Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
Prime osservazioni sul Patto di famiglia
di Giuseppe Fietta
Notaio in Bassano del Grappa

Introduzione

Il presente intervento si limita ad alcune osservazioni che per il loro carattere immediato avranno bisogno di più attenta riflessione non avendo difficoltà di ammettere che le soluzioni cui si è giunti in ordine ai problemi esaminati non sono dotate dello stesso rigore e della stessa forza argomentativa.

Restano inoltre molti profili problematici appena accennati. In particolare quanto segue si concentra soprattutto sugli aspetti sostanziali della disciplina solo sfiorando i profili processuali e patologici dell'istituto.

L'esame per quanto possibile seguirà la sequenza del dettato normativo.

Preliminarmente giova constatare come, anche a seguito dell'istituto di cui alla normativa in oggetto, il campo operativo nell'ambito del parasuccessorio negli ultimi tempi si sia ampliato; basti ricordare le aperture effettuate in occasione della nuova disciplina della circolazione delle partecipazioni societarie e poi la previsione di un possibile intervento sulla circolazione dei beni donati da parte degli ipotetici legittimari ancor prima dell'apertura della successione.

Volendo poi dare una descrizione sintetica della novella legislativa si può affermare che la stessa ha lo scopo di permettere, durante la vita di chi ne è titolare, la trasmissione dell'azienda e/o delle partecipazioni sociali, in presenza di accordo tra tutti i legittimari, in situazione e con effetti di stabilità, cioè al riparo da possibili azioni di riduzione e di diritti di collazione che, quando proponibili, vengono limitate nel loro contenuto ed effetti.

Una delle ragioni della limitazione dell'istituto alle aziende e alle partecipazioni societarie (in seguito per comodità indicate come "bene impresa") può essere anche il carattere dinamico dei beni stessi condizionati, nella loro valorizzazione, dall'apporto di chi concretamente gestisce le imprese agli stessi riferite, essendo ciò rilevante sotto una duplice visuale. Da una parte, proprio e soprattutto in relazione a questi beni, può sorgere l'esigenza che il trasferimento avvenga prima del decesso del titolare, in modo da realizzare la naturale ed auspicata coincidenza tra titolarità e responsabilità di gestione; dall'altra parte proprio questa esigenza, e la suddetta natura dinamica dei beni, rende non del tutto funzionale la regola che la valutazione dei suddetti beni debba fare riferimento al momento del decesso, considerato invece rilevante per gli altri beni.

Il trasferente deve essere imprenditore?

Venendo all'esame più in dettaglio delle disposizioni, anche ai fini di una verifica di come le presumibili intenzioni del legislatore si siano tradotte in disciplina, iniziando dall'art. 768-bis, si evidenzia come lo stesso, ad una interpretazione letterale, sembrerebbe ricomprendere nel suo ambito applicativo tutte le ipotesi di trasferimento d'aziende e di partecipazioni societarie effettuate a favore di discendenti, imponendo poi, nell'articolo successivo, per tale operazione, frequente nella esperienza pratica, il requisito formale dell'atto pubblico a pena di nullità.

Un esame semplice, logico e sistematico della disciplina fa intendere l'infondatezza di tale interpretazione per cui la norma, al di là del suo tenore letterale, va intesa nel senso di prevedere che alcuni trasferimenti a favore dei discendenti assumano il carattere di Patto di famiglia quando abbiano un particolare oggetto (aziende e partecipazioni societarie), particolari requisiti di forma (atto pubblico), soggettivi (la partecipazione di tutti i legittimari) e, come si cercherà di dimostrare, di contenuto (la determinazione del valore di quanto trasferito); a tale qualificazione la legge poi collega una certa intangibilità degli accordi (limitazione del termine dell'impugnativa, sottrazione dalle azioni di riduzione e dalla collazione, stabilità ed incontrovertibilità del valore attribuito a quanto assegnato anche nei confronti di legittimari che risultino tali solo al momento della morte del trasferente).

La legge non pone limiti quantitativi o dimensionali in ordine all'oggetto del contratto.

In relazione all'azienda, comunque, qualifica il trasferente come imprenditore, potendo fare sorgere il dubbio della non sufficienza, al fine della applicabilità della disciplina in esame, del fatto che l'oggetto sia una azienda (o un suo ramo, non potendosi porre particolari problemi in ordine a tale estensione) richiedendosi, invece, la necessità che il trasferente sia qualificabile come imprenditore.

Nel caso delle partecipazioni, invece, nessun requisito viene richiesto in capo al trasferente potendo così la normativa trovare applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio "risparmiatore" o solo nudo proprietario.

La tesi dell'inapplicabilità della normativa a ipotesi in cui il trasferente possegga l'azienda ma non sia qualificabile come imprenditore lascia insoddisfatti. Basti pensare all'esclusione che ne deriverebbe nel caso di azienda affittata allo stesso discendente candidato assegnatario della stessa. Ragioni di logica del sistema vorrebbero che, anche in tale ipotesi, e a maggior ragione, la disciplina risultasse applicabile, al di là dei dubbi derivanti dal tenore della norma.

In tal senso si può rilevare come in modo particolare nel presente intervento il legislatore non abbia dato prova di sofisticato tecnicismo.

Se nell'articolo in esame, intitolato nozione, si qualifica (suscitando il dubbio di cui sopra che lo stesso sia una condizione di applicabilità della disciplina) imprenditore il trasferente dell'azienda (e solo questo) - mentre in relazione alle partecipazioni societarie si limita a richiedere in capo al trasferente la sola titolarità (potendo però fare sorgere il dubbio che non possa essere oggetto del patto un diritto di usufrutto sulle stesse) - nel successivo art. 768-quater si qualifica come imprenditore tout court il partecipante del Patto di famiglia e anche nell'art. 768-sexies è la morte del solo imprenditore che viene disciplinata. L'uso non proprio del termine che emerge dalle disposizioni da ultimo citate (essendo certo che tale non è tecnicamente e giuridicamente nemmeno il socio di maggioranza di una società di capitali al quale le norme in commento non possono non trovare applicazione) dimostra il carattere atecnico con cui viene assunto il termine imprenditore dal legislatore. Né a contrario può sostenersi che la contraddizione possa essere risolta in senso opposto, richiedendosi particolari requisisti in capo al trasferente delle partecipazioni societarie onde poterlo definire imprenditore quale presupposto per l'applicazione della disciplina, nulla richiedendo al riguardo la legge e non trovandosi nel sistema indici sicuri e condivisibili che consentano di limitare la disciplina a partecipazioni qualificate in senso quantitativo o qualitativo, dovendosi comunque ritenere che tali elementi avranno comunque influenza pratica, per cui non sarà frequente il ricorso all'istituto in esame per partecipazioni economicamente non significative.

Le considerazioni sopra svolte portano quindi a svalutare l'importanza del termine imprenditore utilizzato nell'articolo in commento nonostante lo stesso abbia, nel dettare la nozione di Patto di famiglia indubbiamente anche funzione definitoria e così lo scopo di determinare l'ambito applicativo della disciplina; ma visto le imprecisioni e l'utilizzo del termine nelle disposizioni successive si può confermare alla norma, nel suo complesso, carattere definitorio, negando tale valenza al singolo termine dalla stessa utilizzato.

Il negozio di trasferimento

Continuando l'esame della nozione di patto di famiglia significativamente l'articolo in commento non qualifica la natura del trasferimento.

Certamente normalmente si tratterà di negozio a titolo gratuito, almeno da parte del trasferente, ma la mancata qualificazione in tal senso nella nozione rafforza la convinzione che l'istituto ha un campo applicativo più ampio di quanto un primo approccio possa far pensare come si cercherà di evidenziare successivamente commentando l'art. 768-quater.

Rimanendo nel campo operativo la legge riafferma la necessità che gli accordi risultino compatibili con le norme in materia di imprese familiari e siano rispettose delle «differenti tipologie societarie».

Al riguardo di questo ultimo inciso si deve ritenere che la legge abbia detto meno di quanto volesse significare. Infatti non solo il patto dovrà rispettare le regole tipologiche delle società ma, anche, le singole discipline adottate volta per volta dalle società nell'ambito della loro autonomia normativa. Il solo dubbio che può sorgere al riguardo è se, nel caso di specie, trovino applicazione le regole che disciplinano la cessione per atto tra vivi o quelle dettate per il trasferimento mortis causa, poichè spesso variano tra le due fattispecie le regole, i limiti e le condizioni previsti.

La collocazione della disciplina nel secondo libro del codice non dovrebbe però portare a conclusioni affrettate.

Infatti, anche se il Patto di famiglia per espressa valutazione legislativa costituisce (nei limiti e profili di cui si dirà) deroga al divieto di patti successori e quindi presenta molti profili, riflessi e ripercussioni riportabili nel campo tradizionale del mortis causa, non si può negare che lo stesso abbia effetti che, per la società e gli altri soci, hanno valenza immediata, restando il profilo successorio limitato, e solo a particolari effetti, ai partecipanti.

Quindi oltre alle regole tipologiche del tipo societario dovranno essere rispettate anche le eventuali norme statutarie che disciplinano il trasferimento per atto tra vivi.

L'atto, infatti, resta un negozio i cui effetti sono immediati (non è previsto un impegno successivo del trasferente) ed è dotato eccezionalmente di una certa stabilità anche sotto il profilo successorio in forza di alcuni requisiti e regole che lo caratterizzano.

Gli assegnatari discendenti

Un altro profilo da sottolineare nella norma esaminata è la precisazione che assegnatari del bene impresa siano discendenti del trasferente. Quindi non solo il figlio ma anche il discendente nipote può essere il "beneficiario" del patto, e ciò indipendentemente dalla premorienza del suo immediato ascendente, salva la necessaria partecipazione anche di quest'ultimo al patto come disciplinata dal successivo art. 768-quater, primo comma, dove si dice testualmente che al contratto devono partecipare anche il coniuge (che pure è un legittimario) e tutti coloro che sarebbero legittimari presupponendo quell' "anche" la partecipazione di chi tale qualità non abbia, quale appunto il discendente nipote, possibile assegnatario del bene.

La forma del Patto

L'art. 768-ter successivo nel prescrivere per il contratto in esame la forma dell'atto pubblico non richiede la presenza dei testimoni. Pure essendone tuzioristicamente consigliabile l'intervento anche in relazione alla possibilità di accordi contestuali al patto in se stessi abbisognevoli di tale presenza, si deve prendere atto della scelta del legislatore che con l'articolo in commento, forse, al di là delle apparenze, più che imporre una regola di rigore, in realtà riduce le cautele formali che sarebbero state ritenute altrimenti applicabili, avendo il presente negozio, almeno da parte del trasferente, di regola, carattere donativo.

I partecipanti al Patto

L'articolo più complesso è senza dubbio il 768-quater, vero cuore dell'istituto.

In relazione al primo comma che disciplina l'intervento nel contratto, oltre a rinviare a quanto sopra scritto, ci si può chiedere se al negozio possa attribuirsi natura personalissima, necessitante in quanto tale la presenza personale delle parti.

Al riguardo, qualora lo stesso abbia, come di regola, carattere donativo, non c'è dubbio che ad intervenire nel patto potrà essere il solo trasferente, potendosi solo discutere sulla ammissibilità di un semplice nuncius.

Quanto agli altri partecipanti la soluzione del problema risulta meno scontata.

La definizione anticipata della trasmissione dell'azienda e/o delle partecipazioni quale delineata dal legislatore presenta profili negoziali e patrimoniali non diversi da quelli che emergono normalmente in sede di successione e come accade in questa, quindi, non è a priori da escludere in linea di principio che uno dei partecipanti al patto non intervenga personalmente, salvo il rispetto delle regole generali in materia di rappresentanza volontaria e legale (forma della procura e autorizzazioni richieste).

La funzione del Patto

Il secondo comma dell'articolo in esame definisce nel contenuto il Patto di famiglia e ne delinea la funzione. Ovviamente proprio il suo carattere di perno dell'istituto impone una valutazione dello stesso in stretto coordinamento con le altre disposizioni, in condizioni di mutua complementarietà e influenza.

In base alla suddetta disposizione requisito e condizione perché si possa parlare di Patto di famiglia è la circostanza che l'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni definisca la sua posizione ereditaria nei confronti dei legittimari al fine e con l'effetto di rendere il più possibile definitivo l'acquisto.

La legge come ipotesi normale prevede la liquidazione a favore dei non assegnatari di una somma di denaro corrispondente al valore delle loro quote di legittima (dovendosi intendere la disciplina della legittima richiamata solo quale metro matematico di calcolo) il tutto necessariamente e obbligatoriamente rapportato solo a quanto oggetto del patto (cioè l'azienda e/o le partecipazioni), dando la facoltà ai contraenti di concordare che il pagamento avvenga anche in natura.

Il carattere di assolutezza e imperatività della previsione (la legge usa il termine "devono") della liquidazione a favore degli assegnatari mediante il pagamento di una somma di denaro (o di beni) corrispondente al valore della loro legittima rapportata alla condivisa valutazione di quanto oggetto di trasferimento ad una lettura più attenta e sistematica si dimostra apparente. Innanzitutto la legge prevede la possibilità di una rinuncia parziale o totale da parte dei non assegnatari di quanto ad essi astrattamente dovuto. Ed in senso opposto, nel caso (che risulterà probabilmente frequente) in cui i partecipanti al patto concordino a favore dei non assegnatari somme di denaro (o beni) di ammontare maggiore rispetto a quanto corrisponda al risultato matematico legislativamente previsto, sembra difficile dover affermare che si fuoriesca dall'istituto, o che in ogni caso si violi la normativa. Appare più logico sostenere che anche questa ipotesi possa considerarsi protetta dalla disciplina di cui alla legge.

Infatti come può rientrare nella disciplina del Patto di famiglia l'ipotesi della liquidazione a favore dei non assegnatari di somma inferiore a quella astrattamente determinabile non si vede ragione di escludere dagli effetti ed opportunità dischiuse dall'istituto un accordo che preveda una liquidazione più equa a favore dei non assegnatari. L'esigenza di stabilità e certezza del trasferimento che l'istituto cerca di soddisfare sussiste e va soddisfatta anche in tal ipotesi.

Tale soluzione deve comunque trovare giustificazione e le sue conseguenze devono essere adeguatamente valutate e regolate.

A tal fine si può invocare la disposizione di cui al successivo comma, che nel prevedere che quanto attribuito ai non assegnatari sia imputabile alla loro legittima (sia pure al valore concordemente stimato al momento di detta assegnazione) sembra delineare una fattispecie che può realizzarsi proprio sul presupposto che quanto dato ai non assegnatari del bene impresa non corrisponda esattamente al risultato del calcolo automatico indicato dalla legge.

Se infatti la sola possibilità concessa ai sottoscrittori del patto consistesse in un pagamento corrispondente alla quota di riserva (salva la espressa facoltà di una loro totale o parziale rinunzia), essendo questa liquidata in sede di patto in corrispondenza del bene impresa assegnato, il sistema risulterebbe chiuso, senza alcun rilievo di quanto oggetto del patto sugli altri beni. Già si è visto che le valutazioni effettuate in occasione del patto restano definitive. Quanto dato ai non assegnatari soddisfa la loro riserva in relazione ai beni oggetto del patto. In relazione ai restanti beni non dovrebbero imputare niente. La previsione invece di un rilievo, di cui al suddetto comma, di quanto liquidato dall'assegnatario del bene impresa agli altri legittimari ai fini della ripartizione in sede successoria dei beni diversi, pone per scontata la fattispecie in discussione, cioè l'attribuzione di qualcosa di più di quanto possa risultare dal calcolo che la legge impone come obbligatorio.

La ragione della norma non può essere vista nel solo rilievo dalla stessa attribuito ai fini dell'imputazione ex se di beni trasferiti da terzi rispetto al de cuius prevedendo già l'ordinamento la rilevanza delle donazioni indirette.

Contenuto del Patto

Resta da chiedersi allora quale sia il contenuto precettivo della norma che impone un dovere di liquidazione. Forse la sostanza imperativa della disposizione va individuata nell'esigenza imprescindibile per l'istituto di una valutazione concordata e quindi definitiva del bene impresa oggetto del trasferimento. Ciò può trovare conferma dall'esame di due disposizioni.

Innanzitutto l'art. 768-sexies che presuppone, ai fini della liquidazione dei legittimari non intervenuti nel patto, che il rinvio allo stesso consenta con precisione e chiarezza la possibilità di individuare la somma agli stessi dovuta, dando per scontato così che il patto chiaramente individui il valore del bene impresa su cui calcolare la somma (corrispondente alla quota di legittima rapportata a tale valore) dovuta agli assegnatari secondo i criteri della legittima (non rilevando le eventuali rinunzie da parte degli intervenuti ovviamente non opponibili ai terzi non intervenuti sia, come qui sostenuto, la liquidazione più favorevole rispetto alla previsione legislativa, a questo punto definibile minimale) finendo per rendere vincolante tale valutazione per i suddetti legittimari tali divenuti successivamente al patto con il diritto quindi di essere liquidati in relazione a tale valore con il solo riconoscimento degli interessi legali.

Si dovrà avere cura quindi nella stesura del patto, qualora la somma concordata a favore dei non assegnatari non coincida con la loro legittima, sia per difetto (per rinuncia parziale), sia per eccesso, (che come sopra sostenuto può ritenersi possibile e probabile) di evidenziare tutto ciò, dovendosi presumere altrimenti che quanto liquidato corrisponda alla legittima con le conseguenze evidenziate.

Ma l'interpretazione secondo la quale l'art. 768-quater, comma secondo, ha un contento precettivo diverso da quanto ad una lettura isolata appaia trova soprattutto sostegno e conferma da quanto si rileverà esaminando l'ultima parte del suo terzo comma, che disciplina il contratto successivo.

Quanto al momento del pagamento il tenore letterale del testo normativo sembrerebbe prevederne la contestualità, pure dando l'alternativa che al denaro possano, su accordo dei partecipanti, sostituirsi beni in natura. Tale interpretazione viene però smentita da quanto statuito dal suddetto seguente comma che prevede, disciplinandolo, un contratto di assegnazione che pure se strettamente collegato al primo in quanto successivo resta distinto da quello.

Liquidazione dei non assegnatari

Ha destato perplessità nei primi commentatori la circostanza che la legge non abbia previsto l'ipotesi forse più frequente nella pratica cioè quella del genitore che, mentre attribuisce ad alcuni figli il bene impresa, ad altri trasferisca i beni cosiddetti personali.

Effettivamente dalla legge tale ipotesi non viene disciplinata. D'altra parte la deroga al divieto di patti successori è prevista limitatamente ai "beni impresa", per cui una interpretazione che coinvolgesse nella disciplina del Patto di famiglia altri beni, pur se funzionali al patto, avrebbe rivoluzionato il sistema coinvolgendo potenzialmente e astrattamente tutto il patrimonio del trasferente sottraendolo alle regole generali della successione.

Come detto all'inizio, la presente legge disciplina solo la fattispecie di trasferimento del bene impresa e solo una modalità del trasferimento.

Al fine di rendere compatibile con il sistema ed applicabile la disciplina in commento alla fattispecie sopra considerata si può ipotizzare una donazione da parte della madre (rispettiamo le pari opportunità!) a tutti i figli di beni personali seguita poi dal Patto di famiglia avente ad oggetto il trasferimento del bene impresa, patto in cui l'assegnatario dello stesso liquidi gli altri legittimari con quanto da lui precedentemente ricevuto dalla genitrice. Tale sequenza, se risulta corretta dal punto di vista normativo, incontra delle possibili controindicazioni fiscali, trattandosi di doppio trasferimento, essendo comunque generale il problema della qualificazione del pagamento in natura da parte dell'assegnatario a favore degli altri legittimari potendo lo stesso essere qualificabile quale trasferimento oneroso.

Resta da considerare anche la ipotesi del pagamento (successivo) o del debito fatta da terzo, nella specie coincidente con il trasferente. Così nell'ipotesi in cui si concordi il pagamento dilazionato di una determinata somma, esistono ragioni per escludere che l'adempimento di quanto dovuto venga effettuato da un terzo? E, se ciò è ritenuto possibile, ragioni particolari per escludere specificatamente che il terzo sia il trasferente? Certamente qualora la madre, nel caso in esame, provvedesse a detto pagamento con mezzi propri in natura o in denaro si configurerebbe una donazione indiretta a favore dell'assegnatario, con le conseguenze relative, ma non sembra che ciò possa toccare il patto in quanto tale, cioè il quanto concordato e dovuto ai legittimari non assegnatari.

Il patto in quanto tale, inteso come disciplina particolare del trasferimento del bene impresa non potrà quindi avere ad oggetto beni dell'imprenditore diversi dalle partecipazioni e/o dall'azienda.

Per chiarire quanto affermato si ipotizzi un Patto di famiglia in cui l'assegnatario concordi con gli altri legittimari il pagamento di quanto dovuto mediante il trasferimento di un bene dallo stesso precedentemente ricevuto in donazione dall'imprenditore. Ai fini del patto e quindi della soddisfazione della legittima riferita al bene impresa il valore del bene così dato in pagamento resta definito nei valori del patto senza poter subire modificazioni col passare del tempo come pure nessuna modificazione può subire il valore del bene impresa rispetto a quanto convenuto nel patto. Ma che è da dirsi in relazione al valore del bene oggetto di donazione precedentemente fatta dall'imprenditore a favore dell'assegnatario del bene impresa? Essendo limitati gli effetti della disciplina al patto e a quanto oggetto dello stesso? Tale risultato stabilizzante non potrà valere per quanto non strettamente inerente al patto. La stabilità dei valori prevista per i beni assegnati in pagamento resterebbe rispettata per quanto la stessa risultasse rilevante in relazione al rapporto stabilito nel patto tra bene impresa e liquidazione. Resterebbe aperto il rilievo della donazione precedente al patto nell'ambito della successione dei beni diversi, ritenendosi che in tale ambito il bene possa essere assunto ai valori diversi previsti nella relativa disciplina.

La deroga alle norme successorie, anche quelle valutative è rilevante, per quanto riguarda l'imprenditore solo per i beni impresa non coinvolgendo altri beni.

Il comma successivo, come sopra rilevato, impone l'imputazione alla quota di legittima di quanto assegnato ai partecipanti non assegnatari dell'azienda (e, si può ragionevolmente ritenere anche delle partecipazioni, nonostante la legge qui non menzioni le stesse) al valore stabilito in contratto e la prescrizione deve ritenersi riferita a tutto quanto assegnato anche in eccedenza rispetto al valore matematico della legittima. Una delle particolarità di questa imputazione è che essa si riferisce a beni che i beneficiari ricevono da terzi, ma ciò non rappresenta eccezione, essendo regola per le donazioni indirette.

Nella ipotesi di rinunzia totale e parziale pure sopra prevista, se nulla (o meno di quanto astrattamente spettante) i soggetti hanno ricevuto, nella previsione di legge, pure dovranno imputare ex se la quota quanto astrattamente agli stessi dovuta, ma resta il problema dell'ammissibilità in sede di patto di un accordo che rinvii detta liquidazione, determinata nell'ammontare, al momento successivo dell'apertura della successione.

Contratto successivo

La previsione di un contratto di assegnazione successivo al patto, di cui si è fatto già cenno, disciplinata dall'articolo in commento, pone dei dubbi di ricostruzione, la cui soluzione è agevolata dall'interpretazione che si è data al comma secondo e corrispondentemente la conferma.

La disposizione legislativa impone che al contratto intervengano tutti i partecipanti al patto e che lo stesso sia dichiarato espressamente collegato al primo.

La norma conferma così che il Patto di famiglia può non comportare la soddisfazione delle ragioni dei legittimari non assegnatari del bene impresa, confermando l'ipotesi che la sua funzione essenziale non sia di natura satisfattiva ma piuttosto determinativa del valore del bene impresa trasferito.

Infatti sarebbe riduttivo pensare che la norma voglia riferirsi ad un pagamento successivo al patto. La norma parla infatti di contratto. Si potrebbe allora forse ipotizzare che la norma faccia rinvio alla previsione di una liquidazione in natura prevista dal secondo comma del medesimo articolo e così ad una datio in solutum della cui praticabilità non si può dubitare. Infatti una volta stabilita una certa somma di denaro da pagarsi le parti coinvolte ben potrebbero, come si è visto, convenire un pagamento in natura. Ma non si vedrebbe la ragione per tali ipotesi di richiedere l'intervento necessariamente generale dei partecipanti originari del patto o loro "sostituiti".

Gli stringenti requisiti di contenuto (la necessità che nel contratto si faccia menzione espressa al Patto di famiglia precedentemente stipulato) e di struttura risulterebbero eccessivi se veramente fosse questa l'ipotesi tenuta a mente dal legislatore.

La disposizione trova invece una sua logica giustificazione coordinata con il comma secondo nell'interpretazione che si è suggerito di darne. Se elemento essenziale e caratterizzante del Patto di famiglia è la predeterminazione vincolante (pure nei termini che si sono visti) del valore del bene impresa trasferito, è possibile anche ipotizzare che a questo si limiti il patto, lasciando ad un accordo successivo la liquidazione delle spettanze degli altri non assegnatari. La previsione così di un contratto successivo al patto (pure se necessariamente collegato al primo) avente per oggetto l'assegnazione di beni ai legittimari non beneficiati del bene impresa con il patto di famiglia presuppone che quest'ultimo abbia avuto un contenuto diverso dall'assegnazione e quindi natura non satisfattiva. Tale primo negozio che per espressa disposizione deve aver avuto come contraenti tutti i legittimari e il trasferente e per effetto il trasferimento del bene impresa, è qualificato implicitamente come Patto di famiglia dal comma in esame e lo stesso non ha avuto come materia negoziale la soddisfazione dei non assegnatari di quanto dovuto (perchè oggetto del successivo negozio). Quindi è la legge stessa a qualificare come Patto di famiglia tale primo negozio, avente per oggetto il trasferimento del bene impresa con contestuale determinazione e fissazione del valore per accordo di tutti i soggetti in esso intervenuti individuandone così l'elemento essenziale e caratterizzante.

Il rigore formale del contratto successivo trova giustificazione forse nelle scelte che in esso sono implicate e connesse, valutative relativamente ai beni assegnati ma anche forse di determinazione del quanto da liquidare.

Pertanto nell'ipotesi in cui il contratto originario abbia già stabilito il quanto del pagamento a favore dei non assegnatari, pure dilazionandone l'adempimento, il contratto successivo di datio in solutum probabilmente non richiederà il rigore previsto dal comma terzo, interessando solo le parti coinvolte nel pagamento e non avendo effetti per gli altri partecipanti.

Resta solo da osservare che la norma impone la partecipazione di tutti ma anche solo degli originari partecipanti al patto o loro sostituti, lasciando scoperta l'ipotesi di mutamenti soggettivi (nascita di altri figli).

Al riguardo forse la legge ha voluto non derogare troppo rispetto alle norme successorie. Eventuali legittimari successivi troveranno tutela in base alle regole, di per sè stesse eccezionali, previste nell'art. 768-sexies.

Resta il dubbio (visto come si è delineato il nucleo del Patto di famiglia, e come per lo stesso la liquidazione delle spettanze degli altri legittimari risultino ad una lettura sistematica della normativa come non così essenziali come in prima apparenza sembrerebbero) se lo stesso istituto possa trovare applicazione anche in ipotesi di trasferimento oneroso del bene impresa, essendo anche sentita l'esigenza di evitare future contestazioni tra legittimari circa il valore del bene impresa, al di là anche delle ipotesi di trasferimenti a prezzo di favore (negotium mixtum cum donatione).

In relazione alla previsione della partecipazione nel contratto successivo di sostituti, si potrebbe pensare ad una imprecisione del legislatore e che lo stesso avesse voluto riferirsi ai successori.

In realtà ad un esame più attento può suggerirsi un'altra interpretazione che attribuisca al termine un senso più pregnante. La collocazione dell'istituto nel secondo libro del codice dedicato alla materia successoria non può non suggerire, in relazione al termine utilizzato, un richiamo all'istituto della sostituzione, che prevede, ai fini che ci interessano, in caso di mancato intervento di un chiamato, il possibile subentro di altro successibile, presupponendo un legame diretto tra quest'ultimo e il de cuius.

I sostituti

Potrebbe così ritenersi, al riguardo, che la legge abbia voluto prevedere che al contratto successivo non tutti i successori del partecipante premorto possano e debbano partecipare ma solo coloro che siano particolarmente qualificati nei confronti del trasferente tali da potersi definire sostituti. Così nel caso di morte di un legittimario figlio, senza dubbio al contratto dovrà partecipare il di lui figlio, successore e così sostituto del padre. Ma nel caso di decesso del coniuge l'uso del termine sostituto induce a ritenere che i successori dello stesso in quanto tali non abbiano titolo per partecipare al contratto.

Collazione e riduzione

Quanto all' ultimo comma dell'articolo 768-quater è interessante notare come lo stesso faccia riferimento a tutto quanto ricevuto dai contraenti senza distinzione tra assegnatari o meno del bene impresa.

Al comma terzo dello stesso articolo invece in tema di imputazione ex se la legge considera solo gli assegnatari dei beni diversi dall'impresa.

Come si è visto ciò deriva non solo dalla rilevata particolarità (ma non eccezionalità) di una imputazione in relazione a beni ricevuti da terzi rispetto al de cuius (gli assegnatari del bene impresa) ma anche dal rilievo che una liquidazione generosa può avere. Quanto all'imputazione ex se di quanto ricevuto dall'assegnatario del bene impresa la legge nulla dice nel suddetto comma. In realtà l'ipotesi ritenuta normale dal legislatore è della liquidazione da parte dello stesso di quanto dovuto a favore dei legittimari, ipotesi che, anche se prevede la soddisfazione dei non assegnatari nel solo minimo richiesto dalla legge, lascia spazio all'assegnatario del bene impresa di partecipare alla ripartizione dei beni residui.

Essendo quanto oggetto del patto un sistema a sè, in cui le questioni relative alla soddisfazione della legittima trovano una definizione a stralcio e definitiva nel patto ben si capisce (e risulta funzionale al sistema) la sottrazione dei beni oggetto del patto dalle ordinarie regole.

Ma l'assegnatario del bene impresa relativamente al resto dell'asse dovrà imputare ex se quanto ricevuto quantificabile nella differenza del valore attribuito al bene impresa rispetto al valore di quanto da lui liquidato agli altri legittimari?

Non esistono motivi per escludere tale possibilità, con la sola precisazione che il bene impresa andrà pure esso imputato al valore determinato nel patto. La ragione della espressa previsione della imputazione ex se da parte dei non assegnatari trova ragione oltre che nella rilevata soddisfazione indiretta della legittima anche nella indiretta previsione e disciplina, come sopra argomentato, di una loro più generosa soddisfazione.

A differenza quindi della disciplina dell'imputazione ex se che è testualmente espressa solo in relazione ai non assegnatari, l'esclusione dalla collazione e dall'azione di riduzione nell'ultimo comma dell'articolo in commento è riferita invece a tutti i partecipanti del patto e in relazione a tutto quanto in esso convenuto ed affermata senza eccezioni.

Ma, come si vedrà, l'assolutezza dell'espressione che il legislatore anche qui dimostra di amare non trova conferma nel sistema.

Infatti l'intangibilità di quanto ricevuto dai partecipanti al patto che sembra affermata dalla norma in esame deve essere valutata in relazione alla disciplina dettata dall'art. 768-sexies già in parte prima esaminato. L'azione proposta dal legittimario non partecipante al patto non può qualificarsi tecnicamente di riduzione ma gli effetti ne sono simili. Interessante notare come l'azione prevista dalla disposizione in esame sia indirizzata contro tutti i beneficiari del contratto e non solo contro l'assegnatario del bene impresa (e a conferma di questa considerazione è significativo che il comma in commento riporti per la prima volta il termine beneficiari).

La legge è chiara nella quantificazione di quanto spettante al legittimario escluso. Meno chiaro è invece individuare la posizione dei soggetti passivi. Facile probabilmente è la ricostruzione della disciplina applicabile in presenza di una liquidazione cosiddetta minima. Si tratterrà di un semplice ricalcolo delle somme dovute sulla base dei criteri applicabili in relazione alla nuova situazione. Anche nel caso di liquidazione generosa si può ragionevolmente sostenere che fermo il quanto dovuto, l'onere debba gravare in proporzione a tutti i beneficiari.

Al riguardo del secondo comma dell'art. 768-sexies che prevede l'inosservanza delle disposizioni quale causa dell'impugnazione del patto si osserva che se l'inosservanza consistesse nell'inadempimento si avrebbe l'incongruità di prevedere "l'annullamento" del patto (vedi il rinvio indiretto all'art. 1427) a seguito magari del comportamento di un solo legittimario non assegnatario del bene impresa interessato a tale evento.

Inspiegabile è il motivo di prevedere quale reazione ad un inadempimento l'utilizzo di uno strumento previsto per i vizi del consenso e dei limiti ad un anno per l'esercizio dell'azione.

Si potrebbe pensare che l'inciso «inosservanza delle disposizioni» non sia equivalente ad inadempimento di obblighi (quale sarebbe il mancato pagamento del dovuto) e che lo stesso possa riferirsi a diversa ipotesi, cioè al mancato funzionamento del sistema previsto dal secondo comma dell'art. 768-quater di cui fa menzione il periodo immediatamente precedente, dovuto a vizi funzionali del patto, quale può essere l'imprecisione dell'aspetto valutativo.

Questa interpretazione consentirebbe di giustificare come la conseguenza di tale inosservanza sia sanzionabile con un'azione di annullamento, reazione prevista normalmente per i vizi negoziali.

Altri spunti

Tralasciando di esaminare aspetti pure importanti si vuole concludere il presente contributo con un'osservazione generale relativa all'aspetto soggettivo del patto.

Si è già rilevato da altri il carattere destabilizzante della partecipazione del coniuge nel caso in cui a vantare tale qualità siano persone diverse al momento del patto e al momento della morte dell'imprenditore.

Ma il problema è più generale al sistema delle successioni, poichè la legge da una parte tiene fermo come data di rilievo il momento della morte del de cuis ma considera, relativamente a molti effetti, le donazioni effettuate in vita dal de cuius.

Al di là quindi anche del coniuge e dell'istituto qui esaminato, che dire del padre di famiglia che distribuisca i suoi beni in vita ai figli in modo di rispettare i diritti di riserva di tutti qualora uno dei figli premuoia al padre rimanendo erede la moglie. Al momento della successione del donante i suoi eredi potranno agire contro la moglie del fratello in quanto il fratello premorto non sarebbe legittimario del padre? I problemi derivanti dalla fissazione al solo momento della morte dei diritti non solo di legittima non riguardano solo il coniuge (mutevole) ma hanno carattere generale, e a seguito dell'introduzione dell'istituto in esame diverranno più pressanti.

Oltre al caso di sottoscrizione del patto da parte di coniuge poi divorziato (che fine fanno i beni allo stesso assegnati? Restano definitivamente allo stesso attribuiti?) nel caso di nuovo coniuge nell'azione dallo stesso proposta ai sensi dell'art. 768-sexies che riduzione subirà il precedente coniuge?

è quindi con una domanda che si conclude il presente studio che ha mirato più che a giungere a risultati consolidati a promuovere una riflessione.

Ulteriori riflessioni

In occasione della pubblicazione del contributo che precede, scritto nell'immediatezza dall'uscita della legge, senza, quindi, anche il conforto e lo stimolo derivante dal confronto con altre opinioni mi è stata offerta la possibilità di riformulare ed integrare lo stesso.

Ho preferito mantenere il contributo nei termini suoi originari, utilizzando la possibilità offertami facendo seguire lo stesso da queste brevi note, che si concentrano su alcuni dei punti della disciplina che negli studi successivamente pubblicati hanno originato interpretazioni contrastanti rispetto a quanto sostenuto.

In particolare l'ambito oggettivo della disciplina quale delineato nelle note che precedono mi sembra doversi confermare. Da un alto sembra convincente l'ipotesi che tutte le partecipazioni societarie costituiscano oggetto possibile di un Patto di famiglia che tale sia escludendo quindi le ipotesi patologiche conosciute in via generale dall'ordinamento quali la simulazione e la frode alla legge. Se il legislatore avesse voluto condizionare la possibilità di fare ricorso al presente istituto alla presenza di partecipazioni qualificate in senso qualitativo o quantitativo di ciò avrebbe dovuto esserci nel testo normativo anche magari soltanto il rinvio a varie disposizioni che diversamente qualificano le partecipazioni a secondo del loro peso. Ciò il legislatore non ha fatto e non sembra possibile che sia l'interprete, al di là e al di fuori di dati positivi, a ricercare limiti sulla base di una intenzione di cui si fa cenno nei lavori preliminari ma che ha sortito il testo normativo che commentiamo.

Dall'altro lato mi sembra più convincente la tesi pure sopra sostenuta che non include nella disciplina del patto beni del trasferente diversi dall'impresa, sia in considerazione del testo normativo sia per le conseguenze generalizzate e quindi devastanti che l'interpretazione diversa avrebbe sul sistema delle successioni. La tesi contraria che si fonda sulla dizione dell'art. 768-quater comma 3 (laddove si parla di «beni assegnati», senza ulteriore specificazione) non tiene conto del limite preciso dato dalla definizione del Patto di famiglia quale contenuta nell'art. 768-bis e della ragione della norma, posta subito dopo la previsione della possibilità per l'assegnatario di liquidare i non assegnatari con beni diversi dal denaro. La disposizione non va intesa così come un allargamento dell'ambito oggettivo del patto ma, per armonizzare i rapporti tra il patto e il resto del patrimonio del trasferente, fissa definitivamente il valore dei beni attraverso cui vengono liquidati i non assegnatari (corrispondentemente a quanto avviene con il bene impresa) ma non allarga l'ambito oggettivo del patto .

è da evidenziare così che l'interpretazione proposta non avrà un'influenza pratica devastante poiché per partecipazioni di scarso significato il ricorso al patto si rivelerà eccessivo e, come si è fatto cenno prima, restano a salvaguardia di manovre poco corrette gli istituti generali della simulazione e della frode alla legge.

A proposito sempre dei rapporti tra Patto di famiglia e il resto dei beni del trasferente sempre con riferimento alla disposizione in commento, a parziale modifica di quanto sostenuto nello studio che precede un'interpretazione più radicale ha acquisito con il tempo forza di convincimento.

La disposizione disciplina, infatti, l'imputazione ex se da parte dei non assegnatari del bene impresa ma non considera la posizione dell'assegnatario. Una analisi immediata fa dipendere ciò dalla normalità che avrebbe questa imputazione in quanto riguardante beni direttamente trasferiti dall'ascendente. Ad un esame più approfondito tale conclusione non appare più così naturale. Innanzitutto c'è da chiedersi quale sia l'oggetto della imputazione: tutto il bene impresa? Non sembra soluzione sistematicamente corretta dovendo l'assegnatario nell'ipotesi tipica liquidare i non assegnatari. Si potrebbe riportare a sistema la fattispecie applicando direttamente o analogicamente la disciplina dell'onere, rendendo quindi rilevante quale oggetto di imputazione la differenza positiva tra il valore del bene d'impresa e quanto liquidato ai non assegnatari. Tale soluzione appare plausibile, ma si vuole anche qui prospettare una soluzione che seppure un po' ardita non manca di coerenza sistematica. Anche qui si utilizza la tecnica interpretativa che nel coordinamento delle varie disposizioni mira ad un risultato che si spera dotato di coerenza e sostenibilità.

Al riguardo viene in considerazione la disposizione di cui all'art. 768-sexies secondo la quale in ipotesi di presenza al momento della morte di un legittimario sopravvenuto lo stesso può chiedere la liquidazione della sua quota nell'ammontare (aumentato dei soli interessi ) a cui avrebbe avuto diritto nell'ipotesi di sua partecipazione al patto.

Il carattere puntuale della disposizione offre l'opportunità ad alcune riflessioni di carattere generale. La norma infatti non condiziona il diritto del legittimario non partecipe al patto, al fine della proposizione della domanda, ad alcuna condizione. Il diritto alla liquidazione nasce al momento della morte del trasferente con connotati chiari nel contenuto e alla sola condizione di mancata partecipazione al patto. La circostanza che il soggetto abbia ricevuto altri beni dal de cuius non sembra rilevante. Compito dell'interprete è ricostruire dal testo positivo un sistema che risulti coerente. Tale sarebbe una ricostruzione del Patto di famiglia tale da veramente considerarlo una specie di successione separata nell'ambito della quale le posizioni dei soggetti coinvolti troverebbero appunto separata disciplina. Troverebbe quindi anche giustificazione la mancata menzione dell'obbligo dell'imputazione ex se in capo al beneficiario del bene impresa. Quest'ultimo infatti ha il dovere di liquidare la legittima ai non assegnatari e una volta liquidato quanto dalla legge imposto l'eventuale differenza potrebbe considerarsi come la sua legittima più o meno consistente a seconda degli accordi tra le parti. L'imputazione ex se da parte dei non assegnatari rileverebbe nell'ipotesi di liquidazione generosa e per l'eccedenza, risultando invece nell'ipotesi di liquidazione a termini di legge priva di rilevo effettuale. Infatti qualora avessero ricevuto rispetto al bene impresa la quota matematica di legittima, nel residuo dell'asse nulla avrebbero avuto da imputare.

Tale ricostruzione giustifica l'ulteriore vulnus al sistema che il Patto di famiglia può comportare in riferimento anche all'ordine della riduzione.

La disciplina generale prevede infatti che le azioni di riduzioni debbano esercitarsi a cominciare dalla disposizione più recente, ritenendo che il donante con le prime donazioni abbia disposto della sua disponibile. Nell'ipotesi in cui il trasferente abbia già effettuato attribuzioni gratuite, conservando il bene impresa, lo stesso se oggetto del patto potrebbe pregiudicare la posizione dei primi donatari, potendo, a causa della riduzione della massa dei beni, risultare la loro donazione non più incidente sulla disponibile ma sulla legittima.

Tale situazione può veramente verificarsi ma sembra anche una situazione accettata (salvo la sussistenza e l'accertamento della frode) dal legislatore. Il Patto di famiglia come ha effetti ultra partes nel futuro, tali effetti può avere in relazione a situazioni passate.

Si vuole sottolineare ulteriormente così la natura particolare del patto che non viene definito donativo dal legislatore.

Se tale carattere il patto ha da parte del disponente dall'accepiente il profilo può mancare o quanto meno essere ridotto.

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