coinvolge anche il profilo del carattere oneroso o gratuito della sua causa.
Alla trattazione di quest'ulteriore momento tipologico è preferibile anteporre, tuttavia, l'analisi della struttura del contratto in relazione ai soggetti che devono prendervi parte, in quanto dai suoi esiti potranno anche trarsi utili elementi in ordine alla questione che viene ora lasciata in sospeso [nota 31].
L'ipotesi che si vuole sottoporre al vaglio dell'indagine è che il Patto di famiglia sia un negozio bilaterale, che si perfeziona con l'accordo della parte che compie l'assegnazione, - imprenditore o socio, - e la parte che l'assegnazione riceve - uno o più dei suoi discendenti -, mentre la partecipazione del coniuge e degli ulteriori legittimari del disponente resta esterna al contratto (e anzi, come si vedrà in seguito, può addirittura mancare del tutto).
La dimostrazione teorica dell'enunciato si fonda essenzialmente su argomenti di carattere sistematico, mentre i dati testuali, sebbene per lo più confortanti, non sono proprio univoci.
Invero, quanto agli elementi di prova desumibili dalla lettera della legge, occorre riscontrare che:
- l'intervento del coniuge o dei legittimari del beneficiante è definito in termini di partecipazione al contratto e, dunque, come intervento ad una entità fenomenica già completamente formatasi ad opera di altri, cui ontologicamente appartiene;
- la legittimazione ad impugnare il Patto di famiglia per vizi del consenso è attribuita alla categoria, anomala, dei "partecipanti" al patto stesso, e non a quella delle sue "parti", come sarebbe stato più appropriato dire, se come tali dovessero veramente riguardarsi, tutti essi, i legittimati ad intervenire.
D'altro canto non si può fare a meno di osservare che:
- talvolta la legge utilizza il termine "contraenti" per riferirsi, a quanto pare, senz'altro anche al coniuge o agli altri legittimari che non beneficiano dell'azienda o delle partecipazioni societarie.
Più significativa, comunque, appare la circostanza che:
- proprio nella definizione normativa del Patto di famiglia, sono contemplati, come termini soggettivi del contratto, la presenza dei quali si prospetta come esaustiva per la sua venuta ad esistenza, soltanto l'imprenditore o il titolare delle partecipazioni, che effettua il trasferimento, e i di lui discendenti, a favore dei quali il trasferimento è compiuto: nessuna menzione è ivi dedicata, invece, al coniuge e agli altri legittimari del disponente.
è fuori di dubbio che la disputa può risolversi soltanto sulla base di argomentazioni di diverso tenore, che non quello meramente lessicale.
A tale proposito appare decisiva la constatazione che, in apposita norma (art. 768-sexies), è previsto che coniuge e altri legittimari possano non aver partecipato al contratto di trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie e che, in tal caso, al momento dell'apertura della successione, siano abilitati a richiedere, ai beneficiari, la liquidazione monetaria dei loro diritti in qualità, non già di contraenti, bensì come espressamente sancisce la legge, nel titolo di essa norma, in qualità di "terzi".
Ancor prima di definire compiutamente la portata della norma al vaglio, deve già potersi affermare che essa si riferisce quantomeno ai legittimari che siano sopraggiunti rispetto alla conclusione del patto ovvero ai legittimari dei quali soltanto successivamente sia stata scoperta l'esistenza.
Risulterebbe allora proprio incoerente, sul piano logico e sistematico, che soggetti appartenenti ad una medesima categoria possano o meno assumere la veste di parti del contratto in relazione a circostanze contingenti e non in funzione, invece, degli interessi dei quali siano portatori; interessi, che evidentemente non differiscono a seconda del momento in cui la prevista qualifica è conseguita e, soprattutto, in ragione del momento in cui la qualifica stessa diviene nota.
La conclusione che se ne deve trarre è che, identica essendo sul piano assiologico la posizione degli ulteriori legittimari, indipendentemente dal momento in cui essi divengono o si rivelano tali, identica posizione essi assumono in relazione al contratto, che pur sempre allo stesso modo li riguarda, sia che vi intervengano originariamente, sia che vi intervengano in una fase successiva.
Così, rispetto ad esso contratto, non sono mai "parti", ma, come proprio li qualifica la legge, in ogni caso "terzi".
Vale aggiungere il rilievo che, dovendosi escludere che i legittimari non assegnatari debbano essere d'accordo sul trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie, che è vicenda appartenente alla piena disponibilità dei soggetti tra i quali ha luogo, ove si postuli il carattere plurilaterale del contratto, si verificherebbe l'insolita situazione per la quale l'in idem placitum tra tutti i contraenti debba formarsi, non sull'intero programma negoziale, - una porzione del quale, come si è detto, è rimessa a due soltanto di essi -, ma sul limitato segmento dello stesso che afferisce più prettamente agli aspetti successori.
La divisata identità di posizione che i legittimari conseguono formalmente nel contratto, a prescindere dal frangente nel quale assumono o rivelano la qualifica che li legittima a parteciparvi, sollecita subito l'idea che essa sia espressione di una equipollenza ancora più radicata e sia anche destinata ad incidere, in ultima istanza, sull'essenza stessa della fattispecie in commento.
…(segue) il carattere ultroneo dell'adesione dei legittimari esclusi dall'assegnazione ai fini della validità ed efficacia del contratto
La tesi che si intende sostenere è che l'operatività del patto è svincolata dall'adesione dei legittimari che sono lasciati fuori dall'assegnazione.
Il termine da cui muovere il ragionamento non può essere altro che lo scopo perseguito dalla riforma.
Questo, si è detto, risiede innanzitutto nell'obiettivo, - che può essere personale dell'imprenditore ma è senz'altro anche di interesse generale al buon andamento dell'economia -, di razionalizzare la gestione dell' impresa, facilitando, per l'imprenditore, la possibilità, da un lato, di attuarne la trasmissione a favore dei suoi (più stretti) congiunti che rivelino le migliori attitudini e capacità imprenditoriali, dall'altro, di non scompaginarne la funzione gestionale, mentre le comuni regole del diritto ereditario, e in particolare quelle sulla successione necessaria, proprio nell'individuare i soggetti aventi diritto, prescindono e dalla considerazione di inclinazioni e abilità di sorta, e dalle evidenziate esigenze di compattezza.
Evidentemente la selezione, secondo gli esposti criteri, non poteva che essere rimessa allo stesso imprenditore, sia perché, in via di principio, - soprattutto se l'impresa funziona bene e perciò vale la pena di assicurarne l'efficienza -, rappresenta il miglior giudice delle competenze imprenditoriali dei suoi familiari, sia perché la vicenda successoria deve pur sempre aver luogo nella logica dell'autonomia privata, che la riforma non ha voluto certo disattendere, ma anzi con forza ribadire, come (sebbene in altro senso) anche espressamente affermato nella relazione di accompagnamento alla nuova legge.
Ora, se si vuole garantire che la trasmissione dell'azienda avvenga, non secondo indiscriminati criteri di appartenenza al gruppo familiare, ma secondo criteri razionali, è chiaro che la si deve anche affrancare dalle disposizioni d'animo e dalle decisioni di quelle persone che proprio si rende preferibile che non vengano implicate nell'attività gestionale dell'impresa in questione.
In altri termini, se la razionalità della vicenda successoria non può fare a meno, come necessario tramite della sua stessa genesi, del momento soggettivo della determinazione volitiva dell'imprenditore-assegnante, - oltre ovviamente di quello dell'immancabile consenso degli assegnatari -, deve invece prescindere, per ragioni di coerenza logica, dalla deliberazione di altri soggetti, in quanto il coinvolgimento di questi ultimi varrebbe soltanto ad ulteriormente contaminarla di profili soggettivistici e in definitiva a stemperare, potenzialmente almeno, essa razionalità con istanze che non sono quelle sue proprie.
Fin qui il trasferimento dell'azienda e gli interessi che vi sono implicati.
Quanto al trasferimento delle partecipazioni societarie, la necessità di affrancarlo dal consenso dei legittimari esclusi dipende di nuovo da valutazioni di ordine teleologico, e tuttavia occorre compiere una distinzione.
Se si reputa che il Patto di famiglia sia stato concepito, anche con riguardo ad esse partecipazioni, in funzione dell'esigenza di preservare il buon andamento della gestione dell'impresa da vicende successorie, allora, anche per la trasmissione di questi stessi beni, deve essere ripetuto integralmente il ragionamento che è stato svolto poc'anzi a proposito della trasmissione dell'azienda.
Qualora, invece, si assuma che il coinvolgimento, nella nuova disciplina, delle partecipazioni in parola si riveli funzionale all'efficienza dell'impresa nel senso, diverso, che miri ad incentivare l'apporto di capitali, la ratio legis continua a sorreggere la medesima conclusione dell'irrilevanza del consenso dei legittimari esclusi, epperò, ovviamente, non sulla base dell'identica argomentazione addotta in relazione all'azienda.
In quest'ottica interviene il rilievo che, se è strumentale, allo scopo di attirare investimenti nell'impresa sociale (ovvero di disincentivarne i disinvestimenti), la concessione, al titolare di partecipazioni societarie, di più ampi margini di manovra nella loro allocazione nell'ambito del gruppo familiare, tale da accrescerne il grado di appetibilità, va anche da sé, salvo proprio rinnegare la divisata maggiore libertà d'azione, che le decisioni che esso titolare assume in ordine all'assetto endo-familiare di tali specifiche componenti del suo patrimonio devono essere svincolate dal placet di coloro che non ne vengono prescelti come destinatari.
Nell'uno come nell'altro caso, sia dunque in gioco la trasmissione dell'azienda o la trasmissione di partecipazioni societarie, sono sempre le ragioni dell'(efficienza dell') impresa, quali si assumono essere sottese all'istituto in commento, che suggeriscono all'interprete di prescegliere, tra le due letture della legge che sono rese ammissibili dal suo testo letterale, quella che, ai fini della validità ed efficacia del patto, rende superfluo il consenso dei legittimari esclusi dall'assegnazione.
Non ci si nasconde che alla stregua di tale interpretazione viene accentuata la forza d'urto del nuovo istituto sul sistema successorio. Epperò poco male.
L'invasione di campo, - lo si ammetta -, non è così sconvolgente, visto che, se è vero che i diritti dei legittimari vengono, con il patto, diversamente plasmati, sicuramente nelle modalità della loro attuazione, epperò anche nella ridefinizione dei relativi criteri di quantificazione, - ciò nella misura che occorrerà accertare nel seguito dell'indagine -, è pur vero che quegli stessi diritti non vengono rinnegati, e anzi confermati, e soprattutto risulta ribadita la logica di fondo che ne sottende l'impianto.
V'è, comunque, che ogni rinnovamento del quiescente sistema ereditario non può essere considerato un tabù e soltanto deve essere valutato, come ogni innovazione di qualsiasi altro settore dell'ordinamento, per la sua portata assiologica e per la condivisibilità o meno degli obiettivi perseguiti.
D'altra parte, seppure nella ipotizzata configurazione del patto si ravvisasse una significativa alterazione del tradizionale assetto ereditario, ciò potrebbe riguardarsi con favore, - si oserebbe dire un pò provocatoriamente -, già solo per il fatto che forse la circostanza potrà concorrere a finalmente innescare quell'auspicato processo di un suo più organico ammodernamento.
…(segue) altresì della loro (mera) partecipazione dei legittimari
L'ipotesi di lavoro è adesso che, quale sia la collocazione temporale del momento nel quale la qualifica di legittimario emerga, nemmeno è necessario, per il proficuo perfezionamento del patto, che i legittimari esclusi vi intervengano.
Già il concetto di "terzi", poc'anzi venuto alla ribalta, e menzionato nel titolo dell'art. 768-sexies, richiama subito alla mente il congegno del contratto a favore di terzi, che non postula affatto, per l'appunto, la contestuale adesione, in atto, di essi stessi terzi.
Ma, come è ovvio, la conclusione necessita di essere ulteriormente argomentata.
Il punto è che l'autonomia dell'operazione, dalla costituzione in atto dei legittimari negletti nell'assegnazione dell'azienda o delle partecipazioni, dipende immediatamente dalla asserita possibilità di concludere l'operazione stessa indipendentemente dal consenso di questi ultimi: qualora infatti si opinasse in senso diverso, proprio l'assunta indipendenza finirebbe immancabilmente per essere vanificata, atteso che sarebbe sufficiente che uno di essi decida di disattendere la convocazione perché la conclusione del contratto risulti, senza rimedio, impedita.
Se ciò è vero, ecco che il congegno negoziale del Patto di famiglia finisce finalmente per rivelarsi in una fisionomia più lineare di quella che lascia intravedere a prima vista e risulta assimilabile, nei suoi caratteri essenziali, a figure negoziali già note e collaudate: vale a dire che la logicità dello scopo che vi è sotteso condiziona ed impronta di sé, connotandola di pari logicità, anche la sua conformazione.
In questa prospettiva, il patto in esame deve essere riguardato come un contratto a due parti, - disponente e suoi discendenti -, che, determinando il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie, comporta anche la trasformazione dell'ipotetico diritto dei legittimari in un diritto ad ottenerne, da parte di costoro, la liquidazione, normalmente in danaro, a carico degli assegnatari e sulla base dei valori quali cristallizzati all'epoca del patto.
Il contratto, operando a favore dei legittimari esclusi dall'assegnazione, e in questo senso a favore di terzi, attribuisce loro, nei confronti degli assegnatari, un diritto attuale alla predetta liquidazione.
Un contratto che realizza una attualizzazione e una commutazione del futuro ed ipotetico diritto dei legittimari e, al contempo, individua negli assegnatari i soggetti che nel presente sono tenuti a dare soddisfazione al diritto stesso e che, a ciò, restano corrispondentemente obbligati; un contratto che, sotto quest'aspetto, evoca la stipulazione a favore di terzi e in virtù del quale i terzi, che vi sono coinvolti, acquistano, per l'appunto, soltanto un diritto, quello alla liquidazione, e non assumono anche obblighi.
Esso tuttavia, nel mutarne le aspettative (di fatto) che vantavano, quali legittimari, in diritti effettivi ed attuali, incide nella di loro sfera giuridica anche in modo più invadente, in quanto i diritti in questione vengono calcolati, nell'entità, in riferimento ad un momento diverso da quello dell'apertura della successione e possono essere fatti valere soltanto verso i beneficiari del patto.
Il Patto di famiglia, mentre ha ad oggetto il trasferimento - dal disponente agli assegnatari - dell'azienda o delle partecipazioni societarie, avendolo reso ammissibile la legge, contempla pure una contestuale disposizione delle aspettative (di fatto) dei legittimari pretermessi e può essere ricondotto, in relazione a tale profilo, alla speciale, ma pur nota categoria degli atti che sono conclusi in nome proprio e producono tuttavia effetti immediati nella sfera giuridica altrui [nota 32].
L'ipotizzata ricostruzione attende di fare i conti con la scontata obiezione [nota 33] che, per espressa disposizione dell'art. 768-quater, «… il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore», non già semplicemente possono, ma «devono partecipare» al contratto [nota 34].
A voler rimanere sul piano della formulazione letterale della norma, si potrebbe subito replicare che l'eventualità che i predetti soggetti non prendano parte al contratto è, anch'essa, espressamente contemplata dalla legge, nel già citato art. 768-sexies, che si è in principio riferito ai casi in cui quei soggetti vengano ad esistenza o conseguano la necessaria qualifica di legittimari soltanto dopo che il contratto sia stato perfezionato, ma che letteralmente non circoscrive in tal senso il suo ambito di applicazione.
è vero piuttosto che anche le norme in commento devono essere interpretate mediante il concorrente ricorso al loro testo letterale e alla ratio che è loro sottesa.
Ne consegue, per coerenza con quanto si è fin qui sostenuto, che la locuzione "devono partecipare" deve essere intesa nel senso che è fatto obbligo alle parti dello stipulando contratto di chiamare ad intervenire nel contratto stesso gli ulteriori legittimari: questi ultimi, cioè, devono soltanto essere messi in grado di partecipare al Patto.
Il caso dell'omessa convocazione dei legittimari esclusi
Il punto è adesso quello di appurare come rilevi l'osservanza o meno dello stesso obbligo di convocazione, quale desunto dal citato art. 768-quater, primo comma.
La conclusione che sottopone l'interprete ad un minore travaglio è che, in difetto del prescritto invito, il patto sia irrimediabilmente invalido o, al fine di consentirne un successivo recupero, del tutto inefficace.
La sanzione - non lo si può negare - potrebbe apparire eccessiva rispetto all'interesse per il quale è chiamata ad operare, che è pur sempre quello dei legittimari a conservare intatti i propri diritti di legittima.
Dal mancato invito, in via gradata, si potrebbe pensare allora di far derivare la sola inopponibilità, ai legittimari negletti, degli effetti del contratto che siano diretti ad incidere nella loro sfera giuridica.
Conseguentemente, all'apertura della successione, costoro avrebbero piena facoltà di agire in riduzione rispetto all'assegnazione, che sia stata compiuta con il patto, e pure facoltà di far valere i loro diritti, nei confronti degli aventi causa, a titolo successorio, dal disponente, secondo le normali regole del diritto ereditario: ciò a meno che, a quanto sarebbe ragionevole ritenere, nel frattempo non abbiano deciso di aderire al patto stesso e di appropriarsi (per quanto di competenza) dei relativi effetti.
Epperò, in senso contrario alla tesi della mera inopponibilità degli effetti successori, non si può fare a meno di rilevare che l'inopponibilità stessa rischia di ridondare nell'invalidità o inefficacia dell'intero contratto, o in chiave di irrealizzabilità del peculiare scopo, giuridicamente rilevante, perseguito dalle parti, o in quanto, addirittura, equivale alla impossibilità di realizzare un segmento dello stesso programma negoziale: ma la questione, che coinvolge anche il problema dell'ammissibilità di regimi successori differenziati per singoli legittimari, è di tale delicatezza e complessità che non deve essere risolta in sede di prima lettura del nuovo istituto.
Vero è che quelle prospettate non sembrano le uniche conseguenze ipotizzabili per la mancata convocazione.
è forte, infatti, la tentazione di ritenere che proprio il rispetto dell'obbligo di chiamare ad intervenire i legittimari lasciati fuori dall'assegnazione non rilevi né sul piano della validità-efficacia del contratto, né sul piano della produzione dei suoi effetti successori nei confronti dei legittimari non invitati, e che operi, invece, sul diverso piano della opponibilità della sola determinazione quantitativa della quota di loro spettanza.
La posizione dei legittimari che non siano stati sollecitati a partecipare dovrebbe differenziarsi da quella dei legittimari che invece lo siano stati, sul piano dunque dell'accertamento dell'entità della prestazione cui siano tenuti, nei loro confronti, gli assegnatari.
Invero, se a quei legittimari, nei cui confronti l'obbligo di convocazione è stato assolto, deve anche reputarsi opponibile la quantificazione decisa dai contraenti, in quanto la stabilità delle vicende giuridiche corrisponde ad un'istanza generalizzata dell'ordinamento che non merita di essere sacrificata agli interessi patrimoniali di coloro che si mostrino poco attenti alla cura dei loro stessi affari, diversamente, la liquidazione della quota dei legittimari che non siano stati convocati, pur concluso il patto, deve ancora ritenersi impregiudicata, ed è comunque loro inopponibile sebbene sia già stata decisa dagli stessi contraenti.
L'interpretazione della disposizione al vaglio, di cui all'art. 768-quater, primo comma., che la finalizzi a tale specifico scopo è resa plausibile, già a prima lettura, dall'inserimento della disposizione medesima in una norma che si preoccupa appunto della liquidazione della quota dei legittimari.
L'idea che il patto sia opponibile, fuorché per la (accessoria) determinazione quantitativa delle quote di loro competenza, anche ai legittimari non invitati a presenziare, deriva però, soprattutto, dalla convinzione che ai legittimari esclusi dall'assegnazione sia in ogni caso precluso di poter proficuamente opporsi alla decisione maturata dall'assegnante e dagli assegnatari; convinzione, questa, che si è già raggiunta sulla base della ratio legis e che può ricevere conferma anche dalla constatazione che nessuna delle nuove norme prevede, nè che i legittimari debbano esprimere il loro consenso affinché il contratto venga a conclusione, né che possano con giuridica rilevanza da ciò dissentire.
Invero, dal carattere ininfluente, sul fruttuoso perfezionamento del contratto, dell'eventuale presenza dei legittimari esclusi, e dalla constatazione che, seppur presenti, questi non potrebbero ostacolarne il proficuo compimento, è più consequenziale, rispetto ad ogni altra congettura, ritenere anche ultroneo, per la sua piena operatività, la loro stessa convocazione.
Per non dire, poi, della rispondenza di tale conclusione alle esigenze di certezza, ben presenti nella legge di riforma, - la quale mira per l'appunto alla stabilità dell'assegnazione -, e che, nella tesi opposta, sono invece pregiudicate dal carattere inevitabilmente anfibologico dei criteri alla cui stregua poter stabilire se, al momento della conclusione del contratto, l'esistenza di questi o quei legittimari, così come la relativa qualifica, fosse conosciuta o conoscibile, nonché dalla circostanza che, dell'una o dell'altra, avessero conoscenza, o potessero averne, non tutti ma soltanto alcuni dei contraenti e partecipanti al patto.
La tecnica della quale, - nella ricostruzione sostenuta -, si avvarrebbe l'ordinamento non rappresenta un'assoluta novità ed evoca, immediatamente, come dato referenziale di diritto positivo, quella utilizzata in altro luogo dal codice civile: la norma in questione è ora quella che, per rendere opponibile la divisione di beni immobili ai creditori iscritti e a coloro che su tali beni vantino diritti reali, richiede, all'art. 1113, terzo comma, che tutti costoro siano chiamati ad intervenire in essa realizzanda divisione [nota 35].
Non si dica che la citata norma sanziona la mancata convocazione degli aventi diritto con l'inopponibilità dell'intero contratto.
Ciò a cui essa norma proprio intende non vincolare questi ultimi, ove non appositamente invitati, è ancora una volta la determinazione quantitativa dell'attribuzione ricevuta dai loro danti causa, sol che l'apporzionamento rappresenta, nella divisione, l'unico effetto del contratto e, pertanto, l'inopponibilità dell'uno non può che coinvolgere anche l'inopponibilità dell'altro.
Alla stregua di tale interpretazione, può capitare, dunque, che la (definitiva) determinazione dell'entità della liquidazione risulti posposta alla conclusione del patto; epperò questa, in quanto correlata a criteri prestabiliti, necessitando soltanto di essere espressa in termini numerici, si presta bene ad essere collocata in un momento successivo a quello in cui la regolamentazione dispositiva sia stata ormai definita.
La riscossione, dal canto suo, attiene alla fase attuativa, la cui posticipazione rispetto a quella programmatica è proprio congeniale a tale sua natura.
D'altronde, è la stessa legge che espressamente contempla entrambe le situazioni, del differimento della quantificazione della quota, implicitamente nell'art. 768-sexies, primo comma, e del pagamento del relativo controvalore, esplicitamente nello stesso art. 768-sexies, primo comma, e nell'art. 768-quater terzo comma.
Ed è ben noto, in tutt'altro campo, il caso, - sul quale si avrà anche modo di compiere qualche ulteriore cenno nel prosieguo -, in cui la compagine di una società di persone, morto il socio, ai sensi dell'art. 2284, c.c., si restringe immediatamente ai soci superstiti, e tuttavia è riconosciuto a costoro, in virtù dell'art. 2289 c.c., un certo lasso di tempo per liquidare agli eredi la quota di loro competenza; liquidazione che viene pure differita, per legge, nel caso dell'esclusione o del recesso di uno dei soci.
Ancora sulla interferenza con il divieto dei patti successori
L'addotta ricostruzione prevede anche una qualche ulteriore implicazione di carattere sistematico: così, se del Patto di famiglia si è già esclusa, con riguardo all'attribuzione (principale) dell'azienda e delle partecipazioni societarie, la qualificazione in termini di patto successorio istitutivo, deve ora anche negarsene la natura di patto dispositivo [nota 36] o rinunciativo [nota 37], o almeno una sua significativa connotazione in tal guisa.
Poiché la commutazione della (presunta) quota di legittima non è opera del legittimario, non si verifica, da parte sua, alcuna disposizione della stessa; siccome, inoltre, il diritto di legittima non viene dismesso e, rafforzato in quanto reso subito attuale dalla legge, viene anzi, nella sua nuova versione, reso immediatamente esercitabile, nemmeno si può scorgere, nell'operazione, una corrispondente rinuncia [nota 38].
Gli stessi accenni di natura successoria riscontrabili nella dispensa da collazione [nota 39] e nella sottrazione da ogni azione di riduzione, quali sancite dall'art. 768-quater, ultimo comma, se non li si voglia imputare direttamente alla legge anziché alla volontà dei contraenti, implicano una disposizione dei futuri diritti di legittima, non da parte di chi si presuma esserne il titolare, - salvo, verosimilmente, che, secondo la ricostruzione che subordini l'efficacia o l'opponibilità del patto alla convocazione dei legittimari esclusi, nella limitata ipotesi della successiva adesione da parte dei legittimari non invitati -, bensì da parte di soggetti terzi, - l'assegnante e gli assegnatari dell'azienda e delle partecipazioni sociali -, mentre l'art. 458, c.c., contempla espressamente la sola disposizione di diritti successori che appartengono allo stesso disponente.
A ben intendere, la fattispecie prevede residuali profili che potrebbero chiamare in causa la figura del patto successorio istitutivo, sotto il limitato aspetto della conformazione del diritto dei legittimari che non ricevono l'azienda o le partecipazioni societarie; eppure, il nuovo assetto di interessi non è destinato ad attuarsi alla morte del beneficiante, bensì immediatamente, quando questi è ancora in vita, e, quanto a quei risvolti che si rendono attuali soltanto all'apertura della successione, essi ineriscono pur sempre ad un programma negoziale che, a carico del disponente, determina sacrifici patrimoniali immediati, durante la sua stessa vita.
In ogni caso, anche a volere tener conto di ognuno degli evidenziati profili del contratto che più direttamente coinvolgono il momento successorio, deve convenirsi che esso contratto interferisce con il divieto sancito dal citato art. 458 tutt'al più nella sola sua zona di confine: ciò è ancor più a dirsi con riguardo alla rinuncia che, all'art. 768-quater, secondo comma, la legge ipotizza possa essere compiuta a latere dal Patto di famiglia e che, totale o parziale, concerne innanzitutto un diritto attuale, che sorge con il contratto, ed è quello di ottenere la liquidazione, e soltanto allude ad una deroga al divieto dei patti successori c.d. rinunciativi, nella specifica versione sancita dall'art. 557, secondo comma, c.c.
In definitiva, la deroga, che nel citato art. 458 viene contemplata in relazione al nuovo istituto, è da ascriversi soprattutto ai timori del legislatore di poter tradire la coerenza del sistema o, forse, più plausibilmente, al suo scarso interesse per le ricostruzioni dottrinali.
Si abbia il coraggio di ammettere che, una volta definiti i caratteri strutturali e funzionali della nuova figura contrattuale e accertato che le relative attribuzioni sono di natura inter vivos, poco importa stabilire se essa determini anche una deroga, che forse è soltanto un'incrinatura, al divisato divieto.
Evidentemente non si vuole dire affatto che, non rinvenendosi un'eccezione al divieto dei patti successori, il risultato finale realizzabile con il Patto di famiglia potesse trovare attuazione, già nel previgente regime, prima ancora della riforma: deve essere chiaro, infatti, che soltanto dalla legge poteva dipendere la prevista stabilità dell'assegnazione liberale disposta con il patto.
E invero, fuori dal patto, è sì possibile che le ragioni dei legittimari vengano in diverso modo qualitativamente conformate, quando sia ancora in vita il de cuius (anche con beni non provenienti dal suo patrimonio), e tuttavia il buon esito di ogni programma negoziale volto a tale fine, assicurato nel patto dall'esenzione da azioni di riduzione e obblighi di collazione, resta incerto, nella disciplina comune, fino all'apertura della successione.
Le pretese postume dei legittimari: il caso dei legittimari che disertano il Patto, pur chiamati ad intervenirvi
L'art. 768-sexies ipotizza il caso dei legittimari che non abbiano partecipato al contratto, per attribuire loro il diritto a ricevere il pagamento della prevista somma soltanto al momento dell'apertura della successione.
La norma si armonizza bene con l'asserita non essenzialità dell'intervento dei legittimari, quale che sia il momento in cui la corrispondente qualifica sia stata acquistata o resa nota [nota 40], e al suo ambito di applicazione deve essere ricondotta, secondo il ragionamento fin qui svolto, anche la posizione dei legittimari che non abbiano aderito alla convocazione.
Alla stregua di essa norma, dunque, coloro i quali, essendo stati chiamati a partecipare al patto, declinarono l'invito, da un lato, non vengono privati dei loro diritti di legittima, perché la sanzione risulterebbe eccessivamente afflittiva, in un sistema ereditario il quale ancora gravita intorno all'istituto della successione necessaria e nel quale l'incidenza, sul funzionamento di esso istituto, di istanze esogene alla logica che vi è sottesa ancora si connota in termini di eccezionalità; dall'altro, sono costretti a scontare la loro indolenza, cosicché gli è impedito di poter compulsare a loro piacimento gli assegnatari, che pure diligentemente li avevano invitati e che, altrimenti, dovrebbero rimanere, inammissibilmente, in stato di continua allerta.
Occorre piuttosto mantenere fermo il principio che il calcolo della somma spettante ai legittimari, a fronte dell'assegnazione dell'azienda e delle partecipazioni societarie, sebbene siano procrastinati i termini per far valere rivendicazioni di sorta, va comunque effettuato con riguardo al momento in cui il patto fu perfezionato.
Il patto interviene adesso a fissare definitivamente il momento al quale rapportare il valore dell'azienda o delle partecipazioni per il conteggio della quota di liquidazione dei legittimari, ma l'attribuzione della corrispondente pretesa nei confronti degli assegnatari resta sottoposta, per legge, alla condizione che le inerenti ragioni permangano in essere fino all'apertura della successione.
Nel complesso, la posizione dei legittimari, le cui ragioni ricevono solo considerazione postuma, non assurge ancora allo stadio di vero e proprio diritto, perché le corrispondenti pretese non possono essere immediatamente attivate, mentre può discutersi, - ma la questione, in quanto di secondo grado, allo stato deve essere lasciata aperta -, se l'intervento del patto, in relazione altresì alla cristallizzazione, che ne consegue, dei parametri di valutazione dei beni assegnati, valga, o meno, a connotarla di significativa giuridicità, come aspettativa di diritto, anche in vario modo disponibile.
…(segue) il caso dei legittimari originariamente sconosciuti o sopravvenuti
Sempre, quando la legittimazione negoziale è connessa con una vicenda successoria, occorre fare i conti con l'impossibilità di conseguire assoluta certezza in ordine ai soggetti cui essa spetti.
La questione è particolarmente delicata, come si sa bene, in relazione all'esigenza di tutelare l'avente causa da chi vanti, quale titolo di provenienza, un acquisto per successione a causa di morte.
L'ordinamento, invero, ha ritenuto di porre a ciò rimedio ricorrendo al congegno dell'apparenza di diritto [nota 41], in virtù del quale ha sancito, all'art. 534 c.c., l'inattaccabilità dell'acquisto compiuto, in buona fede, contro l'erede apparente [nota 42], mentre altri ordinamenti si affidano a certificazioni variamente qualificate [nota 43].
Il problema si ripropone, ovviamente con le sue peculiarità, anche con riferimento al nuovo istituto del Patto di famiglia.
Ancora una volta, il rischio che, concluso il patto, si scopra l'esistenza di ulteriori legittimari rispetto a quelli considerati, mai, bisogna ammetterlo -, può essere del tutto scongiurato.
Occorre allora stabilire quale sia il criterio di soluzione del conflitto che può insorgere quando emergano successivamente legittimari in principio sconosciuti.
Costoro potrebbero essere parificati ad ogni altro legittimario che non sia stato convocato come invece gli spettava: in tal caso si graverebbe la posizione degli assegnatari che potrebbero aver programmato l'operazione sulla base di oculati calcoli economici e che, con possibile nocumento per la stessa efficienza dell'impresa di cui all'azienda o alle partecipazioni assegnate, potrebbero essere, invece, repentinamente chiamati a sostenere esborsi non previsti.
Di contro, potrebbero reputarsi del tutto esclusi dalla pregressa vicenda: in tal guisa la loro posizione verrebbe resa deteriore rispetto a quella di altri legittimari a causa di circostanze per le quali non possono essere chiamati a rispondere.
Il punto di equilibrio tra le configgenti istanze può forse nuovamente rinvenirsi nella regola disposta dall'esaminato art. 768-sexies.
Alla sua stregua, venendo le pretese, dei legittimari verso gli assegnatari, ribadite ma, al contempo, sia procrastinate, sia sottoposte alla condizione che nel frattempo non perdano l'originaria veste (di legittimari, per l'appunto), si tutelano in modo ragionevole, - se ben si intende -, tanto le esigenze dei legittimari, ai quali, - come si è detto -, non può essere addebitata la circostanza che fossero sconosciuti (rectius: che ne fosse sconosciuta tale loro qualifica), quanto le ragioni degli stessi assegnatari, che, avendo accettato l'assegnazione sul presupposto di dover sopportare un certo sacrificio economico, potrebbero non trovarsi magari in condizione di fare immediatamente fronte all'imprevisto pagamento [nota 44].
Occorre vagliare, peraltro, se, e entro quali termini, a seguito della rivelazione di nuovi legittimari, vedendosi incrementare l'entità della prestazione cui siano tenuti, gli assegnatari possano agire per l'annullamento del patto, che l'art. 768-quinquies, primo comma, proclama invero impugnabile ai sensi degli artt. 1427 e ss.
Infine, nemmeno è detto che la scoperta di altri legittimari comporti inevitabili aggravi del complessivo esborso facente carico agli assegnatari, atteso che, come subito si intuisce, può anche valere solo a determinare la necessità di una redistribuzione della somma da questi ultimi originariamente liquidata e corrisposta agli apparenti (unici) legittimari.
Lo stesso discorso svolto fin qui per i legittimari ignoti può essere riproposto, - se non ci si inganna -, anche per coloro che vengono ad esistenza, quali legittimari, successivamente alla conclusione del patto [nota 45]: soggetti, costoro, nei cui confronti pure occorre preoccuparsi di considerare le evidenziate ragioni degli assegnatari e che, nondimeno, meritano di vedersi riconosciute integre le loro aspettative, in quanto, - come si è avuto modo di precisare -, il nuovo istituto non è intervenuto a scardinare il tradizionale assetto della successione necessaria, ma in tale assetto, che anzi presuppone, mostra, per più versi, di volersi armonicamente integrare.
La donazione modale a favore dell'assegnatario e l'attribuzione a favore dei legittimari esclusi dall'assegnazione
Il Patto di famiglia si presta ad essere inteso come una qualificata ipotesi di donazione, gravata da onere a carico del donatario (cfr. art. 793 c.c.). [nota 46]
è vero che la liberalità è connotata da peculiari motivi, che assurgono a giuridica rilevanza.
Ora, - a parte la constatazione che, se si pretende che anche l'intangibilità dell'assegnazione sia riconducibile alle rappresentazioni mentali dei contraenti, questa costituisce più propriamente presupposto e non scopo o motivo dell'atto [nota 47] -, v'è soprattutto che, quale sia il contenuto delle motivazioni atte a qualificare il contratto come Patto di famiglia, esse non sembrano certo contraddire alla natura liberale dell'attribuzione, [nota 48] e anzi, a ben vedere, quanto alla previsione della stabilità dell'assegnazione stessa, addirittura a rafforzarla (ferma la questione dell'idoneità dell'onere in parola a ricondurre la fattispecie tra le donazioni connotate da corrispettività [nota 49]).
Se il Patto di famiglia deve essere calato tutto intero nella logica dell'autonomia privata, - come qui si propende a credere -, ma occorre ammettere che l'inquadramento ricostruttivo di fondo dipende, in ultima istanza, soprattutto dall'orientamento ideologico di ciascun interprete, viene naturale intenderlo, almeno nella sua configurazione tipica, alla stregua di una peculiare donazione gravata da onere [nota 50], nella quale la pattuizione modale, a carico del donatario, può essere riguardata come una sorta di stipulazione a favore di terzi [nota 51], in specie i legittimari esclusi dall'assegnazione.
Il vantaggio che costoro ne traggono risiede nel conseguimento di un diritto attuale ad ottenere la liquidazione della quota che solo ipoteticamente dovrebbe loro spettare all'apertura della successione dell'imprenditore assegnante.
Epperò il contratto per speciale concessione della legge determina, nella loro sfera giuridica, anche alterazioni non propriamente riconducibili alla nozione di beneficio che integra il concetto di stipulazione a favore di terzi.
Innanzitutto, ad esso consegue che il diritto al pagamento della predetta quota viene convogliato verso gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni, cosicché il corrispondente debito viene appuntato a loro carico, mentre, alla stregua delle normali regole, all'apertura della successione si sarebbe anche potuto verificare che non costoro, o soltanto costoro, fossero i soggetti ai quali i legittimari lesi potessero rivolgersi per vedersi reintegrati nelle loro ragioni (e non si obietti che la conseguenza è del tutto insignificante perchè il pagamento è ora immediato: in senso contrario, infatti, basterebbe pensare, oltre alla possibile ipotesi di una dilazione, prevista anche espressamente dall'art. 768-quater, anche alle varie ipotesi nelle quali l'eseguito pagamento possa essere successivamente inficiato).
Il contratto si prospetta, poi, in termini economici, come al contempo potenzialmente vantaggioso o svantaggioso per i legittimari in questione, e perciò, in definitiva, - forte dell'autorizzazione dell'ordinamento -, comunque invasivo, in modo "indiscreto" della di loro sfera giuridica, in relazione al suo qualificante momento della cristallizzazione, del valore dei cespiti assegnati, ai fini del calcolo della quota di legittima: ciò, attesa la duplice opposta eventualità che, fintantoché la successione del disponente non si sia ancora aperta, il valore di tali cespiti si riduca o, rispettivamente, si accresca.
La sua natura bifronte, di contratto che incide nell'altrui sfera giuridica in una duplice direzione, favorevole e sfavorevole, emerge inoltre con riguardo alla sottrazione da riduzione e collazione che riguarda, sia la liquidazione disposta a favore dei legittimari esclusi, sia l'assegnazione che sottrae loro l'azienda o le partecipazioni.
Ad ogni modo il contratto non si rivela a tal punto vantaggioso da attribuire, a quei legittimari che appaiono tali quando sia concluso, un diritto fermo e immutabile, laddove le loro originarie aspettative erano del tutto ipotetiche.
E invero, se il nuovo istituto non mostra di voler sconvolgere il comune sistema successorio, deve ritenersi, - come già si è affermato -, che alla fissità dei parametri di calcolo economico dei beni assegnati, non fa eco l'analoga inamovibilità degli aventi diritto alla liquidazione o per lo meno la stabilità della percentuale di partecipazione, di ciascuno di essi, alla liquidazione stessa: può accadere, così, che sopraggiungano o si rivelino nel tempo ulteriori legittimari con i quali la liquidazione vada condivisa o che, anteriormente all'apertura della successione, gli originari legittimari vengano a mancare oppure dismettano tale qualifica.
A beneficio della certezza dell'intera operazione, si sarebbe quasi tentati dal disconoscere ogni conseguenza di rilievo alla circostanza che i legittimari, individuati come tali in principio, vengano dipoi meno o mutino veste, senza che ad essi se ne sostituiscano altri.
Tuttavia, ciò implicherebbe una robusta forzatura dei vigenti principi del diritto ereditario soltanto per garantire una stabilità che invece non può essere mai veramente assicurata, stante l'inammissibilità di ogni soluzione che negasse il diritto di partecipare alla liquidazione ai legittimari sopravvenuti e, vieppiù, ai legittimari in origine non conosciuti. Proprio a costoro, di contro, - lo si è già intravisto -, una volta che la successione si sia aperta, deve essere riconosciuta la più ampia facoltà di innescare operazioni redistributive e conseguenti esperimenti di azioni di ripetizione: sia ben chiaro, non riferentesi all'azienda o alle partecipazioni societarie, ma pur sempre soltanto alle somme liquidate in sostituzione dell'una o delle altre (salvo piuttosto a dover accertare, - ma la questione può ricondursi a quella di grado ulteriore, rimessa ad un successivo stadio dell'indagine -, se debba, o meno, essere riconosciuta, a tale proposito, azione diretta anche nei confronti dei soggetti ai quali il pagamento sia stato originariamente eseguito) [nota 52].
Sebbene, per le esposte ragioni, la liquidazione a favore dei legittimari esclusi è priva del carattere di definitività, essa va vista ugualmente come una indiretta attribuzione, per il tramite degli assegnatari, da parte dell'imprenditore assegnante.
La si potrebbe intendere, in ultimo, come una sua liberalità indiretta [nota 53], e di una liberalità ancorché per più versi condizionata.
Bene si comprende, allora, come mai l'attribuzione sia imputabile alle "quote di legittima", che i beneficiari vantano nei confronti dell'imprenditore disponente, e soprattutto il senso di una dispensa da collazione e riduzione che è chiamata ad operare per tutti i partecipanti al patto: non solo gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie, ma anche i legittimari liquidati (che allo specifico fine di tale dispensa sono accomunati ai primi, dall'art. 768-quater ultimo comma, nella categoria denominata, questa volta, dei "contraenti").
L'esonero in parola opera adesso, per gli assegnatari, con riguardo al valore dei cespiti trasferitigli al netto della riduzione corrispondente all'importo delle somme, oggetto dell'onere, che sono liquidate ai legittimari esclusi dall'assegnazione (arg. ex art. 768-quater, comma 2); per questi ultimi, in relazione invece alle somme che ricevono in pagamento e che costituiscono l'indiretta liberalità della quale si è detto (arg. ex art. 768-quater, comma 3).
Evidentemente, in rapporto all'eventualità, sempre possibile a verificarsi, che la complessiva quota frazionaria di legittima abbia a rivelarsi, in definitiva, difforme da quella prospettata, atteso che numero e tipologia dei legittimari possano variare fino all'apertura della successione, l'onere in questione si connota di profili di una certa aleatorietà (operante, per l'appunto, nel senso delle condizioni cui risulta, per legge, subordinato).
Invero, per ciascun legittimario resta pur sempre incerto, - lo si è già accennato -, non solo il quantum, ma anche l'an della modalità, e la divisata incertezza appare ancora più evidente rispetto ai legittimari non ancora nati o che poi sopravvengono, la stipulazione a favore dei quali è tutta quanta sospensivamente, e non risolutivamente, condizionata.
D'altra parte, proprio a ragione di ciò l'effetto positivo che si determina nelle sfere giuridiche di questi ultimi è controbilanciato, da un effetto negativo, in modo ben più marcato di quanto si riscontra per i legittimari esistenti e noti al momento del perfezionamento del patto.
Esso effetto positivo, non risiedendo nell'attribuzione di un diritto attuale del quale i predetti legittimari sarebbero altrimenti privi, si esaurisce nel riconoscimento, in capo a loro, al momento dell'apertura della successione, di un diritto, sì nuovo, - quello ad ottenere la liquidazione della quota, da parte degli assegnatari, in base al valore di assegnazione dell'azienda o delle partecipazioni societarie -, ma sostitutivo di un diritto che oramai, poiché la successione si è aperta, pur sempre gli spetterebbe.
La natura di stipulazione a favore di terzi, che si è riconosciuta alla pattuizione modale, si stempera ora, fino a restarne offuscata, dalla interazione del contestuale contrappeso che i legittimari sono tenuti a sopportare.
Può ancora parlarsi, con riferimento ad essi, di liberalità indiretta ricevuta dal de cuius?
L'interrogativo richiederebbe di incamminarsi sul terreno molto accidentato della definizione del concetto di liberalità [nota 54], sul quale si vorrebbe, in questa sede, non inoltrarsi.
Ciò che sembra fuori discussione è che, secondo il diritto positivo, una liberalità, e così anche una vera e propria donazione, non cessa di essere tale soltanto perché, dovendosi imputare alla quota di legittima, impedisca al donatario di percepire alcunché dall'eredità (cfr. art. 552).
D'altra parte, è opinione plausibile cha la somma liquidata mai sia qualificabile come liberalità indiretta a ragione dei suoi divisati profili commutativi e non di meno vada considerata per la sua sostanziale "derivazione" da l patrimonio del disponente, che è dato di certo incontestabile.
La facoltatività del Patto di famiglia
Un importante momento di riflessione è dato dalle interferenze del nuovo istituto con il potere di autoregolamentazione dei soggetti che ivi sono chiamati in causa.
Il quesito è se ogni trasferimento che avvenga tra coloro che sono designati nell'art. 768-bis, e che abbia ad oggetto i beni pure ivi contemplati, debba assumere, gioco forza, la configurazione del Patto di famiglia o se questa dipenda, al contrario, dalla libera scelta dei soggetti tra i quali ha luogo il trasferimento.
Ancora una volta soccorrono considerazioni sulla ratio legis.
Obbligatorietà equivale anche a dire, ad esempio, che l'imprenditore il quale non si senta più in grado di gestire l'azienda, o ne abbia perso la necessaria motivazione, pur potendo contare su qualcuno dei suoi discendenti cui riconosca abilità imprenditoriali, possa essere costretto a non trasmettergliela, se questi non disponga, al momento, di sufficiente liquidità per fronteggiare le pretese degli ulteriori legittimari: ciò, quando invece la legge persegue proprio l'obiettivo di facilitare il trasferimento endo-familiare dell'azienda per la sua più adeguata conduzione.
Obbligatorietà significa compressione del potere di autonomia spettante all'imprenditore-assegnante e ai suoi discendenti-assegnatari, mentre lo spirito della riforma, come si è visto, risiede proprio nell'ampliarne il raggio di azione.
In ultimo, l'obbligatorietà comporterebbe, come conseguenza molto grave, una limitazione della capacità giuridica, con l'effetto di imporre una inutile penalizzazione alla circolazione giuridica della ricchezza, a beneficio, se ben si intende, delle istanze della categoria dei legittimari, laddove la riforma si prefigge, non di amplificarne la rilevanza, bensì proprio di mitigarne l'oppressiva incidenza.
è perciò obbligatorio ammettere, piuttosto, che le parti siano libere di scegliere, con la più ampia discrezionalità, se ricondurre o meno il trasferimento nell'alveo del nuovo istituto.
L'opzione in senso positivo dovrà penetrare nel programma negoziale, secondo le normali modalità con le quali questo suole recepire le intenzioni dei contraenti.
Nell'ipotesi, tipica, in cui intervengano, in fase di perfezionamento del contratto, anche ulteriori legittimari, la volontà dei contraenti di concludere un Patto di famiglia risulterà normalmente esplicita [nota 55].
Ma essa può reputarsi piana anche se in contratto, pur non partecipandovi i predetti legittimari, si dia atto della loro convocazione e/o comunque si convenga esplicitamente che gli assegnatari restino obbligati, nei termini previsti nella legge di riforma, nei confronti dei legittimari esclusi.
E allora si tratterà di dover stabilire se la volontà dei contraenti debba ricomprendere anche la sottrazione dell'assegnazione da riduzione e collazione o se, - come già sembrerebbe ad una prima lettura -, possa limitarsi a contemplare il soddisfacimento delle ragioni dei legittimari, quali ragguagliate alla (sola) entità dell'assegnazione.
Per il resto, si tratta di questione di interpretazione della volontà da risolversi, in relazione al caso concreto, mediante le comuni regole ermeneutiche e sulla base di tutto il materiale interpretativo disponibile.
In proposito occorre chiedersi se debba rinvenirsi, nell'ordinamento positivo, una regola di preferenza per il Patto di famiglia, cosicché, magari sulla base di una sorta di presunzione di una corrispondente volontà dei contraenti, il contratto, dotato dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge, debba qualificarsi come Patto di famiglia, se non venga disposto diversamente dai contraenti stessi.
Quale possa essere stata l'intenzione del legislatore, - che, verosimilmente, come si evince dalla perentorietà dell'art. 768-bis, era orientata nella ipotizzata direzione, se non addirittura verso la obbligatorietà del Patto di famiglia -, si è propensi, salvo ripensamenti, a dare all'interrogativo risposta negativa.
Invero, secondo i principi dell'autonomia privata, dai quali la nuova fattispecie non dichiara di volersi allontanare, e che proprio non c'è motivo ora di disattendere, gli effetti di ogni atto negoziale devono ricondursi, nella loro essenza, innanzitutto alla volontà delle sue parti: volontà che viene interpretata sì alla stregua di criteri di significazione obbiettivi, e tuttavia deve essere pur sempre riconducibile alla positiva determinazione di esse parti (mentre, come è noto, anche le regole dell'interpretazione c.d. obbiettiva - artt. 1366 e ss. c.c. - intervengono soltanto in via sussidiaria, quando tale volontà non può essere altrimenti accertata [nota 56]).
La necessaria presenza dei testimoni all'atto pubblico con il quale il contratto deve essere formalizzato
Qualora nessuna norma, tra quelle contenute nella nuova disciplina, si occupasse della forma, sarebbe consequenziale, nella prospettata ricostruzione, affermare con naturalezza che il Patto di famiglia debba essere stipulato (come ogni donazione) per atto pubblico, alla presenza dei testimoni (art. 48, primo comma, legge 16 febbraio 1913, n. 89).
V'è, invece, che alla forma è dedicato l'apposito art. 768-ter, il quale si limita a prescrivere che il contratto deve essere concluso, a pena di nullità, per atto pubblico, e non aggiunge che debbano anche presenziarvi i testi.
Potrebbe opinarsi che il legislatore non abbia menzionato i testimoni perché, non volendo qui risolvere questioni di qualificazione e preferendo rimetterle invece all'interprete, abbia ritenuto di affidare al momento ermeneutico anche il punto della necessarietà o meno del loro intervento; oppure che siano state recepite, nella legge di riforma, le più recenti tendenze, oramai condivise da buona parte della dottrina, verso una semplificazione formale della donazione, che la affranchi dal rituale dell'assistenza dei due testimoni [nota 57].
Del resto, il più generale orientamento a ridimensionare l'importanza dei testi è stato accolto, dall'ordinamento positivo, proprio in una recente legge di semplificazione, la n. 246 del 28 novembre 2005, art. 12, comma 1, lett. b ) e c ), che, modificando la legge notarile, ha invertito l'originario principio della obbligatoria compartecipazione dei testimoni all'atto pubblico, salva rinuncia da parte dei comparenti, sancendo che essa si rende ora necessaria soltanto, al contrario, se ne sia fatta apposita richiesta [nota 58].
Epperò, questa volta le cose stanno diversamente; così come anche lascia subito intendere il richiamo, appena compiuto, alla legge notarile.
Occorre tenere conto che la necessaria presenza dei testimoni nell'atto di donazione non è contemplata nella sua disciplina codicistica (cfr. art. 782), ma in quella cui è demandata la regolamentazione dell'atto pubblico, che è appunto la legge notarile (art. 48, primo comma, cit., L.N.).
Ebbene, la riforma, nell'introdurre il nuovo istituto, si è giustamente preoccupata di innovare il testo normativo nel quale esso meritava di essere collocato, introducendo, come si è visto, un intero nuovo capo al codice civile.
Ivi, proprio richiedendosi la forma pubblica, si è però resa altresì applicabile la più volte citata legge notarile che, dell'atto pubblico, detta la disciplina: e, con essa, allora, anche la disposizione che, nella donazione, rende per l'appunto necessaria la presenza dei testimoni [nota 59].
In realtà, la stessa forma per atto pubblico, con riguardo alla configurazione tipica del patto, sarebbe comunque risultata imposta dalla natura donativa di quest'ultimo, ancorchè non fosse stata espressamente sancita.
Nondimeno la sua puntuale previsione, che per buona parte si può presumere sia da ascrivere alle incertezze di qualificazione in cui deve essersi imbattuto il legislatore, può divenire significativa in relazione alla possibilità che l'operazione si realizzi mediante procedimento negoziale indiretto, dei termini e delle modalità di impiego del quale, - che non può essere ricondotto alla previsione tipica della legge -, ci si dovrà però occupare in un successivo stadio dell'indagine, quando l'istituto verrà posto in osservazione per i suoi profili più particolareggiati e di maggior dettaglio.
L'intervento dei legittimari esclusi dall'assegnazione in funzione della liquidazione della quota di competenza e della riscossione della relativa somma
è opportuno che la riflessione torni a concentrarsi su portata e modalità della partecipazione, al patto, dei legittimari che non beneficiano dell'assegnazione: partecipazione che può essere intesa, sia in termini di mero elemento fattuale, (una "presenza muta" quale quella che è propria dei terzi intervenienti alla divisione [nota 60] ex art. 1113, terzo comma c.c. [nota 61]), sia in termini di vera e propria manifestazione di consenso costitutivo del contratto, sia, ancora, in chiave di adesione esterna al contratto stesso, e che, nello spettro delle possibili opzioni, può riguardarsi, ora come requisito di perfezionamento del patto, ora come requisito di sua di validità o efficacia ovvero di opponibilità dei suoi effetti successori, ora, infine, quale elemento inerente in via esclusiva alla determinazione quantitativa della quota che gli assegnatari sono tenuti a pagare.
Si è sostenuto allora che il rispetto della ratio legis suggerisce di emancipare la realizzazione dell'operazione dalla cooperazione, in qualunque modo intesa, dei legittimari esclusi [nota 62], mettendosi anche in evidenza che la ricostruzione la quale imponesse una tale cooperazione, imporrebbe di incongruamente diversificare l'ipotesi dei legittimari già tali al momento della conclusione del contratto da quella dei legittimari sopraggiunti, che sicuramente sono destinati a non essere parti del contratto.
Sta di fatto che, se l'ordinamento si fosse preoccupato di garantire che l'ordinario assetto successorio non venga alterato senza la compartecipazione di coloro che pure ne subiscono le conseguenze, di tale preoccupazione avrebbe dovuto farsi carico anche con riguardo ai legittimari non attualmente presenti: ciò che non deve apparire irrealizzabile, atteso che ben si sarebbe potuta prevedere, ad esempio, la nomina di appositi curatori tenuti a partecipare al contratto, soprattutto per il caso in cui, al momento della sua conclusione, non sussistano altri legittimari oltre gli assegnatari.
Queste stesse ragioni di coerenza varrebbero anche ad ulteriormente smentire l'opinione che, al fine ancora di coinvolgere la positiva valutazione di tutti gli interessati, alla collaborazione dei legittimari pretermessi assegnasse il compito di condizionare l'esclusiva opponibilità del contratto per i soli effetti di natura successoria.
Ma l'opinione stessa suscita perplessità anche per la possibilità, che essa potrebbe implicare, di ledere l'autonomia dei contraenti, i quali, alla sua stregua, potrebbero vedersi contrattualmente vincolati l'un l'altro pur senza poter realizzare gli interessi effettivamente perseguiti.
E di una violazione, nel senso anzidetto, dell'autonomia contrattuale sarebbe anche a dirsi per la tesi che, riguardata la partecipazione dei legittimari esclusi come elemento coessenziale del contratto, pretenda, in difetto dell'una, di qualificare l'altro come pura e semplice donazione dell'azienda o delle partecipazioni societarie [nota 63].
Il punto è piuttosto, - ed è il caso di ribadirlo -, che l'adesione dei legittimari che non beneficiano dell'assegnazione non incide, né sul trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni, né sul suo momento effettuale avente più immediate implicazioni successorie: e così, né sulla cristallizzazione del valore dei cespiti dedotti in contratto, né sulla loro separazione dalla restante massa ereditaria, né, ancora, sulla commutazione dell'ipotetica quota di legittima in diritto attuale (ancorché in vario modo risolutivamente condizionato) al pagamento di una somma di danaro, né, infine, dal sancito esonero da riduzione e collazione.
è l'esigenza di assicurare razionalità (e forse anche il valore in sé di una più ampia possibilità di allocazione) nella trasmissione endo-familiare dell'azienda e delle partecipazioni societarie, cui proprio è improntata la nuova legge, a volere, - come si è già sostenuto -, che la vicenda non debba risentire di valutazioni di mera convenienza soggettiva dei legittimari che restano estromessi dall'assegnazione.
Ecco, allora, che l'adesione di questi ultimi si va definitivamente delineando come atto incidente, in modo esclusivo, sulla determinazione quantitativa del diritto, attualizzato, dei legittimari esclusi.
Si è sostenuto, in una precedente parte di questa indagine, che il Patto di famiglia produce effetti sulla sfera giuridica dei terzi, al tempo stesso favorevoli e (almeno potenzialmente) sfavorevoli.
Tale invasione dell'altrui assetto di interessi gli è resa possibile dall'autorità della legge: e, invero, - valga aggiungere ora quest'ulteriore considerazione -, proprio il più peculiare effetto del contratto, quello di esonero da riduzione o collazione delle attribuzioni che per il suo tramite si eseguono, sembra dipendere, anche testualmente, non dalla positiva previsione contrattuale, ma direttamente da essa stessa legge.
Ebbene, c'è un effetto che può essere rimesso al concorso della determinazione dei predetti legittimari e che è giusto ad essa determinazione rimettere, in quanto in tal guisa i loro interessi risultano tutelati senza un significativo nocumento per la attuabilità dell'operazione: tale è la quantificazione in numerario dei diritti ad essi spettanti.
La divisata determinazione quantitativa resta ancorata a parametri oggettivi, dei quali solo tocca ai partecipanti di avvalersi, dopo averli essi stessi esplicitati; conseguentemente ogni disaccordo al riguardo non vale a precludere la conclusione dell'operazione, ma soltanto legittima il ricorso all'autorità giudiziaria.
Discorrendo in termini più analitici, si può assumere che al Patto di famiglia afferisca anche, tipicamente, un accordo di liquidazione e che, mentre l'uno, che si conclude in un momento logicamente precedente, è a struttura bilaterale, l'altro, successivo, è finalmente a struttura trilatera ovvero, - epperò si tratta di questione di secondo grado da risolversi in seguito -, ancora una volta bilaterale, nel quale l'adesione dei legittimari esclusi operi come condizione di opponibilità.
La conseguenza dovrebbe essere, - a quanto pare -, che una volta intervenuto anche questo ulteriore accordo, la determinazione quantitativa potrà essere contestata soltanto mediante impugnazione per vizi della volontà, mentre resterà del tutto impregiudicata e sicuramente non sarà opponibile ai legittimari esclusi, qualora tale accordo ancora non sia stato raggiunto, semmai proprio perché vi manchi il consenso di questi ultimi (i quali, ad esempio, potrebbero addirittura non aver preso parte alla stipulazione del patto, in concomitanza con il quale l'accordo stesso dovrebbe normalmente concludersi).
Siccome, poi, la legge configura come immediatamente esercitabile il diritto dei legittimari, occorrerà valutare la eventuale ricorrenza di profili riscarcitori, qualora, in sede di perfezionamento del patto, per causa imputabile ai contraenti, non si addivenga anche alla definitiva liquidazione della quota ovvero non se ne abbia anche, in quella stessa sede, ad eseguire il pagamento, in previsione del quale pure è previsto, evidentemente, l'intervento dei legittimari. E obblighi di risarcimento sono configurabili anche verso quelli tra i legittimari che non siano stati avvertiti della stipulazione del patto.
L'accordo di liquidazione in natura della quota di legittima
è corretto ipotizzare che il diritto alla liquidazione, in quanto diritto attuale di natura patrimoniale, sia pienamente disponibile da parte del suo titolare (sebbene l'atto di disposizione debba reputarsi sottoposto alla medesima condizione risolutiva cui è subordinata l'attribuzione del diritto originario).
Già la legge prevede espressamente che ad esso, in tutto o in parte, i legittimari esclusi rinunzino: al riguardo è appena il caso di sottolineare che, nella ricostruzione proposta nel corso della presente indagine, oggetto della rinunzia non sono i presunti diritti successori, già per effetto del patto commutati in diritto attuale, bensì proprio il diritto all'immediato pagamento della somma come per l'appunto liquidata [nota 64].
E invero, anche dal punto di vista sintattico la rinuncia in parola è collegata, per il tramite della particella "vi", che dovrebbe poi stare per il pronome dimostrativo "ci", alla liquidazione e non invece al futuro diritto successorio, già estinto con il patto.
Se così è, ne consegue, altresì, che legittimari prescelti e legittimari esclusi possono senz'altro accordarsi tra loro per estinguere l'originaria obbligazione pecuniaria mediante datio in solutum [nota 65].
Anche il momento dell'adempimento della predetta obbligazione deve ritenersi rimesso alla disponibilità delle parti, le quali possono dunque convenire di posticiparlo ad una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del patto e della eventuale liquidazione della quota dei legittimari [nota 66].
La legge contempla in modo espresso tale ipotesi all'art. 768-quater, terzo comma, avendo riguardo verosimilmente al più specifico caso, sul quale si soffermerà tra breve l'attenzione, di un intervenuto accordo di adempimento in natura da parte dei contraenti; epperò non vi è alcuna ragione per non estendere tale facoltà anche al caso in cui il pagamento debba essere invece effettuato in danaro.
L'adempimento differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si configurerà come negozio traslativo di adempimento [nota 67], del quale, a beneficio della certezza, - e prescindendo dalle diverse opinioni espresse, in generale, con riguardo ai negozi a causa esterna [nota 68] e alla fenomenologia delle prestazioni isolate [nota 69] -, il menzionato art. 768-quater, terzo comma, postula come necessaria l'expressio causae.
Ora, proprio in previsione del predetto differimento, è anche ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il quale l'obbligazione pecuniaria venga sostituita con un'obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal danaro [nota 70].
Né si deve escludere che i partecipanti al patto, - questa volta tutti loro-, per la difficoltà di pervenire ad una cognizione unanimemente condivisa del valore dell'azienda o delle partecipazioni, decidano di quantificare le quote di legittima in via transattiva.
Stanti gli amplissimi margini entro i quali può spaziare l'autonomia degli interessati, occorre adesso chiedersi quale sia il significato precettivo della previsione, contenuta nel più volte citato art. 768-quater, terzo comma, secondo la quale i contraenti possono accordarsi per liquidare in natura i diritti di competenza dei legittimari.
Qual è il senso di una tale puntuale previsione quando la possibilità per le parti di novare l'obbligazione pecuniaria già discende direttamente dal principio di autonomia privata?
Per non disconoscerle ogni valenza normativa, si potrebbe ipotizzare che la liquidazione in natura che in essa viene in considerazione è quella che sia compiuta sul presupposto che il valore dei beni assegnati ai legittimari esclusi corrisponda esattamente all'importo della somma di danaro che essi avrebbero riscosso.
In altri termini, - ferma la facoltà dei legittimari preferiti e dei legittimari esclusi di concordare una novazione oggettiva, a seguito della quale la nuova obbligazione sostituisca quella precedente a prescindere dall'equivalenza o meno delle rispettive prestazioni -, la disposizione in commento prevede che, con l'accordo altresì del contraente che compie l'assegnazione, in quanto soggetto interessato, nella normalità dei casi, anche alla integrità degli interessi dei legittimari non assegnatari, possa essere convenuto, per soddisfare le ragioni di questi ultimi, un adempimento in natura, che tuttavia debba precipuamente assolvere alla medesima funzione di apporzionamento del pagamento in danaro, cosicché l'accordo resti connotato da quella medesima natura ricognitiva dei valori in gioco, che è tipica, - sebbene necessiti di essere in seguito più puntualmente definita -, dell'accordo liquidatorio in generale [nota 71].
Il senso ultimo di una siffatta lettura della norma dovrebbe essere che l'accordo in ordine all'assegnazione in natura e all'individuazione del bene che ne costituisce oggetto possa essere impugnato, per errore-vizio, anche, ricorrendone i presupposti, per il caso di errore sul valore, non solo dell'azienda o delle partecipazioni, ma questa volta dello stesso bene sostitutivo del danaro: valore altrimenti (in via di principio) irrilevante.
Invero, a chi scrive piacerebbe credere che nella disposizione al vaglio il termine "contraenti" sia utilizzato in senso proprio, ad indicare soltanto le parti del Patto di famiglia, e che, ivi, sia per l'appunto loro riconosciuta la facoltà di determinare con effetti vincolanti per i legittimari esclusi anche il contenuto della prestazione alla cui stregua debbano essere soddisfatte le ragioni di essi stessi legittimari: ciò sulla base della constatazione che i diritti dei legittimari non implicano pretese di tipo qualitativo ma soltanto di tipo quantitativo e che, le norme di diritto successorio già offrono al de cuius strumenti che gli consentono di decidere quale sia la composizione qualitativa delle quote dei singoli legittimari. [nota 72]
Se la tesi dovesse essere accolta, ne deriverebbe che i legittimari esclusi, ferma la loro soggezione al patto con il quale, in specie, sia stata programmata la liquidazione in natura dei loro diritti, siano liberi, se non abbiano a ciò consentito, di contestare non solo il valore dell'azienda o delle partecipazioni, ma anche il valore della prestazione loro riservata, con la facoltà, che ad essi spetta per principio, di incidere, in un modo o nell'altro, sulla liquidazione stessa e, verosimilmente, - ma il punto merita di essere approfondito -, con facoltà di richiedere integrazioni in danaro, ove spettanti.
L'adempimento differito della prestazione facente carico agli assegnatari
Anche la disposizione che ha riguardo alla esecuzione differita della prestazione posta a carico degli assegnatari merita un cenno di chiarificazione: che al contratto traslativo di adempimento debbano partecipare, sia il soggetto tenuto ad adempiere, sia il soggetto cui l'adempimento è diretto, appare cosa del tutto normale (salva la questione, che qui non deve essere affrontata, della natura necessariamente bilaterale di un siffatto negozio); in che senso deve però ora intendersi la prescrizione, pur essa contenuta nell'art. 768-quater, terzo comma, secondo la quale ad esso debbono partecipare o tutti i soggetti che hanno preso parte al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti?
Quanto alla prima alternativa, l'impressione è che, comunque, essa non è in grado di trasformare l'adempimento in fattispecie a partecipazione trilatera.
La conclusione sembra quasi ovvia in relazione al pagamento in danaro.
Al contrario, per l'adempimento in natura non è fuori luogo ipotizzare che occorra la partecipazione, oltre di coloro che debbano eseguirlo e coloro che debbano riceverlo, questi ultimi indipendentemente dalla circostanza che abbiano partecipato al patto, anche del disponente: ciò, in considerazione del di lui interesse a controllare che la prestazione venga svolta nei termini pattuiti e la vicenda venga correttamente definita, in quanto nell'operazione sono pur sempre in gioco i suoi rapporti con i più stretti congiunti, che coinvolgono anche, per più versi, il piano degli affetti e delle responsabilità morali.
Meno facile risulta però derivare dalla sua eventuale assenza conseguenze di sorta sulla validità dell'adempimento stesso pur regolarmente eseguito.
Verosimilmente, allora, l'ipotesi cui la norma in commento ha riguardo è quella in cui ancora si tratti, essendosene per questo o quel motivo disposto il differimento, se non addirittura di quantificare le quote, di decidere che l'adempimento avvenga con beni diversi dal danaro e, al contempo, quale ne sia in concreto l'oggetto.
In relazione all'accordo di commutazione in natura della prestazione cui sono tenuti gli assegnatari, si è già detto che l'intervento del disponente, non tanto è obbligatorio, quanto rileva al fine di peculiarmente connotare l'adempimento in natura, così che esso resti caratterizzato in funzione liquidatoria, e addirittura si è prospettata l'idea che l'accordo stesso possa fare a meno del consenso dei legittimari esclusi.
Va adesso precisato che la decisione di eseguire la liquidazione in natura, a seconda che implichi, o meno, anche il contestuale soddisfacimento delle ragioni dei legittimari, se posteriore alla conclusione del patto, può essere riguardata in termini di novazione o, rispettivamente, di datio in solutum. è plausibile che proprio a tale ultima ipotesi si riferisca, - ferma la legittimità anche di un accordo meramente novativo -, la norma al vaglio e che, pertanto, la presenza dei partecipanti sia ivi connessa, per quanto di competenza di ciascuno, tanto alla decisione di commutazione in natura, quanto alla contestuale esecuzione della prestazione.
Che dire, finalmente, della previsione dell'intervento di eventuali sostituti in alternativa agli originari interessati?
Dovrebbe essere evidente che essa non può riferirsi agli eredi di questi ultimi, in quanto se gli originari legittimari vengono a mancare, poiché la liquidazione dovrà andare comunque a beneficio di chi sia legittimario all'apertura della successione, risulterebbe incongruo farla conseguire a soggetti che è già stabilito debbano poi riversarla ad altri. I sostituti in questione non possono allora che essere coloro che abbiano assunto la qualifica di legittimari già spettante a coloro che siano intervenuti nel patto [nota 73].
Le istanze sottese alla norma in commento devono ricondursi, dunque, a ragioni di economicità dei mezzi giuridici.
Sembra soluzione sensata quella per la quale, quando il pagamento della quota, in natura o anche in danaro, non sia stato ancora eseguito, e la vicenda sia quindi tutt'ora in itinere, esso pagamento vada eseguito, se nel frattempo siano intervenuti gli aventi diritto, direttamente nei confronti di costoro, a vantaggio dei quali pur sempre dovrebbe in definitiva risolversi.
Questo il punto: una volta effettuato il pagamento, è comprensibile che la legge preferisca attendere l'apertura della successione prima di eventualmente permettere redistribuzioni di sorta, perché altrimenti, se non si attendesse il momento ultimo in cui l'assetto successorio non possa più essere modificato, si correrebbe il rischio di dovere effettuare continue operazioni di aggiornamento; quando, invece, il pagamento sia ancora da eseguirsi, e quindi non si tratti di compiere restituzioni di alcunché, è del pari giustificato, proprio per l'interesse ad evitare future ripetizioni, che la legge richieda che esso pagamento sia svolto direttamente nei confronti dei legittimari eventualmente sopraggiunti.
I cespiti assegnati con il Patto in relazione alla vicenda successoria del disponente
La portata del patto emerge appieno se lo si proietta al momento dell'apertura della successione del disponente e se ne osserva quale sia l'incidenza sulla operatività delle regole del diritto ereditario.
A fronte del dato normativo, che da un lato esclude da riduzione e collazione quanto ricevuto con il patto dai contraenti, dall'altro prescrive che i beni assegnati ai legittimari lasciati fuori dall'assegnazione dell'azienda o delle partecipazioni siano imputati alle loro quote di legittima (art. 768-quater, terzo e quarto comma, c.c.), l'interprete deve porsi il problema, per vero impellente, di accertare se i predetti cespiti vengono, o meno, in qualche modo coinvolti nella successione del disponente.
Mentre motivi di equità e ragionevolezza impongono di affermare che dall'esenzione da collazione e riduzione beneficiano, non solo la liberalità ricevuta dagli assegnatari, ma anche l'attribuzione compiuta a favore dei legittimari esclusi, - così dovendosi interpretare, in senso ampio la disposizione dell'art. 768-quater, ultimo comma –, occorre chiedersi se il valore dell'azienda o delle partecipazioni confluisca, o meno, nella riunione fittizia del patrimonio del de cuius (ex art. 556, c.c.) e se, dunque, quanto ciascuno dei partecipanti abbia ricevuto debba essergli conteggiato nel calcolo dei definitivi diritti di legittima (art. 564, secondo comma, c.c.).
Lo sbarramento posto dall'esonero da riduzione e collazione, in aggiunta alla constatazione che nella liquidazione dei legittimari esclusi la legge non prescrive di tenere conto di altre liberalità o lasciti provenienti dallo stesso disponente, vale a tradurre la questione in quella di dover stabilire se gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni debbano, o meno, vedersi conteggiare, a loro carico, il valore eccedente le quote di legittima, già calcolate con esclusivo riferimento all'uno o agli altri cespiti, quale da essi stessi acquisito in virtù del Patto di famiglia.
Posto che l'azienda assegnata ad uno dei figli dell'imprenditore sia del valore, quale calcolato all'epoca del patto, di 300 e che l'assegnatario abbia liquidato all'altro fratello la quota di 100 (cfr. art. 537, secondo comma, c.c.), egli avrà contabilizzato, a suo favore, oltre che il valore di 100, corrispondente alla sua quota di legittima, anche il restante valore di ulteriori 100, corrispondente alla quota disponibile, quale sempre ragguagliata al cespite assegnato.
Ora il dilemma consiste proprio nel decidere se, apertasi la successione, l'assegnatario debba anche imputare alla sua quota di legittima quel residuo valore che pure ha effettivamente conseguito nel suo patrimonio.
Come si è detto la formulazione della nuova disciplina crea qualche disagio, perchè, da un lato, mostra di voler del tutto escludere che i beni assegnati con il patto tornino in gioco, visto che ne esclude l'assoggettamento a riduzione e collazione e che, inoltre, per regola comune, all'esonero da collazione consegue anche quello da imputazione (cfr. art. 564, quarto comma, c.c.), nonché, per interpretazione corrente [nota 74], l'esonero dalla confluenza nella c.d. riunione fittizia; dall'altro, induce a pensare che quegli stessi beni tornino in considerazione, quando prevede che i legittimari esclusi debbano imputare alle loro quote di legittima ciò che abbiano ricevuto con il patto.
In una prima prospettiva, potrebbe addursi che, se in funzione dell'efficienza dell'impresa il nuovo istituto mira a garantire la stabilità dell'assegnazione, allora, sancitane l'irriducibilità, non vi è ragione di ulteriormente derogare alla disciplina generale e di ulteriormente privilegiare l'assegnatario, di fatto ampliandone i diritti successori.
Da altra angolazione, potrebbe però osservarsi che l'efficienza dell'impresa può anche richiedere, in aggiunta alla inamovibilità dell'assegnazione, anche la stabilità dell'assetto economico quale originariamente realizzato con il patto, e che proprio tale stabilità costituirebbe il più impegnativo proposito che, con l'esenzione da riduzione e collazione, la nuova disciplina si prefigge.
Dalla constatazione che precede potrebbe desumersi che l'azienda e le partecipazioni societarie, donate con il patto, restino del tutto scollegate dal restante patrimonio del de cuius e che, in definitiva, il patto collochi i cespiti, che con esso vengono assegnati, in una dimensione diversa rispetto a quella propria di ogni altro cespite del disponente.
La conclusione potrebbe anche ritenersi avallata da qualche ulteriore motivo di coerenza, ove si adduca che possa apparire incongruo far confluire in un unico conteggio cespiti assunti in base a valori ad essi spettanti in epoche diverse: il momento della conclusione del patto, quanto all'azienda e alle partecipazioni, il momento dell'apertura della successione, quanto ai restanti beni; ove, cioè, si assuma che la diacronia dei fattori di calcolo possa rendere illogico il conteggio, viziandolo.
In direzione di una completa autonomia del compendio patrimoniale che transita per il patto, vi è anche il dato, – già messo in risalto –, che, ai fini della liquidazione delle quote degli esclusi, la legge non si preoccupa affatto di eventuali donazioni che per ipotesi siano già state compiute dal disponente a favore di quest'ultimi.
In realtà, sembra che tanto l'una quanto l'altra conclusione possa trovare elementi di appiglio in questa o quella puntuale regola del diritto successorio.
Occorre allora ammettere che nella definizione della fisionomia dell'istituto finiranno per contare, più di ogni altro dato, le ragioni dell'opportunità e della adeguatezza, da valutarsi con riguardo all'insieme, sincreticamente considerato, degli interessi in gioco.
Nella lettura che ne proporrà ciascun interprete molto dipenderà, ovviamente, dalla sua personale propensione a parteggiare per l'una o per l'altra categoria degli interessi coinvolti e inevitabilmente in conflitto tra loro.
In ogni caso, non può non osservarsi che, quale sia il grado di autonomia delle attribuzioni che vi vengono compiute, il Patto di famiglia è strumento in potenza suscettibile di avere ricadute anche sulle donazioni precedentemente eseguite dal disponente, e così di ripercuotersi anche a danno dei terzi donatari del disponente o degli aventi causa da coloro che, pure legittimari, abbiano ricevuto per donazione da quest'ultimo il bene poi alienato.
L'esonero da riduzione delle attribuzioni liberali realizzate con il patto potrebbe, infatti, determinare il coinvolgimento di donazioni precedenti che, in mancanza del patto, sarebbero invece rimaste fuori discussione, così alterando l'ordine di riducibilità delle donazioni, che è sancito dall'art. 559, c.c., e al quale l'ordinamento dedica particolare considerazione, come si evince anche dall'art. 564, terzo comma, c.c., sebbene non manchi qualche blanda eccezione (cfr. ad es. art. 809, secondo comma, c.c.).
La questione è di sicura delicatezza; essa chiama inevitabilmente in gioco le ragioni del buon senso e ad essa l'interprete non potrà non dedicare la massima considerazione.
Le note che seguono sono a cura di Antonio Ruotolo.
[nota 1] Tale impulso riformatore proviene oggi dalla stessa Commissione europea, come risulta dalla raccomandazione della Commissione Ue del 7 dicembre 1994 e dalla comunicazione n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C 93 del 28 marzo 1998, in cui si rileva che «specialmente nel caso delle imprese familiari, gli accordi (interfamiliari) possono essere utilizzati per tramandare determinati criteri gestionali da una generazione all'altra», così come peraltro già avviene «nella maggioranza degli Stati membri». Ne consegue che «gli Stati membri che vietano i patti successori (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo) dovrebbero provvedere a consentirli, dal momento che il predetto divieto complica inutilmente la buona gestione del patrimonio (familiare)»: così la Relazione al disegno di legge 3870 dell'8 aprile 2003, assorbito poi dal disegno di legge 3567e trasfuso nella legge di riforma. Sulla comunicazione della Commissione Ue del 1994, v. CALò, «Piccole e medie imprese: cavallo di Troia di un diritto comunitario delle successioni?», Nuova Giur. Civ. Comm., 1997, II, p. 217 ss. e, con riferimento alla nuova legge, ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», Il Sole 24Ore, 3 febbraio 2006, p. 27.
[nota 2] Nella XIV legislatura il disegno di legge in esame trova i suoi antecedenti nel disegno di legge n. 1353 S., presentato il 23 aprile 2002, e nel citato disegno di legge n. 3870 C., presentato l'8 aprile 2003, entrambi assorbiti dal disegno di legge 3567. Quegli antecedenti prevedevano, tuttavia, una diversa collocazione delle norme sul Patto di famiglia all'interno del codice civile.
[nota 3] La legge sul Patto di famiglia si ricollega, in una certa misura, al disegno di legge n. 2799, presentato nel corso della XIII legislatura, e alla proposta che era stata avanzata nel Convegno di studi, tenutosi a Macerata il 24 marzo 1997 in collaborazione con il Consiglio Nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel), con il Consiglio Nazionale del Notariato e con il Gruppo di ricerca del Consiglio Nazionale delle ricerche sulla successione ereditaria nei beni produttivi, coordinato dai Proff. Pietro Rescigno e Antonio Masi.
Al riguardo, IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», Riv. Not., 1997, p. 1371 e ss.; ZOPPINI, Il Patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), Diritto Privato, Padova, 1998, p. 255 e ss., con particolare attenzione alle analoghe esperienze francese e tedesca (p. 261-263); STELLA RICHTER Jr., Il «patto di impresa» nella successione nei beni produttivi, Diritto Privato, Padova, 1998, p. 265 e ss.; DEL PRATO, «Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma», Riv. Not., 2001, p. 625 e ss.; BORTOLUZZI, «Successione nei beni di impresa: infeudamento o razionalizzazione dell'esercizio delle attribuzioni proprietarie?», Vita not., 1998, p. 1221 ss.; in tema v. anche SCHLESINGER, Interessi dell'impresa e interessi familiari nella vicenda successoria, La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova 1995, p. 131.
La legge di riforma si differenzia dal disegno di legge n. 2799 per l'esservi stata stralciata la parte relativa al c.d. «patto d'impresa», mentre il disegno di legge n. 3870 C., dal quale origina quello finalmente approvato, comprendeva tanto l'una quanto l'altra disciplina, riproducendo il larga parte il Ddl. 2799; v'è da dire, però, da un lato, che l'attuale Patto di famiglia, esorbitando dalla sua originaria configurazione, ricomprende anche il trasferimento di partecipazioni societarie, dall'altro, che con riferimento alle SpA e alle Srl le istanze sottese al patto d'impresa sono in buona parte soddisfatte dalle disposizioni degli artt. 2355-bis, terzo comma e 2469, secondo comma, introdotte dalla riforma del dir. soc. (D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6). Sulle clausole di predisposizione successoria, specialmente nelle Srl dopo la riforma, v. IEVA, «Le clausole limitative della circolazione delle partecipazioni societarie: profili generali e clausole di predisposizione successoria», Riv. Not., 2003, p. 1371 e ss.
Questo il testo del disegno di legge 2799, comunicato alla Presidenza il 2 ottobre 1997, recante Nuove norme in materia di patti successori relativi all'impresa:
«Art. 1. Dopo l'articolo 734 del codice civile, é inserito il seguente: Art. 734-bis. - (Patto di famiglia). - L'imprenditore può assegnare, con atto di donazione, l'azienda a uno o più discendenti.
Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge dell'imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di modificazioni del suo stato familiare.
Gli assegnatari dell'azienda devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.
Salvo patto contrario, i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti; l'assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.
Quanto ricevuto dai contraenti non é soggetto a collazione o riduzione.
All'apertura della successione dell'imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere ai beneficiari del contratto il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali.
Il presente articolo si applica anche alle partecipazioni sociali».
«Art. 2. 1. Dopo l'articolo 2284 del codice civile é inserito il seguente: Art. 2284-bis. - (Patto di impresa). - L'atto costitutivo può prevedere a favore dei soci o di terzi il diritto di acquistare le quote cadute in successione.
In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell'atto costitutivo, il diritto deve essere esercitato entro sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della successione.
Il prezzo deve corrispondere al valore delle quote e, salvo patto contrario, deve essere corrisposto contestualmente all'esercizio del diritto.
In caso di mancato accordo, il valore é determinato da un perito nominato ai sensi dell'articolo 2343-bis. I costi della perizia sono a carico di chi intende esercitare il diritto.
Dalla apertura della successione sino all'esercizio del diritto, all'espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del termine di cui al secondo comma, i diritti connessi alla titolarità delle quote cadute in successione sono sospesi».
«Art. 3. 1. Dopo l'articolo 2355 del codice civile é inserito il seguente:
Art. 2355-bis. - (Patto di impresa). - L'atto costitutivo può prevedere a favore della società, dei soci o di terzi il diritto di acquistare le azioni nominative cadute in successione.
In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell'atto costitutivo ovvero nello statuto sociale, il diritto deve essere esercitato entro sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della successione.
Si applicano il terzo e il quarto comma dell'articolo 2284-bis.
Dalla apertura della successione sino all'esercizio del diritto, all'espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del termine di cui al secondo comma, il diritto di voto per le azioni cadute in successione é sospeso; esse sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell'assemblea. é altresì sospeso il termine per esercitare il diritto di opzione»
«Art. 4. 1. All'articolo 2479 del codice civile é aggiunto il seguente comma: "Si applicano alla società a responsabilità limitata le disposizioni dell'articolo 2355-bis, fatta eccezione per l'ultimo periodo del quarto comma».
[nota 4] Relazione alla proposta di legge n. 3870, dalla quale origina il provvedimento in esame. Per un primo commento alla normativa in esame, LUPETTI «Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume; FIETTA «Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume; MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume, nonché BOLANO, «I patti successori e l'impresa alla luce di una recente proposta di legge», Contratti, 2006, p. 90; PICCIOLO, «Patti di famiglia: le istruzioni per l'uso. Come cedere l'azienda ad un discendente», D&G, diritto e giustizia n. 7 del 18 febbraio 2006, p. 115; vedi, altresì, sulla stampa, BUSANI, «La successione d'impresa decisa con un contratto», IlSole24Ore, 1° febbraio 2006, p. 1 e 23, BUSANI, LUCCHINI GUASTALLA, «Imprese e successione», IlSole24Ore, 20 febbraio 2006, p. 26; BUSANI, «Un Patto di famiglia per la successione d'impresa», Dir. prat. Soc., 5/2006, p. 6 ss.; AMATI, «Patti di famiglia. Un nuovo contratto per tramandare l'impresa di famiglia», Dir. prat. Soc., 5/2006, p. 20 ss.; Condò, «Il Patto di famiglia», Federnotizie, 2006, p. 59 ss.; FRIEDMANN, «Prime osservazioni sui Patti di famiglia», Federnotizie, 2006, p. 61 ss.
[nota 5] BOLANO, «I patti successori e l'impresa alla luce di una recente proposta di legge», cit., p. 90.
[nota 6] Così la Relazione al progetto di legge a firma dell'On. Pastore ed altri, rubricato con il n. 1353, poi confluito in quello n. 3567. Delle istanze salvaguardia dell'integrità e della continuità dell'impresa il legislatore si è già fatto carico, in qualche misura, nella normativa di diritto agrario: in particolare nell'art. 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari), ove si prevede che in caso di caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, quelli tra gli eredi che, al momento dell'apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola, in qualità di imprenditori a titolo principale o di coltivatori diretti, hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e sono considerati affittuari di esse; ed ancora, nell'art. 4 della legge 31 gennaio 1994, n. 97 (Nuove disposizioni per le zone montane), che stabilisce che nei comuni montani, gli eredi considerati affittuari ai sensi dell'articolo 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203, delle porzioni di fondi rustici ricomprese nelle quote degli altri coeredi hanno diritto, alla scadenza del rapporto di affitto instauratosi per legge, all'acquisto della proprietà delle porzioni medesime, unitamente alle scorte, alle pertinenze ed agli annessi rustici; nonché, infine, nell'art. 5-bis del D.lgs. 18 maggio 2001 n. 228, (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell'articolo 7 della L. 5 marzo 2001, n. 57, come introdotto dal D.lgs. 29 marzo 2004 n. 99), che, in tema di compendio unico, prevede che se nel decennio di indivisibilità i beni disponibili nell'asse ereditario non consentano la soddisfazione di tutti gli eredi secondo quanto disposto dalla legge in materia di successioni o dal dante causa, si provvede all'assegnazione del compendio all'erede che la richieda, con addebito dell'eccedenza; a favore degli eredi, per la parte non soddisfatta, sorge dunque un credito di valuta garantito da ipoteca, iscritta a tassa fissa sui terreni caduti in successione, da pagarsi entro due anni dall'apertura della stessa con un tasso d'interesse inferiore di un punto a quello legale. Per tali segnalazioni v. PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto con gli strumenti negoziali alternativi al testamento» - in questo volume.
[nota 7] Nella prospettiva di favorire la successione nell'impresa o nelle partecipazioni societarie in funzione della selezione dell'erede dotato di maggiore attitudine imprenditoriale già la prassi ammette - nelle società personali - clausole statutarie che consentono ai soci superstiti di scegliere tra i successori del socio defunto quello o quelli con i quali continuare il rapporto societario (in tal senso GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 499; PFNISTER, «Le clausole degli statuti delle società di persone in tema di morte del socio», Contr. e impr., 1999, p. 1446), fermo restando il diritto per gli altri eredi di ottenere la liquidazione della quota del socio defunto nei limiti del valore della rispettiva frazione ereditaria. L'utilità di tale clausola si rinviene nel temperamento al principio dell'unanimità che connota normalmente le manifestazioni di volontà che dovessero esser assunte dagli eredi e soprattutto nella possibilità di effettuare scelte strumentali all'impresa, evitando ai soci superstiti di doversi confrontare con i problemi concernenti i rapporti reciproci tra i coeredi e senza necessità di ricorrere ad aumenti di capitale o cessione di quote (PFNISTER, «Le clausole degli statuti delle società di persone in tema di morte del socio», cit., p. 1446).
[nota 8] Rileva ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», cit., p. 27, come «qualsiasi intervento legislativo deve realizzare tre obiettivi: preservare l'unità del bene produttivo; deve fornire l'univocità del controllo, evitando la frammentazione che si determina con la successione ereditaria; permettere di anticipare in vita il trasferimento dell'impresa e, dunque, l'investitura della leadership nel complesso produttivo».
[nota 9] Sugli interessi la cui attuazione viene ostacolata dal menzionato divieto, oltre a RESCIGNO, Attualità e destino del divieto di patti successori, in La trasmissione familiare della ricchezza (limiti e prospettive di riforma del sistema successorio), Padova, 1995, 1 e ss., e ROPPO, «Per una riforma del divieto dei patti successori», Riv. Dir. Priv., 1997, p. 5 e ss., CACCAVALE, TASSINARI, «Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma», Riv. Dir. Priv., 1997, p. 74 e ss., spec. p. 92 e ss., nonché CACCAVALE, Attualità del divieto dei patti successori?, Famiglia e circolazione giuridica, Milano, 1997, 135 e ss.
[nota 10] è emblematico che proprio il legislatore abbia espressamente rinviato il riempimento delle lacune, di cui era evidentemente ben consapevole, ad «un'adeguata attività interpretativa in funzione suppletiva» (così la Relazione al Senato nella seduta n. 552 del 26 gennaio 2006); in proposito, LUPETTI «Il finanziamento…» cit.
[nota 11] Sul divieto dei patti successori, tra gli altri, nelle trattazioni della materia successoria in generale, CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte - Parte generale, Napoli, s.d., p. 392 ss.; GANGI, La successione testamentaria, I, Milano, 1964, p. 40; GROSSO - BURDESE, Le successioni - Parte generale, Tratt. Vassalli, XI, 1, Torino, 1977, p. 92 ss.; FERRI, Successioni in generale, art. 456 - 511, in Comm. SCIALOJA – BRANCA, Bologna - Roma, 1980, p. 40; CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, Milano, 2002, p. 28 ss.; PALAZZO, Le successioni, I, in Tratt. Iudica - Zatti, Milano, 1996, p. 45 ss.; e, più recentemente, BIANCA, Diritto civile - II - La famiglia - Le successioni, Milano, 2005, p. 555 ss. Nella letteratura specificamente dedicata al tema, innanzitutto, DE GIORGI, I patti sulle successioni future, Napoli, 1976; ID., «Patto successorio», in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 534 ss.; inoltre, NICOLò, «Attribuzioni patrimoniali post mortem e mortis causa», Vita not., 1971, p. 147 ss.; LENZI, «Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma», Riv. Not, 1988, p. 1209 ss.; RESCIGNO, «Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori», Vita not., 1993, p. 1288 ss.; CACCAVALE, Il divieto di patti successori, in Successioni e donazioni, I, cur. Rescigno, Padova, 1994, p. 25 ss.; ID., «Patti successori: il sottile confine tra nullità e validità negoziale», Notariato, 1995, p. 552 ss.; MAGLIULO, «Il divieto dei patti successori istitutivi nella pratica negoziale», Riv. not., 1992, p. 1411 ss.; CACCAVALE, TASSINARI, «Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma», cit., p. 74 ss.; FUSARO, Il divieto dei patti successori, in Casi e Questioni di diritto privato - 2 - Successioni e Donazioni, Milano, 1995, p. 170 ss.; BONILINI, «Autonomia negoziale e diritto ereditario», Riv. Not., 2000, p. 789 ss. Nonché, per una ricognizione della dottrina e della giurisprudenza, COSTANZA, CALICETI, I Patti Successori, in Casi e Questioni di diritto privato - 2 - Successioni e Donazioni, Milano, 1995, p. 8 e ss.; MARELLA, Il divieto dei patti successori e le alternative convenzionali al testamento, I contratti in generale - Vol. II, Tomo II: I contratti atipici, Giur. Sist. Bigiavi, Torino, 1991, p. 1185 e ss.; ID., Il divieto di patti successori e le alternative convenzionali al testamento, aggiornamento, Giur. Sist. Bigiavi, Torino, 1999, p. 1709 ss. Di importanza sempre fondamentale, GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, p. 44 ss.; ID., Atto mortis causa, Enc. Dir., IV, Milano, 1959, p. 232 ss.
[nota 12] «Il patto istitutivo è la convenzione con la quale il soggetto dispone della propria successione» (BIANCA, Diritto civile - II - La famiglia - Le successioni, cit., p. 556).
[nota 13] Il patto dispositivo è il negozio mediante il quale il soggetto dispone (a favore di altri) di diritti che gli potranno spettare su una successione non ancora aperta (Bianca, Diritto civile - II - La famiglia - Le successioni, cit., p. 558).
[nota 14] Il patto rinunciativo è il negozio mediante il quale il soggetto rinunzia a diritti che gli potranno spettare su una successione non ancora aperta (ancora BIANCA, Diritto civile - II - La famiglia - Le successioni, cit., p. 558).
[nota 15] Invero, nessun significativo elemento accomuna le tre distinte figure, in quanto i profili che esse condividono, pure talvolta posti in risalto in dottrina (CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, cit., p. 28) - quali la circostanza che ciascun patto successorio sia sempre «un negozio non testamentario (contratto o negozio unilaterale)» il cui oggetto viene in «considerazione come entità di una futura successione», ovvero che esso, in ogni sua forma, determini la sorte finale di un bene di origine ereditaria - e in giurisprudenza (v., ad esempio, Trib. Roma, 30 maggio 1990, Giur. it., 1991, I, 2, p. 830, secondo cui patti successori sono quelle convenzioni, rivestite di forma contrattuale, aventi ad oggetto un'istituzione di erede, nonché la costituzione, trasmissione o estinzione di diritti relativi ad una successione non ancora aperta, che facciano sorgere un vinculum iuris di cui la successiva disposizione testamentaria costituisca un adempimento), sono privi di valenza assiologia e rilevano solo sul piano descrittivo.
[nota 16] CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, p. 28.
[nota 17] Afferma l'incoerenza della disposizione che prevede la necessaria partecipazione del coniuge del disponente con il fine di favorire il passaggio generazionale della ricchezza ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», cit., p. 27. Incoerenza che, secondo l'autore, non si giustifica neppure con l'essere il coniuge legittimario, posto che il coniuge al momento della conclusione del patto non sempre coincide con chi lo è al momento dell'apertura della successione.
[nota 18] Nessun dubbio che nel concetto di partecipazioni sociali rientrino sia le partecipazioni a società a responsabilità limitata, sia le azioni.
[nota 19] Ed è nella estensione dell'oggetto del Patto di famiglia dall'azienda anche alle partecipazioni societarie che si riscontrano le critiche più ricorrenti: in particolare, si è rilevato come mentre «si giustifica una deroga alla disciplina generale delle successioni per l'azienda, bene produttivo non divisibile, è del tutto illogico e probabilmente incostituzionale che il presupposto di una disciplina derogatoria sia legato al fatto che nel patrimonio compaiano partecipazioni sociali». Così ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», cit., p. 27.
[nota 20] Si paventa che la norma, così intesa, possa prestarsi facili operazioni elusive, in quanto basta conferire i beni in una società per sottrarsi alla disciplina imperativa (ancora ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», cit., p. 27). I primi commentatori appaiono al riguardo divisi. Si sostiene, da taluni che «alla luce della ratio della nuova normativa, che è di consentire il passaggio generazionale nella gestione dell'azienda, si dovrebbe concludere che la cessione dovrebbe avere ad oggetto una partecipazione che consenta (anche solo potenzialmente) al cessionario di continuare ad esercitare nell'azienda quel potere gestionale già presente in capo al cedente (a prescindere che si tratti di impresa individuale o collettiva, come si legge nei lavori parlamentari) o, comunque, di influire sulle scelte gestionali della società» (così LUPETTI «Il finanziamento…» cit.). Da altri, sia pure con qualche perplessità, che invece il tenore letterale della norma contempli anche le partecipazioni acquistate con mera finalità di investimento BUSANI, «Azienda ceduta in due mosse», IlSole24ore del 20 febbraio 2006, p. 26; invero, secondo FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit., 5, «nel caso delle partecipazioni, …, nessun requisito viene richiesto in capo al trasferente potendo così la normativa trovare applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio "risparmiatore" o solo nudo proprietario». Secondo PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit., non sembra possibile «escludere tout court dall'alveo applicativo della normativa in commento il trasferimento di partecipazioni societarie ritenute o da ritenersi irrilevanti ai fini della conduzione in forma collettiva dell'azienda, in quanto tale irrilevanza potrebbe essere smentita, come si diceva, da eventuali patti intercorrenti tra i soci ed afferenti sia pure indirettamente sulle sorti dell'azienda gestita in forma collettiva».
[nota 21] Significativa la posizione di chi (DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia. (Brogliaccio per una lettura disincantata)», cit.) distingue fra il Patto di famiglia avente ad oggetto l'azienda disposto da colui che non è imprenditore (ammesso da alcuni autori: PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006.; FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit.) ed il Patto di famiglia concernente partecipazioni societarie tali comunque da non assicurare il potere di gestione, ritenuto invece non consentito dalla maggior parte della dottrina (PETRELLI «La nuova disciplina…», cit.; MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit.; BOLANO, «I patti successori e l'impresa alla luce di una recente proposta di legge», cit., p. 94; LUPETTI «Il finanziamento…» cit.). Secondo CONDò, «Il Patto di famiglia», cit., p. 59, «se si vuol dare un senso alla legge e se si vuole raggiungere (o, almeno, tentare di raggiungere) l'intento del legislatore, si deve ritenere che le partecipazioni che possono formare oggetto del Patto di famiglia siano quelle di società di famiglia» ancorché «ben difficile sarà identificare quali società si possano definire di famiglia». Nello stesso senso FRIEDMANN, «Prime osservazioni sui Patti di famiglia», cit., p. 62.
[nota 22] GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 40 e ss.
[nota 23] GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 41. ID., Atto mortis causa, cit. 232.
[nota 24] Con riguardo all'esatto significato da attribuirsi alle due nozioni, e quindi al valore stesso di tale distinzione, la dottrina civilistica italiana segue tutt'ora la concezione elaborata nel corso degli anni cinquanta soprattutto da GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, cit. e TORRENTE, «Variazioni sul tema della donazione mortis causa», Foro It., 1959, I, p. 590. Sul tema è necessario poi consultare PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983; ID., «Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza familiare», Vita not., 1993, p. 1228 e ss.; ID., Le successioni, cit. p. 46 e ss.; ID., Istituti alternativi al testamento, Tratt. Perlingieri, Napoli, 2003; ID., Le successioni anomale: alternative contrattuali al testamento ed erosione del divieto dei patti successori, Casi e questioni di diritto privato, cur. Bessone, Milano, 1998, 182 e ss. IEVA, I fenomeni parasuccessori, in Successioni e donazioni, I, cur. Rescigno, Padova, 1994, p. 53 e ss. e Riv. Not., 1988, p. 1139 e ss.
[nota 25] CACCAVALE, Il divieto di patti successori, cit., p. 28. Vedi anche PRESTIPINO, Delle successioni in generale, Comm. De Martino, Novara, 1981, p. 60.
[nota 26] GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, cit., p. 42.
[nota 27] Sul quale, nella letteratura italiana, per tutti DE GIORGI, I patti sulle successioni future, cit., p. 241 e, più di recente, CALò, Dal probate al family trust, Milano, 1996, p. 103 e ss.; e ZOPPINI, Le successioni in diritto comparato, Tratt. dir. comp. Sacco, Torino, 2002; vedi altresì IANNACCONE, «legittimari e eredi legittimi nel diritto comparato», Notariato, 1997, p. 464 ss.
[nota 28] Per la natura inter vivos del Patto di famiglia espressamente FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit.; MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit.; PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit.; DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia. (Brogliaccio per una lettura disincantata)», cit.; PETRELLI «La nuova disciplina…», cit. Sul punto si veda già IEVA, «Le clausole limitative della circolazione delle partecipazioni societarie: profili generali e clausole di predisposizione successoria» cit. p. 1373.
[nota 29] Esclude che il Patto di famiglia integri il patto successorio istitutivo PETRELLI «La nuova disciplina…», cit., rilevandone la mancanza dei presupposti; conformemente, DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia. (Brogliaccio per una lettura disincantata)», cit.
[nota 30] D'altronde, sia detto per inciso, una certa dose di vincolatività, che l'ordinamento dovrebbe farsi carico di regolamentare, sarebbe consigliabile, quand'anche al disponente a causa di morte, sia attribuita piena facoltà di revoca. Ciò in special modo se l'attribuzione venga eseguita a titolo oneroso, ma anche se sia effettuata a titolo gratuito: in entrambi i casi, per ostacolare revoche surrettizie che, compiute di fatto mediante disposizione dei medesimi beni che costituiscono oggetto del contratto, non vengano adeguatamente formalizzate nei confronti del beneficiario e pertanto, o ne possono compromettere l'opportunità di tempestivamente attivare i rimedi disponibili per il recupero di quanto da lui stesso prestato, o comunque vengono a ledere quell'affidamento, nella tutela del quale invece il contratto successorio si differenzia dal negozio testamentario, che è esso solo atto di ultima volontà.
[nota 31] Varie sono state, ad oggi, le ricostruzioni sulla natura del Patto di famiglia: donazione modale (FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit.; MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit.); negozio divisorio (prima della novella, IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», cit., p. 1375 e DEL PRATO, «Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma», cit., p. 635; successivamente alla legge 50 del 2006, MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit. e LUPETTI «Il finanziamento…» cit.); negozio con funzione unitaria ma complessa, gratuito per il disponente e oneroso per il beneficiario che provveda alla liquidazione dei legittimari (MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit. e LUPETTI «Il finanziamento…» cit.); negozio tipico di natura complessa, con funzione irriducibile a quelle dei tipi contrattuali già previsti dal codice (PETRELLI «La nuova disciplina…», cit.; DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia. (Brogliaccio per una lettura disincantata)», cit.). Peculiare la posizione di PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit., secondo il quale «pur non avendo il legislatore qualificato espressamente il Patto di famiglia come donazione, esso è stato concepito dal legislatore (quanto meno nel segmento disponente-beneficiario), proprio con riferimento a tale figura negoziale. Ciò peraltro non esclude che pur nell'unitaria fattispecie negoziale al vaglio concorrano o possano concorrere altri e diversi profili causali. Infatti la "liquidazione" che segna il successivo eventuale segmento contrattuale nel rapporto beneficiario-legittimari non assegnatari ha una funzione, per così dire, distributiva-divisoria, certamente non assimilabile alla causa liberale; d'altra parte è anche vero che, qualora i legittimari non assegnatari (e proprio allo scopo di determinare un arricchimento indiretto a favore del beneficiario senza esservi tenuti) si determinassero a rinunciare in tutto o in parte al pagamento della somma compensativa del valore della riserva, sarebbe innegabile che anche in questo ulteriore segmento contrattuale ricorre un'evidente colorazione in senso donativo o più correttamente liberale della fattispecie, ai sensi dell'art. 809 c.c.».
[nota 32] Per i primi ragguagli sui contratti di disposizione in nome proprio di diritti altrui, v. LUMINOSO, Il mandato e la commissione, Tratt. Rescigno, 12, Torino, 1985, spec. 79 e ss. In generale, in ordine agli effetti del contratto rispetto ai terzi, si veda, per tutti, ROPPO, Il contratto, in Tratt. Iudica - Zatti, Milano, 2001, p. 563 e ss.
[nota 33] Alcuni ritengono, infatti, che la partecipazione del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore sia requisito essenziale del patto, altrimenti nullo, tanto da escludersi la validità di un'accettazione con atto pubblico posteriore. In tal senso, con riferimento alla proposta di riforma avanzata nel convegno di studi Convegno di studi, tenutosi a Macerata il 24 marzo 1997 (v. nota 3), IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», cit., p. 1375 e, con riguardo alla legge in commento, MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit., il quale evidenzia come, nel caso di specie, ricorra un'ipotesi di nullità virtuale, quale prevista dall'art. 1418 c.c. e BUSANI, «Successione d'impresa, spazio ai patti», IlSole24Ore, 1 febbraio 2006, p. 23. Nel senso del testo, PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit., secondo il quale, poiché il legislatore, nel nuovo art. 768-sexies c.c., ha previsto il pagamento della somma corrispondente al valore della quota di riserva, aumentata degli interessi legali, a favore del coniuge o di altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto, deve supporsi che il contratto rimanga comunque valido ed efficace, salvo l'obbligo del pagamento stesso, ancorché carente dell'intervento di uno o più legittimari. Secondo PETRELLI «La nuova disciplina…», cit., «l'espressione "devono partecipare" va quindi intesa non già come norma imperativa a pena di nullità del patto, bensì come "condizione" di vincolatività del patto nei confronti dei legittimari esistenti al momento della sua stipula».
[nota 34] Sembra doversi escludere, sul piano della indefettibilità o meno della partecipazione di tutti i soggetti, una rilevanza della diversa collocazione delle disposizioni in esame rispetto al progetto originario.
[nota 35] Requisito di efficacia della divisione è la chiamata, non l'intervento effettivo dei chiamati. Pertanto, effettuata la chiamata, la divisione avrà effetto nei loro riguardi (BRANCA, Comunione. Condominio degli edifici, sub artt. 1110-1139, Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, 307).
[nota 36] Secondo MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit, «il patto successorio dispositivo è ravvisabile nel fatto che il donatario (o assegnatario), in vita del de cuius, anticipa ai suoi fratelli o sorelle ed all'altro genitore quanto di loro spettanza sui beni, oggetto del patto, che altrimenti cadrebbero in successione». LUPETTI «Il finanziamento…» cit.., rinviene, invece, nel negozio in esame, e specificamente nella liquidazione dei diritti di legittima a favore dei legittimari partecipanti al patto, la natura di patto successorio, come tale volto a definire, da subito, tra i contraenti, i futuri assetti successori.
[nota 37] In senso contrario, MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit., per il quale «qualora i non assegnatari rinuncino alla liquidazione, si realizza un patto successorio rinunciativo, poiché, in sostanza, tali soggetti rinunciano preventivamente a diritti di legittima che gli possono spettare sulla successione del genitore non ancora aperta». Analogamente PETRELLI «La nuova disciplina…», cit., il quale afferma, che per l'ipotesi «in cui il legittimario rinunzi in tutto o in parte alla liquidazione dei propri diritti (come ammesso dall'art. 768-quater, comma 2, c.c.), si è in presenza di un vero e proprio patto successorio rinunciativo, in deroga all'art. 458 c.c.».
[nota 38] Contra PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit., il quale rinviene una sorta di rinuncia anticipata da parte dei legittimari a far valere i diritti ai medesimi (eventualmente) spettanti sulla futura successione dell'imprenditore o titolare delle partecipazioni trasferite, colpita da sicura nullità per contrasto con il divieto ex art. 458 c.c. in assenza della novella in commento nella «inoperatività dei meccanismi di riunione fittizia dell'asse ereditario (nel che consiste la collazione) e di decurtazione delle disposizioni poste in essere dall'autore della successione in vita lesive della riserva di taluno dei legittimari (nel che si esaurisce il fenomeno della riduzioni delle liberalità eccedenti la quota disponibile)»…«disposta dal legislatore della novella se solo il beneficiario (dell'azienda o delle partecipazioni) provveda a "liquidare" agli altri partecipanti al contratto non beneficiari (coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove al momento della sua conclusione si aprisse la successione nel patrimonio del soggetto e sempreché questi non vi rinunzino in tutto o in parte) una somma corrispondente al valore delle quote di riserva ad essi spettanti ai sensi dell'art. 536 c.c. e ss.».
[nota 39] La dispensa dalla collazione, contenuta in una donazione, ha natura di clausola contrattuale, e come tale non può essere eliminata ex post per volontà dell'uno o dell'altro contraente; essa, tuttavia, non urta contro il divieto di patti successori, trattandosi di mera modalità dell'attribuzione destinata ad avere efficacia (in funzione del rafforzamento di questa) dopo la morte del donante, e non di atto con cui costui dispone da vivo della propria successione (Cass. 7 maggio 1984, n. 2752, in Foro it., Rep. 1984, v. Successione ereditaria, n. 23).
[nota 40] «Non pare che la validità e l'efficacia di un Patto di famiglia debbano dipendere necessariamente dalla partecipazione di tutti gli effettivi legittimari: taluni di questi potrebbero per ipotesi non essere conosciuti o irreperibili, e la mancata prestazione del loro consenso potrebbe non essere attribuibile alla volontà di escluderli dall'accordo. Né sembra che il legislatore abbia richiesto il loro consenso a pena di nullità dell'accordo stesso, tant'è che nel nuovo art. 768-sexies c.c. ha previsto il pagamento della somma corrispondente al valore della quota di riserva, aumentata degli interessi legali, a favore del coniuge o di altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto, supponendo pertanto che il contratto rimanga comunque valido ed efficace, salvo l'obbligo del pagamento stesso». Così PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit.
[nota 41] Sul principio dell'apparenza di diritto, per tutti, FALZEA, Apparenza, Enc. Dir., II, Milano, 1958, p. 682 e ss. e D'AMELIO, Apparenza del diritto, Noviss. Dig. it, I, Torino, 1957, p. 714 e ss.
[nota 42] Sugli acquisti dall'erede apparente, oltre gli Autori citati nella nota precedente, MENGONI, Gli acquisti a "non domino", Milano, 1975, p. 155 e ss.; ID., «In tema di terzi acquirenti mediati dall'erede apparente», Riv. Dir. Comm., 1957, II, p. 105 e BUSNELLI, Erede apparente, Enc. Dir., XV, Milano, 1966, p. 198 e ss.; v. altresì, GROSSO - BURDESE, Le successioni, cit., p. 418 e ss.; PRESTIPINO, Delle successioni in generale, cit., p. 551; CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 255; BIANCA, Diritto civile - II - La famiglia - Le successioni, p. 661.
[nota 43] Alcuni ordinamenti stranieri prevedono l'emissione di un certificato di eredità da parte della pubblica autorità: così, ad esempio, sebbene con significative differenze, in Germania, in Austria, ma anche nelle località italiane di diritto tavolate (essenzialmente le Province di Trento, Bolzano, Gorizia e Trieste). Nell'ordinamento dei Paesi Bassi vige già da tempo la prassi del rilascio del certificato di eredità da parte del Notaio. Nei paesi di common law l'amministrazione dei beni ereditati e la consegna ai beneficiari vengono eseguite da un intermediario, sotto il controllo dell'autorità giudiziaria. In argomento, CACCAVALE, «La circolazione degli immobili con provenienza successoria e la trascrizione dell'accettazione dell'eredità», Familia, p. 2002, p. 1029 e ss., spec. p. 1031, nt. 5 e p. 1052 e ss.
[nota 44] Analoghe considerazioni possono essere ripetute per l'ipotesi di legittimari noti ma irreperibili.
[nota 45] MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit.
[nota 46] Sulla donazione modale v., per tutti, CARNEVALI, La donazione modale, Milano, 1969; ID., Le donazioni, in Trattato di Diritto Privato diretto da Rescigno, p. 6, Le successioni, II, Torino, 1997, p. 553 ss., CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., II, p. 806 e ss., nonché, di recente CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, in Tratt. Bessone, V, Torino, 2005, p. 118 e ss.
[nota 47] Per la menzionata distinzione v. DEIANA, Motivi nel diritto privato, Torino, 1939, ora anche in Ristampe della Scuola di perfezionamento in diritto civile dell'Università di Camerino a cura di Perlingieri, Napoli, s.d., p. 14 e ss.
[nota 48] Valgano al riguardo le osservazioni di CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione cit, p. 48, secondo il quale «il tipo donazione, quale il legislatore lo ha delineato, non è caratterizzato … dal motivo che determina il donante al contratto. Dalla disciplina dettata per esso emergono, peraltro, ipotesi di donazioni, che potremmo chiamare "motivate", nelle quali il motivo assume una qualche valenza caratterizzante, e che trovano una disciplina particolare nell'ambito di quella generale dettata per la donazione. Tali: le donazioni remuneratorie, quelle fatte in riguardo di matrimonio, talune donazioni modali».
[nota 49] In ordine alla compatibilità tra donazione modale e corrispettività v. CARNEVALI, La donazione modale, cit., spec. p. 124 e ss, p. 168 e ss. e p. 184 e ss.; ID., Le donazioni, cit., p. 555; contra, per tutti, CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, cit., p. 52 e ss. In argomento si veda altresì BIANCA, Il contratto cit. p. 494 e ROPPO, Il contratto cit., p. 436.
[nota 50] La natura di donazione modale dell'attribuzione compiuta con il Patto di famiglia è affermata da MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit; LUPETTI «Il finanziamento…» cit.
[nota 51] Cfr. per tutti CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, cit., p. 119. Si veda però CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., II, p. 810.
[nota 52] PETRELLI «La nuova disciplina…», cit., sottolinea come nell'art. 768-sexies sia previsto un diritto di credito dei legittimari non partecipanti al patto, nei confronti dei "beneficiari del contratto", come tali da intendersi, non solo l'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni, ma anche i legittimari che abbiano partecipato al contratto, ricevendo denaro o beni a titolo di liquidazione delle relative quote.
[nota 53] Sulle donazioni indirette, cfr. PALAZZO, Atti gratuiti e Donazioni, in Tratt. Sacco, Torino, 2000, 347 e ss.; ID., Le donazioni, in Comm. Schlesinger, Milano, 1991, sub. art. 809; CARNEVALI, Le donazioni, nel Tratt. Rescigno, p. 6, Torino, 1997, p. 498 e ss.; CARNEVALI, voce Donazione, in Enc. Giur. Treccani, 1989, p. 2; TORRENTE, La donazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1956, p. 15 e ss.; CAREDDA, Le liberalità diverse dalle donazioni, Torino, 1996; BIONDI, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, p. 710 e ss.
[nota 54] Sul concetto di liberalità, OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947; TORRENTE, La donazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1956, p. 3 e ss.; BIONDI, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, p. 67 e ss., spec. p. 109 e ss.; GARDANI CONTURSI-LISI, Delle donazioni, sub artt. 769-809, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 538 e ss.; CASULLI, Donazione, in Enc. Del dir., XIII, Milano, 1964, p. 969 e ss.; CARNEVALI, Donazioni, in Tratt. Rescigno, VI, Torino, 1997, p. 483 e ss.; PALAZZO, Dig. Disc. Priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 137 e ss.; CATAUDELLA, Donazione e liberalità, in Studi in onore di P. Rescigno, II, Milano, 1998, p. 173 e ss.; CONTE, Gratuità, liberalità, donazione, in Tratt. Bonilini, Torino, 2001, p. 1 e ss.
[nota 55] Sul contenuto del negozio ed i suoi effetti giuridici e sulla volontà degli effetti, BIANCA, Diritto civile, p. 3, Il contratto, Milano, 1998, p. 314 e ss. GALGANO, Il negozio giuridico, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2002, p. 30; ROPPO, Il contratto, cit. Sulla distinzione fra effetti pratici del negozio (che sono quelli normalmente voluti dalle parti) ed effetti giuridici, BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, Torino, 1952, p. 82 e, per ulteriori sviluppi, SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, p. 105 e ss.
[nota 56] Sulla interpretazione oggettiva, BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 349 e ss.; CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 127; SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1321-1352, Bologna-Roma, 1970, p. 184; BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 197; RODOTà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1979, p. 9; GRASSETTI, Interpretazione dei negozi giuridici "inter vivos" (diritto civile), in Noviss. Dig. It., VIII, Torino, 1962, p. 906.; BIANCA, Diritto civile, p. 3, Il contratto, cit., p. 392 e ss.
[nota 57] In proposito, già BIONDI, Le donazioni, cit., p. 438, rilevava come l'esigenza di richiamare il donante ad un maggior controllo del proprio impulso altruistico sì da assicurarne una determinazione pura e libera - dalla quale esigenza deriverebbe, appunto, la necessità della forma solenne e della presenza del pubblico ufficiale - appare in realtà una preoccupazione più immaginaria che reale, poiché l'impulso altruistico è controbilanciato, ed anzi superato, dal sentimento egoistico della conservazione del proprio patrimonio. La dottrina più recente non ha mancato di rilevare come la presenza del Notaio influenza l'uomo medio sia che venga adottata la forma dell'atto pubblico, sia se si è scelta la scrittura privata autenticata e diverse sono le voci che si sono levate per affermare l'insufficienza delle ragioni del formalismo delle donazioni (per una rassegna delle varie argomentazioni, VENDITTI, La forma del contratto, in Tratt. Bonilini, Torino, 2001, p. 761 e ss. Sul punto si veda altresì CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, cit., p. 109 e ss.).
[nota 58] Sul punto, CASU, in «Legge di semplificazione per il 2005. Le novità di interesse notarile», Cnn Notizie, 23 novembre 2005; ID., «Testimoni dell'atto notarile e legge di semplificazione per l'anno 2005», in corso di pubblicazione.
[nota 59] Secondo i primi interpreti, pur mancando una espressa previsione nell'art. 48 della legge notarile, si deve ritenere quantomeno opportuna la presenza in atto di due testimoni (così MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit). Si è peraltro affermata l'opportunità dell'inclusione nella legge notarile, in caso di modifica, del negozio in esame fra quelli per i quali v'è l'obbligo di assistenza dei testimoni (LUPETTI «Il finanziamento…» cit.). Analogamente FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit., per il quale si deve prendere atto della scelta del legislatore che con l'articolo in commento, forse, al di là delle apparenze, più che imporre una regola di rigore, in realtà riduce le cautele formali che sarebbero state ritenute altrimenti applicabili, avendo il presente negozio, almeno da parte del trasferente, di regola, carattere donativo. Conformemente anche PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto…», cit. Ritiene non necessaria la presenza dei testi, DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia. (Brogliaccio per una lettura disincantata)», cit.
[nota 60] Requisito di efficacia della divisione è la chiamata, non l'intervento effettivo dei chiamati. Pertanto, effettuata la chiamata, la divisione avrà effetto nei loro riguardi (BRANCA, Comunione. Condominio degli edifici, sub artt. 1110-1139, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 307).
[nota 61] Si consideri altresì l'ipotesi del coniuge non acquirente che ai sensi dell'art. 179, secondo comma, c.c. deve partecipare all'atto, e al quale parte della dottrina attribuisce la qualifica di "terzo interveniente", mero spettatore di una stipulazione inter alios", dal momento che non emette alcuna dichiarazione negoziale (Cfr. Cass. 19 febbraio 2000, n. 1917, in Fam. e dir., 2000, p. 345 e ss.) la quale ha ritenuto che l'art. 179, comma 2, c.c., «non richiede affatto una dichiarazione da parte del coniuge escluso dalla comunione, bastando che questi partecipi all'atto dal quale risulti uno degli elementi obiettivi richiesti e manifesti, anche con il silenzio (in questo caso "espressivo"), la volontà di non opporsi o di non contestare la veridicità della dichiarazione resa dal coniuge che acquista»; in dottrina, LO SARDO, «Acquisto di beni con il prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio e dichiarazione di esclusione dalla comunione legale», Riv. not., 1995, spec. p. 781).
[nota 62] V. sopra, quarto paragrafo «… (segue) il carattere ultroneo dell'adesione dei legittimari esclusi…».
[nota 63] Tale opinione sembra peraltro inaccettabile, anche per altro verso: in quanto cioè risulta irrispettosa dell'autonomia dei contraenti, i quali, alla sua stregua, potrebbero vedersi contrattualmente vincolati l'un l'altro, pur senza poter realizzare gli interessi che essi effettivamente perseguono. Secondo PETRELLI «La nuova disciplina…», cit., nel caso non esista nessun legittimario diverso dall'assegnatario, l'istituto del Patto di famiglia è inapplicabile: «Sotto il profilo tipologico, il legislatore sembra delimitare l'applicazione delle disposizioni in esame al solo caso in cui esistano anche altri legittimari; cosicché sembrerebbe che, in assenza di questi ultimi, non possa aversi Patto di famiglia, ma più semplicemente un normale contratto di donazione, a fronte del quale gli eventuali legittimari sopravvenuti potrebbero esperire i rimedi della collazione e della riduzione».
[nota 64] Tale considerazione dovrebbe di per sé escludere la qualificazione della suddetta rinuncia in termini di patto rinunciativo, per la quale, invece, optano alcuni interpreti: MERLO, «Divieto dei patti successori…», cit. Sul punto v. retro quarto paragrafo cit.
[nota 65] FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit.
[nota 66] Secondo FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit., «nell'ipotesi in cui il contratto originario abbia già stabilito il quanto del pagamento a favore dei non assegnatari, pure dilazionandone l'adempimento, il contratto successivo di datio in solutum probabilmente non richiederà il rigore previsto dal comma terzo, interessando solo le parti coinvolte nel pagamento e non avendo effetti per gli altri partecipanti».
[nota 67] Sul quale v. MARICONDA, «Il pagamento traslativo», in Contr. e impr., 1988, p. 735 e ss.; ID., «Art. 1333 e trasferimenti immobiliari», in Corr. Giur., 1988, p. 144 e ss.; SCIARRONE ALIBRANDI, «Pagamento traslativo e art. 1333 c.c.», in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 525 e ss.; COSTANZA, «Art. 1333 c.c. e trasferimenti immobiliari solvendi causa», in Giust. civ., 1988, I, p. 1237 e ss.; GAZZONI, «Babbo Natale e l'obbligo di dare», Riv. not., 1991, p. 1414 e ss.; MACCARRONE, «Obbligazione di dare e adempimento traslativo», Riv. Not., 1994, p. 1319 e ss.; v. altresì LA PORTA, Il problema della causa del contratto, I, La causa e il trasferimento dei diritti, Torino, 2000, p. 70 e ss.; NAVARRETTA, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, e BOZZI, «Note preliminari sull'ammissibilità del trasferimento astratto», Riv. dir. comm., 1995, I, p. 210 e ss.; nonché, in tempi più risalenti, DI SABATO, «Unità e pluralità di negozi (Contributo alla dottrina del collegamento negoziale)», Riv. Dir. Civ., 1959, I, p. 412 e ss.);. Invero, autorevole ma più risalente dottrina aveva negato la configurabilità, nel nostro sistema giuridico, di ipotesi di pagamento traslativo (ALLARA, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, p. 157 e ss.; SCHLESINGER, Il pagamento al terzo, Milano, 1961, p. 24 e ss.; PUGLIATTI, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 413 e ss.). La più recente giurisprudenza, dal canto suo, ammette l'applicabilità dell'art. 1333 anche ai contratti ad effetti reali: Cass. 30 giugno 1987, n. 5748, in Giust. Civ., 1988, I, p. 1023 e ss.; Cass. 21 dicembre 1987, n. 9500, in Corr. Giur., 1988, p. 144 e ss., con nota di Mariconda e in Giust. Civ., 1988, I, p. 1237 e ss., con nota di Costanza; Cass. 9 ottobre 1991, n. 10612, in Giust. Civ., 1991, I, p. 2895, con nota di Gazzoni.
[nota 68] Per l'elaborazione della teoria dei negozi con causa esterna GIORGIANNI, Causa, in Enc. Dir., VI, Milano, 1960, p. 564 e ss.; ID., La causa del negozio giuridico, Milano, 1961, p. 46 e ss.; NATOLI, L'attuazione del rapporto obbligatorio. Appunti dalle lezioni, II, Milano, 1967, p. 42 e ss.; e poi, senz'altro, MENGONI, Gli acquisti a non domino, Milano, 1975, p. 200 e ss.; ID. Il trasferimento dei titoli di credito nella teoria dei negozi traslativi con causa esterna, in Studi in ricordo di Alberto Auricchio, II, Napoli, 1983. Nella dottrina più recente MARICONDA, «Il pagamento traslativo», cit., p. 735 e ss.; CHIANALE, «Obbligazione di dare e atti traslativi solvendi causa», Riv. dir. civ., 1989, II, p. 233 e ss.; SCIARRONE ALIBRANDI, «Pagamento traslativo e art. 1333 c.c.», cit., p. 525 e ss.; DI MAJO, «Causa ed imputazione negli atti solutori», Riv. dir. civ., 1994, I, p. 781.
[nota 69] V., in particolare, NAVARRETTA, La causa e le prestazioni isolate, cit., p. 8, secondo il quale il tratto distintivo della categoria delle cc.dd. prestazioni isolate, ispirata ai Leistungsgeschõfte della tradizione tedesca, è «il carattere unilaterale dell'effetto dell'attribuzione patrimoniale e la sua in un atto di autonomia privata, non necessariamente unilaterale, la cui giustificazione sul terreno della causa non si può desumere - quale primo indizio implicito - dal mero schema dell'atto, che si riduce alla nuda e neutrale prestazione»; BOZZI, «Note preliminari sull'ammissibilità del trasferimento astratto», Riv. dir. comm., 1995, I, p. 210 e ss.; nella letteratura sulla causa in generale, più di recente, LA PORTA, Il problema della causa del contratto, I, La causa e il trasferimento dei diritti, cit.; BRECCIA, Causa, in Il contratto in generale, III, in Tratt. Bessone, Torino, 1999, p. 40 e ss.; CARUSI, «La disciplina della causa», Tratt. dei contratti Rescigno, Torino, 1999, p. 623 e ss.
[nota 70] Resta comunque il rilievo che la novazione oggettiva costituisce uno dei possibili modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. Nel caso in cui l'obbligazione da novare trovi la propria fonte in un contratto, la novazione è infatti destinata ad incidere non solo su detta obbligazione, ma anche sul contratto dal quale quest'ultima deriva: la sostituzione dell'obbligazione originaria con una nuova e diversa obbligazione comporterebbe infatti una modifica della relativa fonte contrattuale. La nuova obbligazione, che di regola si innesta nel rapporto contrattuale già costituito, ed in esso trova la propria disciplina – può anche comportare il venir meno del rapporto contrattuale e ciò sia nel caso in cui la nuova obbligazione dovesse rivelarsi in insanabile conflitto con la causa del contratto originario, sia nel caso in cui le parti avessero inteso novare (non già la singola obbligazione, bensì) l'intero rapporto contrattuale, sostituendolo con uno nuovo: in siffatte ipotesi si dovrà discorrere di novazione del contratto e non già di novazione della singola obbligazione (BIANCA, Diritto civile, 4, L'obbligazione, Milano, 1993, p. 455 e ss.).
[nota 71] Un qualche parallelismo si può, invero, riscontrare con la liquidazione della quota del socio uscente nelle società personali. Qui, in realtà, la dottrina specialistica ritiene che – normalmente - alla determinazione o all'accertamento del valore della quota da liquidare procedano i soci rimasti che successivamente propongono al socio uscente il risultato dei loro calcoli e delle loro valutazioni. A ciò induce il tenore letterale dell'art. 2284 c.c. («gli altri devono liquidare la quota …») e soprattutto l'impossibilità di pervenire a detta determinazione laddove, essendo necessaria la partecipazione anche del socio uscente, dovesse sorgere contrasto. Se, poi, quest'ultimo ritenesse di contestare il risultato, la controversia sarà risolta dal giudice o da un terzo in qualità di arbitro (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 602 e ss.). Non è, tuttavia, da escludersi che, avendo al normativa codicistica in esame natura dispositiva, siano decise all'unanimità una diversa forma o modalità di liquidazione (ancora GHIDINI, Società personali, cit., p. 617 e ss.).
Con riguardo alle modalità di liquidazione della quota del socio receduto, defunto o escluso, nelle società di persone, si ritiene lecita la convenzione con la quale si stabilisca che il diritto al controvalore in denaro della quota, venga regolato in natura, con l'attribuzione di beni sociali a soddisfacimento del relativo credito (cosiddetto datio in solutum) (Cass. 3 aprile 1973, n. 896), posto che è lo stesso diritto alla liquidazione della quota ad esser rinunziabile. Un tale accordo, peraltro, comportando il trasferimento al creditore dei beni assegnati, è soggetto ai requisiti di forma di cui all'art. 1350 c.c., ove riguardi immobili (Cass. 16 luglio 1976, n. 2812, in Giur. it. 1977, I, 1, p. 2221; Giust. civ., 1976, I, p. 1779; Cass. 12 agosto 1976, n. 3038; App. Cagliari 21 maggio 1982, in Giur. comm., 1983, II, p. 978). Così come si ritiene possibile, e preclusivo per la domanda di liquidazione contenziosa della quota, l'accordo fra tutti i soci, compreso quello receduto in ordine alla determinazione di criteri di determinazione dell'ammontare del valore della quota (Cass. 6 febbraio 1965, n. 186), in deroga alle regole civilistiche, nel senso di riferire il valore della quota all'ultimo bilancio, di allungare o abbreviare il termine di pagamento oppure di rimettere la determinazione del valore di liquidazione ad arbitri (FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, 1955, p. 265; MARVULLI, Il recesso del socio, in Tratt. Schiano Di Pepe, 2, II, La società semplice, Milano, 1999, p. 510 e ss.), con il limite, secondo parte della giurisprudenza, della inammissibilità della liquidazione della quota al valore nominale (App. Torino 10 novembre 1993, in Giur. it., 1994, I, 2, p. 766).
In dottrina, tuttavia, non mancano voci di dissenso. è stato rilevato, infatti, che «si può anche convenire, come si è visto, sulla derogabilità dei criteri di accertamento di valore, ma è indubbia la volontà del legislatore di stabilire un rapporto tra lo scioglimento del vincolo e situazione patrimoniale, potendo, del resto avere la quota di liquidazione valore negativo» (COSTI - DI CHIO, Società in generale - Società di persone - Associazione in partecipazione, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1991, p. 717). In altre parole verrebbe affermato il principio per il quale «al socio deve essere liquidata la quota in relazione alla situazione patrimoniale e sarebbero posti i criteri in base ai quali deve avvenire la liquidazione. I criteri sarebbero derogabili, ma non il principio della liquidazione in relazione alla situazione patrimoniale sociale del giorno in cui si è verificato lo scioglimento particolare del vincolo, posto che altrimenti si negherebbe al socio uscente o ai suoi eredi l'esercizio di un diritto che trova la sua giustificazione nella causa stessa del contratto sociale».
[nota 72] Sulla natura quantitativa e non qualitativa della quota di riserva in favore dei legittimari, FORCHIELLI - ANGELONI, Della divisione, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 713-768, Bologna-Roma, 2000, p. 306).
[nota 73] Tali "sostituti" dovrebbero essere - anche in base a quanto affermato nella relazione alla proposta di legge n. 3870 - «i legittimari nel frattempo subentrati». In tal senso, LUPETTI «Il finanziamento…» cit., per il quale se al legittimario (deceduto nelle more tra il Patto di famiglia ed il successivo contratto) non sono subentrati altri legittimari, nessuna assegnazione andrà effettuata a favore dei suoi eredi. Secondo FIETTA «Divieto dei Patti successori…», cit., la norma implica «un richiamo all'istituto della sostituzione, che prevede, ai fini che ci interessano, in caso di mancato intervento di un chiamato, il possibile subentro di altro successibile, presupponendo un legame diretto tra quest'ultimo e il de cuius», con la precisazione che non tutti i successori del partecipante premorto possano e debbano partecipare ma solo coloro che siano particolarmente qualificati nei confronti del trasferente tali da potersi definire sostituti. Ne deriva, secondo l'autore, che la sostituzione opera, a questi fini, nel caso di morte di un legittimario figlio (partecipando al contratto il di lui figlio), ma non nel caso del decesso del coniuge (non avendo i successori dello stesso in quanto tali non abbiano titolo per partecipare al contratto).
[nota 74] Per tutti v. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., I, p. 303, e PALAZZO, Le successioni cit., I, p. 535.
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