Il Patto di famiglia e la riunione fittizia
Il Patto di famiglia e la riunione fittizia
(Una, due ... mille riunioni fittizie?)
di Alberto Valeriani
Notaio in Bologna

Breve introduzione e normativa

Lo scopo che questo studio si propone, nei "desiderata" di chi l'ha scritto, è quello di evidenziare i riflessi che l'entrata in vigore della legge 14 febbraio 2006 n. 55 ("Modifiche al codice civile in materia di Patto di famiglia") ha avuto, in generale, sull'impianto delle norme che costituiscono il capo X (Sezioni I e II) del libro II del codice civile e, in particolare, sull'istituto della "Riunione fittizia".

Analizzando le principali interpretazioni che fino ad ora sono state date e giustificando le ragioni che sottendono alla preferenza di una rispetto ad un'altra, si cercherà di verificare come, su tale più che consolidato impianto normativo, tali riflessi possano essere armonizzati.

Il titolo è senz'altro, e volutamente, atecnico, inesatto e provocatorio; vuole essere un indizio immediato per il lettore della problematica che si andrà ad affrontare.

La 55 ha introdotto un nuovo negozio giuridico (il Patto di famiglia, appunto), andando a modificare il codice civile con la previsione di sette nuovi articoli (768 da-bis a octies) e con l'aggiunta di un inciso all'art. 458, in tema di Patti successori.

Tale nuova figura giuridica ha, per la materia che tratta, profonde conseguenze, più o meno esplicitamente "rilevate", sui diritti riservati ai legittimari, ed in particolare sulla determinazione della quota di riserva loro spettante e della porzione disponibile, sulle modalità di effettuazione dell'imputazione "ex se" e sulla riunione fittizia.

Un legislatore più attento e meno frettoloso (tale invece non è stato il legislatore della 55, per i motivi che sappiamo), nell'introdurre nel codice tale nuovo istituto, avrebbe potuto apportare modifiche a quelle norme codicistiche già esistenti che inevitabilmente vengono a risentire degli effetti del Patto, ma così non è stato ed è inutile parlarne più oltre.

Giorgio Baralis («Problemi generali del nuovo Patto di famiglia; in particolare: le attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali» - in questo volume) precisa come la 55 possa innovare sulle norme in cui si colloca, solo se l'innovazione è espressa o almeno sufficientemente chiara. Federico Tassinari («Il Patto di famiglia per l'impresa e la tutela dei legittimari» - in questo volume) rileva appunto come il problema principale sia individuare quali regole di diritto comune concernenti la tutela dei legittimari il legislatore abbia voluto prevedere.

Innanzitutto una breve legenda di alcune definizioni che, per brevità, verranno di seguito utilizzate e del loro significato:

- l'imprenditore che stipula il Patto e che trasferisce ad uno o più discendenti l'azienda e/o le partecipazioni societarie verrà chiamato "disponente";

- l'azienda e/o le partecipazioni societarie trasferite verranno chiamate "azienda";

- il discendente che riceve l'azienda dal disponente verrà chiamato, utilizzando una felice definizione di Giorgio Baralis, "figlio preferito";

- gli altri partecipanti al contratto che devono essere liquidati della quota prevista dagli artt. 536 e seguenti c.c. verranno chiamati "altri legittimari";

- i beni che, in caso di liquidazione in natura, il figlio preferito deve assegnare agli altri legittimari a titolo di liquidazione della loro quota di riserva verranno chiamati "beni assegnati";

- il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto, dei quali si tratta all'art. 768-sexies, verranno chiamati "legittimari sopravvenuti".

Evidenziamo (e riportiamo per comodità del lettore) le disposizioni della 55 che interessano ai fini del presente studio.

Art. 768-quater - primo comma: «Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore (n.d.r.: e/o del titolare delle partecipazioni societarie)».

Art. 768-quater - secondo comma: «Gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura».

Art. 768-quater - terzo comma: «I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda (n.d.r.: e/o delle partecipazioni societarie), secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti...».

Art. 768-quater - quarto comma: «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione».

Art. 768-sexies - primo comma: «All'apertura della successione dell'imprenditore (n.d.r.: e/o del titolare delle partecipazioni societarie), il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'art. 768-quater, aumentata degli interessi legali».

Riunione fittizia o no?

Il principale argomento da affrontare è se nell'effettuare la riunione fittizia al momento dell'apertura della successione del disponente si debba o meno tenere conto delle attribuzioni (assegnazioni) che sono state disposte col Patto. Se cioè si debba sommare al relictum quanto è stato donatum col Patto ovvero se quanto ricevuto dai contraenti è neutro ai fini della determinazione della quota disponibile e delle quote dei legittimari sulla massa ereditaria.

Si tratta di due patrimoni completamente autonomi o no?

Qui di seguito vengono illustrate, sia pure molto sinteticamente, le principali argomentazioni che sono portate a sostegno dell'una o dell'altra tesi.

TESI 1: Completa autonomia dei due patrimoni

Si tratta di due patrimoni (quello costituito dall'azienda e quello costituito dal compendio ereditario) completamente autonomi e pertanto le sperequazioni della successione non possono mettere in discussione le attribuzioni del Patto di famiglia e le attribuzioni operate con questo non hanno influenza sulla devoluzione ereditaria.

La stabilità del Patto cioè non può essere messa in discussione.

Il legittimario che non vuole che tale effetto si raggiunga ha sempre una possibilità: quella di non aderire al Patto. Se lo sottoscrive, ne accetta le conseguenze. Ed è per questo che al contratto «devono partecipare» tutti i legittimari (art. 768-quater, primo comma).

Aderendo alla tesi contraria, al momento di effettuare la riunione fittizia si potrebbero avere due possibilità:

- se si calcolasse il patrimonio oggetto del Patto secondo il valore ad esso attribuito in contratto, come sembra indicare la 55, e il patrimonio ereditario secondo il valore al tempo dell'apertura della successione, sulla base dei principi generali, si verrebbero ad utilizzare criteri talmente disomogenei che non potrebbero raggiungere il risultato che la riunione fittizia si propone, cioè quello di operare una comparazione, il più possibile equa, fra quanto ricevuto dai legittimari per liberalità e per successione; beni di valore diverso potrebbero apparentemente avere valori uguali, in quanto riferiti a tempi diversi (Patto e successione);

- se invece entrambi i patrimoni venissero considerati per il valore che essi hanno al tempo dell'apertura della successione, allora le attribuzioni compensative effettuate col Patto non sarebbero più tali e nessuna liquidazione potrebbe dirsi definitiva; in tal modo verrebbero completamente annullati gli effetti del Patto.

L'unica soluzione è quindi quella di tenere separate, e indipendenti l'una dall'altra, le due masse.

«Le quote di legittima» di cui parla il terzo comma dell'art. 768-quater («I beni assegnati ... agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda ... sono imputati alle quote di legittima loro spettanti») sono le stesse quote di cui parla il precedente comma del medesimo articolo e cioè le quote di spettanza dei legittimari sull'azienda. I beni assegnati, cioè, sono imputati a «quelle quote di legittima» (cioè aquelle calcolate sulla massa costituita dall'azienda) e non ad altre (cioè a quelle risultanti dalla riunione fittizia a seguito dell'apertura della successione del disponente).

Le argomentazioni a sostegno della Tesi 1 sono state tratte, in modo più che sintetico, dalla profonda analisi fatta sull'argomento da Federico Tassinari (op. cit.). Fra i sostenitori della tesi ricordiamo Antonio Mascheroni, che parla di "compartimenti stagni" («Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati. L'ordinamento successorio italiano dopo la legge 14 febbraio 2006 n. 55» - in questo volume).

TESI 2: Riunione fittizia totale

Questa tesi ritiene invece che delle disposizioni del Patto di famiglia si dovrà tenere conto al momento dell'apertura della successione del disponente nell'effettuare la riunione fittizia e ciò pur con le peculiarità tipiche degli effetti che il Patto produce, con particolare, ma non esclusivo, riferimento all'esenzione da collazione e da riduzione.

Questo studio aderisce a tale tesi, che è sostenuta, fra gli altri, da Giorgio Baralis e Giovanni Rizzi. Il primo, al Convegno di Milano, ha evidenziato nell'opposta tesi possibili profili di incostituzionalità, sostenendo come la tutela dei legittimari sia di rango superiore a quella dell'impresa; la 55 ha pertanto natura eccezionale e l'art. 768-quater non può costituire una deroga così ampia alle regole sulla successione dei legittimari.

Sempre sinteticamente, anche perché in seguito meglio affrontate, si riportano le principali argomentazioni a sostegno della tesi 2:

- per escludere dalla riunione fittizia l'azienda, che viene trasferita, col Patto, a titolo liberale, occorrerebbe una espressa deroga all'art. 556, mentre nessun dato testuale si rinviene nella 55; anzi, il legislatore, nell'introdurre importanti deroghe a principi che parevano intoccabili, sembra proprio preoccuparsi, sia pure maldestramente, di evitare che tali deroghe abbiano effetti non governabili sul sistema («i beni assegnati...sono imputati alle quote di legittima»...«non è soggetto a collazione o a riduzione»);

- le «quote di legittima» di cui parla il terzo comma dell'art. 768-quater non possono essere che quelle relative alla massa ereditaria in quanto:

(i) in forza del comma precedente il diritto alla quota di legittima sull'azienda si converte nel diritto alla liquidazione e pertanto, con la stipulazione del Patto, vi è solo «diritto alla liquidazione» e non «diritto alla legittima», ammesso che di quest'ultimo, anche dopo la 55, si possa parlare prima dell'apertura della successione; il secondo comma infatti, più propriamente, parla di «somma corrispondente al valore delle quote previste…» e sembra sottolineare il tentativo del legislatore di evitare di costituire "due successioni": la successione sarà una sola, quella del Patto ne è un anticipo, che però deve incidere il meno possibile sulle regole generali, salvo naturalmente gli effetti inevitabili del nuovo istituto;

(ii) a seguito della liquidazione il diritto del legittimario sull'azienda trova integrale soddisfazione e pertanto nulla vi è da "imputare" (concetto che sa più di "soddisfazione parziale") alla quota di legittima;

(iii) del tutto inutile sarebbe stato il richiamo al "valore attribuito in contratto" se per «quota di legittima» si intendeva quella sull'azienda: a quale altro valore, in tale ipotesi (e in tale momento!), si sarebbe potuto fare riferimento?

- il legislatore ha stabilito espressamente che i beni oggetto del Patto non sono soggetti a collazione e a riduzione: se le attribuzioni effettuate col Patto fossero neutre ai fini della determinazione delle porzioni dei legittimari al momento dell'apertura della successione, la predetta disposizione, riportata al quarto comma dell'art. 768-quater, non avrebbe avuto ragion d'essere;

- l'insensibilità della massa ereditaria rispetto alle attribuzioni effettuate col Patto non inciderebbe solo sui diritti dei legittimari, i quali, partecipando al Patto, ne assumono consapevolmente le conseguenze, ma anche sui diritti di altri soggetti estranei al Patto. Si pensi al donatario, per donazione anteriore al Patto e gravante, a tale momento, per intero sulla disponibile, che veda la donazione andare a gravare anche sulle quote dei legittimari per effetto del trasferimento effettuato col Patto dell'unico altro cespite di proprietà del disponente (l'azienda). Conforme Ciro Caccavale («Appunti per uno studio sul Patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie» in Notariato n. 3/2006 p. 289).

Le considerazioni esposte ci appaiono sufficientemente rilevanti per ritenere, come preferibile, la tesi 2. La riunione fittizia è presente nel sistema nella sua interezza. Ci rendiamo anche conto che alcune considerazioni a sostegno dell'altra tesi restano pregnanti. è evidente la sperequazione che consegue alla riunione fittizia ove i valori dei beni si riferiscano a momenti diversi (successione e Patto). L'unica argomentazione che può essere opposta è la medesima utilizzata dai sostenitori della Tesi 1 su altri temi: i legittimari hanno aderito spontaneamente al Patto e pertanto ne devono subire (ed accettare) ogni conseguenza. Gaetano Petrelli («Il Patto di famiglia - Compagnia del Sigillo» Quaderno I, pubblicato in Rivista del Notariato, 2/2006 ) sostiene come sia possibile che i partecipanti al Patto (ferma restando l'esenzione da riduzione e collazione) stabiliscano anche una successiva rideterminazione dei valori, come pure convengano che i valori, ai fini della riunione fittizia, possano essere determinati con riferimento al momento dell'apertura della successione del disponente.

Nel prosieguo emergeranno altre considerazioni a sostegno dell'una o dell'altra tesi.

Natura giuridica del Patto di famiglia

è senz'altro opportuno, ai fini di una miglior inquadramento di quanto si andrà ad esporre, definire, anche solo per schemi generali, la natura giuridica dell'istituto. Lo scopo di questo studio non è direttamente questo, ma nemmeno si può prescindere da alcune brevi considerazioni in merito.

Il Patto di famiglia è inserito nel codice civile come capo autonomo (intitolato, appunto: del Patto di famiglia) nel titolo IV (Della divisione) del libro II (Delle successioni).

è un nuovo contratto, espressamente previsto come tale, con causa tipica ed unitaria. è un negozio giuridico complesso, obbligatoriamente plurilaterale, costituito da due rapporti fra loro connessi (di cui il secondo dipendente dal primo), uno fra disponente e figlio preferito, di tipo liberale, e l'altro fra figlio preferito e altri legittimari, di tipo solutorio. Per alcuni è individuabile anche un terzo rapporto, questo indiretto, fra disponente e altri legittimari, di tipo liberale. Non riteniamo che la tipicità (e l'unicità) della causa impediscano di analizzare i rapporti che coesistono all'interno del Patto (e questo proprio per la tipicità dello stesso), ciascuno con una sua causalità, che non rileva autonomamente, ma che contribuisce insieme alle altre a costruire il complesso unitario "Patto di famiglia".

C'è chi vede invece più negozi, fra loro autonomi, ma senz'altro più seguita è la tesi del negozio unico.

Angelo Di Sapio («Osservazioni sul Patto di famiglia - Brogliaccio per una lettura disincantata - Compagnia del Sigillo» - Quaderno I) osserva come non sia il caso di entrare nel distinguo tra tipo e causa, con riguardo ai contratti tipici, e per evitare pericoli di "fumosità del concetto", propone di intraprendere la strada della causa concreta.

Analizziamo quali sono i rapporti che si individuano nella struttura del "Patto":

1) Rapporto disponente - figlio preferito: realizza una attribuzione patrimoniale spontanea, per spirito di liberalità, a titolo di anticipata successione, con arricchimento del patrimonio del figlio preferito e depauperamento di quello del disponente, qualificabile come liberalità non donativa; l'arricchimento è il risultato della somma algebrica fra il "più" costituito dall'azienda e il "meno" costituito dai beni assegnati, mentre il depauperamento è di importo superiore, perchè in parte è indirizzato ad arricchire "indirettamente" gli altri legittimari. Si potrebbe quindi sostenere che il rapporto disponente - figlio preferito costituisce solo in parte una liberalità non donativa, cioè solo limitatamente all'effettivo arricchimento che opera nel patrimonio del figlio preferito. Pensando, però, all'ipotesi della rinuncia da parte degli altri legittimari, ci sembra di non poter condividere tale assunto, perchè la valutazione di liberalità non può essere data a posteriori, in considerazione del risultato raggiunto e dipendente, vieppiù, dalla volontà di altri (il legittimario rinunciante). è la tipicità del Patto che lo atteggia in tale maniera.

2) Rapporto figlio preferito - altri legittimari: è un rapporto decisamente "nuovo" per il nostro diritto, realizza una attribuzione patrimoniale causalmente connessa alla prima, dalla quale dipende, di tipo solutorio, in adempimento all'obbligazione di liquidare che è necessariamente connessa all'attribuzione del disponente ed inscindibile da essa. è a titolo gratuito, ma non liberale; non opera depauperamento nel patrimonio del figlio preferito in quanto trova compensazione col maggior valore dell'azienda; opera invece arricchimento nel patrimonio degli altri legittimari (e tale effetto fa emergere il terzo rapporto di cui infra). Il rapporto figlio preferito - altri legittimari può però non venire ad esistenza nella pienezza della sua connotazione sopra considerata: ciò può succedere in presenza della rinuncia da parte del legittimario ad essere liquidato.

Il rapporto rimane invece sostanzialmente uguale, anche se con effetti quantitativi diversi, in presenza di rinuncia parziale.

La rinuncia del legittimario è negozio unilaterale recettizio e non pare che i peculiari effetti che questa rinuncia produce, più oltre meglio analizzati, siano sufficienti a farla uscire da tale schema fino a farla vestire, per così dire, di contrattualità; le motivazioni della rinuncia ovviamente non possono emergere a livello causale. è però qualcosa di diverso dalla rinuncia vera e propria, la quale implica dismissione di un diritto, senza influsso sulle conseguenze che la rinuncia comporta; qui il rinunciante vuole gli effetti propri che conseguono al negozio, cioè l'esenzione per il figlio preferito dall'obbligo di liquidazione. Ci pare negozio simile alla remissione del debito.

3) Rapporto disponente - altri legittimari: è un rapporto indiretto, che deriva dall'esistenza dei precedenti rapporti. Ci pare che due possano le letture.

La prima vi individua una donazione (liberalità) indiretta, a titolo di anticipata successione, che "pareggia" il maggior depauperamento che il patrimonio del disponente ha avuto dal rapporto col figlio preferito rispetto al minor arricchimento del patrimonio di quest'ultimo. Ci sembra possa rientrare nelle ipotesi previste dall'art. 809 c.c.

Non basta per contrastare tale tesi, sostenere che non può trattarsi di liberalità indiretta, perchè mancherebbe la spontaneità (lo spirito liberale), in quanto trattasi di obbligo imposto per legge (il dovere di liquidare gli altri legittimari). La mancanza di spontaneità, e quindi di "animus donandi" (o meglio di animus liberalis), non è ostativa all'inquadramento di un negozio nell'ambito liberale: a tal fine essenziali sono il depauperamento di un patrimonio e l'arricchimento che questo determina nel patrimonio di un altro soggetto (teoria oggettiva).

è rapporto, esterno o, forse meglio, sottostante al contratto. Nella fattispecie concreta può anche non assumere consistenza alcuna in caso di rinuncia da parte del legittimario e senza che su ciò possa incidere (quanto meno in astratto) la volontà del disponente.

L'altra lettura tende a non dare dignità autonoma a tale rapporto in quanto derivante da un obbligo di legge (l'obbligo di liquidare) imposto a carico di un altro soggetto (il figlio preferito). Prova della bontà di tale interpretazione sarebbe l'obbligo di imputazione dei beni assegnati imposto dal terzo comma dell'art. 768-quater, previsione inutile ove si trattasse di liberalità, sia pure indiretta (art. 809 c.c.).

La plurilateralità del negozio è, si è detto, obbligatoria, ma non è necessaria. Il negozio è e deve essere plurilaterale, e non è tautologia questa, solo quando siano presenti le circostanze che ne costituiscono il presupposto (non sarà plurilaterale, infatti, il Patto di famiglia con cui il disponente, senza coniuge, trasferisce l'azienda all'unico suo discendente, del quale si dirà più oltre).

Gaetano Petrelli (op. cit.) sostiene che si deve rinunciare ad «incasellare il Patto in uno degli schemi tipici preesistenti alla novella», si tratta, secondo la sua analisi, «di un ulteriore contratto avente una sua funzione tipica di natura complessa, irriducibile a quella dei tipi contrattuali precedentemente disciplinati dal codice civile». Esclude che possa trattarsi di donazione, e di donazione modale, in particolare, e sottolinea, con riferimento a quest'ultima figura giuridica, come il modus sia un elemento accidentale, mentre la liquidazione degli altri legittimari è elemento essenziale del contratto.

Petrelli, con riferimento alla liquidazione degli Altri assegnatari, nel sottolineare come non vi possa essere spirito di liberalità da parte del figlio preferito sostiene che «non può riscontrarsi neanche un intento di liberalità in capo al disponente», in quanto la liquidazione a favore del legittimario è conseguenza ex lege del trasferimento di azienda a titolo di Patto di famiglia.

Anche Federico Tassinari (op. cit.) esclude che il Patto possa essere ritenuto una donazione, nè tanto meno, nonostante la sua collocazione sistematica nel codice civile, un contratto di divisione.

Andrea Merlo («Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume) sostiene, invece, che l'intento del legislatore è quello di qualificare il Patto come donazione (come si parlava nel disegno di legge n. S 1353). Nel Patto, in effetti, sono rintracciabili gli elementi necessari per tale inquadramento; vi sono infatti depauperamento spontaneo di un patrimonio e arricchimento di un altro (di altri); la spontaneità non pare compromessa dalle motivazioni che inducono il disponente a stipulare il Patto.

Alcuni commentatori qualificano quindi il Patto come donazione modale (in particolare Andrea Merlo op. cit.); analogamente Marcello Claudio Lupetti («Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume) ipotizza il Patto come una (sorta di) donazione modale, con modus ex lege.

Per Merlo, indici che la volontà del legislatore sia stata quella di qualificare il rapporto disponente - figlio preferito come donazione sono l'assenza di corrispettivo e l'esenzione da collazione e riduzione. Se non si trattasse di donazione, rileva Merlo, tale previsione sarebbe stata evidentemente superflua.

L'assoggettabilità a riduzione e collazione è però presente per ogni liberalità (donativa o non), salve le espresse esenzioni operate dal codice.

Andrea Merlo evidenzia come il Patto si proponga quale istituto alternativo al testamento, affine alla romanistica divisio inter liberos, prevista nel codice del 1865 e non riprodotta nel codice del 1942, e propone all'attenzione del lettore la tesi che riconosce al Patto natura giuridica divisionale e, in ogni caso, di atto affine alla divisione che ha per effetto quello di sciogliere la comunione ereditaria (art. 764 c.c.).

Si dovrebbe parlare, però, quanto meno, di effetto divisionale anticipato, perchè il Patto non scioglie una comunione che ancora non esiste, ma piuttosto impedisce che tale comunione sorga. Avrebbe sotto questo aspetto un'effetto simile alla divisione fatta dal testatore (art. 734).

Sarà poi cura dell'interprete analizzare quali possano essere le norme previste in tema di donazione e di divisione che siano applicabili al Patto.

Per quanto riguarda le norme in tema di donazione, la fattispecie più rilevante, ai fini dell'argomento che qui interessa, è quella della espressa dispensa dall'imputazione. Ci si deve quindi domandare se il Patto di famiglia possa contenere tale clausola, con la conseguenza che, al momento dell'apertura della successione, l'azienda trasferita al figlio preferito vada a gravare sulla disponibile. Non paiono sussistere ragioni sufficientemente valide per escludere l'ipotesi; della medesima opinione è Gaetano Petrelli (op. cit.).

Non è senz'altro applicabile al Patto, invece, la revoca per sopravvenienza di figli (art. 803), in quanto la 55 dispone espressamente al riguardo (art. 768-sexies).

L'azienda non può certo essere un bene futuro (art. 771 c.c.).

Ci paiono applicabili al Patto, anche se con diverse considerazioni e con opportune cautele, le disposizioni in tema di mandato a donare (art. 778 c.c.), di riserva di disporre di cose determinate (art. 790 c.c.), di condizione di riversibilità (art. 791 c.c.), di riserva di usufrutto (art. 796 c.c.) e di revocazione per ingratitudine (art. 801 c.c.); con riferimento a quest'ultima Mascheroni (op. cit.) evidenzia una difficile compatibilità col Patto di famiglia.

Più difficile appare individuare delle norme in tema di divisione che possano applicarsi al Patto.

Ci si potrebbe domandare se sia applicabile il disposto dell'art. 763 c.c. (rescissione per lesione).

Gli altri legittimari

a - L'imputazione degli altri legittimari

L'art. 768-quinquies primo comma stabilisce che i beni che gli altri legittimari ricevono dal figlio preferito devono essere imputati alle quote di legittima loro spettanti. L'interpretazione che abbiamo data a tale disposizione è che per quote di legittima si intendono quelle spettanti agli altri legittimari sulla futura successione del disponente.

Abbiamo già esposto le argomentazioni dell'opposta tesi, secondo la quale gli altri legittimari devono imputare i beni ricevuti col Patto alle quote di legittima ad essi spettanti solo sulla «massa azienda» (Tassinari).

L'obbligo per i legittimari all'imputazione (cosiddetta "imputazione ex se") è previsto negli articoli 553 e 564 c.c. che stabiliscono quanto segue:

- l'art. 553: quando il defunto ha disposto a favore di legittimari con donazioni e legati e quando sul relictum si apre in tutto od in parte la successione legittima, le porzioni che spetterebbero a non legittimari si riducono per reintegrare la quota spettante ai legittimari, i quali però devono imputarsi quanto ricevuto in virtù di donazioni e legati;

- l'art. 564: il legittimario, che domanda la riduzione di donazioni o disposizioni testamentarie, deve imputarsi donazioni e legati a lui fatti, salvo che ne sia stato espressamente dispensato.

Tali disposizioni devono essere interpretate estensivamente, in quanto il legittimario deve imputarsi anche quanto eventualmente ricevuto a titolo di erede; l'imputazione deve altresì essere effettuata anche qualora sul relictum si apra solo successione testamentaria.

L'imputazione costituisce quindi un onere per il legittimario che agisce in riduzione; sembrerebbe quindi obbligatoria solo nei confronti di un comportamento attivo del legittimario (art. 564), ma così non è, perchè essa opera anche nei confronti di chi passivamente subisce l'azione di riduzione, in quanto, se legittimario, nella sua quota si deve imputare quanto da lui ricevuto (art. 553). Dovrebbe quindi dirsi che "quanto ricevuto dal legittimario deve essere imputato" piuttosto che "il legittimario deve imputarsi".

La 55, recependo, consapevolmente o meno, questa osservazione, stabilisce che i beni assegnati agli altri legittimari "sono imputati" alle quote di legittima agli stessi spettanti.

Alla luce dell'interpretazione che se ne è data, il primo comma dell'art. 768-quinquies ribadisce che delle disposizioni del Patto di famiglia si dovrà tenere conto al momento dell'apertura della successione del disponente ai fini della riunione fittizia, per determinare le quote dei riservatari, la quota disponibile e la conseguente riducibilità o meno di disposizioni testamentarie e di donazioni effettuate dal disponente.

Si tratta sempre dell'imputazione ex se, e quindi regolata dalle relative norme, e non dell'imputazione "per conferimento" prevista in materia di collazione (peraltro quanto trasferito col Patto non è soggetto a collazione art. 768-quater ultimo comma).

La liquidazione agli altri legittimari, per lo meno nella configurazione più tipica del Patto (senza entrare nel merito della possibilità di "liquidazione diretta" da parte del disponente), viene effettuata dal figlio preferito con beni propri e pertanto essi non ricevono nulla direttamente dal disponente. Per la possibilità della "liquidazione diretta" si rinvia ad altri studi ed in particolare a quello di Giorgio Baralis, a seguire il suo intervento al Convegno di Milano, ove l'autore nega decisamente tale possibilità (op. cit.); per la verità altri commentatori la ritengono possibile, anche argomentando che ad un risultato in parte analogo si può comunque giungere inserendo nel Patto una rinuncia alla liquidazione nei confronti dell'assegnatario in presenza di un attribuzione da parte del disponente.

Gli altri legittimari devono quindi imputarsi quanto ricevuto dal figlio preferito, così come se lo avessero ricevuto direttamente dal disponente (quindi come se si trattasse di donazione diretta a loro favore da parte di quest'ultimo). Giuseppe Fietta («Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati», in questo volume), nel sostenere che dal Patto emerge una donazione indiretta dal disponente agli altri legittimari, osserva che tale imputazione di beni ricevuti da terzi non rappresenta un'eccezione, essendo regola, appunto, nelle donazioni indirette (art. 809 c.c.).

Donazioni indirette sono infatti quei negozi, di natura diversa dalla donazione (diretta), dei quali un soggetto si avvale per raggiungere lo scopo di arricchire un altro soggetto (Capozzi - Successioni e Donazioni, Giuffrè, 1983). Ci sembra ragionevole sostenere che il disponente "si avvale" di questo contratto per arricchire gli altri legittimari, anche se trattasi di obbligo che deriva dalla legge.

Non ci sembra che l'obbligatorietà sia così permeante da escludere l'interpretazione data. Più che di obbligatorietà ci pare più conforme allo spirito della norma parlare di connessione necessaria; la spontaneità è riferita "all'intero contratto", i molteplici effetti che ne derivano sono per legge fra loro collegati e dipendenti. Il disponente, che non intenda operare un arricchimento nel patrimonio degli altri legittimari, non utilizzerà l'istituto del Patto di famiglia, ma quello della donazione (donazione dell'azienda al figlio preferito, probabilmente con dispensa da imputazione ed esonero da collazione). Non si tratta di confondere motivi con causa; se il disponente utilizza lo strumento del Patto di famiglia significa che "vuole" che si producano tutti i suoi effetti tipici.

Il disponente opera, per effetto del Patto, un arricchimento nel patrimonio degli altri legittimari per il tramite del figlio preferito, arricchisce cioè il patrimonio di costui di quel "di più" che corrisponde all'ammontare della liquidazione.

La tesi della donazione indiretta è seguita solo da alcuni commentatori (vedi Fietta op. cit.), altri sono molto dubbiosi (vedi Petrelli op. cit.) ed altri la escludono (Angelo Di Sapio, op. cit.).

Un'ultima osservazione sull'argomento. Il primo comma dell'art. 768-quater si riferisce a «coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore». Tale "finzione" si esaurisce con l'individuazione dei legittimari e non postula una "finta successione" anche per altre considerazioni. Gli altri legittimari, cioè, non vengono liquidati della quota di legittima che a loro spetterebbe «come se a quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore», perchè se così fosse si dovrebbe tener conto di eventuali donazioni precedentemente ricevute e ciò sarebbe in aperto contrasto con il disposto dell'art. 458 (anche dopo la modifica operata dalla 55).

b - Valore dei beni assegnati agli altri legittimari

Gli altri legittimari devono effettuare l'imputazione secondo il valore attribuito in contratto ai Beni assegnati, come espressamente stabilisce la 55.

Tale disposizione deroga espressamente ai principi generali stabiliti in materia dal combinato disposto degli artt. 556, 747 e 750 c.c., in forza dei quali per tutti i beni, immobili e mobili (con la sola esclusione del danaro, vedi art. 750), ai fini della collazione e della imputazione, si deve avere riguardo al valore dei beni stessi al tempo della aperta successione.

La deroga portata al riguardo dalla 55 è di portata rilevante e risponde all'esigenza di vedere determinati in via definitiva, al momento della stipulazione del Patto, i diritti spettanti agli altri legittimari (sull'azienda), come quantificati nel Patto ed espressi, in caso di liquidazione in natura, nei beni assegnati.

In caso di liquidazione mediante il pagamento di una somma di danaro, quest'ultima sarà comunque soggetta al principio nominalistico sia in virtù del principio generale portato dall'art. 750 c.c., sia in virtù dell'espressa disposizione della 55 che con il termine "beni" si riferisce sia alla liquidazione in natura che in danaro.

c - Quantificazione della liquidazione spettante agli altri legittimari

Il secondo comma dell'art. 768-quater stabilisce che la liquidazione agli altri legittimari, in danaro o in natura, è commisurata al valore corrispondente alle quote previste dagli artt. 536 e seguenti c.c., cioè alla cosiddetta "quota di riserva" (sul valore dell'azienda).

La legge stabilisce quindi, e sembra inderogabilmente, che la liquidazione debba essere commisurata rigidamente alla quota di riserva; consente solo che possa essere ridotta in ipotesi di rinuncia parziale.

L'impianto legislativo della 55 espressamente consente quindi che la liquidazione:

- sia perfettamente coincidente con la quota di riserva, come dice la legge;

- non esista in caso di rinuncia totale da parte degli altri legittimari,

- sia di ammontare inferiore alla quota di riserva in caso di rinuncia parziale.

Ci si deve quindi domandare se la liquidazione possa essere determinata anche in una misura superiore alla quota di riserva, se sia, quindi, legittimo interpretare le parole «con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti» come se fra "somma" e "corrispondente" vi fossero le parole "quanto meno".

Quid iuris se gli altri legittimari "pretendono" una somma maggiore di quella corrispondente alla quota di riserva? Non si può stipulare il Patto anche se il figlio preferito è perfettamente d'accordo?

La tesi negativa sostiene che si sarebbe fuori dal Patto di famiglia. Si sarebbe, cioè, per quella parte eccedente la quota di riserva in un patto successorio (ancora vietato perchè extra previsione della 55) in quanto gli altri legittimari disporrebbero, ripetesi per quella parte, di un diritto su una successione non ancora apertasi.

Tale lettura non ci pare condivisibile, anche perchè riesce difficile trovarne la ratio. Riesce difficile, infatti, rintracciare anche una sola motivazione che possa suffragare la tesi. Certo, il dettato legislativo è chiaro, però il legislatore della 55 è già stato in altri casi approssimativo ed incerto.

Saremmo quindi propensi a ritenere che il riferimento alla quota di riserva, contenuto nel secondo comma dell'art. 768-quater, possa essere considerato esclusivamente "di principio" e non vincolante nella quantificazione che esprime.

Sarà frequente il caso che il disponente intenda trattare tutti i figli in modo il più possibile paritetico e, pertanto, nell'attribuire al figlio preferito l'azienda, gli imponga - di fatto - di liquidare gli altri legittimari con una somma ben maggiore di quella corrispondente alla quota di riserva, in modo, appunto, che tutti i figli abbiano analogo trattamento. Come sarà possibile che, anche indipendentemente dal disponente, gli altri legittimari accettino di partecipare al Patto solo in presenza di una liquidazione superiore a quella prospettata dalla legge.

Soluzione alternativa all'inammissibilità della fattispecie, è quella di ritenere consentita l'ipotesi di liquidazione superiore alla riserva, ma che l'eccedenza, rispetto alla riserva, sia al di fuori del Patto di famiglia. Eccedenza da intendersi quindi "contrattuale" e, come tale, consentita ai sensi dell'art. 1322 c.c., però "extra Patto"; non può pertanto produrre (l'eccedenza, s'intende) gli effetti del Patto, sia quelli tipici, sia quelli connessi all'applicabilità delle norme generali in tema di imputazione e riunione fittizia. Gli altri legittimari non dovranno quindi imputare alla propria quota di legittima quanto ricevuto oltre la quota di riserva ed il figlio preferito dovrà, conseguentemente, imputarsi l'azienda al lordo dell'eccedenza.

Ci sembra però che l'obbligatorietà espressa dalla parola "devono" vada riferita solo al dovere imposto al figlio preferito di liquidare gli altri legittimari e non alla determinazione del "quantum".

Il riferimento alla quota di riserva è invece una determinazione vincolante quando individua, per effetto del richiamo operato dall'art. 768-sexies, i diritti dei legittimari sopravvenuti.

All'interno del Patto, cioè fra i partecipanti, la determinazione della liquidazione, indipendentemente dalle parole usate dalla legge, sarà "contrattuale" (quanto meno così sarà in ogni fattispecie concreta, anche se la fattispecie astratta prevista dal legislatore non è configurabile in tale maniera).

All'esterno, cioè nei confronti dei legittimari sopravvenuti, la determinazione della liquidazione operata dalla legge è invece vincolante e pertanto i legittimari sopravvenuti nulla potranno pretendere di più della quota di riserva.

Ci si deve domandare, ora, se anche nei confronti dei legittimari sopravvenuti sia configurabile una liquidazione determinata in misura superiore alla quota indicata dalla legge.

Riesce difficile ipotizzare che i beneficiari del Patto, spontaneamente, senza essere obbligati, corrispondano ai legittimari sopravvenuti una somma maggiore a quella corrispondente al valore delle quote di cui all'art. 536.

Quid iuris, invece, nel caso in cui il disponente, al momento di stipulare il Patto di famiglia, imponga ai beneficiari, anzi imponga al figlio preferito (con il quale solo ha un rapporto giuridico diretto) di liquidare eventuali legittimari sopravvenuti con una somma corrispondente al valore delle quote previste, non dall'art. 536 e seguenti, ma dall'art. 565 e seguenti?

La clausola è valida? E, se valida, è efficace? Attribuisce cioè a dei soggetti non ancora "esistenti" dei diritti specifici e muniti di potere coercitivo?

La si potrebbe ritenere un modus che accede alla "donazione - Patto". Anche se abbiamo già esposto come a molti non piaccia ritenere il Patto una donazione, la possibilità di applicare al Patto il disposto dell'art. 793 c.c. ci sembra condivisibile.

Nessuna problema ci pare possa esistere ove la clausola fosse contenuta in un testamento.

d - Rapporto fra figlio preferito e altri legittimari

Più complicato, forse perchè nuovo, è il rapporto fra figlio preferito e altri legittimari di cui sopra si è cercato di individuare la natura giuridica.

è di tipo solutorio, gratuito, ma non liberale.

Il diritto alla liquidazione, nel quale si concretizza il rapporto fra figlio preferito e altri legittimari, sorge, automaticamente, per effetto della stipulazione del Patto, quale nesso causale dell'attribuzione patrimoniale che il disponente fa al figlio preferito. Non è il disponente che impone al figlio preferito di liquidare gli altri legittimari, è la legge che, automaticamente appunto, per effetto dell'attribuzione patrimoniale fatta a titolo di Patto di famiglia dal disponente al figlio preferito, fa sorgere in capo a quest'ultimo l'obbligo di liquidare.

La liquidazione in natura può ritenersi, rispetto alla "liquidazione tipo" in danaro, una datio in solutum.

Una breve osservazione in merito: per rendere applicabile l'istituto previsto dall'art. 1197 c.c. non ci sarebbe stata però necessità di una espressa previsione legislativa, in quanto, con il consenso del creditore (Altro legittimario), il debitore (figlio preferito), in forza del disposto dell'art. 1197, potrebbe sempre liberarsi eseguendo una prestazione diversa.

Che significato si può dare quindi alla espressa disposizione che «i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura»?

Data la peculiarità degli effetti del Patto si può pensare:

- che il termine "contraenti" si possa riferire a "tutti i contraenti il Patto" (vedi l'art. 768-quater - quarto comma, ove il termine è usato con riferimento anche agli "altri contraenti" e quindi a "tutti i contraenti");

- che quindi sia necessario il consenso di tutti (i contraenti) perchè la liquidazione, anche rispetto ad uno solo degli altri legittimari, possa avvenire in natura.

Tale interpretazione viene ad avvalorare vieppiù la tesi sopra esposta che, probabilmente, tutti i valori esposti nel Patto debbano essere "accettati" da tutti i contraenti.

La disposizione che si commenta verrebbe quindi a modificare, limitatamente al Patto di famiglia, il regime generale del disposto dell'art. 1198, per cui si potrebbe parlare di datio in solutum atipica.

La liquidazione degli altri legittimari è così strettamente connessa all'attribuzione dell'azienda, che alcuni commentatori non vedono possibile la stipulazione di un Patto di famiglia, ove unico legittimario sia l'assegnatario dell'azienda. Non condividiamo tale tesi. è certo che in assenza di una "famiglia" (tale necessariamente intendendosi quella ove vi sia l'esigenza di tutelare i diritti di chi non è destinatario dell'azienda) sembra difficile poter parlare di "Patto di famiglia", e questo non vuole certo essere solo un gioco di parole. Apparirebbe però senza giustificazione non consentire al disponente di regolare il passaggio generazionale dell'azienda a favore dell'unico suo discendente a titolo di Patto di famiglia, garantendo, quindi, il prodursi degli effetti, tipici del Patto, in caso di legittimari sopravvenuti.

Quello fra figlio preferito e altri legittimari è comunque il rapporto più complesso fra quelli che nascono dalla 55 e un evidente sintomo della sua complessità è il termine "beni assegnati" usato dal legislatore nel terzo comma dell'art. 768-quater, termine che evidenzia il suo imbarazzo nel qualificare giuridicamente tale rapporto.

Il termine è probabilmente usato dal legislatore nel tentativo, senz'altro più che apprezzabile, di porre sullo stesso piano di dignità negoziale quanto ricevuto dagli altri legittimari con quanto ricevuto dal figlio preferito; infatti al secondo comma dell'art. 768-quater si parla di «assegnatari dell'azienda».

Al primo comma dell'art. 768-bis, invece, è scritto che l'imprenditore «trasferisce ... l'azienda»; più conforme allo terminologia in seguito usata sarebbe stato l'uso del termine "assegna", ma forse tale termine avrebbe potuto porre problemi interpretativi sulla immediata efficacia traslativa del Patto, dubbi che il legislatore ha voluto chiaramente nemmeno far sorgere.

Il concetto di "assegnazione" è di sapore tipicamente divisionale, ma tale considerazione deve intendersi effettuata solo sul piano squisitamente stilistico, senza intenzione di voler portare argomentazione a favore della tesi che farebbe rientrare il Patto fra gli atti divisionali, tesi che, ripetesi, nonostante la posizione sistematica del Patto all'interno del codice, non ci appare condivisibile.

e - La rinuncia degli altri legittimari

La disposizione del secondo comma dell'art. 768-quater, che consente agli altri legittimari di rinunciare in tutto o in parte alla liquidazione della quota di legittima sull'azienda, viene qui presa in esame non per la sua valenza più importante, cioè quella di aver introdotto nel nostro ordinamento, per la prima volta, una deroga al divieto di patti successori, ma per le conseguenze che tale rinuncia ha sulla riunione fittizia, sugli obblighi di imputazione e conseguentemente sulla determinazione delle quote di riserva e della porzione disponibile.

Gli effetti di tale rinuncia devono rimanere circoscritti al solo Patto di famiglia o di essi se ne deve tenere conto al momento dell'apertura della successione del disponente?

Cioè il rinunciante deve imputarsi nella sua quota di riserva il valore di quanto col Patto ha rinunciato, come osserva anche Giuseppe Fietta (op. cit.)?

Se così non fosse, e sempre seguendo quella che abbiamo chiamato al secondo capitolo "tesi 2", gli effetti della rinuncia verrebbero, per così dire, molto annacquati; il rinunciante di fatto non rinuncerebbe a nulla e manterrebbe inalterati e pieni i suoi diritti di legittimario, con facoltà di esercitarli sulla massa ereditaria. Perderebbe, come perde, unicamente la facoltà di agire in riduzione sull'azienda, ma, nel presupposto di capienza dell'asse ereditario, i suoi diritti rimarrebbero sostanzialmente inalterati. Non si tratterebbe quindi di vera rinuncia, ma solo di una dilazione del momento in cui far valere i diritti di legittimario; più correttamente, rinuncerebbe solo alla facoltà, concessa dal Patto, di far valere tali diritti in un momento anteriore a quello naturale, che è l'apertura della successione del disponente.

Di diverso avviso Baralis (op. cit.) che sostiene come la rinuncia consenta invece ai rinuncianti di "recuperare" i loro diritti alla morte del disponente. Suggerisce l'ipotesi che la rinuncia, a volte, possa conseguire, ad una donazione a loro favore fatta dal disponente come "contropartita" della rinuncia.

Abbiamo sostenuto la tesi che la liquidazione della quota agli altri legittimari non è rigidamente limitata alla quota di riserva, in quanto più frequentemente, per effetto della normale vicenda contrattuale e, vieppiù, per volontà del disponente, essa potrà corrispondere ad una quota maggiore. La rinuncia (totale o parziale che sia), invece, è naturalmente legata, nella sua quantificazione, alla quota spettante al rinunciante a norma degli artt. 536 e seguenti c.c. sul valore dell'azienda.

Se il rinunciante, come abbiamo detto, deve imputarsi al momento dell'apertura della successione il valore di quanto ha rinunciato, così come se avesse ricevuto dal figlio preferito la somma corrispondente, è evidente che il figlio preferito, nel contempo, debba imputarsi il valore dell'azienda al netto dell'ammontare della rinuncia, così come se avesse effettivamente liquidato il rinunciante. Nella somma algebrica di quanto ha ricevuto e di quanto ha sborsato la rinuncia deve costituire un "meno". Tale meccanismo è l'unico che consente di non disperdere, al momento dell'apertura della successione, gli effetti arricchitivi nel patrimonio del figlio preferito che sono propri della rinuncia.

Il rinunciante, pur rinunciando ad avere la quota di legittima (sotto forma di liquidazione) che gli spetterebbe sull'azienda e quindi rinunciando ad avere qualcosa sulla successione del disponente, rinuncia, in concreto, ad avere qualcosa dal figlio preferito. Il disponente assegna l'azienda al figlio preferito con l'onere di liquidare gli altri legittimari, disinteressandosi, per lo meno per quanto riguarda la fattispecie astratta prevista dal Patto, se poi tale liquidazione non avvenga per effetto di rinuncia da parte dell'avente diritto. Per il disponente è astrattamente irrilevante che gli altri legittimari vengano liquidati ovvero rinunzino; è rilevante, invece, che i rapporti vengano comunque regolati.

La rinuncia inerisce ai rapporti fra figlio preferito e rinunciante e pertanto, trattandosi di rapporti familiari, verranno ad assumere rilevanza situazioni che poco hanno di giuridico. Per fare alcuni esempi concreti si possono ipotizzare situazioni dove una madre rinunci ad essere liquidata da un figlio, che l'ha sempre accudita e curata, e non da un altro, che si è sempre disinteressato di lei, altre situazioni dove, a fronte di una rinuncia, vi siano impegni, anche solo morali, di mantenimento o altre fattispecie più o meno analoghe.

Chi si arricchisce, per effetto della rinuncia, è il figlio preferito. Dovrebbe trattarsi di una donazione indiretta del rinunciante a favore del figlio preferito, con conseguente obbligo per il figlio preferito (ex art. 809) di imputarsi l'ammontare della rinuncia, con riferimento alla successione del rinunciante ed al momento dell'apertura della successione di questi, se ne sia legittimario. Ma forse è opportuno "non correre troppo" e fermarsi qui alla successione del disponente!

Ci si deve domandare ora se la rinuncia di un legittimario produca o meno effetti sulla quantificazione dei diritti degli altri, sopravvenuti compresi. Se cioè, ad esempio, la rinuncia di un fratello faccia aumentare la quota di riserva degli altri.

Per quello che si è detto prima, e cioè che la rinuncia attiene, o comunque deve astrattamente attenersi, solo ai rapporti fra figlio preferito e rinunciante, la risposta è senz'altro negativa.

Non avrebbe senso che una rinuncia, diretta ad evitare un esborso da parte del figlio preferito, lo costringa a dover corrispondere una liquidazione di importo maggiore agli altri legittimari non rinunzianti.

Ci si domanda infine se sia possibile anche una rinuncia parziale, sia implicita che espressa, da parte del figlio preferito. Se cioè il figlio preferito possa trattenere sull'azienda (al netto cioè di quanto liquida agli altri legittimari) una quota inferiore alla sua riserva?

L'approccio a tale argomento è consentito solo dando per consentita la possibilità che la liquidazione degli altri legittimari venga determinata in misura superiore alla quota di riserva.

La liquidazione con beni di valore superiore alla quota di riserva spettante agli stessi ed alla quota disponibile, importando una rinuncia parziale alla propria quota di riserva, non espressamente prevista dalla 55, è in contrasto con l'art. 458, anche nella sua attuale formulazione?

Il Patto è valido? E, se è valido, il figlio preferito (naturalmente solo nel caso sia un legittimario) perde il diritto alla parte di riserva cui ha rinunciato (non espressamente) ovvero conserva tale diritto con la possibilità di farlo valere al momento dell'apertura della successione?

Ci sembra di poter sostenere che il contratto sia valido e che produca i suoi pieni effetti di determinazione e liquidazione definitive dei diritti spettanti ai partecipanti al Patto sulla "successione anticipata dell'azienda".

Azienda e partecipazioni societarie

a - Valore dell'azienda e delle partecipazioni societarie

La 55 non prevede espressamente, come invece fa per i beni assegnati agli altri legittimari, che nel contratto debba essere attribuito un valore all'azienda, nè che il figlio preferito debba imputarsi quanto ricevuto.

Che all'azienda debba essere attribuito un valore è però "in re ipsa".

è l'entità del valore attribuito all'azienda che determina la quantificazione della liquidazione spettante agli altri legittimari.

Se nel contratto deve essere indicato il valore di quanto ricevono gli altri legittimari, conseguentemente deve essere indicato il valore dell'azienda.

Tutti i commentatori sono concordi; Fietta (op. cit.), in particolare, vede in questo l'effetto più tipico del Patto; Baralis (op. cit.) precisa come il Patto serva a fissare, in deroga ai principi, degli artt. 747 e 556 c.c. in maniera definitiva il valore del bene azienda. Per Baralis il valore deve essere fissato nel Patto (o quanto meno nel Patto devono esserne indicati i criteri di determinazione), salva la possibilità di modificarlo successivamente con consenso unanime.

Le ragioni per le quali il valore dell'azienda deve essere indicato in contratto sono molteplici ed evidenti:

- per calcolare la quota di legittima spettante sull'azienda agli altri legittimari, come detto;

- per calcolare, ai fini dell'imputazione ex se, l'ammontare della eventuale rinuncia degli altri legittimari (imputazione necessaria, come vedremo, ai fini di effettuare una corretta riunione fittizia);

- per determinare l'ammontare della somma spettante, ai sensi dell'art. 768-sexies, ai legittimari sopravvenuti.

Il valore da attribuire all'azienda (ed ai beni assegnati in natura agli altri legittimari) è, per così dire, negoziale, nel senso che deve essere accettato da tutti i contraenti. Problema di rilevante importanza è se tutti i contraenti, oltre che il valore dell'azienda, debbano determinare il valore di ognuno dei singoli beni assegnati agli altri legittimari. Sembra preferibile la risposta positiva.

è evidente che il legislatore ha avuto come parametro valori, per così dire, oggettivi o, meglio, assoluti, e sotto questa ottica appare senz'altro più che auspicabile l'opportunità di fare riferimento a perizie estimative tecniche, ma, dato che nessuno dei contraenti è obbligato a sottoscrivere il Patto, è certo che lo sottoscriverà solo se i valori saranno da lui condivisi (e in tal modo si risolve, pragmaticamente, anche il problema esposto al comma che precede).

Non è comunque consentito ritenere, e tutti i commentatori sono concordi, che per gli altri legittimari vi sia un "obbligo a partecipare", come tale, in qualche maniera coercibile.

L'opportunità di fare riferimento a perizie estimative si rende ancora di più evidente se si prendono in considerazione gli effetti che il Patto produce sulla riunione fittizia (naturalmente seguendo la tesi 2 - vedi secondo capitolo): valori per così dire "pilotati" (in diminuzione di quelli effettivi) si rifletterebbero sulla determinazione della porzione disponibile, andando ad incidere sui diritti di soggetti (vedi i donatari) che non hanno partecipato al Patto.

b - L'imputazione dell'azienda e delle partecipazioni societarie

Come mai la 55 non ha espressamente previsto l'obbligo per il figlio preferito di imputarsi quanto ricevuto col Patto? Perchè forse tale obbligo è già implicito nel sistema?

è necessario riprendere qui la definizione sopra data della natura giuridica del rapporto disponente - figlio preferito. Trattasi di nuovo contratto tipico, inquadrabile fra le liberalità non donative (da alcuni, si è detto, è ritenuta invece una donazione modale).

L'obbligo di imputazione trae origine dalle norme della sezione II del libro II c.c. (artt. 553 e 564), che stabiliscono l'obbligo per il legittimario di imputarsi le donazioni ricevute, obbligo che sussiste anche in presenza di "liberalità" in genere (dirette ed indirette). Quindi tale obbligo è insito nel sistema, ben più con evidenza che l'obbligo per gli altri legittimari di imputarsi, a titolo di anticipata successione del disponente, quanto ricevono dal figlio preferito, e pertanto ben ha fatto il legislatore della 55 a prescrivere espressamente per costoro l'obbligo di imputazione.

Un generico obbligo di imputazione previsto dalla legge avrebbe comunque dovuto far salva l'ipotesi che il figlio preferito al momento dell'apertura della successione non sia legittimario (nipote ex filio vivente) e, come tale, non soggetto all'obbligo di imputazione ex se.

L'imputazione dell'azienda, anche se la 55, non prevedendola espressamente, nulla può dire al riguardo, deve essere fatta al netto del valore dei beni assegnati dal figlio preferito agli altri legittimari, in maniera, cioè corrispondente all'effettivo arricchimento che si è avuto nel suo patrimonio; al netto dell'onere imposto al figlio preferito, per coloro che seguono la tesi della donazione modale.

Si è già detto dell'ipotesi di liquidazione superiore alla quota di riserva e delle diverse conseguenze che ne derivano a seconda della tesi che si segue.

c - A che momento fare riferimento per determinare il valore dell'azienda e delle partecipazioni societarie?

Occorre ora analizzare se l'imputazione dell'azienda da parte del figlio preferito, che sia legittimario, da effettuarsi al netto del valore dei beni assegnati agli altri legittimari per i motivi sopra esposti, debba essere fatta secondo il valore del bene azienda indicato in contratto, analogamente a quanto è previsto espressamente per i Beni assegnati, o secondo il valore al momento dell'aperta successione del disponente, in base al principio generale in materia di imputazione (e collazione).

Nulla dice la normativa che qui si commenta, ma pur nella consapevolezza che, in assenza di espressa previsione legislativa, una deroga al principio generale debba essere valutata con prudenza, non si vede come non si possa adottare il medesimo criterio previsto dalla legge per i beni assegnati agli altri legittimari.

Il ricorso all'interpretazione analogica appare qui quanto mai consentito. Sussiste cioè la stessa identità di ratio fra le due fattispecie.

è nella logica stessa del Patto, vista anche l'esenzione da riduzione e collazione, che i "conti debbano essere chiusi" con la stipulazione del Patto; non deve essere più possibile, dopo la sottoscrizione del contratto, che i soggetti che vi hanno partecipato possano pretendere diritti maggiori, o comunque diversi, da quelli determinati e liquidati col Patto. La cristallizzazione dei valori è uno degli effetti più tipici e rilevanti del Patto di famiglia. Se alla morte del disponente, a causa di variazione dei valori rispetto a quelli attribuiti in contratto, potesse essere messa in discussione l'entità dei diritti che sono stati liquidati, verrebbe a mancare uno degli effetti principali che il Patto di famiglia vuole raggiungere, cioè consentire il passaggio generazionale dell'impresa ancora sotto la guida ed il controllo dell'imprenditore e nel contempo regolare i rapporti con gli altri legittimari, in modo il più possibile certo e definitivo.

Per usare concetti non certo giuridici, ma che hanno il pregio della chiarezza, viene da dire che figlio preferito e altri legittimari debbano dividersi "fette della stessa torta" e così certo non sarebbe se il valore dell'azienda e il valore dei beni assegnati dovessero essere riferiti, ai fini dell'imputazione ex se, a momenti diversi.

La mancanza di stabilità della regolamentazione eseguita col Patto determinerebbe certamente un insuccesso dell'istituto e quindi non raggiungerebbe le finalità volute dal legislatore. Non giova, per sostenere la tesi contraria, rilevare come la stabilità del Patto possa essere messa in discussione dalla possibilità della previsione del diritto di recesso.

Innanzi tutto il recesso deve essere espressamente previsto, e quindi non rientra nello schema tipico del Patto. La sua previsione corrisponderà, nel caso concreto, ad una fattispecie che già il disponente non assume come definitiva, alla quale, pertanto, è necessario far seguire una veste giuridica che anch'essa sia tale (cioè non definitiva); la non definitività del Patto trova, in tale ipotesi, idonea giustificazione nella volontà stessa del disponente.

Il maggior pericolo alla definitività del Patto è comunque offerto dallo stesso legislatore, con una norma "di chiusura", senz'altro poco meditata: l'art. 768-sexies ultimo comma stabilisce che l'inosservanza da parte dei beneficiari del Patto all'obbligo di pagare ai legittimari sopravvenuti la somma prevista all'art. 768-quater «costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell'art. 768-quinquies». Al di là dell'evidente errore nel fare riferimento ai vizi del consenso, il legislatore non ha certo introdotto una norma rassicurante sulla stabilità (meglio "non definitività") del Patto.

Il riferimento al valore indicato in contratto supera tutta la complessa problematica della valutazione, ai fini della riunione fittizia, dell'azienda oggetto di una donazione, valutazione che sarebbe da effettuare con riferimento al momento dell'apertura della successione; e ciò per effetto delle normali vicende aziendali e dell'influsso che queste possono avere sulla determinazione dell'avviamento.

Tale problematica rimane, ove venisse introdotta nel Patto la clausola proposta da Petrelli (op. cit.) di stabilire che la valutazione debba essere fatta in un momento successivo al Patto. Ricordiamo come Forchielli (Giur. Comm. 1983, I, p. 621) concluda, addirittura, nel senso dell'esclusione dell'obbligo di imputare l'avviamento ai sensi dell'art. 744 c.c. (Perimento della cosa donata).

I legittimari sopravvenuti

a - Chi sono i legittimari sopravvenuti?

La prima analisi che si deve effettuare in merito a tale argomento è quella di individuare esattamente chi siano i soggetti che non hanno partecipato al Patto, ai quali spetta, a norma dell'art. 768-sexies, il diritto di chiedere ai "beneficiari" del Patto il pagamento di una somma corrispondente alla quota di riserva, maggiorata degli interessi legali (tali soggetti, come già detto, nel presente studio vengono, per brevità, chiamati tutti "legittimari sopravvenuti").

In tale categoria sono ricompresi, senz'altro, i figli nati dopo la stipulazione del Patto (ci pare irrilevante che fossero già concepiti a tale momento; Mascheroni ritiene che il concepito possa già partecipare al contratto - op. cit.), come pure il coniuge che tale sia divenuto in forza di matrimonio contratto dopo il Patto di famiglia.

Per quanto riguarda i figli naturali e adottati occorre verificare, per determinare la loro appartenenza alla categoria dei legittimari sopravvenuti, che gli effetti del presupposto giuridico (il riconoscimento o l'adozione) che, a seconda dei casi, li fa qualificare come tali, abbiano decorrenza posteriore al Patto.

Ecco, pertanto, una breve ricognizione delle varie possibilità:

Figli riconosciuti: il riconoscimento può essere effettuato (artt. 254 e 256 c.c.):

- nell'atto di nascita: decorrenza praticamente dalla nascita;

- con dichiarazione posteriore alla nascita resa davanti ad un Ufficiale di Stato Civile: decorrenza dalla data della dichiarazione;

- con dichiarazione posteriore al concepimento (ed anteriore alla nascita) resa davanti ad un Ufficiale di Stato Civile: decorrenza dalla nascita;

- con dichiarazione posteriore alla nascita resa in un atto pubblico: decorrenza dalla data dell'atto;

- con dichiarazione posteriore al concepimento (ed anteriore alla nascita) resa in un atto pubblico: decorrenza dalla nascita;

- con dichiarazione resa in un testamento: decorrenza dal giorno della morte del testatore;

- mediante domanda di legittimazione del figlio naturale presentata al giudice ai sensi dell'art. 284 c.c.: decorrenza dal giorno della presentazione della domanda;

- con dichiarazione della volontà di legittimazione espressa in un atto pubblico: decorrenza dalla data dell'atto;

- con dichiarazione della volontà di legittimazione espressa in un testamento: decorrenza dalla morte del testatore;

- con sentenza che dichiara la filiazione naturale: decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza.

Figli adottati:

- in caso di minore: gli effetti dell'adozione si producono dal momento della definitività della relativa sentenza (art. 26 della legge 4 maggio 1983 n. 184, come sostituito dall'art. 22 della legge 28 marzo 2001 n. 149);

- in caso di maggiore di età: gli effetti dell'adozione si producono dalla data del decreto che la pronunzia (art. 298 c.c.); più correttamente deve parlarsi di definitività della sentenza di cui all'art. 313 c.c.;

- in caso di adozione internazionale: gli effetti si producono dalla data del decreto del Tribunale dei minorenni (non il primo decreto che dispone l'affidamento, ma il secondo), a condizione però che detta pronuncia venga trascritta nei Registri di Stato Civile.

Per i maggiorenni adottati, da valutare inoltre gli effetti dell'eventuale revoca dell'adozione, che produce effetti dalla definitività della sentenza che la pronunzia (art. 309 c.c.).

Nella categoria dei legittimari sopravvenuti sono ricompresi anche i cosiddetti «legittimari di secondo grado» (vedi Petrelli op. cit.), cioè i soggetti viventi alla data di stipulazione del Patto, ma che, se si fosse aperta a tale momento la successione, legittimari non sarebbero stati (ascendenti del disponente nell'ipotesi che ad esso, poi, premuoiano tutti i discendenti).

I commentatori (in primo luogo Tassinari e Petrelli) sono quasi tutti concordi (qualche dubbio è stato però espresso al Convegno di Milano) che i "legittimari di secondo grado" non debbano partecipare al Patto, anzi ci sembra che la loro presenza debba considerarsi vietata, per via dell'art. 458 c.c., pur essendo consapevoli che pochi sono concordi con tale assunto.

Nei confronti dei legittimari sopravvenuti vi è una compressione, per espressa disposizione di legge, dei loro diritti di legittimari; infatti tali soggetti, pur non avendo sottoscritto il Patto (perchè all'epoca non esistenti o non esistenti come legittimari) e quindi senza averlo accettato, devono subirne le conseguenze, come se vi avessero consapevolmente partecipato.

E pertanto:

- il diritto alla liquidazione della loro quota di riserva sull'azienda, sulla base del valore indicato in contratto, si viene ad estrinsecare in un diritto di credito nei confronti dei partecipanti al Patto (rectius: beneficiari);

- essi non potranno agire in riduzione sull'azienda, nè potranno pretenderne la collazione, ove ne esistessero le condizioni;

- anche nei loro confronti, ai fini della riunione fittizia (naturalmente tale argomentazione non si può porre per chi segue la tesi della indipendenza assoluta delle due masse), i valori dei beni oggetto del Patto saranno quelli indicati in contratto.

E diversamente non poteva essere, pena la perdita di qualsiasi efficacia pratica del nuovo istituto.

Vi sono due disposizioni della 55 che sembrano in apparente contrasto fra loro:

- il primo comma dell'art. 768-quater che stabilisce che «al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore»;

- il primo comma dell'art. 768-sexies che stabilisce che «all'apertura della successione dell'imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere...».

La prima disposizione stabilisce, sembra senza deroga alcuna, che al Patto debbano partecipare tutti i legittimari, mentre la seconda costruisce, come categoria autonoma, i legittimari che non hanno partecipato al contratto.

Le domande da porsi sono molteplici (e riguardano anche argomenti che esulano dalla soluzione immediata del problema di cui si tratta); ecco le principali:

1. La disposizione del primo comma dell'art. 768-sexies si riferisce solo ai figli nati, riconosciuti o adottati dopo il Patto, al coniuge che abbia contratto matrimonio dopo di esso e ai cosiddetti "legittimari di secondo grado" ovvero, secondo il suo tenore letterale, genericamente a tutti i legittimari che non hanno partecipato al Patto?

2. Il primo comma dell'art.768-sexies introduce una deroga al principio stabilito dal primo comma dell'art. 768-quater (che a questo modo rimarrebbe solo una specie di dichiarazione di intenti del legislatore)?

3. L'unica tutela per coloro che non hanno partecipato al Patto, ma che avrebbero dovuto farlo, è quella dell'art. 768-sexies?

4. Può un Patto essere valido e possono contemporaneamente esserci dei soggetti che non vi abbiano partecipato, ma che non siano compresi fra i legittimari sopravvenuti? Quali effetti sulla riunione fittizia?

5. Che rilevanza ha sulla riunione fittizia la mancata partecipazione alla successione del disponente di legittimari che abbiano partecipato al Patto, ma che dopo o abbiano rinunciato all'eredità o siano premorti senza discendenti?

6. Che rilevanza ha sulla riunione fittizia l'aumento della quota dei riservatari per l'esistenza di un nuovo coniuge o di ascendenti che sono legittimari al momento dell'apertura della successione, ma che tali non erano, ovviamente, al momento della stipulazione del Patto (gli ascendenti non possono mai rientrare nella categoria dei legittimari che avrebbero dovuto partecipare al Patto, a causa della necessaria presenza di discendenti)?

7. Che rilevanza ha (sulla validità del Patto e sulla riunione fittizia) la mancata presenza al Patto di soggetti (legittimari) che avrebbero dovuto parteciparvi, ma che, senza lasciare discendenti, premuoiono al disponente o rinunciano alla sua eredità?

Le teorie in merito all'obbligatorietà o meno della presenza di tutti coloro che sarebbero legittimari se al momento del Patto si aprisse la successione sono principalmente due:

- una possibilistica, che ritiene che il Patto sia valido anche in assenza di alcuni legittimari, essendo stata prevista, per costoro, idonea norma di tutela; tale tesi è sostenuta, fra gli altri, anche se con diverse argomentazioni, da Ciro Caccavale (op. cit.) e da Fabrizio Corrente, il quale peraltro espone entrambe le tesi («Il Patto di famiglia: una nuova legge al servizio dell'impresa», Cnn Notizie);

- un'altra, più rigorosa e più seguita, che ribadisce l'obbligatorietà della presenza di tutti "i legittimari" alla stipulazione del Patto, anche considerando che il Patto può perfezionarsi con più atti fra loro collegati; sostenitori della tesi sono, fra gli altri Giorgio Baralis e Antonio Mascheroni, pur partendo da presupposti diversi. Quest'ultimo sottolinea come l'istituto possa, in considerazione della tesi sostenuta, non riuscire a trovare applicazione in presenza di casi patologici che rendano la partecipazione di tutti difficilmente realizzabile (vedi il caso di famiglie molto numerose). La necessaria partecipazione di tutti i leggittimari è da altri sostenuta sulla base della presunta natura divisione del Patto.

Una lucida analisi delle due diverse posizioni è fatta da Federico Tassinari (op. cit.), il quale evidenzia la debolezza del testo legislativo e la delicatezza dell'interpretazione, sostenendo, comunque, che la seconda tesi appare sostenuta da maggiori supporti logico-interpretativi. Individua la coesione familiare come il maggior motore per il successo dell'istituto, pur considerando che anche in mancanza di tale "qualità" la famiglia possa comunque raggiungere l'accordo necessario per addivenire alla sottoscrizione del Patto.

L'analisi delle differenti posizioni sull'argomento, è partita, per chi scrive, dalla seguente considerazione.

Si è detto come la stabilità dell'istituto sia il primo obiettivo cui anche l'interprete deve tendere.

Orbene, non v'è chi non veda come non sia possibile il verificarsi di fattispecie concrete nelle quali la partecipazione di tutti gli aventi diritto possa essere solo apparente.

Si pensi al caso del figlio creduto morto, al figlio del quale si siano perse le tracce, al figlio che il padre non vuole rivelare, ai discendenti legittimi di un figlio premorto della esistenza dei quali nessuno ha mai avuto notizia.

Non si sta cercando di sostenere aprioristicamente la tesi che al Patto possano "legittimamente" non partecipare tutti i soggetti che vi avrebbero diritto, ma non si vede, neanche, come possano non essere considerate fattispecie concrete che non vi è motivo di escludere. Di fronte a tale considerazione, si deve affrontare l'eventualità che al Patto possano (anche accidentalmente e nella perfetta buona fede di tutti) non aver partecipato tutti ed individuare le soluzioni migliori per conservare, nel rispetto dei diritti di ognuno, la stabilità degli effetti del Patto.

Quali possono essere le soluzioni?

Un soggetto che avrebbe dovuto partecipare al Patto e che, per qualsiasi motivo, non vi ha partecipato, non può subire gli effetti del contratto che non ha mai sottoscritto; la tutela dei suoi diritti non può essere relegata a quella, minore, prevista per altre ipotesi dall'art. 768-sexies. La stipulazione di un Patto di famiglia senza la sua presenza non può e non deve produrre nei suoi confronti alcun effetto.

Nessuna soluzione ci sembra adottabile qualora i due patrimoni (la "massa Patto" e la "massa ereditaria") siano insensibili fra loro, come sostenuto dalla tesi 1 (vedi secondo paragrafo). Non vi possono essere rimedi se la "massa Patto" non deve essere calcolata ai fini della riunione fittizia. Tale impostazione potrebbe quindi creare non pochi problemi nella circolazione dei beni oggetto del Patto stesso (resoluto jure dantis ...).

La tesi 2 (vedi sempre secondo capitolo) offre invece la possibilità di una soluzione adeguata. Il Patto deve essere privo di effetti per colui che non vi ha partecipato, ma che aveva il diritto di farlo, e pertanto costui:

- potrà agire in riduzione sull'azienda e potrà chiederne la collazione, ove ne esistano i presupposti;

- per la determinazione della porzione di legittima di sua spettanza, l'azienda sarà considerata donatum ai fini della riunione fittizia, secondo il valore che questa ha al momento dell'apertura della successione.

Si dovrà quindi fare una riunione fittizia "apposta per lui"!

Riprendendo le fattispecie concrete sopra esposte, il figlio creduto morto, il figlio del quale si erano perse le tracce, il figlio che il padre non voleva rivelare trovano così adeguata tutela.

Non si vede però come si possa dare rilevanza giuridica a fattispecie la cui esistenza, come categoria portatrice di significato, dipenda esclusivamente dalla presenza di situazioni soggettive personali, cioè dalla conoscenza dell'esistenza di certi soggetti che abbiano o meno i partecipanti al contratto (e vieppiù: tutti o solo alcuni dei partecipanti?).

Si tratterebbe di individuare i non partecipanti all'atto "noti" e quelli "ignoti", per sanzionare di nullità il Patto cui non abbiano partecipato i primi e, nel contempo, ritenere valido quello cui non abbiano partecipato i secondi, nei confronti - ed a tutela - dei quali opererebbero le cautele di irrilevanza degli effetti del Patto sopra esposte. Con il rischio di andare a tutelare situazioni di mala fede.

Una volta colte le diverse sfumature fra le fattispecie astrattamente possibili, si tratterebbe di individuare una categoria definibile come quella del "legittimario non apparente".

La problematica è senz'altro delle più complesse, non ci sembra però possibile operare, allo stato, una distinzione fra legittimari "noti" ed "ignoti" che sia degna di considerazione giuridica; il dato sarebbe troppo incerto. Forse la definizione potrà aversi un domani solo in sede giurisprudenziale.

E allora?

La difficoltà di fronte alla quale ci troviamo non ci sembra però così rilevante da non ritenere più degno di considerazione l'assunto dal quale siamo partiti.

Resta quindi, come primaria, l'esigenza di assicurare stabilità al Patto, esigenza più che evidente di fronte alla possibilità che al Patto non abbiano partecipato tutti gli aventi diritto. E ciò senza entrare nel merito della rilevanza di stati soggettivi di buona o mala fede.

La tesi esposta da Gaetano Petrelli (op. cit.), della necessaria partecipazione «ai fini di opponibilità», anche se sviluppata partendo da altri assunti, è quella che consente di coniugare al meglio tutte le problematiche esposte. Vediamola nei suoi punti essenziali:

- tutte le finalità che il Patto si propone possono essere raggiunte anche con un successivo contratto (e quindi chi non vi ha partecipato può aderirvi dopo);

- il Patto produce i suoi effetti solo nei confronti di coloro che vi hanno partecipato, nonchè nei confronti dei legittimari sopravvenuti (cioè: i figli nati, riconosciuti o adottati dopo il Patto; il coniuge che tale sia per matrimonio contratto dopo il Patto; i cosiddetti "legittimari di secondo grado");

- il Patto, cui non partecipi un soggetto che avrebbe dovuto parteciparvi, non sarà nullo (e quindi il Notaio che lo stipulerà non violerà l'art. 28 L.N.); non produrrà però effetti nei confronti di tale soggetto.

Alla luce di questa interpretazione, si può rispondere ai sette quesiti di cui sopra.

1. La disposizione del primo comma dell'art. 768-sexies si riferisce solo ai figli nati, riconosciuti o adottati dopo il Patto, al coniuge che abbia contratto matrimonio dopo di esso e ai cosiddetti "legittimari di secondo grado";

2. il primo comma dell'art. 768-sexies non introduce una deroga al principio stabilito dal primo comma dell'art. 768-quater;

3. la tutela dell'art. 768-sexies non è idonea a proteggere gli interessi di chi avrebbe dovuto partecipare al Patto, ma non vi ha partecipato;

4. il Patto è valido anche se non vi partecipano tutti coloro che ve ne avrebbero diritto; in tal caso nei confronti di costoro la riunione fittizia è effettuata come se si trattasse di donazione;

5. la mancata partecipazione alla successione del disponente di legittimari che abbiano partecipato al Patto, ma che dopo o abbiano rinunciato all'eredità o siano premorti senza discendenti, incide sulla determinazione della disponibile e, ove ciò non sia sufficiente, sulle quote di riserva, senza però, naturalmente, che si possano ridurre i beni oggetto del Patto;

6. l'aumento della quota dei riservatari per l'esistenza di un nuovo coniuge o di ascendenti che sono legittimari al momento dell'apertura della successione, incide su disponibile prima e su riserva poi, senza però che si possano ridurre i beni del Patto;

7. la mancata presenza al Patto di soggetti (legittimari) che avrebbero dovuto parteciparvi, ma che, senza lasciare discendenti, premuoiono al disponente o rinunciano alla sua eredità, non ha alcuna rilevanza nè sul Patto nè sulla riunione fittizia.

b - Il pagamento ai legittimari sopravvenuti?

La disposizione dell'art. 768-sexies prevede che la somma che può essere richiesta dai legittimari sopravvenuti debba essere pari alla quota di riserva di loro spettanza, maggiorata degli interessi legali (la legge non lo dice, ma "dies a quo" per il calcolo degli interessi è evidentemente il giorno di stipulazione del Patto); tali interessi hanno una evidente funzione compensativa, per avere cioè i partecipanti al contratto goduto dei frutti dei beni ricevuti.

Non vi è espressa previsione che i legittimari sopravvenuti debbano effettuare "imputazione ex se" della somma che ricevono, ma non vi è dubbio alcuno che tale obbligo sussista. I legittimari sopravvenuti, una volta che abbiano ricevuto il pagamento di quanto loro spetta, devono essere considerati, per tali fini, come se avessero partecipato al Patto. Quindi anche per loro l'obbligo di imputazione nasce dal disposto del terzo comma dell'art. 768-quater. («I beni assegnati ... agli altri partecipanti ... sono imputati alle quote di legittima ...»).

L'obbligo di imputazione non dovrebbe riguardare invece gli interessi, perchè altrimenti vi sarebbe una imputazione superiore alla quota di riserva (sull'azienda), con la conseguenza che, sul relictum, potrebbero i legittimari sopravvenuti essere costretti ad avere diritto ad una quota minore di quella che spetterebbe loro e, quindi, con annullamento dell'effetto perequativo degli interessi.

Naturalmente i soggetti che provvedono al pagamento della somma ai legittimari sopravvenuti dovranno detrarsi ai fini dell'imputazione ex se, se tenuti, l'ammontare della somma corrisposta ai sopravvenuti (senza interessi, per gli stessi motivi "a contrario").

Secondo i principi generali (art. 1294 c.c.) sembrerebbe una obbligazione solidale (Andrea Merlo op. cit.); Baralis (op. cit.) ritiene più coerente la soluzione che il debito sia parziario e proporzionale alle attribuzioni; sottolinea come invece la solidarietà appaia più consona allorquando si ritenga il Patto completamente sganciato dalla successione.

Risulta molto complesso determinare quali siano le modalità di ripartizione dell'onere di pagare la somma ai sopravvenuti (che il titolo dell'art. 768-sexies chiama "terzi"). La legge impone l'obbligo a carico dei "beneficiari del contratto" e nell'utilizzo di tale termine si può intravvedere un tentativo del legislatore di individuare un criterio. Senz'altro ha voluto escludere i rinunzianti (che di nulla "beneficiano") e forse ha voluto individuare quali obbligati al pagamento coloro che ricevendo qualcosa in più della (nuova) quota di riserva "beneficiano" del contratto. Il "forse" è però più che d'obbligo.

In primo luogo occorre calcolare quali sarebbero state le quote di riserva di ciascuno sul valore dell'azienda se anche i legittimari sopravvenuti avessero partecipato al contratto. Indi, le possibilità che si possono ipotizzare sono molteplici; forse quella più apprezzabile è che la somma vada ripartita proporzionalmente fra coloro, figlio preferito e altri legittimari, che hanno ricevuto o comunque trattenuto un valore superiore a quello della propria quota di riserva ed in misura proporzionale a tale maggior valore.

Vi possono essere però ipotesi estreme, in relazione alle quali la regola appare bisognosa di correttivi.

Si pensi all'ipotesi di azienda del valore di 1.000.000 assegnata con Patto di famiglia ad un figlio, il quale ha liquidato la moglie del disponente con 250.000 ed il fratello con 250.000 (trattenendo quindi sull'azienda un valore di 500.000). Al momento dell'apertura della successione del disponente, legittimari sono i due figli ed un nuovo coniuge.

Orbene, le ipotesi possono essere varie:

- tenuto al pagamento è solo il figlio preferito che ha usufruito dell'intera disponibile (sull'azienda) di 250.000;

- tenuto al pagamento è solo il coniuge precedente (o i suoi eredi) che quindi deve abbandonare tutto quanto ha ricevuto col Patto (anche se ha partecipato al Patto con pieno diritto: «…ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore»);

- tenuti al pagamento sono il figlio preferito ed il precedente coniuge per una metà ciascuno, in quanto entrambi hanno ricevuto più della riserva: il primo in quanto ha avuto la disponibile (250.000) ed il secondo in quanto al momento dell'apertura della successione non è più riservatario e quindi tutto quanto ha ricevuto (250.000) è "extra riserva";

- tenuti al pagamento sono i tre partecipanti al Patto, in misura proporzionale a quanto hanno ricevuto (cioè 2/4 il figlio preferito ed 1/4 ciascuno l'altro figlio ed il precedente coniuge).

In virtù dell'applicazione dell'ultimo criterio esposto, il figlio non assegnatario dell'azienda verrebbe a ricevere una quota inferiore alla riserva e pertanto avrebbe diritto di reclamare la differenza in sede di riunione fittizia e conseguente determinazione delle porzioni di spettanza dei legittimari.

Anche Baralis (op. cit.) vede forti problematiche nel trattamento del nuovo coniuge e non evidenzia con certezza un'unica soluzione.

Un'ultima considerazione sull'argomento, che però non trova alcun riscontro nella 55, ma che può avere una avere una sua collocazione (quanto meno logico-sistematica) soprattutto nell'ambito della tesi 1 (cioè quella che sostiene la completa autonomia dei due patrimoni, quello del Patto e quello ereditario): il nuovo coniuge nessun diritto aveva al momento della stipulazione del Patto e pertanto nulla può reclamare ai sensi dell'art. 768-sexies, in quanto la quota di riserva ad esso spettante, al momento della stipulazione del Patto, era già legittimamente "occupata" da altro soggetto. Analogamente si potrebbe ragionare in caso di ascendenti che diventino legittimari al momento dell'apertura della successione.

Naturalmente tale riflessione, che sappiamo quanto sia "estrema", vuole solo essere un contributo all'analisi di un problema che si presenta di non agevole soluzione.

è comunque auspicabile la previsione di una clausola contrattuale, da inserire nel Patto, che disciplini le regole di ripartizione dell'obbligo di pagamento di cui all'art. 768-sexies.

Argomentando sulla parola "possono" («... possono chiedere ...»), Andrea Merlo (op. cit.) sostiene che il diritto di credito nei confronti dei beneficiari del contratto nasce solo qualora non vi sia capienza nell'asse ereditario. Tale tesi potrebbe essere condivisa solo qualora il trovare soddisfazione nell'asse ereditario non alteri in alcun modo i diritti di altri soggetti e non modifichi la ripartizione fra i beneficiari dell'onere di corrispondere la liquidazione (ripartizione, per il vero, ben complicata!).

La tesi non ci trova pienamente convinti. Ci si può domandare, infatti, se i legittimari sopravvenuti debbano, invece, prima richiedere la liquidazione ai beneficiari e poi, solo nel caso in cui non trovino soddisfazione (cioè qualora l'azione di impugnabilità - rectius di annullamento - del Patto non dia esito positivo), possano avanzare pretese sui beni ereditari. Giorgio Baralis (op. cit.) sostiene che, qualora il legittimario sopravvenuto trovi soddisfazione mediante un legato sostitutivo di legittima, i contraenti del Patto rimangono liberati da ogni loro obbligo ex art. 768-sexies nei suoi confronti.

è evidente che in presenza di determinate circostanze (soggetti obbligati che non provvedano al pagamento; azione di annullamento che non porti ad esiti concreti; assenza di relictum e di donatum), i legittimari sopravvenuti non riusciranno a vedere soddisfatto il loro diritto alla legittima. è un "sacrificio" all'intangibilità della legittima che non si può evitare. Peraltro tale intangibilità è stata, e recentemente, già compromessa a seguito della modifica portata agli artt. 561 e 563 c.c. dalla legge 14 marzo 2005 n. 35.

Conclusioni

Per concludere una breve sintesi delle soluzioni che si è ritenuto di dare ai problemi evidenziati al Capitolo 1.

Al momento dell'apertura della successione dell'imprenditore o del titolare di partecipazioni societarie si dovrà effettuare la riunione fittizia alle seguenti modalità.

Si deve formare la massa di tutti i beni che appartenevano al defunto all'apertura della successione, sulla base del valore che hanno a tale momento. Detratti i debiti, si riunisce fittiziamente a tale massa quanto il defunto ha disposto in vita a titolo di donazione e Patto di famiglia come segue:

- le donazioni vanno calcolate per il valore che hanno al momento dell'apertura della successione, salve le donazioni in danaro, per le quali vige il principio nominalistico;

- le attribuzioni fatte a titolo di Patto di famiglia relative ad aziende e partecipazioni societarie vanno calcolate per il valore attribuito in contratto, salvo che nel Patto sia stato convenuto un diverso momento.

Sull'asse così determinato si calcolano le quote di disponibile e di riserva.

Qualora al momento dell'apertura della successione, vi fossero soggetti che avrebbero dovuto partecipare al Patto, ma che non vi hanno partecipato, per calcolare la quota di riserva di loro spettanza, le attribuzioni fatte a titolo di Patto di famiglia vanno calcolate per il valore che hanno al momento dell'apertura della successione.

I legittimari devono imputare alle rispettive quote di riserva:

- quanto hanno ricevuto a titolo di eredità o legato, per il valore al momento dell'apertura della successione;

- quanto hanno ricevuto per donazione, per il valore al momento dell'apertura della successione, fatte salve le donazioni in danaro, per le quali vige il principio nominalistico;

- quanto hanno ricevuto dal disponente a titolo di Patto di famiglia (azienda e partecipazioni societarie) per il valore indicato in contratto (o riferito a quel diverso momento temporale convenuto nel Patto), al netto del valore dei beni assegnati agli altri legittimari indicato in contratto (o riferito a quel diverso momento temporale convenuto nel Patto), al netto di rinunce operate dagli altri legittimari e al netto della somma corrisposta ai legittimari sopravvenuti, senza tener conto degli interessi;

- quanto hanno ricevuto dal figlio preferito a titolo di Patto di famiglia per il valore indicato in contratto (o riferito a quel diverso momento temporale convenuto nel Patto);

- l'ammontare di rinunce operate ai sensi del secondo comma dell'art. 768-quater;

- la somma ricevuta quale legittimario sopravvenuto ai sensi dell'art. 768-sexies, senza tener conto degli interessi.

Resta naturalmente esclusa la possibilità di agire in riduzione nei confronti dell'azienda e delle partecipazioni societarie e di chiederne la collazione, tranne che per quei soggetti che avrebbero dovuto partecipare al Patto, ma che non vi hanno partecipato.

Ovviamente ad altre e diverse soluzioni giungono i sostenitori delle tesi che qui non si è ritenuto di preferire.

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