Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati
Il Patto di famiglia nella sistematica del codice
di Giovanni Di Giandomenico
Ordinario di Diritto Privato, Università del Molise

La novella n. 55/06

è già stato messo abbondantemente in evidenza che la libera trasmissibilità delle imprese (in specie medie e piccole) da una generazione all'altra attraverso i familiari più dotati sul piano imprenditoriale, e quindi presumibilmente più idonei ad evitare il declino ed il frazionamento di esse, trovava un ostacolo assai forte nell'esistenza - nella nostra legislazione - di quella forma di successione che viene chiamata "necessaria", o dei "legittimari". Infatti, la quota di riserva, o "legittima" tout court, con i consequenziali istituti della collazione, della riduzione e della stessa rappresentazione, si pone come il vero impedimento alla realizzazione delle finalità predette. L'ereditando, infatti, non è libero di attribuire a chi vuole il suo patrimonio, se non per una parte spesso minoritaria.

L'esistenza di questo istituto, di certo, non ha nessuna copertura costituzionale, limitandosi l'art. 42, quarto comma, Cost., a prevedere solo la riserva di legge per la regolazione delle successioni legittime e testamentarie, non nominando neppure quella necessaria. Né tale istituto è conosciuto nei paesi di common law. Nei paesi, invece, di tradizione romanistica continentale, esso è stato costruito anche attraverso i diritti consuetudinari locali, ma soprattutto fu teorizzato dalla prima dottrina pandettistica che lo derivò erroneamente dall'esistenza di eredi "necessari" del primigenio diritto romano. Con ciò - nota Mengoni - creando una interpretazione rovesciata di queste figure, "necessarie" in verità perché erano obbligate ad accettare, e non perché non potevano essere pretermesse dal de cuius. Nel suo significato romanistico, oggi -nella nostra legislazione- l'unico erede necessario è lo Stato, che non può rinunciare.

Ma tant'è. Da una interpretazione sbagliata è nata una tradizione giuridica sostanziosa, che dal Code Napoléon è passata a quello italiano del 1865 e poi a quello del 1942, caricandosi peraltro di suggestioni etiche e sociali ulteriori, quali quelle della necessaria solidarietà familiare e delle responsabilità dei genitori verso i figli.

Con questa realtà si sono dovuti fare i conti. Ed anche con un'altra, questa sì di autentica derivazione romanistica, vale a dire con il divieto di patti successori, legato all'antico principio della libera ed incoercibile volontà del testatore - da una parte - e della impossibilità teoretica di una rinuncia a quello che non solo non è ancora un diritto, ma neppure un'aspettativa legittima, sul versante del presunto e possibile erede.

Sulla base di questa nostra situazione ordinamentale è stata approvata la nuova normativa.

Essa, sul piano formale, si compone di due articoli, il primo che modifica l'art. 458 c.c. (divieto dei patti successori) premettendo ad esso la frase «Fatto salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis e seguenti», e dunque qualificando in tal modo il nuovo istituto; il secondo che introduce i nuovi articoli, da 768-bis ad octies, con la disciplina del Patto di famiglia.

Il Patto viene definito come il contratto con cui l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o a più discendenti. Ad esso devono partecipare tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell'imprenditore; gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni devono liquidare le altre parti con il valore delle quote di legittima, a meno che le altre parti non vi rinuncino; l'assegnazione può essere disposta anche con un successivo contratto collegato; quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto né a collazione né a riduzione. Nel caso, inoltre, che sopraggiungano altri legittimari, a costoro spetta la stessa quota di legittima calcolata come per quelli originari, ed al valore dell'epoca della stipula del patto, aumentata solo degli interessi legali. Il patto può essere impugnato per i vizi del consenso, a mente dell'art. 1427 c.c., ma l'azione si prescrive in un solo anno. La stessa azione di annullamento (più correttamente: un'azione di risoluzione) viene data ai legittimari sopravvenuti, nel caso che l'assegnatario non provveda alla liquidazione della loro quota di legittima, rimanendo così inadempiente di un'obbligazione ex lege.

Ci sono poi numerose altre norme sulla forma, sullo scioglimento del patto, sulla conciliazione delle controversie, e così via, ma l'ossatura principale dell'istituto mi pare essere quella descritta.

Da tale schematizzazione sembrano emergere subito quelli che sono gli obbiettivi del nuovo istituto, e cioè la salvaguardia di un complesso aziendale, di un ramo d'azienda o di un pacchetto partecipativo, che possono venire affidati da un imprenditore ad uno o più discendenti (non necessariamente figli ma, in ipotesi, anche nipoti o bisnipoti) dotati presumibilmente di maggiori attitudini manageriali, con liquidazione degli altri virtuali legittimari (a quel momento), senza gli impacci di future azioni di collazione o riduzione.

Insomma: si trasmette un'azienda, si sistemano gli altri soggetti che in prosieguo potrebbero reclamare, si enuclea tutto ciò dalla ulteriore, futura successione che si aprirà secondo le regole ordinarie al momento del decesso del de cuius.

è stato detto: trattasi, in termini empirici, di una successione anticipata, oltretutto a stralcio del successivo asse ereditario, autonoma quindi da quella vera e propria che verrà nei tempi della natura.

Questa attribuzione, dunque, avrebbe i caratteri della stabilità e dell'autonomia e viene prevista solo per i beni aziendali, in una prospettiva produttivistica che giustifica un sì vistoso strappo ai secolari principi dell'unità della successione, dell'intangibilità della legittima e del divieto dei patti successori.

La specialità del soggetto disponente (imprenditore) e dell'oggetto del negozio (azienda o partecipazioni societarie), da un lato giustificherebbe una deroga di grande rilievo alla normativa comune che resta valida per tutti gli altri beni, evitando ogni accusa di violazione dell'art. 3 della Costituzione, proprio per la funzione sociale dell'impresa; dall'altro impedisce ogni ulteriore applicazione che si volesse fare delle sue norme per analogia oltre gli stretti limiti previsti. Questa risulterebbe l'opinione almeno delle Commissioni parlamentari che hanno licenziato l'articolato, anche se il tema richiederebbe un ulteriore, necessario approfondimento.

Si tratta ora di verificare se la tecnica legislativa adoperata, e se le norme così introdotte e scritte così male, assicurino poi il conseguimento degli obbiettivi che il legislatore si era prefissato.

La struttura e la qualificazione negoziale

Non c'è dubbio alcuno che il Patto di famiglia sia un contratto non solo nominato (ha appunto il suo nomen juris) ma anche tipico, legislativamente previsto.

Come tale, dunque, non ha senso chiedersi se esso sia un testamento, una donazione, una donazione modale e così via, come pure è avvenuto nei primi dibattiti seguiti all'approvazione della novella. Ha invece senso chiedersi in quali categorie negoziali esso sia ascrivibile o a quali negozi sia comunque più affine, per l'eventuale applicazione, quanto meno in via analogica, di norme che riempiano eventuali vuoti legislativi.

Sotto questo aspetto esso va subito confrontato con i due negozi che cercano di raggiungere risultati simili, e cioè il testamento e la donazione.

Con il testamento c'è in comune la finalità di una trasmissione generazionale di un determinato bene, scelto dal disponente, a favore di un discendente, magari neppure legittimario, individuato sempre dallo stesso.

Ma la similitudine si ferma qui. Il testamento resta tutt'ora, nel nostro ordinamento, l'unico negozio mortis causa ammesso, unilaterale e personalissimo, essenzialmente revocabile, con efficacia solo post mortem.

Il Patto di famiglia, invece, non solo è un atto inter vivos, consensuale e ad effetti reali immediati, ma è qualificato espressamente dalla legge come "contratto". Con l'ovvia conseguenza che ad esso si applicano tutte le norme dettate dal codice per il contratto in generale: così in tema di interpretazione (quelle del testamento sono diverse) o in tema di vizi della volontà (anche qui, diversa è la disciplina prevista). Anzi, a quest'ultimo proposito è significativo che l'art. 768-quinquies rinvii espressamente alla norma dell'art. 1427 e ss. c.c. in tema di errore, violenza e dolo. E così per tutte le altre norme del titolo II del libro IV. Così, ancora, devono ritenersi applicabili le norme sulla simulazione, quelle sulla invalidità e la stessa regola dell'art. 1322 sull'autonomia contrattuale che, ricordiamolo, ammette che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge.

Certo ci potrà essere problema sull'applicazione di qualche singolo istituto: ad es., per la rescissione o per la risoluzione (per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità sopravvenuta), e questo in ragione della specificità del tipo negoziale, ma in principio l'affermazione resta ovvia e non contestabile.

Diverso è il discorso del rapporto con la donazione. Questo tipo di contratto (che pure è disciplinato nel libro delle successioni e che ha per la sua natura regole spesso più comuni a quelle del testamento che non a quelle dei contratti in generale) può adempiere tranquillamente a gran parte delle esigenze cui risponderebbe anche il nuovo patto. Si tratta allora di vedere quale sia la specificità aggiuntiva del nuovo modello legislativo, anche allo scopo di risolvere alcune questioni ermeneutiche che si sono già poste. E la specificità - non c'è dubbio - è che la donazione può essere soggetta a collazione, ove non vi sia la dispensa, ma che, soprattutto, essa è soggetta a riduzione per lesione di legittima, post mortem. Qui è dunque il punto centrale: se il patto si differenzia per il fatto che i legittimari non potranno poi più lamentarsi ove abbiano prestato il loro consenso, addirittura rinunciando alla quota di riserva, ne consegue che l'esaltazione dell'autonomia privata diventa prevalente. Ma che proprio per questo, tutto deve essere fondato sul consenso: non ha significato, conseguenzialmente, chiedersi se al patto debbano partecipare tutti i legittimari, o se si può fare a meno di qualcuno di essi, come pure è stato sostenuto. Come meglio vedremo in seguito, è evidente che, in casi simili, il contratto che veda la partecipazione solo di alcuno dei legittimari potrà essere pure valido, ma non vincolante per gli assenti, che rimarrebbero titolari dell'azione di riduzione. Nei loro confronti, infatti, l'eventuale negozio inter alios intercorso si configurerebbe come una semplice donazione.

Non è a tacere, in proposito, che col nuovo istituto emergono questioni di sistema sul piano delle situazioni giuridiche soggettive. è noto, infatti, che i presumibili eredi non godono, durante la vita dell'ereditando, di alcuna tutela giuridica, neppure interinale, in ordine alla sperata, futura successione. Come suol dirsi nei manuali, la loro è un'aspettativa di fatto e non di diritto, potendo comunque il soggetto ereditando disporre in vita dei suoi beni come meglio gli aggrada (salvo il limite della donazione) o potendo le vicende patrimoniali incrementarli o ridurli. Pertanto il chiamato all'eredità diviene tale solo alla morte del de cuius in tutte le specie di successioni: legittima, necessaria, testamentaria. Anche per questo veniva giustificato dommaticamente il divieto di rinunce preventive, non essendoci alcuna situazione giuridica soggettiva - appunto - cui poter rinunciare.

Ora, la grande ed essenziale differenza fra il patto e la donazione appare a prima vista essere nella struttura soggettiva e nella sua specifica efficienza giuridica per il raggiungimento di uno scopo particolare.

La donazione, invero, è un atto a causa liberale con cui una parte - che si impoverisce - trasferisce un bene ad un'altra - che si arricchisce.

Nel nostro ordinamento positivo questo atto viene configurato come un contratto tra due parti, il donante ed il donatario. è noto che non sempre è stato così e che altre volte ed in altri ordinamenti la donazione viene configurata come un negozio unilaterale. Piace anche, agli storici del diritto, raccontare che la configurazione della donazione come contratto fu imposta da Napoleone che, in una delle sedute della Commissione che predisponeva il Codice alla quale era intervenuto, come spesso peraltro accadeva, volle così riaffermare il principio consensuale su cui, a suo avviso, si fondava tutto il diritto.

Ma nulla vieterebbe di modificare tale configurazione. Sul piano dei principi sarebbe perfettamente congruo costruire un atto unilaterale di donazione già come fonte dell'effetto giuridico finale del trasferimento del bene.

L'eventuale mancata accettazione del donatario si configurerebbe solo come rifiuto, e cioè come un atto che paralizzerebbe l'effetto giuridico del trasferimento. Sarebbe questa, d'altronde, una sequenza che si inquadrerebbe perfettamente nella linea-cardine del nostro ordinamento, per il quale il principio dell'intangibilità della sfera giuridica del terzo rispetto ad atti compiuti da altri, siano essi negozi unilaterali o siano contratti, viene derogato quando l'atto del terzo ha effetti solo incrementativi e mai negativi sul patrimonio del beneficiato. In questi casi l'ordinamento presume che l'atto incrementativo sia gradito al terzo e dunque prevede direttamente l'efficacia favorevole nella sua sfera, salvo ovviamente la sua opposizione che, manifestata in termini congrui, paralizza, e dunque impedisce, l'effetto: appunto il rifiuto.

Così funziona il legato, così il contratto a favore di terzi e la stessa donazione manuale. Sta però di fatto che il nostro diritto positivo costruisce la donazione quale contratto bilaterale.

Il Patto di famiglia, invece, ha una configurazione totalmente diversa, ontologicamente trilatera.

In esso agiscono tre parti: il disponente (o i disponenti); il beneficiario (o i beneficiari); il legittimario (o i legittimari). Gli effetti giuridici negoziali e finali di esso consistono certamente nel trasferimento dell'azienda e nel pagamento (o nella rinuncia) della legittima a coloro che in quel momento sarebbero legittimari, ma anche nella perdita del futuro, eventuale diritto all'azione di riduzione ed alla collazione.

Cioè: per rendere irretrattabile e definitivo l'effetto del patto, quale anticipazione della futura successione, è essenziale non solo la volontà del disponente e la volontà del beneficiario, ma anche quella dei legittimari. Solo in quanto essi vogliano, si produce l'irretrattabilità della disposizione nei loro confronti e dunque la stabilità del patto.

Se così è, il Patto di famiglia si pone come un negozio necessariamente trilatero, in cui la presenza di ognuna delle tre parti è da ritenere essenziale per la configurazione stessa della fattispecie.

Vi sono, naturalmente, altri casi di negozi trilateri nel nostro ordinamento. Si pensi alla cessione del contratto (art. 1406 c.c.), negozio contrattuale esso medesimo, in cui la partecipazione del cedente, del ceduto e del cessionario è indefettibile per aversi la figura; o, nel campo dei negozi atipici, al leasing, in cui la presenza dell'istituto finanziario, dell'impresa venditrice e del cliente utilizzatore appare ugualmente essenziale. Diverso è ovviamente il caso del contratto a favore di terzi, concluso non appena le due parti stipulanti scambiano il consenso: l'effetto negoziale è già prodotto, e di esso potrà profittare, se lo vorrà, il beneficiario (art. 1411, comma 2). Ma ciò si è già detto prima.

Conseguenze della trilateralità

La particolare conformazione trilatera della figura introdotta dagli artt. 708-bis e quater (e qui non si capisce perché il primo comma del quater non sia stato posto nel precedente articolo bis, che dà la "nozione" del contratto, secondo quanto dice la sua rubrica) comporta delle conseguenze non solo sul piano della fattispecie, dell'atto cioè, ma anche sul piano degli effetti, con una necessaria interrelazione fra di essi.

è questo un punto delicato. Infatti la legislazione codicistica, ma anche tutta la cultura giuridica tradizionale, hanno sempre normato e ragionato in base allo schema classico del contratto bilaterale, di scambio e sinallagmatico, forgiando quindi su questo schema norme e concetti. Ciò ovviamente comporta che di fronte ad una struttura diversa, quale il contratto trilaterale, le norme ed i concetti devono essere adattati a questa fattispecie. L'operazione è talvolta difficile, ma certo non impossibile. Bisogna per di più tener presente che le poche norme che si rinvengono in tema di contratti genericamente plurilaterali sono state poste pensando soprattutto a quelli associativi, in cui le parti per raggiungere uno scopo comune possono variare indifferentemente da due all'infinito. Insomma, il legislatore e la dottrina, quando parlano di contratto, pensano allo schema della vendita; quando parlano di contratto plurilaterale, a quello delle società. Il nostro è, invece, un caso del tutto particolare.

Nel contratto trilaterale, infatti, lo scopo delle parti e dell'ordinamento non è quello del contratto plurilaterale associativo in cui gli interessi degli associati sono tesi tutti in un'unica direzione e quindi convergenti. Ad es., il lucro nelle società commerciali o il fine specifico non patrimoniale nelle associazioni non lucrative. Nel negozio trilatero, invece, gli interessi sono diversi e configgenti per ognuna delle parti e lo scopo comune si realizza proprio attraverso la loro combinazione, come nei contratti bilaterali. Ma qui abbiamo dei flussi di interessi, che daranno poi vita a flussi di rapporti giuridici non fra due sole parti, ma da una parte, all'altra e all'altra ancora. Insomma, per esprimerci con uno schema: A/B, B/C, A/C. Questi flussi sono tra loro strettamente interconnessi, sì che solo con la loro esplicazione e la loro realizzazione si raggiungerà lo scopo finale, se vogliamo economico-sociale, del contratto.

La fattispecie è proprio perciò unitaria. A questa stregua non è certo accoglibile quella teoria che vede in un contratto trilatero paradigmatico, come il leasing, una fattispecie complessa risultante da un collegamento fra tre negozi diversi, appunto A/B, B/C, A/C. Non ci sono singoli negozi, perché da ognuno di essi non deriva un effetto finale. La fattispecie negoziale è unitaria, ove diversi e distinti, e fra loro intimamente collegati, sono i flussi di interessi e dalla quale deriva l'effetto complessivo finale unitario, dato cioè da tutti i rapporti giuridici che intercorrono fra le parti.

Ciò significa che questa struttura incide anche sulla qualificazione dei singoli rapporti e delle singole posizioni. E dunque, la posizione dell'imprenditore ha una finalità certamente liberale e dunque gratuita; quella del beneficiario o assegnatario vedrà di certo un arricchimento senza sacrificio, per una parte, ma anche un sacrificio presente o futuro nei confronti dei legittimari. E questi, potranno sì arricchirsi gratuitamente delle loro quote, ove non vi rinuncino, ma subiranno pure il sacrificio sostanziale di perdere ogni possibilità di collazione o di azione di riduzione.

La causa finale complessiva negoziale astratta, quella che la stessa relazione al codice designava come la funzione economico-sociale, resta sotto questo aspetto abbastanza articolata, concretizzandosi in un'attribuzione patrimoniale accettata dalle altre parti con la rinunzia a futuri diritti e con l'assunzione di eventuali controprestazioni.

Ciò significa che le specifiche disposizioni sui negozi gratuiti ed onerosi (ad es., per le regole sull'interpretazione) saranno applicabili a seconda delle singole posizioni che si esaminano.

Saranno applicabili anche le disposizioni sulla risoluzione del contratto, almeno per inadempimento. è vero, infatti, che esse si riferiscono ai contratti con prestazioni corrispettive e quindi, nel linguaggio del codice, a quelli bilaterali di scambio (art. 1453), ma qui la corrispettività viene ritrovata, almeno in alcuni flussi di rapporti. Così non c'è dubbio che, a fronte del sacrificio imposto ai legittimari della perdita del futuro diritto di riduzione o della collazione, c'è l'attribuzione patrimoniale prestata in loro favore (salvo rinuncia) della liquidazione della legittima.

In caso di inadempimento, i legittimari ben potrebbero chiedere di risolvere il loro rapporto. A mio avviso, questa risoluzione travolgerebbe anche il rapporto tra disponente ed assegnatario, che non potrebbe convertirsi – ai sensi dell'art. 1424 c.c. – in un contratto di donazione, poiché questa disposizione si riferisce alla nullità della fattispecie e non alla risoluzione del vincolo; ma, soprattutto, poiché si dovrebbe comunque invocare il principio dell'art. 1420, secondo il quale «la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa la nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale». Trasportato il principio dal piano dell'atto a quello dei rapporti, certamente la funzionalità dell'intera operazione deve intendersi riferita al soddisfacimento delle ragioni dei legittimari. Ove questo non si avverasse, il difetto funzionale della causa travolgerebbe - a mio avviso - l'intero complesso rapporto trilatero.

Ciò, si è detto, se si parla di inadempimento. Ove invece il vizio fosse genetico, e dunque per una qualsiasi causa il contratto originario fosse da ritenere invalido rispetto al beneficiario, credo che, indagata l'effettiva volontà delle parti, non dovrebbero esservi ostacoli alla conversione del negozio da Patto di famiglia a donazione, alla stregua della norma di cui all'art. 1424 c.c.

Articolazioni delle singole parti

Ogni parte può essere composta da più soggetti individui, ovviamente. Nel nostro caso è certamente possibile che i legittimari siano più di uno. Si pone però il problema se possano essere più di uno i beneficiari e gli stessi disponenti.

Non sembra che a questa eventualità si oppongano questioni di principio, sì che dovrebbe essere consentita un'ipotesi in cui due imprenditori (ad es., marito e moglie) lasciano la loro azienda coniugale (ma anche quella di diversa qualificazione giuridica di cui siano contitolari) congiuntamente ai loro due nipoti ex filio, regolando altrimenti i rapporti con gli altri figli legittimari. Anche qui, ovviamente, la disciplina dell'eventuale risoluzione dovrà tener conto dell'essenzialità della partecipazione di ognuno, secondo le circostanze e la volontà delle parti, come nell'omologo caso di una nullità o annullabilità che colpisce solo una delle persone interessate.

Il problema che eventualmente si pone è nella situazione inversa. Ci si è già chiesti, infatti, da parte di molti commentatori se la disposizione di cui all'art. 768-quater per cui i virtuali legittimari "devono" partecipare al contratto sia da considerare inderogabile, sì che la mancanza di alcuno di essi comporti la nullità dell'atto ai sensi dell'art. 1418 c.c. per contrarietà a norme imperative.

La questione non si risolve con il semplice richiamo all'art. 1322 c.c. sull'autonomia contrattuale, immaginando che la mancata partecipazione di un legittimario configuri una modifica del contenuto del contratto (comma 1) o, forse più esattamente, una tipologia diversa del contratto, o una sub-tipologia (comma 2). Ciò perché la nuova figura del Patto di famiglia risulta eccezionale rispetto al generale divieto di patti successori e quindi non passibile di applicazione analogica.

Il problema è, allora, di verificare se la lettera della norma richiamata sia di per sé sufficiente a fondare il giudizio di imperatività della disposizione e dunque a condurre alla nullità virtuale, al di là di una interpretazione anche estensiva della stessa, sempre in principio possibile anche per le leggi eccezionali.

Per questo è anche da tenere presente il principio della conservazione dei valori giuridici che, fissato dall'art. 1367 c.c. sulla interpretazione della fattispecie concreta, non può non valere, come principio generale, anche per la valutazione aprioristica della fattispecie astratta.

Ora, a questa stregua, non può non rilevarsi come la partecipazione di solo alcuni dei legittimari può comportare, di per sé, una sanzione minore, e cioè quella della inopponibilità del negozio a quelli non partecipanti. Essi ovviamente non perderebbero la possibilità, nel futuro, di esperire l'azione di riduzione e di chiedere la collazione. In questo modo, certo, il patto avrà una stabilità minore, più ridotta, ma non si vede perché, alla luce dei richiamati principi, non possa rimanere valido comunque, anche se successivamente sarà impugnabile dai legittimari dissenzienti che tali rimanessero al momento della successione. L'alternativa sarebbe di considerarlo travolto da una nullità originaria e radicale. Ma questo non sembra logico. Tanto più che il quarto comma dell'art. 768-quater prevede la possibilità di un'integrazione successiva, con un contratto collegato, dell'assegnazione non disposta contestualmente di beni o di obbligazioni. è vero che tale integrazione richiede la partecipazione di tutte le parti originarie, e quindi contempla una ipotesi diversa, sul piano dei contenuti e non delle parti, ma resta pur sempre il fatto che si prevede un completamento posteriore della fattispecie e quindi di una specie di sanatoria di un contratto di per sé originariamente nullo. Questo in base al principio per cui utile per inutile non vitiatur che, se affermato per un contratto monco di una parte essenziale del contenuto, non può non valere anche per uno al quale non abbia preso parte qualche soggetto.

A questo argomento se ne può aggiungere un altro, più letterale, ma che va nella medesima ratio legis. L'art. 768-quater, primo comma, non dice che "debbono essere parti del contratto tutti i virtuali legittimari", come la corretta terminologia giuridica richiederebbe, ma che essi "debbono partecipare al contratto". Ora, il verbo "partecipare" può significare non necessariamente che essi devono essere parti, ma piuttosto che è sufficiente che essi siano resi partecipi dell'operazione. In altri termini, che l'invito a concludere il contratto deve essere rivolto a tutti, salva poi la decisione di ognuno di prendervi parte o meno. Anche in diritto pubblico la cosiddetta "partecipazione" si sostanzia in un'attività strumentale di notizia e di invito, tutt'al più di presenza, non richiedendosi necessariamente il consenso di tutti i notiziati. In questo modo anche la stranezza della terminologia può essere utile a ricostruire più correttamente un istituto.

Non può, viceversa, a questo proposito, invocarsi la norma che prevede la posizione dei legittimari non partecipanti dell'art. 768-sexies. Questi sono chiaramente quelli sopravvenuti successivamente, che non esistevano al momento del patto, per i quali per ciò stesso si giustifica un trattamento deteriore rispetto a quelli originari. Pretendere addirittura che i virtuali legittimari dissenzienti siano trattati alla stessa stregua, costringendoli ad una liquidazione commisurata al momento del patto e privandoli quindi dell'azione di riduzione e della collazione, significa fare violenza alla loro volontà ed ai loro diritti. Insomma: i legittimari non aderenti avevano in quel momento diritto ad un altro trattamento giuridico. Non li si può dunque privare dei loro diritti, costringendoli ad un trattamento ex lege oltretutto deteriore rispetto a quello iniziale.

Riguardo alle parti contraenti può porsi un ulteriore problema e cioè se le somme o i beni da conferire agli assegnatari possano essere pagati dallo stesso disponente. Ciò viene comunemente ammesso, ricostruendo questa specifica vicenda come un pagamento fatto da un terzo o come un contratto a favore di terzo. A me sembra che, innanzi tutto, ciò debba essere spiegato con il richiamato principio dell'autonomia negoziale, di cui all'art. 1322 c.c. e che poi possa eventualmente ricorrersi alle figure citate per spiegare i meccanismi interni al patto.

Comunque, però, le somme pagate agli assegnatari dal disponente andranno calcolate in conto di legittima per essi: tanto più se si considera che l'art. 768-quater, terzo comma, prevede che i beni (e dunque anche le somme) assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti sono imputati alla quota di legittima.

Ci si chiede, a questo punto, se veramente il Patto di famiglia abbia struttura divisionale.

C'è chi lo nega, poiché la divisione non può essere invocata se non c'è una precedente comunione, che nel nostro caso ovviamente manca. C'è chi invece l'ammette, ricordando proprio l'analoga previsione dell'art. 720 o dell'art. 734, e cioè la divisione del testatore. C'è poi chi parla, in questi casi, solo di apporzionamento e non anche di divisione.

A me il problema sembra essere molto nominalistico.

Non c'è dubbio, infatti, che in questi casi le norme della divisione siano applicabili solo se esse non presuppongano lo stato di comunione. Ciò come criterio generale: ma poi bisogna esaminare le singole fattispecie.

Sono stati richiamati anche precedenti storici a questo proposito. Si è così ricordata l'antica "divisio inter liberos" del diritto romano, la "distribution e le partage des biens" fatta dagli ascendenti ai loro discendenti del code Napoléon del 1804, l'analogo istituto del codice civile del 1865, che non fu riproposto nel codice del 1942 in quanto ritenuto ormai inutile, essendo le operazioni relative comunque assoggettate alle regole della donazione o dei testamenti, a secondo dello strumento divisorio adoperato.

è evidente invece che col Patto di famiglia ci troviamo di fronte ad un istituto affatto diverso che ha il suo fulcro nella perdita dell'azione di riduzione da parte degli assegnatari consenzienti, e che quindi altera i meccanismi tradizionali, anche quelli divisori.

Bisogna peraltro considerare che la funzione divisoria diviene molto pregnante nell'ipotesi, prima accennata, in cui è il disponente che attribuisce direttamente ai virtuali legittimari il pagamento di somme o l'assegnazione di beni al posto dell'assegnatario.

Questa ipotesi, come detto, dev'essere considerata perfettamente lecita, rientrando nell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322, primo comma, c.c. Aggiungiamo ora che anche in tale evenienza il negozio resta trilatero, anche se il flusso dell'attribuzione patrimoniale si sposta dal rapporto assegnatario/legittimario a quello disponente/legittimario. Ciò in quanto comunque il consenso del legittimario resta essenziale ed oneroso, comportando sempre la perdita della futura azione di riduzione.

Le situazioni giuridiche soggettive

Si è sempre affermato che, prima della successione, i possibili eredi non hanno alcuna situazione giuridica soggettiva, nemmeno quella dell'aspettativa legittima che consiste, come è noto, in una difesa interinale e strumentale dell'interesse attraverso la concessione di azioni tese a non compromettere la possibilità dell'avveramento dell'evento da cui può derivare la nascita del diritto soggettivo. Tipico esempio, la previsione degli atti conservativi in pendenza della condizione (art. 1356, comma 2, c.c.). La coppia delle situazioni viene rinvenuta nel binomio aspettativa/soggezione, così come avviene pure per le vicende dei contratti aleatori.

Non c'è dunque tutela giuridica per il presumibile erede, in quanto il presumibile ereditando può comunque disporre dei suoi beni (salvo i limiti della donazione rispetto alla successiva azione di riduzione) ed anche perché l'erede virtuale potrebbe venire meno prima del suo autore, o divenire indegno, o rinunciare. è solo con l'apertura della successione che si individuano i chiamati all'eredità, con ciò passando da un'aspettativa di fatto ad una di diritto o, addirittura, al diritto soggettivo.

Il nuovo istituto del Patto di famiglia cambia invece il quadro, poiché con esso i futuri, probabili legittimari acquistano immediatamente rilievo giuridico. Difatti essi "devono partecipare" al patto o quanto meno, nella nostra lettura, devono essere invitati a stipulare. Ciò significa che, ove il disponente attui una proposta contrattuale, essi acquistano la "qualità giuridica" (per dirla con Nicolò) di soggetti in ordine non solo alla partecipazione al patto, ma anche alla futura successione. Infatti, se accettano, divengono sì titolari di diritti (di quote, di beni, di crediti) con una vicenda inter vivos; ma nel contempo perdono la possibilità di far valere eventuali futuri diritti attraverso le azioni di riduzione o di collazione. A causa del mutamento della loro condizione, divengono soggetti di situazioni giuridiche.

A ben considerare, è questa una tendenza oramai notevole nell'attuale diritto successorio. Infatti, anche alla stregua dei novellati artt. 561 e 563 c.c., conseguenti alla L. n. 80/05, gli eventuali futuri legittimari devono proporre opposizione alle donazioni effettuate dai loro presumibili, futuri danti causa, entro 20 anni dalle stesse, pena la perdita dell'azione di riduzione. Si introducono, con ciò, delle azioni conservative a tutela di futuri, anche se solo eventuali, diritti, e con ciò stesso si attribuisce a questi legittimari ante litteram la situazione giuridico soggettiva di aspettativa legittima.

Indubbiamente, dunque, il nuovo istituto porta molto scompiglio anche nei dogmi e nelle convinzioni di una parte del codice civile, quella delle successioni, che era rimasta finora indenne da grosse novità, non solo rispetto alla stesura del 1942, ma anche rispetto a principi consolidati di una tradizione secolare e, talvolta, millenaria.

Probabilmente, però, non tutti gli obbiettivi che i promotori della riforma si proponevano possono dirsi conseguiti, soprattutto quelli della stabilità e dell'autonomia della vicenda del Patto di famiglia rispetto alla futura successione.

La stabilità, infatti, può essere messa in discussione non solo dai diritti dei legittimari dissenzienti, che conservano l'azione di riduzione e la collazione, ma anche da quelli sopravvenuti che acquistano il diritto alla legittima anche sull'azienda prima trasferita, ex art. 768-sexies della novella.

L'autonomia, invece, è messa in discussione dal fatto che i pagamenti o i beni traslati agli assegnatari sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti all'apertura della successione. E a maggior ragione bisogna ritenere che, ove gli assegnatari risultino poi anche legittimari, sulle loro quote di legittima va imputata anche l'azienda trasferita. Il dettato normativo in proposito tace, ma non mi sembra che possano esservi altre soluzioni al riguardo.

Se così è, si deve concludere che il Patto di famiglia è da considerare, in termini empirici ma anche giuridici, non già uno stralcio della futura successione, ma solo un'anticipazione di essa. Un'anticipazione non più discutibile al suo interno, ma che incide con tutto il suo peso nei futuri ed eventuali altri rapporti successori che dovranno tener conto di quanto già attribuito, dell'azienda e degli altri beni. Si dovranno dunque considerare due assi ereditari, per così dire: i beni patrimoniali interessati prima con il Patto di famiglia, ed a cui sono state ragguagliate ovviamente anche le quote di legittima virtuale; e quelli esistenti al momento della successione, in cui i beni del patto verranno in evidenza per tutti i rapporti, tranne quelli interni e già definiti col patto che non possono essere rimessi in discussione.

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