Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
di Giuseppe Amadio
Ordinario di Diritto Civile, Università di Padova

Premessa

L'itinerario, lungo il quale verrà condotta la riflessione, deluderà le aspettative di chi si sia affidato alla capacità evocativa del titolo programmato (Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati), almeno se inteso nella letteralità dell'endiadi che lo sostanzia.

Di patti successori si parlerà, ma nei limiti minimi necessari a dare avvio alla riflessione.

Si parlerà, invece, e diffusamente degli interessi tutelati e di quale significato decisivo assuma, nell'analisi di funzione, il dato della loro "attualità".

A giustificare la scelta (e ad attenuare la delusione) stanno due circostanze: la prima è che l'odierno incontro chiude, in qualche modo, l'arco ideale di un dibattito, dal quale è forse opportuno trarre talune notazioni di sintesi; la seconda è data dal tentativo di rispondere (forse, più realisticamente, di immaginare la risposta possibile) ad un problema specifico, la cui delicatezza teorica costringe a un inquadramento complessivo dell'istituto, ma il cui rilievo operazionale giustifica l'infedeltà al programma.

è probabile che a molti (ed è sicuro, almeno per chi scrive) la prima fase del dibattito sulla legge 14 febbraio 2006, n. 55, abbia suscitato due sensazioni di fondo:

- la prima è che quella in corso, sia una sorta di battaglia ermeneutica, che vede contrapporsi una lettura estensiva, (volta ad accreditare il legislatore dell'intento di introdurre nel sistema uno strumento successorio, alternativo a quelli usuali, di portata generale) e un'interpretazione restrittiva (che legge viceversa la novella come riconoscimento normativo di esigenze settoriali, realizzate mediante un congegno ad applicazione limitata) [nota 1];

- la seconda sensazione è che, nel combattere tale battaglia, il confronto dialettico rischi di essere vanificato da una vera e propria confusione delle lingue (tali e tante, e tra loro incompatibili, risultano essere non solo le ricostruzioni proposte, ma le stesse assunzioni teoricosistematiche che ad esse dovrebbero fornire base argomentativa) [nota 2].

La ragione prima di tali inconvenienti risiede nel difetto di metodo, che affligge la maggior parte degli interventi, e che deriva da una (spesso inconsapevole) resistenza intellettuale, che preclude il corretto approccio al problema tipologico.

Di fronte alla previsione normativa di una fattispecie negoziale in precedenza sconosciuta, assistita da una disciplina autonoma (tanto più se collocata in posizione di rottura rispetto al sistema), la reazione naturale dell'interprete dovrebbe essere il riconoscimento (dell'introduzione) di un nuovo tipo legale. Di esso dovrebbero chiarirsi, in primo luogo, le finalità, attraverso l'individuazione del conflitto d'interessi che lo strumento intende comporre, in secondo luogo la struttura, e dunque il contenuto precettivo necessario, alla stregua della disciplina legale, per il raggiungimento di quelle finalità.

Inutile dunque, almeno in prima istanza, dovrebbe dirsi il tentativo di ascrivere la figura nuova a tipi preesistenti, il richiamo ai quali dovrebbe assumere rilievo residuale, finalizzato ad ovviare ad eventuali lacune non colmabili attraverso l'esegesi delle norme, o il ricorso ai principi da esse evocati. [nota 3]

Tuttavia, l'ancestrale horror vacui che coglie l'interprete di fronte alla novità normativa (specie se radicale, com'è il Patto di famiglia), provoca una reazione difensiva, largamente praticata dalla nostra giurisprudenza di legittimità (ma più comprensibile perché assunta, da quest'ultima, nei confronti dei contratti atipici) [nota 4], reazione difensiva, dicevo, che induce a rifugiarsi nel rassicurante richiamo agli schemi conosciuti.

Tra quelli proposti, tralasciando le assimilazioni forzate, come quella che fa del patto un contratto a favore di terzi, nel quale per altro si afferma (ex art. 768-quater, primo comma) essere necessaria l'adesione del terzo (che in tal modo terzo non è più) [nota 5], il richiamo più naturale è al paradigma della donazione.

Del richiamo, già da più parti criticato (e anche qui riproposto in chiave di differenziazione) si deve tenere conto, almeno per due ragioni.

Innanzi tutto, per cogliere il senso profondo (in termini classici la ratio) della nuova disciplina, senza lasciarsi ingannare dalla presenza di indici normativi potenzialmente fuorvianti.

Così è per l'esplicita sottrazione delle assegnazioni realizzate dal patto (a norma dell'ultimo comma dell'art. 768-quater) all'impugnativa per riduzione ed alla pretesa alla collazione: norme che, trovando proprio nelle liberalità la loro fattispecie tipica, potrebbero in tal senso orientare anche la qualificazione del patto. Il Patto di famiglia altro non sarebbe che un'ipotesi peculiare di liberalità, eccezionalmente sottratta (dalla disposizione citata) ai rimedi che ad essa sarebbero ordinariamente applicabili, in forza della vis attractiva della successione mortis causa sulle liberalità compiute in vita [nota 6]: e ciò in nome di uno specifico favor normativo per la donazione avente ad oggetto i beni produttivi, e per il resto assoggettata alla normativa generale dettata in tema di donazioni.

Un simile approccio, tuttavia, come avremo modo di chiarire, perderebbe di vista il vero presupposto della disattivazione di quei rimedi: che, lungi dal risiedere in una deviazione dalla logica protettiva degli interessi in gioco, consiste nel fatto che la nuova disciplina assicura a quei medesimi interessi, normalmente presidiati, in sede successoria, da riduzione e collazione, immediata e definitiva regolamentazione negoziale al tempo del patto.

La seconda ragione per non perdere di vista il paradigma donativo è che il confronto con esso servirà a rispondere al quid iuris richiamato in esordio, del quale così si svela il tenore: è pensabile e, se sì, a quali condizioni e con quali strumenti, un recupero delle liberalità pregresse, in vista di una loro riqualificazione in termini di Patto di famiglia?

Risposta che si tenterà in chiusura, ma alla quale è possibile giungere solo attraverso una lettura della novella, che abbandoni ogni forma di apriorismo qualificatorio ed ogni uso strumentale dell'argomento consequenzialista. Al solo fine di renderne più chiara la progressione argomentativa, diremo subito che essa intende svilupparsi attorno a tre assunzioni fondamentali.

1. Con l'introduzione del patto, il legislatore attribuisce (eccezionale) ed anticipato rilievo (e dunque la possibilità di disporre in ordine) ad interessi normalmente rilevanti solo post mortem.

2. Contenuto necessario del patto è una regolamentazione di tali interessi idonea ad assicurarne l'immediata soddisfazione: il che avviene attraverso la conversione del diritto alla legittima in natura in un credito pecuniario (corrispondente al valore che quella legittima ha rispetto al bene assegnato), idoneo a realizzare una distribuzione proporzionale dell'arricchimento conseguito dall'assegnatario.

3. è la tacitazione anticipata di questo diritto di legittima relativa a giustificare la disapplicazione dei rimedi diretti a tutelarla post mortem, ed anzi più radicalmente a sottrarre la vicenda ex pacto alla successione futura ed alla divisione ereditaria.

Il Patto di famiglia, tra divieto dei patti successori e sistema generale della successione mortis causa

Lo sforzo richiesto all'interprete (vorrei dire quasi il "cambio di mentalità") in tal senso, muove necessariamente dalla ricostruzione degli interessi ai quali il legislatore ha inteso assicurare tutela.

Questa anticipazione della prospettiva funzionale risponde a una precisa necessità logica: restituire razionalità a una disciplina, in apparenza eversiva rispetto ai principi ispiratori della successione a causa di morte, e della successione necessaria in particolare, e dunque costruire il possibile raccordo tra le nuove norme e quel sistema.

Che si tratti di un raccordo necessario è dichiarato espressamente da un frammento normativo della novella, che si tende (freudianamente) a dimenticare, forse perché topograficamente decentrato, rispetto alla collocazione della disciplina del patto: si allude all'addizione, operata dalla riforma all'art. 458, c.c., al cui originario divieto di «disporre della propria successione», si antepone la riserva di «quanto previsto dai nuovi articoli 768-bis e seguenti». Riserva che, sviluppata in logica connessione al previgente tenore del divieto, condurrebbe a costruire il patto, né più né meno che come una convenzione con cui disporre della futura successione.

Messa di fronte al tradizionale divieto dei patti successori, la critica ha avuto buon gioco nel negarne (non solo com'è ovvio l'applicabilità, già esclusa dalla norma appena citata, ma) la stessa attinenza logica, alla figura del patto: lo ha fatto, però, nella stragrande maggioranza dei casi, con attenzione esclusiva al profilo dell'efficacia; e, forse, proprio nel troppo facile impiego dell'argomento ha perso di vista un dato di centrale importanza.

Tenendo fede alle categorie, gli indici di riconoscimento del patto successorio sono segnati (in negativo) dal concetto di atto mortis causa; vietato è, dunque, il patto regolativo della successione tecnicamente intesa, fonte cioè di effetti che non possono prodursi prima dell'apertura di essa, ma in quanto (ecco il dato centrale che si trascura) incidenti su «una situazione che diviene giuridicamente rilevante [solo] dopo la morte del suo autore». [nota 7]

Allora, è indubbio che, sul piano della struttura, in q. cioè destinato a produrre effetti attuali sull'individuazione sia dell'oggetto, che del soggetto dell'attribuzione, il Patto di famiglia non è atto mortis causa (e dunque patto successorio vietato); ma è altrettanto certo che, sul piano degli interessi regolati, la nuova disciplina segna, da parte del legislatore, il riconoscimento di una (eccezionale) anticipata rilevanza, e la sottoposizione agli strumenti dell'autonomia privata inter vivos, proprio di quegli interessi che, anteriormente alla riforma, dovevano ritenersi ad essa sottratti sino al tempo della morte [nota 8].

Qui sta la significatività (a torto negata da taluno dei primi commentatori) della riserva introdotta all'art. 458, c.c.; e in questa prospettiva si coglie il primo dei due profili funzionali del Patto di famiglia: esso segna la recezione, da parte dell'ordinamento, della categoria che la dottrina (prima tedesca, poi anche italiana) ha identificato, stipulativamente, con la formula della «anticipata successione» [nota 9].

La formula evoca immagini antiche e familiari (come l'anticipazione di eredità) [nota 10], ma della quale, almeno nel significato pregnante qui considerato, siamo debitori del dibattito svoltosi in Germania, e dedicato appunto al fenomeno della antizipierte o vorweggenommene Erbfolge [nota 11].

Sino all'apparire del Patto di famiglia, essa stava a indicare null'altro che un fenomeno socioeconomico, nel quale tuttavia trovava emersione un problema di enorme rilievo: sotto osservazione era il multiforme strumentario (il più delle volte rappresentato da procedimenti negoziali indiretti) con cui la prassi tentava di realizzare l'interesse (attuale) alla pianificazione successoria. Ciò dava luogo ad attribuzioni preferenziali, in favore di taluno degli stretti congiunti aventi titolo a succedere, attuative di un arricchimento oggettivamente anticipatore rispetto a quello conseguibile nella futura successione. Tradotto in chiaro, il riferimento alla "successione anticipata" riconduceva al classico tema della vis attractiva della disciplina successoria, rispetto alle liberalità inter vivos: dunque a un problema di rapporti tra autonomia negoziale e tutele, offerte dal sistema, agli interessi degli stretti congiunti aventi titolo a succedere.

L'interesse alla pianificazione successoria nel sistema anteriore alla riforma

Prima della riforma, l'obiettivo di anticipare la trasmissione della ricchezza familiare [nota 12] finiva per coinvolgere almeno tre portatori di interessi confliggenti:

· il disponente (il futuro de cuius), interessato ad almeno due risultati: anticipare la realizzazione dell'assetto successorio; assicurarsi (con la stabilità delle attribuzioni) una loro determinata destinazione soggettiva (in una parola, un riassetto qualitativo del proprio patrimonio);

· il legittimario favorito che, nell'immediato, condividerà entrambi gli obiettivi, ma non è escluso possa avere interesse alla futura circolazione del bene (e dunque alla possibilità di disporne)

· i legittimari potenzialmente lesi interessati, com'è ovvio, a realizzare i diritti loro riservati ex lege.

A tale quadro, già complesso, dovevano aggiungersi i terzi aventi causa, portatori di un interesse alla circolazione, che avrà ad oggetto specifico la certezza e la stabilità dei successivi momenti traslativi del bene attribuito in origine.

Le due principali linee di resistenza opposte dal sistema previgente a un'efficiente pianificazione ereditaria sono a tutti note.

Da un lato, la sottrazione del fenomeno successorio all'area della contrattualità.

La linea era quella segnata dalla norma-principio di cui all'art. 458 c.c.: essa introduceva una restrizione dello strumentario negoziale di indole qualitativa, ed esterna (per così dire) alla stessa autonomia privata (testamentaria), in quanto ne tracciava il confine di legittimità. Sul fenomeno che qui ci occupa essa incideva non tanto nella direzione dei patti istitutivi, quanto piuttosto nel momento dei possibili accordi (dispositivo-rinunciativi) in ordine ai diritti derivanti da successioni future.

Dall'altro, e soprattutto, l'ostacolo alla pianificazione in vita della vicenda successoria era rappresentato dalla forma di tutela reale della legittima, intesa come diritto da realizzare in natura dei beni ereditari, presidiato da strumenti ad efficacia recuperatoria (quali le azioni di riduzione e restituzione).

Ostacoli di natura giuridica, cui si affiancava l'inconveniente, di carattere empirico, ma non per questo meno grave, reso evidente dall'intervallo temporale (potenzialmente assai ampio) che divide il momento dell'atto non solo dalla sua eventuale impugnazione, ma dalla stessa possibilità di valutarne il carattere lesivo (rinviata all'apertura della successione): intervallo durante il quale viene, quindi, a crearsi una situazione di assoluta incertezza in ordine alla stabilità e della prima attribuzione, e di tutti i successivi ritrasferimenti [nota 13].

A fronte di tali ostacoli, il riformatore avrebbe potuto:

- o affidare integralmente all'autonomia privata la disciplina degli interessi in gioco (in concreto: abolire tout court il divieto dei patti successori, quanto meno dispositivi e rinunciativi) [nota 14];

- o riconfigurare il modello di tutela legale delle aspettative dei legittimari (in altri termini: convertire il diritto alla "riserva in natura", in diritto a un valore) [nota 15].

L'introduzione del Patto di famiglia e la categoria della successione anticipata

Nel Patto di famiglia confluiscono tratti caratteristici di entrambe le soluzioni.

La riforma segna il superamento del principio della legittima in natura. Ma la conversione della riserva, in diritto a un valore, resta affidata comunque a una manifestazione d'autonomia dei soggetti interessati: diviene, in altri termini, conversione "concordata".

Ciò significa che, in difetto di quella manifestazione (in mancanza di accordo), il diritto alla riserva rimane immutato, e immutate restano le tutele, dirette a realizzarlo.

Questa è per l'interprete, l'opzione (non solo concettuale) ma assiologica di fondo: la si può condividere o meno, e deve negarla, coerentemente, chi assume la validità di un patto al quale non partecipino, o addirittura si oppongano, i legittimari non preferiti.

Ignorando tuttavia, anche a tacere di tutti i contrari argomenti già inventariati dalla dottrina [nota 16], il segnale forte (non sempre sottolineato a dovere) comunicato dalla previsione espressa di rilevanza dei vizi del consenso, ai fini della validità del patto, (art. 768-quinquies): che riesce realmente difficile spiegare, se davvero (come taluno ha affermato) il «dover partecipare» non significasse, per i legittimari non assegnatari, «dover essere parti» [nota 17].

Rispetto a questa prospettiva assiologica, vi è nella legge una deviazione vistosa, laddove la conversione della legittima in ragione di credito opera, nei confronti dei legittimari sopravvenuti, indipendentemente dal consenso.

Si tratta di una disparità di trattamento che non è possibile ricondurre a razionalità piena, e che potrebbe, in astratto, fondare persino dubbi di legittimità costituzionale. Essa, tutt'al più, va messa a confronto con la valutazione degli interessi tutelati dalla riforma [nota 18] e con la necessità di un'opzione tra obiettivi tecnicamente incompatibili (come la stabilità del patto e la salvaguardia dell'autonomia anche dei sopravvenuti). Valutazioni sottratte, in linea di principio, all'interprete e riservate al legislatore stesso, o in ultima istanza, al giudice delle leggi.

Da queste premesse, si trae il senso della novità normativa.

Se è vero che «il centro di gravitazione del Patto di famiglia» è dato dalla sottrazione di quanto attribuito a riduzione e collazione [nota 19], dalla "disattivazione dei meccanismi di tutela" che già aveva contraddistinto i primi progetti [nota 20], lo spirito complessivo della novella si comprende, solo a patto di chiarire quale sia il fondamento logico giuridico di tale sottrazione.

La quale, pur facendo eccezione ai principi, se considerata dalla prospettiva, per così dire, esterna del confronto tra sottosistemi (quello del patto e quello della tutela della legittima nei confronti delle liberalità inter vivos), risulta perfettamente conforme alla razionalità interna alle nuove norme: alla cui stregua riduzione e collazione non potranno applicarsi in quanto (e nella misura in cui) risulta già assicurata, a quei medesimi interessi da esse normalmente protetti in sede successoria, immediata e definitiva regolamentazione negoziale al tempo (e per mezzo) del patto.

In una parola: non si applicheranno, perché il patto provvede a comporre il conflitto d'interessi che tipicamente ne giustificherebbe l'operare.

Qui sta il "salto di mentalità" (di cui si diceva) richiesto all'interprete di fronte alla disciplina (e ancor più alla categoria logica) della successione anticipata: ancor più difficile da compiere per il civilista italiano, meno avvezzo al dibattito svoltosi altrove (la Germania ne rappresenta l'esempio più compiuto) intorno a quella categoria [nota 21].

Di essa diviene possibile, tenendo presente la logica appena ricostruita, fissare i tre primi indici di riconoscimento:

a) l'anticipazione, al tempo dell'attribuzione preferenziale inter vivos, della rilevanza giuridica e della (conseguente) disponibilità negoziale di interessi normalmente rilevanti in sede successoria;

b) la riferibilità della regola pattizia alla sola massa patrimoniale oggetto dell'attribuzione anticipata;

c) la sottrazione della massa suddetta (rectius: della vicenda acquisitiva di essa), non solo agli strumenti ordinari di tutela di quegli interessi (in una parola: a riduzione e collazione), ma più radicalmente allo stesso fenomeno successorio (a quella, cioè, che per simmetria potremmo chiamare "successione futura").

Successione anticipata e successione futura diventano fenomeni tendenzialmente non comunicanti [nota 22], per l'evidente ragione logica che gli interessi coinvolti dall'attribuzione ex pacto hanno già consumato la propria rilevanza in occasione e per effetto della regolamentazione convenzionale in esso contenuta: e non possono vedere rinnovata tale rilevanza, se non a seguito di una caducazione degli effetti del patto [nota 23].

…(segue) il concetto di legittima "relativa"

L'idea che il patto possa (e debba) regolare i diritti dei legittimari richiede un primo, essenziale chiarimento.

è evidente che la configurabilità logica di tali diritti è possibile solo nella prospettiva di tendenziale separazione (tra successione anticipata e successione futura) appena indicata: dato che l'applicazione degli ordinari criteri precluderebbe (sino al tempo della morte) la determinazione della riserva, il riferimento del 768-quater, comma 2, al «valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti» impone di assumerne, a base di calcolo, (e in piena conformità allo schema della successione anticipata) esclusivamente i beni attribuiti ex pacto.

Prende corpo, così, il concetto, già emerso dalle prime letture della novella, di una legittima (e correlativamente di una disponibile) "relativa" [nota 24]: relatività duplice, che si manifesta sia sul piano oggettivo, in quanto assume a base di calcolo esclusivamente la massa patrimoniale assegnata ex pacto, sia su quello temporale, in quanto resta definitivamente ancorata (anche nei confronti degli eventuali legittimari sopravvenuti) alla valutazione di quella massa al tempo della stipulazione.

L'adesione al patto produce la conversione della legittima "relativa" (nel senso appena chiarito) da diritto a una porzione in natura della massa patrimoniale assegnata, in diritto al valore corrispondente. Si consuma, così, lo strappo più forte rispetto alla teorizzazione classica della riserva, che la costruisce, sì, come valore netto che il legittimario ha diritto di ricevere nella successione, il quale per altro, in quanto rappresentativo di una quota di eredità, dev'essere conseguito in natura dei beni ereditari [nota 25].

In termini analitici, alla conversione corrisponde il costituirsi (in favore del legittimario) di un credito, di importo corrispondente al valore della riserva relativa, e destinato a rappresentarne lo strumento di tacitazione. Fattispecie costitutiva di tale credito sarà l'accordo in cui si sostanzia il Patto di famiglia, e più precisamente l'accordo determinativo della quota di liquidazione, che definiremo "accordo liquidativo".

Solo attraverso tale l'accordo, il non assegnatario dell'azienda potrà subire l'effetto (potenzialmente diminutivo della propria sfera giuridica) consistente nel veder convertito il diritto a una porzione in natura dei beni assegnati, in diritto di credito al corrispondente valore [nota 26].

Il che fornisce il primo (e dirimente) criterio di soluzione del dubbio relativo alla necessaria universalità soggettiva del patto.

Il contenuto di tale accordo è rappresentato dalla determinazione del complesso patrimoniale di riferimento (rappresentata, nel caso tipico, dall'oggetto dell'attribuzione disposta in favore dell'assegnatario, e quindi dall'azienda o dalle partecipazioni assegnategli), e dalla sua valutazione, intesa come stima economica. E poiché il presupposto logico per la conversione della legittima in credito, è dato unicamente dalla determinazione e dalla stima della base di calcolo, il consenso sull'individuazione e sul valore dei beni assegnati segnerà il perfezionarsi dell'accordo liquidativo e ne esaurirà il contenuto minimo necessario. Dato che, alla quantificazione del valore della singola quota si giungerà per via puramente aritmetica, e quanto alle modalità realizzative del credito del non assegnatario, anche in mancanza di ulteriori determinazioni, soccorreranno le regole di default dedicate dal codice all'adempimento in generale.

Patto di famiglia e funzione divisionale

Allo stesso tempo, e per effetto del medesimo accordo, il patto realizza la sua seconda funzione: se è vero che il credito sorto in favore dei non assegnatari, per effetto dell'accordo liquidativo, deve avere ad oggetto «una somma corrispondente al valore delle quote» (art. 768-quater comma 2); e se è vero, altresì, che quell'attribuzione trova la sua causa giustificativa nel concretamento della legittima relativa; è del tutto evidente che l'accordo liquidativo dà luogo ad una serie di attribuzioni, collegate, tuttavia, in vista di una distribuzione del valore della massa, proporzionale ad altrettante quote.

In una parola, ad una serie di apporzionamenti in senso tecnico, legati da quel «nesso di reciproca subordinazione funzionale» nel quale già cinquant'anni or sono Luigi Mengoni individuava l'indice minimo di riconoscimento dei fenomeni funzionalmente divisorii [nota 27].

Anche l'idea della funzione tipicamente divisionale ha incontrato opposizioni, non a caso originate dal tentativo di estendere in massima misura la ricevibilità del patto. è evidente, infatti, che negarne, o riconoscerne, la funzione divisionale implica rispettivamente escludere, o ammettere, l'applicabilità dei principi ispiratori della disciplina divisoria, primo fra tutti quello che impone la partecipazione di tutti gli aventi diritto al riparto.

La critica, a ben vedere, è stata condotta ricorrendo sostanzialmente all'unico argomento, che fa leva sulla mancanza di uno stato di comunione (che il patto, per potersi assimilare alla divisione, dovrebbe sciogliere) e che viceversa «sorgerà solo a seguito dell'apertura della successione» [nota 28].

La replica passa attraverso quattro argomenti contrari.

a) Quello topografico (fondato sulla ricomprensione del nuovo capo V-bis nel titolo IV del Libro delle successioni, dedicato alla divisione) è certamente il meno sicuro, in quanto rispondente all'ipotesi di un «diritto ordinatamente disposto», e dunque ad un modello di «buon legislatore» in sé «irrealistico» [nota 29]: ma che una collocazione normativa sia inappropriata resta da dimostrare (non essendo sufficiente negarlo), indicando elementi di disciplina dissonanti rispetto ad essa, ed eventualmente superando il rilievo di quelli che risultino, viceversa, conformi.

b) A chi nutrisse curiosità storiche, potrebbero segnalarsi le conclusioni raggiunte in dottrina, sia nel vigore del codice del 1865, che lo prevedeva (all'art. 1045), sia al tempo della codificazione vigente, che ne ha decretato la soppressione, sull'istituto (che del Patto di famiglia appare, per molti versi, l'antesignano) della divisione d'ascendente per atto tra vivi. Figura giudicata inspiegabile dalla dottrina ad essa coeva, in quanto incompatibile con il divieto dei patti successori, ma sin da allora contrassegnata da un «carattere distributivo» [nota 30]; e alla quale gli autori successivi, nel commentarne l'abrogazione, riconoscono concordemente lo scopo di anticipare la successione [nota 31], realizzando nel contempo una «divisione ad effetto immediato» [nota 32].

c) Sul piano della costruzione teorico sistematica, basterebbe ricordare da quanto tempo, e con quale autorità, la mancanza di un preesistente stato di comunione si giudica ininfluente al fine di qualificare una fattispecie come fenomeno sostanzialmente e funzionalmente divisorio.

A dimostrarlo è, in primo luogo, la divisione del testatore, nella quale l'interesse del disponente alla «distribuzione (per quote) di un complesso patrimoniale» opera come sintesi funzionale che consente di ascriverla al genus divisione, ed applicarle i relativi principi [nota 33]; lo conferma, come di recente dimostrato, il meccanismo della collazione. [nota 34]

Congegni che incidono entrambi su beni non oggetto di comunione, ma che realizzano l'interesse alla distribuzione proporzionale, e dunque si qualificano funzionalmente divisori.

Anzi, proprio attorno all'idea di distribuzione, si è costruita, da ultimo, una revisione teorica complessiva della divisione (e della divisione ereditaria in particolare), ripensata come categoria funzionale, e contraddistinta non dallo scioglimento della comunione quanto dall'apporzionamento proporzionale alla quota. [nota 35]

d) Da ultimo, ma non per ultimo, sul piano dei riscontri normativi, resterebbe da spiegare come possa negarsi la funzione distributiva di un congegno come il patto, che appare perfettamente riproduttivo del meccanismo divisionale tipizzato dal legislatore all'art. 720 del codice: il cui esito ultimo (assegnazione dell'intero bene ad uno solo dei condividenti e liquidazione dei diritti di quota spettanti ai non assegnatari, mediante la costituzione di altrettanti crediti corrispondenti) coincide col risultato tipico realizzato dal Patto di famiglia.

Giunti a questo punto, sembra quindi molto più facile riconoscere, piuttosto che negare, la funzione divisoria del Patto di famiglia, come del resto la migliore dottrina ha avuto più volte modo di sottolineare durante il periodo di progettazione della norma [nota 36]. Funzione che, una volta riconosciuta, deve ritenersi non meramente eventuale [nota 37], ma necessaria e costante.

Non lo smentisce la circostanza che «non tutti i legittimari contraenti debbono risultare necessariamente assegnatari dell'azienda»: dato che all'assegnazione preferenziale fa riscontro il diritto dei non assegnatari di ricevere utilità proporzionali alla loro quota di legittima, che altro non sono se non apporzionamenti divisionali.

La circostanza che taluno dei condividenti (o, addirittura, nessuno di essi) risulti assegnatario dei beni assoggettati al riparto non fa venir meno la natura divisionale del procedimento, come dimostrano in modo esemplare le fattispecie descritte all'art. 720 c.c., che pur conducendo a tali esiti costituiscono, indubitabilmente, ipotesi tipiche di divisione.

La funzione distributiva si realizza, in tali casi, assicurando che il saldo patrimoniale netto risultante in capo a ciascuno degli apporzionati, rappresenti il concretamento del valore della rispettiva quota, assunta come riferimento per la distribuzione (bene indivisibile di valore 100, da ripartire tra Tizio, avente diritto ai 3/4 e Caio, avente diritto ad 1/4; l'assegnazione, ex art. 720 c.c., dell'intero bene a Tizio, che diviene debitore di Caio per l'eccedenza, fa sì che il saldo netto patrimoniale, pari a 75 per il primo e a 25 per il secondo, rappresenti il concretamento dell'esatta misura della quota).

Neppure decisivo, al fine di negare la funzione divisionale del patto, è il rilievo che il «momento (…) divisionale presuppone che i legittimarî siano più di due, ben potendo tale categoria al momento della conclusione del patto esaurirsi ad un solo legittimario» [nota 38]. Ciò ricondurrebbe all'idea che la funzione distributiva del patto sia solo eventuale e ipotetica.

Al di là delle formule, che spesso inducono a prospettare in termini apparentemente divergenti, opinioni che sostanzialmente coincidono, potrebbe dirsi che a tale idea fa velo un determinato concetto di "funzione", fatto coincidere, se si è ben inteso, con il piano attuativo dei risultati negoziali. Accezione diversa da quella, in questa sede accolta, che ricostruisce la funzione di ogni atto regolamentare (id est, di autonomia privata), quale sicuramente è il patto, attraverso il rapporto tra interessi regolati ed effetti (non realizzati, ma) predisposti dal regolamento [nota 39].

è senz'altro vero che, sul piano dell'efficacia dell'apporzionamento, cioè della realizzazione del riparto attraverso la concreta assegnazione delle porzioni, il momento divisionale, nel caso di Patto di famiglia stipulato tra il dante causa e l'unico legittimario esistente, può mancare [nota 40]; è altrettanto vero, però, che in termini di programmazione negoziale, e dunque di predisposizione degli apporzionamenti, destinati ad assumere efficacia automatica al sopravvenire degli eventuali aventi diritto, il perfezionarsi dell'accordo liquidativo (attraverso la determinazione della massa da ripartire e del valore di essa) ha già compiutamente ed irreversibilmente regolato la futura distribuzione.

E nell'ambito degli strumenti di autonomia, entro il quale il patto si colloca, tale (sicura) rilevanza precettiva dell'apporzionamento dovrebbe dirsi sufficiente a riconoscere il profilo distributivo, costantemente implicito nella funzione negoziale.

Dalle due funzioni del patto (quella anticipatrice della successione e quella divisionale) può farsi discendere una serie di corollari, che qui non vi è lo spazio per illustrare compiutamente.

Alla prima si ricollegano direttamente, come già ricordato, l'esclusione della rilevanza successoria normalmente assunta dalle attribuzioni liberali: tanto in sede di successione necessaria (riduzione), quanto in sede di successiva divisione (collazione). Ne esce confermata, indirettamente, la tendenziale incomunicabilità tra successione anticipata e successione futura.

Dalla funzione divisionale discendono: la conferma, anche da questo versante, della necessaria universalità soggettiva del patto; l'applicazione del principio base, coessenziale ad ogni fenomeno divisionale volto a garantire la proporzionalità tra apporzionamento e valore della quota.

Salvo interrogarsi sulle ricadute di tali principi sul piano rimediale.

E dunque, da un lato, sull'opportunità che alla nullità (conseguenza tipica della mancata partecipazione di tutti i condividenti al riparto) si sostituisca la semplice inopponibilità degli effetti del patto, atteso che, a differenza che nella divisione ordinaria, lo strumento protettivo del diritto all'apporzionamento in natura sarebbe rappresentato dall'esperibilità dell'azione di riduzione da parte dell'escluso (che non l'ha perduta non avendo consentito alla conversione in credito del suo diritto alla riserva).

Quanto alla violazione del principio di proporzionalità, e alla conseguente chiamata in causa del rimedio rescissorio, ci si dovrà chiedere quale applicabilità residua esso possa avere nel Patto di famiglia, espressamente assoggettato (dall'art. 768-quinquies) alla disciplina dell'annullabilità per errore prevista per il contratto [nota 41].

Efficacia del Patto e realizzazione degli interessi protetti

Resta da chiedersi, allora, per avviare l'analisi al suo obiettivo finale, quale rapporto intercorra, tra le due funzioni così individuate (quella anticipatrice della successione e quella divisionale), da un lato, e la struttura regolamentare complessiva, nonché il prodursi degli effetti del Patto di famiglia, dall'altro.

Distinguendo, infatti, all'interno di tale struttura, l'aspetto strettamente attributivo (rappresentato dall'assegnazione dell'azienda o delle partecipazioni), dal momento della distribuzione (realizzato dall'accordo liquidativo), si potrebbe essere indotti a ricollegare l'anticipazione successoria all'attribuzione preferenziale, e il riparto divisionale all'accordo liquidativo.

Si tratterebbe, com'è facile intuire, di una falsa pista.

L'assegnazione dell'azienda o delle partecipazioni, se in sé considerata, non è in grado di svolgere ruolo alcuno, non solo a fini divisionali, ma neppure in ordine alla successione anticipata.

Se ciò che la caratterizza è l'anticipata definizione degli interessi normalmente rilevanti post mortem, è solo con il perfezionarsi dell'accordo liquidativo che l'anticipazione successoria può dirsi realizzata. E dato che il mezzo tecnico prescelto dal legislatore per la definizione di quegli interessi è dato dalla conversione della riserva in natura in diritto al valore corrispondente, conversione che costituisce l'effetto minimo costante dell'accordo liquidativo, è sempre quest'ultimo a realizzare (anche sul piano dell'efficacia) le due funzioni del patto.

Da ciò, una serie di ricadute sul piano operativo, che qui ci si limita ad enunciare:

Prima ricaduta - L'attribuzione preferenziale di beni produttivi (o di partecipazioni), alla quale non acceda un accordo liquidativo (e/o un accordo liquidativo valido ed efficace), non potrà qualificarsi come Patto di famiglia ai fini dell'applicazione della relativa disciplina.

La regola è suscettibile di molteplici specificazioni. E così:

- sarà Patto di famiglia, quello realizzato, per via di collegamento negoziale esplicito, tra il contratto attributivo e il distinto accordo liquidatorio;

- produrrà gli effetti del Patto di famiglia, se ed in quanto l'accordo liquidatorio sopravvenga, l'attribuzione liberale sospensivamente condizionata alla stipulazione dello stesso;

- non sarà Patto di famiglia il regolamento complesso (per via di collegamento, o meno) comprensivo di attribuzione preferenziale e accordo liquidativo, ma affetto da nullità parziale relativamente a quest'ultimo (ad es. per difetto di forma); salvo interrogarsi (ma su ciò tra poco) sulla recuperabilità del negozio attributivo e/o sull'estensione della nullità.

Seconda ricaduta - Con la stipulazione (e il prodursi degli effetti) dell'accordo liquidativo, le funzioni tipiche dal patto, e dunque l'operatività della disciplina corrispondente, possono dirsi realizzate.

Ciò chiarisce il rapporto tra efficacia del patto e successiva esecuzione, e risolve il dubbio consistente nel chiedersi se alla conversione della legittima in diritto di credito segua l'immediata disattivazione dei rimedi successori ordinari, o se questa richieda l'adempimento effettivo del debito costituito e quantificato da quell'accordo.

La possibilità di una liquidazione mediante contratto successivo (e collegato) al patto originario (art. 768-quater, comma 3), farebbe propendere per la prima risposta; l'interpretazione letterale del comma successivo, il quale prevede che non è soggetto a collazione quanto "ricevuto" dai contraenti, suggerirebbe il contrario.

In realtà, se si accoglie l'idea che, aderendo all'accordo liquidativo, il non assegnatario esprima il proprio definitivo consenso sia alla conversione della quota di legittima in credito pecuniario, sia al corrispondente apporzionamento, è logico ritenere che quell'adesione, oltre che necessaria, sia anche sufficiente a realizzare entrambe le funzioni del patto.

Ciò conferma che è il costituirsi del credito liquidativo a segnare il punto di non ritorno, la definitiva conversione della legittima in natura: tutto ciò che segue e si aggiunge all'accordo, non può più incidere sul regolamento liquidativo con esso disposto e riattrarne gli esiti alla disciplina successoria ordinaria.

E in questa prospettiva, si spiega perché anche la rinuncia, di cui al secondo comma dell'art. 768-quater, non potendo valere come revoca dell'adesione all'accordo liquidativo, incide esclusivamente sul diritto (di credito) nel quale, per effetto dell'accordo stesso, la legittima relativa si è definitivamente convertita: può cioè, senza dubbio, tradursi nella rinuncia a conseguire, il credito, ma non può certo far venir meno l'effetto di conversione (e dunque di tacitazione) della legittima relativa già realizzato, rimettendo in gioco la possibilità di richiederla attraverso i normali rimedi [nota 42].

Terza ricaduta - Anche sul piano redazionale, l'accordo liquidativo rappresenterà il cuore del patto, il suo indice di riconoscimento tipologico e il nucleo minimo essenziale del regolamento. Se è da esso che discendono la conversione della legittima in credito e la conseguente disattivazione dei rimedi successori ordinari, la stipulazione dell'accordo liquidativo (individuazione dei beni e del loro valore) non potrà mai essere omessa (per le ragioni appena ricordate), neanche nel caso limite in cui tutti i non assegnatari intendessero (in seguito) rinunciare alla liquidazione.

Il quesito specifico: Patto di famiglia e liberalità pregresse

Resta dunque da chiedersi se e come, la ricostruzione operata aiuti a risolvere il problema specifico della recuperabilità delle donazioni stipulate anteriormente alla novella, per riqualificarle negozialmente come Patto di famiglia, ed attrarre alla relativa disciplina, le attribuzioni con esse effettuate.

Il discorso ritorna, in termini rinnovati, a quel confronto "liberalità ordinariePatto di famiglia" (che in esordio si era suggerito di non trascurare) e in particolare ad un profilo già emerso, nel dibattito sin qui svoltosi, attraverso il tentativo (praticato da più d'uno dei primi commentatori) di costruire, tra Patto di famiglia e donazione, un rapporto di possibile continenza delle qualificazioni: il che consentirebbe di ravvisare, all'occorrenza, una donazione, contenuta (per così dire) implicitamente nella stipulazione del Patto di famiglia.

La costruzione è finalizzata a due distinte "operazioni di salvataggio".

La prima consiste nell'indicare un esito alternativo, in tutte le ipotesi di Patto di famiglia a rischio di nullità: e in primo luogo al caso più dibattuto, e qui già evocato più volte della mancata partecipazione al patto di tutti i potenziali legittimari al tempo della stipulazione.

Il meccanismo evocato sarebbe quello della conversione sostanziale, ex art. 1424, c.c., in vista del quale potrebbe adottarsi tutta una serie di cautele redazionali (volte a soddisfare i «requisiti di forma e di sostanza», cui la norma allude), o a dirittura ricorrere a una previsione negoziale esplicita della convertibilità (in buona sostanza all'enunciazione, nel patto, della c.d. «volontà ipotetica», descritta dall'inciso finale della norma, in ordine alla sua conversione futura in donazione).

I dubbi che si sono sollevati, attengono prima ancora che alla convertibilità del Patto di famiglia invalido in donazione (di cui comunque può discutersi, data la non automatica coincidenza, nei due casi, di quello «scopo perseguito dalle parti», cui la norma viceversa la subordina) nascono dal fatto che la conversione, di regola, parrebbe essere un esito precluso all'autonomia privata perché di competenza esclusiva del giudice [nota 43].

La seconda operazione di salvataggio riporta invece direttamente al problema qui in esame: il recupero pattizio di donazioni, stipulate anteriormente all'entrata in vigore della novella, riqualificate negozialmente come Patto di famiglia, al fine di attrarre nella relativa disciplina, le attribuzioni con esse effettuate.

Di fronte alle sue prime enunciazioni, si sarebbe potuta sollevare più di una ragione di dubbio: ma dato che, come sempre accade, la soluzione di un problema giuridico dipende in massima parte dalla corretta prospettazione dei suoi termini, lo scetticismo nasceva dall'immagine, evocata in quelle prime prospettazioni, di una «riqualificazione causale» [nota 44].

Per questa ragione, qui si tenterà di accostare il problema, dimenticando i condizionamenti concettuali e "decostruendone", anziché sovrastrutturarne, la sostanza.

Se ne propongo gli esiti, muovendo da un interrogativo elementare.

Qual è l'obiettivo dell'operazione di recupero realizzata attraverso il patto "postumo"?

Muovere dall'effetto attributivo, già prodottosi in forza della donazione pregressa, sul quale il patto non intende, né ha bisogno di incidere, per disapplicare, in forza dell'accordo liquidativo nuovo, la disciplina ordinaria delle liberalità: in particolare per farne venir meno la normale rilevanza successoria.

Già questa approssimata descrizione rivela l'equivoco insito nella formula della riqualificazione causale della donazione, che, comunque la si intenda, si rivela, o insufficiente, o inutile al risultato perseguito.

Insufficiente, se riferita alla causa del contratto di donazione, in quanto il mutamento della causa, (che evoca la novazione nel titolo del rapporto obbligatorio) quand'anche concettualmente ammissibile, è comunque, in sé, inidoneo a produrre modificazioni di disciplina, che richiedono un'ulteriore ed esplicita determinazione contrattuale.

Inutile, se riferita al profilo (di incerta legittimità scientifica, almeno all'interno di una vicenda di fonte negoziale) della c.d. causa dell'attribuzione, la ragione giustificativa dello spostamento patrimoniale: che suggerirebbe la necessità di incidere proprio su (la qualificazione di) quell'effetto (il trasferimento liberale) dalla cui conservazione, viceversa, si intende muovere.

Ma vi è un'altra e più profonda ragione, che induce a liberarsi dell'idea della riqualificazione dell'atto pregresso: la si può cogliere da due prospettive, una tecnica, l'altra dogmatica, che ne rivelano i due profili complementari.

Sul piano tecnico, il tentativo di riqualificare causalmente il regolamento deve fare i conti con i limiti strutturali di disponibilità dell'effetto giuridico: se si volesse davvero far discendere la modificazione di regime dal mutamento della causa dell'atto (quindi di un suo costituente genetico), che comunque, come manifestazione di consenso rimane quello originario, si ipotizzerebbe una retroazione della modifica, solo risulta inutile (e non voluta), ma ostacolata dalla sopravvenienza normativa (che impedisce di ricondurre l'applicazione del regime ex pacto a un tempo ad essa anteriore).

Sul piano dogmatico, poi, l'immagine della riqualificazione causale (anzi, della riqualificazione tout court) attrae fatalmente il discorso verso il "buco nero" rappresentato dal tema, di antica nobiltà, e affascinante nel suo nitore intellettuale, ma tuttora inestricabile, della reiterazione negoziale.

La formula si assume qui in senso lato (e forse non rigoroso) [nota 45], per indicare il fenomeno per cui gli autori di un atto di autonomia "ritornano" [nota 46] su di esso dettando una nuova regolamentazione del medesimo rapporto.

Ebbene, imboccare il sentiero della rideterminazione negoziale (verso il quale l'idea di riqualificazione orienta) significa entrare in un labirinto.

Sia perché «sotto l'apparenza esteriore» della dichiarazione reiterativa [nota 47] si sono ricondotte figure inassimilabili, (dall'accertamento alla confessione, dalla ricognizione di diritti alla riproduzione documentale, dalla rinnovazione all'interpretazione autentica) [nota 48].

Sia perché il lessico delle classificazioni si traduce in una sorta di gioco di specchi, nel quale si sovrappongono ripetizione, riproduzione, rinnovazione, ripetizione modificativa, modificazione pura, accertamento, rinnovazione accertativa, e via discorrendo [nota 49].

Sia infine perché spesso al medesimo termine è attribuita una pluralità di significati; emblematico è il caso della rinnovazione che implica, a seconda delle opinioni: sostituzione del rapporto e conservazione della fonte [nota 50]; sostituzione della fonte e conservazione del rapporto [nota 51]; sostituzione sia della fonte che del rapporto [nota 52].

In realtà, se si avesse la pazienza per un confronto analitico, (in questa sede precluso) ci si renderebbe subito conto che il nostro problema, con tutta l'area tematica della reiterazione negoziale ha ben poco a che fare:

- non, con la ripetizione, se intesa come reiterazione non modificativa, che allora a poco servirebbe;

- ma nemmeno con la rinnovazione, tanto se implicante l'estinzione (e sostituzione) della fonte regolativa originaria, risultato cui l'accordo liquidativo non aspira e che non è in grado di produrre, quanto se volta a collegare la nuova disciplina alla vecchia fonte, che a sua volta non avrebbe potuto ne può disporla [nota 53];

- e nemmeno, infine, con la modificazione pura, che postulerebbe l'unicità del tipo negoziale e l'identità soggettiva delle parti, che nel nostro caso sono escluse.

Se ci si fa caso, l'incompatibilità concettuale rispetto a tutte quelle fattispecie, risiede nella figura logica comune che le caratterizza: l'idea di una duplice regolamentazione incidente sul medesimo oggetto inteso come conflitto di interessi da regolare, e (dunque) tra i medesimi soggetti che di quegli interessi sono portatori.

Al caso che ci occupa, tale figura logica è del tutto estranea.

La modificazione che s'intende apportare all'assetto d'interessi realizzato dalla donazione pregressa, risponde all'esigenza di regolare interessi diversi (oggettivamente e soggettivamente), potenzialmente interferenti con quell'assetto, e dei quali non sarebbe stato possibile disporre, in quanto irrilevanti (per valutazione normativa) al tempo della donazione.

E ciò si realizza dettando una regola nuova (volta a risolvere l'interferenza), che ha fonte diversa (l'accordo liquidativo), diversi autori (gli altri legittimari), e contenuto ulteriore (la disciplina della liquidazione). Che assume, in termini figurati, più un ruolo integrativo, che direttamente sostitutivo della regola pregressa.

Questa rappresenta la prima, decisiva acquisizione, per ricostruire il reale contenuto dell'operazione di recupero. Il passo successivo consiste nell'individuare il punto di incidenza della regola nuova sull'assetto preesistente.

Esso non è, con tutta evidenza, l'effetto traslativo realizzato, che l'accordo successivo lungi dall'eliminare, a dirittura presuppone [nota 54]. Obiettivo (e contenuto) della nuova regola è una disciplina della rilevanza successoria dell'attribuzione (leggi: sottrazione all'azione di riduzione) che, essa sì, va a sostituire quella discendente dalla donazione.

In linguaggio sostanzialista: la regola nuova non tocca l'effetto esaurito (quello attributivo) ma incide sugli effetti persistenti e su quelli futuri [nota 55]. In termini di realismo normativista: ciò che si disapplica è la disciplina della donazione nella successione futura; ciò che si applica è la disciplina della successione anticipata.

Quali, allora, i possibili ostacoli?

Sul piano della struttura, non sembrano frapporsi difficoltà insormontabili. Ci si potrebbe chiedere se rilevi il fatto che l'attribuzione è già avvenuta: non tanto nella usuale prospettiva dell'esaurirsi dell'effetto, utilizzata in senso ostativo, come appena ricordato, nei confronti dei negozi eliminativi, quanto piuttosto prospettando il dubbio circa una necessaria contestualità tra attribuzione e accordo liquidativo.

L'analisi compiuta in precedenza ha posto le premesse per escluderlo: il confronto tra neutralità della prima e centralità del secondo ha confermato che un'articolazione dell'operazione negoziale dovrebbe sempre essere possibile. Ma soprattutto (e questo è un dato di decisiva importanza) la contestualità, se non dell'atto, almeno del regolamento, viene comunque recuperata, nell'accordo liquidativo posteriore, attraverso il suo primo necessario contenuto: la rideterminazione del valore dei beni attribuiti, che deve essere attualizzato al tempo del patto, per poter essere assunto a base della liquidazione.

Sul piano degli interessi protetti, il confronto tra vecchia e nuova disciplina giunge a compimento. I termini tra cui esso si gioca sono segnati, in positivo, dalla necessaria ammissibilità della regola nuova, in negativo, dall'eventuale intangibilità della vecchia.

L'ammissibilità della prima discende, de plano dal riconoscimento normativo del patto, e dall'attribuzione di rilevanza anticipata (e di negoziabilità) degli interessi successori collegati alle attribuzioni liberali. L'operazione di recupero troverà dunque il suo primo confine nei limiti del nuovo tipo legale, di cui dovrà rispettare tutti i requisiti [nota 56].

L'intangibilità della vecchia regola può assumere rilievo, non tanto nel senso di una oggettiva immodificabilità ex post della disciplina successoria della donazione [nota 57], quanto piuttosto, e questo è realmente il rilievo conclusivo, in relazione a tutte le situazioni soggettive, discendenti da quella disciplina, che possano dirsi consolidate (e per tutti i conflitti tra esse già sorti e non definiti) anteriormente all'operazione di recupero, che risulterebbero incompatibili con la nuova disciplina. Si pensi, per fare un solo esempio, ad una domanda di revocazione della donazione pregressa per sopravvenienza di figli: dove è di tutta evidenza che senza la previa definizione del conflitto, la mera modificazione del regime applicabile al rapporto potrebbe risultare esclusa.

Congedo

Il percorso compiuto, conduce ad un rilievo conclusivo.

è possibile che il metodo decostruttivo, attraverso il quale si è tentato di fondare la legittimità del recupero, risulti meno rassicurante per il pratico e meno riconoscibile al giudice, l'uno e l'altro forse più disposti a ragionare in termini di mutui dissensi e rinegoziazioni, o di rinnovazioni modificative.

Credo però che il tempo presente consenta la rivalutazione di un metodo che trasporti l'indagine dal piano dei concetti a quello degli interessi [nota 58], e attorno alla loro ricognizione costruisca le soluzioni operative.

Se non altro perché, oltre che giovare alla dogmatica, esso è l'unico realmente in grado di cogliere le capacità evolutive del sistema.


[nota 1] Singolarmente, l'approccio ermeneutico più audace (ed estensivo) è proprio quello praticato dal ceto notarile, a dispetto della sua naturale e tradizionale vocazione alla prudenza stipulatoria, al quale si contrappongono gli inviti alla cautela provenienti dalla dottrina di estrazione accademica, cui viceversa quell'approccio dovrebbe risultare più familiare.

[nota 2] Potrebbe risultare curioso, se non si rivelasse drammatico, dal punto di vista della certezza dei criteri applicativi, la quale rappresenta la vera (e sacrosanta) preoccupazione del Notaio, inventariare anche solo le principali opinioni sinora sostenute, proprio dalla letteratura di matrice notarile, in tema di Patto di famiglia. Si scoprirebbe così che:

- il patto è qualificabile come:

· un nuovo tipo contrattuale;

· una donazione modale;

· un contratto a favore di terzo;

- richiede ad substantiam la partecipazione di tutti i legittimari attuali;

- non richiede affatto tale partecipazione, la cui mancanza è:

· causa di inopponibilità del patto, per cui gli esclusi potranno agire in riduzione;

· causa di possibile annullamento discrezionale del patto, ex art. 768-sexies secondo comma, e successiva azione di riduzione;

· causa di inopponibilità della sola stima contenuta nel patto, per cui gli esclusi potranno chiedere una nuova stima;

· del tutto ininfluente sull'opponibilità del patto che vincolerà senz'altro anche gli esclusi;

- i non assegnatari dell'azienda:

· devono essere liquidati solo con beni provenienti dal patrimonio dell'assegnatario;

· possono esserlo anche con beni provenienti dal patrimonio dell'imprenditore;

- la rinuncia alla liquidazione:

· può essere solo gratuita;

· può essere anche a titolo corrispettivo;

· consente di chiedere l'intera legittima in sede di apertura della successione;

· preclude ogni ulteriore diritto di legittima in sede di apertura della successione.

[nota 3] Nello stesso senso, PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006, p. 407.

[nota 4] L'esempio più clamoroso è offerto da quasi un ventennio di decisioni in materia di leasing).

[nota 5] La singolare proposta si ritrova nella relazione presentata (nell'appuntamento napoletano del 12 maggio scorso del convegno dedicato a Patti di famiglia per l'impresa), da LA PORTA, «La posizione dei legittimari sopravvenuti», in questo volume.

[nota 6] Le prime enunciazioni dell'idea della vis attractiva si ritrovano nella dottrina classica in tema di collazione: la teoria si legge già in CARIOTA FERRARA, La successione per causa di morte. Parte generale. I. Principi. problemi fondamentali, Napoli, s.d., ma 1955 e viene accolta, in seguito, da CASULLI, «Fondamento, funzione e struttura della collazione: l'avocazione, allo Stato, dei beni donati», Foro it., 1971, I, p. 2359 e ss.

[nota 7] G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, p. 37 e ss., da cui anche la successiva citazione. All'assunzione di rilevanza dipendente dall'evento morte, si riconnette, secondo la lettura comunemente fornita della tesi in esame, un duplice significato: essa cioè si estrinsecherebbe sia sulla determinazione dell'oggetto, sia sull'individuazione del soggetto (cfr. M. IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», Riv. not., 1997, p. 1373); tale (esatto) rilievo, può essere specificato ed arricchito, nel senso che l'incidenza della morte sulla determinazione del contenuto del regolamento d'autonomia, illumina altresì gli interessi che ne costituiscono oggetto, e quindi, in definitiva il profilo causale, riattribuendo significato pregnante alla classificazione tradizionale, espressa dalla formula dell'atto "mortis causa".

[nota 8] Sotto questo profilo, vi è piena consonanza con la lettura in termini di "eccezionalità" delle nuove norme proposta da BARALIS, «Problemi generali del nuovo Patto di famiglia; in particolare: le attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali», in questo volume.

[nota 9] Per la rilevanza assunta dallo scopo anticipativo (anche) al fine della costruzione di una possibile categoria, si vedano le pagine di A. ZOPPINI, «Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie "in forma indiretta"», Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, p. 1081 e ss., ed i rilievi presenti in G. AMADIO, Anticipata successione e tutela dei legittimari, in Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Milano, 2004, p. 653 e ss. Dello stesso ZOPPINI si veda ora «L'emersione della categoria della successione anticipata», in questo volume.

[nota 10] L'anticipazione di eredità ha fornito fondamento a taluni tentativi di giustificazione razionale della disciplina collatizia (si veda, in tal senso, soprattutto P. FORCHIELLI, La collazione, Padova, 1958, p. 52 e ss. e ID., Della divisione, in Commentario del c.c., a cura di Scialoja e Branca, Libro secondo. Delle successioni (artt. 713-768), Bologna Roma, 1970, p. 243 e ss.).

[nota 11] I primi essenziali riferimenti sono agli scritti di B. ECCHER, Antizipierte Erbfolge, Berlin, 1980, di D. OLZEN, Die Vorweggenommene Erbfolge, Berlin, 1984, e di H. KOLLHOSSER, «Aktuelle Fragen der Vorweggenommenen Erbfolge», Archiv fur civ. Praxis, 194 (1994), p. 231 e ss.

[nota 12] La formula, non ostante il suo evidente atecnicismo, è da tempo divenuta intitolazione usuale per il tema delle alternative negoziali al testamento; ne hanno consacrato l'utilizzo, in tempi non remoti, il convegno veronese del 5 e 6 febbraio 1993, i cui atti si leggono in La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995, e quello milanese del 5 marzo 1997, dedicato dall'Università Cattolica a «Successioni mortis causa e mezzi alternativi di trasmissione della ricchezza», con atti pubblicati in Jus, 1997, p. 267 e ss.

[nota 13] è appena il caso di rilevare che gli strumenti tradizionali, rappresentati dalle liberalità dirette o indirette, risultavano totalmente inidonei a superare tali ostacoli. Attraverso tali strumenti si sarebbe potuto anticipare l'effetto attributivo, e sottrarre alla collazione (per il tramite di una espressa dispensa) la quota disponibile dell'attribuzione: con il risultato massimo di assicurare provvisoriamente al donatario la titolarità di una frazione del bene corrispondente al valore complessivo della sua legittima e della disponibile. Restavano in tutta la loro gravità: l'impossibilità di determinare, al momento dell'attribuzione anticipata, l'entità di tale frazione (risultando, sia la legittima del donatario che la quota disponibile del patrimonio determinabili solo al tempo dell'apertura della successione); la possibilità per gli altri legittimari di ridurre l'attribuzione per la quota che al tempo dell'apertura della successione risultasse eccedente rispetto al valore di quella frazione; il conseguente instaurarsi di una situazione di contitolarità, tra beneficiario e legittimario vittorioso in riduzione, avente a oggetto la proprietà del bene donato, il cui scioglimento potrà implicare il distacco materiale di una porzione di esso; la possibilità di realizzare il proprio diritto alla legittima anche a danno dei terzi aventi causa dal donatario.

[nota 14] Si era scritto, esattamente, che ciò sarebbe equivalso ad affidare «al legittimario stesso la propria tutela» (IEVA, Retroattività reale dell'azione di riduzione e tutela dell'avente causa dal donatario tra presente e futuro, in Studi in onore di P. Rescigno, II, Milano, 1998, p. 414.): la cui misura avrebbe finito per dipendere, in buona sostanza, dal grado di potere contrattuale del singolo (si pensi al caso in cui la rinuncia all'azione di riduzione venga richiesta al figlio già economicamente autonomo, ovvero a quello ancora convivente e dipendente dal genitore). A ciò si aggiunga l'irragionevolezza insita in ogni rinuncia preventiva, prestata magari con larghissimo anticipo sul concretarsi della stessa fattispecie costitutiva del diritto rinunciato; o, ancora, si pensi all'instabilità del patto, connessa all'eventuale sopravvenienza di legittimari ulteriori. Su tutto ciò si veda ancora G. AMADIO, Anticipata successione e tutela dei legittimari, cit., p. 653 e ss.

[nota 15] è interessante notare che i dati ricavabili dalla comparazione indicano la circolazione di questo secondo modello: ne fornisce prova, in primo luogo il sistema del Pflichtteilsrecht, accolto sin dall'epoca della codificazione in Austria e Germania, che costruisce il diritto del legittimario come credito a un valore, monetizzato in termini di Geldanspruch (si confrontino, a titolo indicativo, tra i più recenti, LANGEKUCHINKE, Erbrecht, 5a ediz., München, 2001, 37, VIII, p. 919, ove si parla di «reiner Geldanspruch»; DIECKMANN, Pflichtteilrecht, in Soergel, Bürgerliches Gesetzbuch, Erbrecht, 3, 13a ediz., Stuttgart, 2002, § 2303, 2, p. 74, il quale precisa come il Pflichtteilsrecht assicuri all'avente diritto «kein Noterbrecht, also insbesondere keine Sachwertteilhabe am Nachlass» ma unicamente «einen Geldanspruch»; BROX, Erbrecht, 19a ediz., München, 2001, p. 308, che lo costruisce come «schuldrechtlichen Anspruch gegen die Erben auf Zahlung eines Gelbetrages»; SCHLÜTER, Erbrecht, 14a ediz., München, 2000, in cui l'avente diritto è descritto come «nur Gläubiger eines Geldanspruch»; OLZEN, Erbrecht, Berlin-NewYork, 2001, p. 349, ove si parla di «Geldzahlungsanspruch»; ma si tratta, del resto, di tesi risalente al tempo della codificazione, cme può riscontrarsi, ad es., in SCHIFFNER, Pflichtteil, in Abhandlungen zum Privatrecht und Zivilprozess des deutschen Reiches, Jena, 1897, p. 293, che costruisce il diritto alla legittima proprio come «Geldanspruche»).

Anche più significativa, è la linea di tendenza tracciata in Francia da tutta una serie di interventi riformatori della disciplina del Code: dalla previsione generale (introdotta sin dal '71 nell'art. 866 ) della reduction en valeur delle liberalità ricevute dagli eredi, sino alle regole di settore, che, sia con riguardo alle clausole statutarie in materia di morte del socio (art. 1870 e 1870-1, come riformati dalle leggi 24 luglio 1966, 66-38 e 4 gennaio 1978, 78-9), sia in ordine alla c.d. "clausola commerciale" inserita nel contrat de mariage (artt. 1390 e ss., novellati dalla L. 13 luglio 1965, n. 65-570), sostituiscono alla pretesa reale del legittimario pregiudicato, tecniche di tutela per equivalente, consentendo al destinatario dell'attribuzione preferenziale di compensare in danaro gli altri legittimari esclusi (sulla reduction en valeur si veda, per tutti, GRIMALDI, Droit civil. Successions. 6a] ediz., Paris, 2001, p. 760 e ss.; nello stesso, cfr. rispettivamente le p. 356 e ss., sulla clause commerciale, e p. 359 e ss. sulle clausole statutarie).

[nota 16] Da quello letterale, desumibile dal primo comma dell'art. 768-quater; a quello fondato sulle rationes iuris della novella che qui si stanno ricostruendo, e in special modo dalla funzione divisionale del patto; sino all'elementare principio di salvaguardia delle sfere giuridiche individuali, sul quale si tornerà.

[nota 17] CACCAVALE, «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati», in questo volume.

[nota 18] Con il Patto di famiglia, il legislatore fissa un nuovo punto di equilibrio del rapporto tra autonomia privata e tutela dei legittimari. Ma, con ciò stesso, finisce per riconoscere la tipicità sociale dell'interesse alla trasmissione generazionale della ricchezza (formula da tempo divenuta intitolazione usuale per il tema delle alternative negoziali al testamento: ne hanno consacrato l'utilizzo, in tempi non remoti, il convegno veronese del 5 e 6 febbraio 1993, i cui atti si leggono in La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995, e quello milanese del 5 marzo 1997, dedicato dall'Università Cattolica a «Successioni mortis causa e mezzi alternativi di trasmissione della ricchezza», con atti pubblicati in Jus, 1997, p. 267 e ss.) e della ricchezza produttiva in particolare.

[nota 19] ZOPPINI, Profili sistematici della successione anticipata (note sul Patto di famiglia), in Studi in onore di Giogio Cian, in corso di pubblicazione.

[nota 20] IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa», cit., p. 1374.

[nota 21] Per i riferimenti di dottrina tedesca, v. supra, la nota 10; per i contributi italiani, cfr. i richiami alla nota 8.

[nota 22] Lo sottolinea TASSINARI, «Il Patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali», in questo volume.

[nota 23] è in base a questa logica di fondo che potrebbe giudicarsi "paradossale" la possibilità, per il legittimario che abbia rinunciato al pagamento del credito liquidativo (cfr. infra nel testo) in cui il patto ha convertito il suo diritto alla riserva, possa poi agire in riduzione per ottenere anche quella quota di legittima. Ritiene "strano" tale giudizio BARALIS, «Problemi generali del nuovo Patto di famiglia…», cit., coerentemente con le proprie premesse costruttive, che assumono la non autonomia della c.d. successione anticipata rispetto alla futura successione che si aprirà post mortem, ma che risultano esattamente opposte a quelle da cui qui si muove e in base alle quali il giudizio può esprimersi.

[nota 24] Di «due autonome "quote di legittima", non comunicanti tra loro» parla TASSINARI,«Il Patto di famiglia:…» cit. (in cui anche l'ulteriore felice formula della "legittima anticipata").

[nota 25] MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, quarta ediz., Milano, 2000, passim e spec. p. 40 e ss., 60 p. e ss., 99 p. e ss.

[nota 26] Potrebbe essere interessante ragionare intorno a quest'ultima affermazione; in particolare osservando che la conversione in parola, attribuendo un credito di valore certo e, in linea di principio, immediatamente esigibile, in luogo di un diritto di quota di cui, sino all'apertura della successione, non è dato determinare l'entità, né chiedere la trasformazione in diritto esclusivo, rappresenti sempre e comunque una deminutio. Certo è che, anche in tale prospettiva, anticipare la successione nei beni produttivi, maggiormente esposti a fluttuazioni di valore e di consistenza, appare un obiettivo coerente alla razionalità del sistema.

[nota 27] Sono parole di MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 81 (corsivo dell'autore).

[nota 28] G. PETRELLI, «La nuova disciplina…», cit., p. 430.

[nota 29] La critica, assai nota, si deve a G. TARELLO, L'interpretazione della legge, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1980, p. 375 e ss.; sul tema, dello stesso Autore si confronti altresì la parte terza di Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974.

[nota 30] L. COVIELLO, «La divisione inter liberos e il suo carattere distributivo», Foro it., 1937, I, p. 32 e ss.

[nota 31] L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 226 e ss.

[nota 32] A. CICU, Successioni per causa di morte - Parte generale - Divisione ereditaria, Milano, 1958, p. 456.

[nota 33] Le citazioni si leggono in L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 80 e ss.; l'opinione ormai entrata nel novero delle nozioni istituzionali, è pressoché unanime; A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 433; P. FORCHIELLI, Della divisione, cit., sub art. 734, p. 197; GAZZARA, voce "Divisione ereditaria (dir. priv.)", in Enc. del dir., XIII, Milano, 1964, p. 435 e ss.; V. R. CASULLI, voce "Divisione ereditaria (dir. civ.)", nel Noviss. Digesto it., VI, Torino, 1960, p. 57, nonché nel Noviss. Digesto it. – Appendice, III, Torino, 1982, p. 61; P. CARUSI, Le divisioni, Torino, 1978, p. 243; F. D. BUSNELLI, voce "Comunione ereditaria", in Enc. del dir., VIII, Milano, 1961, p. 277; FRAGALI, La comunione, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, I, Milano, 1973, p. 71, nota 1; A. BURDESE, La divisione ereditaria, Torino, 1980, p. 255; ID.,"Comunione e divisione ereditaria", Enc. giuridica, VII, Roma, 1988, p. 1 e ss; G. AMADIO, La divisione del testatore, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 75 e ss. Essa segna il superamento dell'idea, ricorrente in dottrina sotto il vigore del codice abrogato (si veda, per tutti, N. COVIELLO, Delle successioni. Parte generale, 4a] ed., a cura di L. Coviello, Napoli, 1935, p. 588, nota 3) di un istante "ideale" o "di ragione", in cui la massa dei beni divisi dall'ascendente si sarebbe necessariamente venuta a trovare in comunione tra gli assegnatari (per la critica coeva, volta a denunciare la finzione insita in tale rilievo, si veda TEDESCHI, La divisione d'ascendente, Padova, 1936, p. 9).

[nota 34] Sia consentito rinviare a quanto osservato in G. AMADIO, Comunione e coeredità (Sul presupporto della collazione), in Diritto privato 1998, IV, Del rapporto successorio: aspetti, Padova, 1999, p. 279 e ss.

[nota 35] Si tratta di una costruzione che si è avuto occasione di presentare in via provvisoria in G. AMADIO, Divisione ereditaria e collazione, Padova, 2000, spec. p. 108 ss., e di riproporre in sintesi in ID., «Comunione e apporzionamento nella divisione ereditaria (per una revisione critica della teoria della divisione)», in corso di pubblicazione in «Il diritto ereditario all'affacciarsi del nuovo millennio: problemi e prospettive» (Atti del Convegno svoltosi a Udine nei giorni 9-11 giugno 2005).

[nota 36] In questo senso, A. ZOPPINI, Il Patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), Diritto privato 1998, IV, Del rapporto successorio: aspetti, cit., p. 263 e ss.

[nota 37] Così, invece A. ZOPPINI, op. loc. ultt. citt. (da cui si trae il passo citato), in relazione al progetto allora in discussione, ma con accenti che si possono riproporre anche per la nuova disciplina.

[nota 38] Così ancora ZOPPINI, Profili sistematici della successione anticipata… cit.

[nota 39] Si tratta della nozione di causa che, in tempi non lontanissimi, ha enunciato CHECCHINI, «Regolamento contrattuale e interessi delle parti (Intorno alla nozione di causa)», Riv. dir. civ., 1991, I, p. 229 e ss. e specialm. p. 240 e ss., dando forma definitiva e compiuta dimostrazione a istanze concettuali già presenti, in nuce in taluni passi di REDENTI, «La causa del contratto secondo il nostro codice», Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, p. 902 e ss., CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 200 e SCALISI, voce "Negozio astratto", in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 86 e ss. Essa è stata ripresa in AMADIO, La condizione di inadempimento. Contributo alla teoria del negozio condizionato, Padova, 1996, spec. p. 194 e ss., cui sia consentito rinviare.

[nota 40] Non si prendono in esame qui, perché molto probabilmente infondate, le ragioni di dubbio che taluno ha per altro avanzato, in ordine alla configurabilità come Patto di famiglia della suddetta convenzione.

[nota 41] Senza aprire neppure il problema della qualificazione dell'errore di stima, e della sua riconducibilità ad una delle ipotesi previste come essenziali dagli artt. 1429 e ss., un margine residuo di operatività della rescissione ultra quartum potrebbe forse giustificarsi per la difficoltà di trasferire, al suddetto errore, il giudizio di riconoscibilità (ex art. 1431) al cui esito positivo l'art. 1428 subordina l'esperibilità dell'azione.

[nota 42] Ciò contribuisce ulteriormente a distinguere l'impostazione seguita in questa sede, fondata sulla categoria della successione anticipata e sulla conseguente "separazione" della vicenda ex pacto rispetto alla successione futura (impostazione accolta, sinora, anche da ZOPPINI E TASSINARI, opp. locc. citt., nonché da MAGLIULO, «L'apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione», in questo volume) rispetto a quella (seguita da PETRELLI, op. cit., p. 454), volta a consentire, ai legittimari rinuncianti, l'azione di riduzione sui beni residui anche per la parte di legittima ("relativa", secondo l'impostazione qui accolta) cui abbiano rinunciato in sede di accordo liquidativo (ma quid iuris nel caso di loro assenza o insufficienza?). Nell'ottica qui adottata, ciò equivarrebbe a ritenere che il legittimario (chiamato alla successione per la sola legittima) il quale abbia aderito alla divisione consensuale dell'immobile indivisibile rappresentativo della maggior parte, o ancor peggio, dell'intero asse, consentendone (ex art. 720, c.c.) l'assegnazione all'altro legittimario (chiamato nella legittima e nella disponibile, e dunque titolare della maggior quota), e che in seguito rinunci al pagamento del credito pecuniario in cui il suo diritto di quota si è concretato, possa non solo rimettere in discussione il riparto, ma a dirittura chiedere, a titolo di legittima, il valore dell'apporzionamento cui ha rinunciato sugli eventuali beni residui, o magari su quello assegnato.

[nota 43] Il rilievo, sicuramente meritevole di riflessione, è sollevato da LA PORTA, nella relazione cit. supra in nota 5.

[nota 44] La riqualificazione causale è figura emersa in più di un'occasione, nel corso dei dibattiti svoltosi nell'ambito delle prime iniziative convegnistiche sul tema (ivi comprese le prime due giornate del trittico organizzato dalla Fondazione italiana per il Notariato, ricordate in apertura).

[nota 45] Si vedano le osservazioni iniziali di C. GRANELLI, voce "Riproduzione (e rinnovazione) del negozio giuridico", in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 1050.

[nota 46] R. SCOGNAMIGLIO, «Sulla rinnovazione del negozio giuridico», in Giur compl. cass. civ., 1950, III, p. 449 e ss.

[nota 47] C. GRANELLI, op. cit., p. 1051.

[nota 48] Così già E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Tratt. dir. civ. it. diretto da F. Vassalli, XV, t. 2, 2° ed., rist., Torino, 1960, p. 137 e ss.

[nota 49] Altri rilievi in tal senso, oltre che in Granelli, si ritrovano in M. CASELLA, voce "Ripetizione del negozio", Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, ad vocem.

[nota 50] R. NICOLò, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell'obbligazione, Ann. Messina, VII, 1934-1935, p. 311 ss.

[nota 51] G. CRISCUOLI, «Contributo alla specificazione del negozio modificativo», Giust. civ., 1957, I, p. 847 ss. e specialm. a p. 858, ove ulteriori richiami.

[nota 52] F. SANTORO PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1975, p. 34 e ss.

[nota 53] Sulla rinnovazione, oltre agli aa. citt., restano fondamentali, pur se non recenti, le pagine di N. IRTI, La ripetizione del negozio giuridico, Milano, 1970, spec. p. 143 e ss.

[nota 54] Sarebbe interessante interrogarsi se la stessa qualificazione in termini di liberalità, in fondo, non ritorni e persista anche nel patto, al quale, ferme restando le specificità che lo distinguono dalla donazione, difficilmente può disconoscersi, almeno per quanto attiene all'attribuzione realizzata in favore del preferito, una causa liberale.

[nota 55] E ciò esclude in radice la rilevanza dei noti problemi, sollevati dagli strumenti eliminativi (mutuo dissenso), quando incidenti su negozi ad effetti esauriti.

[nota 56] Per cui, banalmente, non sarebbe possibile richiamare la donazione per convenirne la sottrazione alla futura azione di riduzione, senza contestualmente stipulare l'accordo liquidativo.

[nota 57] Segnali contrari provenivano già dal sistema previgente (basti, per tutti, la possibilità di una dispensa da collazione successiva all'atto).

[nota 58] Secondo il monito, che non dovrebbe mai dimenticarsi, di A. FALZEA, La condizione e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941, p. 10.

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