Il Patto di Famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali
Il Patto di Famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali
Il Patto di famiglia per l'impresa e la tutela dei legittimari
di Federico Tassinari
Notaio in Imola
Le finalità della normativa
La Legge 14 febbraio 2006, n. 55, pubblicata nella G.U. del 1° marzo 2006, n. 50, ha introdotto nel codice civile i nuovi artt. dal 768-bis al 768-octies, aggiungendo nel titolo IV del libro II un nuovo capo V-bis, rubricato "Del Patto di famiglia".
La L. 55/2006, per la verità, non si è limitata ad introdurre i citati articoli nel codice civile, ma, nel suo art. 1, ha altresì modificato l'art. 458 c.c., in tema di divieto di patti successori, aggiungendo all'interno dell'articolo l'inciso iniziale secondo cui deve essere «fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti».
La lettera della legge, in tale modo, si collega con le risultanze dei lavori preparatori, tutti orientati a configurare il nuovo istituto come una deroga al divieto dei patti successori.
L'idea stessa dei Patti di famiglia nasce in Italia, infatti, nella seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, sulla scia di una raccomandazione della Commissione dell'Unione europea del 7 dicembre 1994 [nota 1], seguita da una ulteriore comunicazione della stessa Commissione di quattro anni successiva [nota 2], specificamente dedicata a favorire - attraverso il superamento del divieto dei patti successori o, quantomeno, attraverso la previsione, accanto a tale divieto, di una disciplina specifica e più permissiva nei confronti dell'autonomia privata concernente l'impresa - il passaggio generazionale nell'ambito delle imprese di tipo familiare, soprattutto se di piccola o media dimensione secondo i parametri comunitari.
In Italia, più precisamente, l'iniziativa legislativa ha preso corpo, durante la XIII legislatura, a seguito, oltre che della predetta sollecitazione comunitaria, di un convegno di studi tenutosi a Macerata il 24 marzo 1997, in collaborazione tra il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, il Consiglio Nazionale del Notariato ed il Gruppo di ricerca del Consiglio Nazionale delle ricerche sulla successione ereditaria dei beni produttivi, coordinato da Pietro Rescigno ed Antonio Masi.
La legge 55/2006 conclude così, nella consapevolezza della rilevanza particolare del problema nel panorama imprenditoriale italiano [nota 3] e con una accelerazione finale dovuta all'imminente scadenza di legislatura, un lungo iter parlamentare del provvedimento, iniziato nel 1997, [nota 4] interrottosi in occasione della riforma del diritto societario, e ripreso a seguito della definitiva approvazione di quest'ultima e del conseguente stralcio dall'originario progetto di quella parte relativa alla circolazione delle partecipazioni sociali, ora confluita, peraltro con un certo annacquamento dell'originaria impostazione ed assumendo i connotati di una più sfumata deroga alla disciplina successoria, nel nuovo disposto dell'art. 2355-bis comma 3 c.c. (in tema di limiti alla circolazione per causa di morte delle azioni) e dell'art. 2469 comma 2 c.c. (in tema di limiti alla circolazione per causa di morte delle partecipazioni di Srl).
La ripresa dell'iniziativa legislativa nell'ambito della XIV legislatura ha peraltro determinato uno scostamento significativo rispetto all'impostazione originaria degli anni novanta, soprattutto attraverso la previsione secondo cui anche le partecipazioni sociali possono, oltre all'azienda, costituire oggetto di Patto di famiglia.
Al di là dunque della complessità dell'iter formativo della legge, e della consapevole imperfezione tecnica, nonostante il lungo tempo trascorso, del testo finale licenziato, per il quale già i lavori preparatori hanno auspicato che vi sia margine per una appagante sistemazione del dettato legislativo da parte dell'interprete, [nota 5] occorre sottolineare:
a. da un lato, che la finalità del Patto di famiglia risiede nell'auspicio di favorire, tramite tale nuovo istituto, e rispetto a quanto accadeva alla luce dei principi e degli spazi riconosciuti all'autonomia privata prima della L. 55/2006, il passaggio generazionale delle imprese di tipo familiare; [nota 6]
b. dall'altro, che l'istituto giuridico che viene evocato come ostacolo per raggiungere l'obiettivo è individuato nel divieto di patti successori, presente, con deroghe più o meno significative a seconda dei casi, nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati membri dell'Unione europea. [nota 7]
Entrata in vigore la nuova normativa, entrambe le affermazioni meritano una prima verifica più approfondita.
Tra esse sembra infatti mancare nesso di causalità, sembra esservi uno scarto che impedisce di valutare la rimozione o l'attenuazione del divieto dei patti successori in termini di causa idonea a garantire l'auspicato effetto di favorire il passaggio generazionale in questione.
L'obiettivo di favorire il passaggio generazionale delle imprese di tipo familiare, costituite sia in forma individuale sia in forma societaria, sembra infatti incontrare ostacoli non solo e non tanto nel divieto dei patti successori, o meglio nei tre autonomi divieti sanciti dall'art. 458 c.c., ma anche e soprattutto, limitandosi ai profili di diritto privato, nel complessivo assetto del libro secondo del codice civile, ed in particolare nelle norme poste a tutela dei legittimari e nel principio di unitarietà della successione con riferimento al momento di apertura della stessa, secondo cui ogni valutazione in ordine ai successibili, ed ai conteggi a vario titolo dovuti per definire tra questi il procedimento successorio e divisionale, si riferisce necessariamente al momento di apertura della successione, dovendosi considerare con riferimento a questa data anche il valore di tutti i beni che sono stati donati direttamente o indirettamente in vita dal de cuius.
L'ostacolo per una piena realizzazione dell'obiettivo del passaggio generazionale delle imprese risiede dunque in un complesso di norme ed istituti successori, del quale i divieti di cui all'art. 458 c.c. costituiscono una sola parte, per di più scarsamente significativa.
L'imprenditore che intende trasferire la propria azienda o la propria partecipazione sociale ad uno o più discendenti prima dell'apertura della successione e con effetti immediati, o comunque non collegati alla propria morte, [nota 8] infatti:
- non trova ostacolo nel divieto di disporre mortis causa con strumenti diversi rispetto al testamento (divieto dei patti successori istitutivi), essendo il proprio specifico interesse quello, appunto, di disporre immediatamente;
- non trova ostacolo nel divieto che i propri familiari dispongano dei beni che costituiranno oggetto della futura successione di esso imprenditore (divieto dei patti successori dispositivi), in quanto è lui stesso l'artefice di ogni atto dispositivo destinato alle predette finalità;
- non trova ostacolo, infine - pure dovendosi ammettere che quest'ultimo divieto, nella modalità, stabilita dall'art. 557 comma 2 c.c., del divieto di rinunciare all'azione di riduzione finché è in vita il donante, è, tra i tre divieti dell'art. 458 c.c., quello che più può penalizzare l'interesse al vaglio - nel divieto che i familiari di esso imprenditore rinuncino ai diritti che potranno derivare loro, in quanto legittimari, sulla futura successione (divieto dei patti successori rinunciativi): l'intenzione dell'imprenditore, invero, non è, il più delle volte, quella di togliere agli altri, bensì quella, concettualmente autonoma seppure fonte a posteriori di possibili disparità di trattamento tra i successibili ed anche di possibili lesioni della legittima, laddove almeno il bene produttivo rappresenti la parte preponderante del patrimonio dell'imprenditore, di garantire la stabilità dell'azienda trasferita alla generazione successiva.
Come bene è stato detto, [nota 9] ogni intervento legislativo funzionale all'obiettivo dichiarato, deve consentire, in primo luogo di preservare il bene produttivo da rischi di frazionamento o disgregazione, in secondo luogo di fornire l'univocità del controllo (perché un pieno passaggio generazionale si può dire compiuto solo quando la generazione più giovane ha acquisito sia la proprietà sia la gestione), in terzo luogo di anticipare in vita il trasferimento dell'impresa.
I primi due obiettivi sono neutri rispetto ai tre divieti di cui all'art. 458 c.c., trattandosi di finalità suscettibili di essere realizzate a prescindere dall'esistenza dei medesimi.
Il terzo obiettivo è invece estraneo al divieto dei patti successori istitutivi, in quanto l'interesse in gioco può realizzarsi esclusivamente mediante stipulazione di atti tra vivi, e neutro rispetto agli altri due divieti.
Non vi è alcun dubbio infatti, ne risulta che tale conclusione sia stata posta in discussione da alcuno dei primi commentatori, che il Patto di famiglia regolato dagli artt. 768-bis ss. c.c. contempli un negozio immediatamente traslativo del bene produttivo (salvo il ricorso, nei limiti in cui ciò è consentito in base ai principi, agli "elementi accidentali" della condizione sospensiva e del termine iniziale), perché il carattere immediato di tale trasferimento emerge chiaramente, oltre che dall'anzidetta finalità della normativa, dalla definizione dell'art. 768-bis c.c., soprattutto se confrontata con la definizione di testamento di cui all'art. 587 c.c. (ove si fa espresso riferimento alla volontà del testatore di disporre "per il tempo in cui avrà cessato di vivere"), nonché dalla disciplina contenuta nei successivi articoli, soprattutto laddove si ipotizza una liquidazione parimenti immediata dei partecipanti (art. 768-quater comma 2 c.c.) oppure un'impugnativa del contratto con l'imprenditore ancora in vita (art. 768-quinquies comma 1 c.c.).
Le anzidette caratteristiche fanno quindi del Patto di famiglia un contratto tra vivi e non un contratto per causa di morte. [nota 10]
Conseguentemente, la stipulazione del Patto di famiglia sarà concorrenziale, come si cercherà di illustrare in seguito, non allo strumento testamentario, bensì allo strumento donativo.
Ma se, così stando le cose, il Patto di famiglia determina un trasferimento immediato del bene produttivo a favore del discendente, del tutto svincolato dalla morte dell'imprenditore disponente, anche la rinuncia ai propri diritti da parte di «coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore», come recita l'art. 768-quater comma 1 c.c., appare estranea al divieto dei patti successori rinunciativi di cui all'art. 458 c.c. (ed all'art. 557 comma 2 c.c.), in quanto con tale rinuncia ci si priva di un diritto che l'ordinamento riconosce, a sua volta, immediatamente, quale effetto necessario ed in senso lato divisionale, come si vedrà, della conclusione del Patto di famiglia, e che non risulta collegato in alcun modo, come deve invece essere, per definizione, per qualsiasi patto successorio rinunciativo, con la futura apertura di una successione. [nota 11]
Ne deriva, come è già stato osservato da alcuni primi commentatori, [nota 12] che la prospettiva di leggere l'intero istituto come una deroga al divieto dei patti successori appare, nonostante la formulazione dell'art. 1 della L. 55/2006, fuori luogo per quanto concerne il divieto sia dei patti successori istitutivi, sia dei patti successori rinunciativi, [nota 13] e sostenibile solo a costo di alcune forzature per quanto riguarda il divieto dei patti successori dispositivi.
La tradizionale lettura del Patto di famiglia, durante i lavori preparatori, in collegamento con il divieto dei patti successori, che ha determinato la citata modificazione del testo dell'art. 458 c.c., deve essere allora valutata con riferimento non alla nozione di patto successorio che viene poi fatta oggetto dei tre specifici divieti, ma, in senso più ampio e descrittivo, con riferimento a tutte quelle fattispecie negoziali diverse dal testamento che sono idonee a disciplinare, anche anticipatamente rispetto alla morte, come appunto avviene in questo caso, una vicenda successoria.
Il nuovo istituto, allora, deve fare i conti con l'intero libro secondo del codice civile, andando al di là dell'art. 458 c.c. e del divieto dei patti successori.
Posta questa premessa, la ricerca deve partire dalla ricognizione delle difficoltà che il passaggio generazionale dell'azienda o della partecipazione sociale mediante atto tra vivi, a titolo di donazione, incontrava prima della L. 55/2006, per valutare quindi quali di tali difficoltà risultano superate dalla nuova normativa e quali difficoltà, invece, tuttora permangono.
Con il contratto di donazione ex artt. 769 e ss. c.c., che resta tuttora, pacificamente, [nota 14] uno strumento in ogni caso a disposizione dell'imprenditore, questi può realizzare due obiettivi fondamentali, ovvero quello di trasferire immediatamente ai propri discendenti l'azienda o la partecipazione sociale nel suo complesso («compatibilmente - come recita anche l'art. 768-bis c.c. in tema di Patti di famiglia - con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie» [nota 15], e quello di scegliere tra i discendenti medesimi colui o coloro che sono ritenuti più idonei a subentrare nella titolarità del bene produttivo e nell'esercizio dell'impresa.
Grazie ad alcune delle nuove norme introdotte con la riforma del diritto societario, inoltre, l'imprenditore donante può altresì mettere a punto, nell'ipotesi di partecipazione sociale, gli strumenti più idonei per garantire, secondo l'espressione sopra utilizzata, l'univocità del controllo. [nota 16]
Il contratto di donazione, invece, non è idoneo a realizzare il primo obiettivo sopra dichiarato, cioè quello di garantire la stabilità dell'azienda o della partecipazione sociale acquistata dal discendente subentrante a seguito dell'apertura della successione del donante, per l'accennata interferenza che si verifica con gli istituti successori.
A seguito dell'apertura della successione, in particolare, ciascun legittimario potrà agire contro i discendenti donatari a titolo di riduzione e ciascun coerede familiare, sia coniuge o discendente, potrà pretendere, salvo dispensa ex art. 737 c.c., operante peraltro soltanto nei limiti della quota disponibile, che della donazione d'azienda si tenga conto nelle operazioni e nei conteggi della futura divisione ereditaria.
L'ostacolo che si frappone tra l'imprenditore e la completa realizzazione, tramite donazione, del passaggio generazionale d'impresa a favore di uno o più dei propri discendenti non è dunque costituito dal divieto dei patti successori, bensì dalla disciplina dei legittimari, ed in particolare dalla soggezione del donatario all'azione di riduzione ed alla collazione ereditaria, che impongono, entrambe, di considerare il valore del bene donato con riferimento al momento dell'apertura della successione, con la complicazione, trattandosi di azienda o di partecipazione sociale, dell'incertezza e delle controversie che potrebbero sorgere in ordine alla definitiva attribuzione di quest'ultimo valore e, per di più, della difficoltà, non solo in termini di fatto, ma anche in termini di diritto, come conferma la dottrina occupatasi del tema specifico della collazione di azienda, [nota 17] di discernere quale parte dell'eventuale maggior valore debba essere computata, in quanto creatasi a prescindere dal ruolo svolto dal discendente subentrato nella guida dell'impresa, e quale parte invece non debba essere computata, essendo riconducibile unicamente a quest'ultima gestione.
Lo stesso divieto dei patti successori rinunciativi interferisce con il problema al vaglio soltanto relativamente al divieto, sancito autonomamente dall'art. 557 comma 2 c.c., e collocato, non a caso, nel capo dedicato ai legittimari, di rinunciare, finché è in vita il donante, all'eventuale azione di riduzione che un determinato soggetto, in quanto legittimario al momento dell'apertura della successione, potrà esercitare nei confronti di una o più donazioni.
La L. 55/2006 ha dunque cercato di ovviare a queste ultime difficoltà, senza determinare rivoluzioni nella disciplina dei legittimari, che resta applicabile senza alcuna variazione alla restante parte del patrimonio dell'imprenditore, oltre che alle aziende ed alle partecipazioni sociali per le quali non siano stati stipulati Patti di famiglia.
Il problema principale del Patto di famiglia, così ricostruita in maniera più puntuale la finalità della legge, consiste pertanto nello stabilire quali deroghe il legislatore abbia previsto, per i beni produttivi oggetto del patto, alle regole di diritto comune concernenti la tutela dei legittimari, partendo dalla norma centrale dell'istituto, da rinvenirsi, poste queste premesse, nell'art. 768-quater comma 4 c.c. («quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione»).
La trattazione, conseguentemente, dovrà procedere ad individuare in primo luogo il meccanismo tecnico che ha consentito al legislatore di disinnescare, per i beni produttivi oggetto di Patto di famiglia, la tutela ordinaria dei legittimari, stabilendone modalità e limiti e risalendo, se così si può dire, ai relativi presupposti, di carattere sia oggettivo sia soggettivo (cfr. 3°-4°-5° par.), per indirizzarsi quindi, raggiunte alcune prime conclusioni, alla ricognizione di tutte le varianti che il legislatore ha previsto, formulando proposizioni legislative per la verità un po' epigrammatiche, a favore dell'autonomia privata del disponente, degli assegnatari e degli altri beneficiari del patto (cfr. 6°-7° par.).
Prima di procedere in tale direzione, sembra però necessario soffermasi ancora sulle finalità perseguite dal legislatore, al fine, questa volta, di chiarire se la garanzia della stabilità del passaggio generazionale di beni produttivi, a fronte dei diritti riconosciuti dopo l'apertura della successione in favore dei legittimari, sia l'unica ratio del nuovo istituto, oppure se, accanto a tale finalità, debba individuarsi una seconda finalità, già emersa in altri interventi legislativi, soprattutto nel settore del diritto agrario, [nota 18] genericamente coincidente con la tutela del bene produttivo dal rischio di disgregazioni collegate alla pluralità di successibili, e quindi dal rischio che tale pericolo scoraggi gli investimenti di capitale nell'impresa oppure, come rovescio di tale medaglia, incoraggi, attraverso la divisione ereditaria, i disinvestimenti.
…(segue) tutela della stabilità del bene produttivo e tutela dal rischio di disgregazione del bene produttivo a seguito dell'apertura della successione
Ad alcuni dei primi commentatori [nota 19] non è parso coerente, stante il rischio di spianare in tale modo la strada a comportamenti elusivi, quando non apertamente in frode alle ragioni dei legittimari, che oggetto del Patto di famiglia possa essere, oltre all'azienda in tutto o in parte, [nota 20] anche una partecipazione sociale, senza ulteriori distinzioni.
Se così fosse, infatti, qualsiasi bene di qualsiasi persona potrebbe divenire oggetto di un Patto di famiglia, previo conferimento del medesimo in una società appositamente creata, a prescindere dall'esercizio di qualsiasi attività economica e, quindi, da ogni esigenza di garantire la stabilità di un'impresa economicamente attiva.
Per contrastare questo temuto abuso, si è partiti dal rilievo che, dal lessico legislativo, non è possibile individuare precisi limiti che consentano di distinguere tra i vari tipi di partecipazione sociale.
Si è, più precisamente, ritenuto:
· in primo luogo, che non si possa escludere che oggetto di Patto di famiglia siano azioni (o, per enfatizzare la natura di bene produttivo, "pacchetti azionari"), facendo leva sulla circostanza che l'art. 768-bis comma 1 c.c. parla, nell'inciso finale, di "quote", dal momento che tale espressione - il cui impiego può spiegarsi con la mera esigenza di una variazione lessicale finalizzata a non ripetere due volte nello stesso periodo la parola "partecipazioni" - deve ormai intendersi, dopo la riforma del diritto societario, come genericamente riferibile ad ogni partecipazione sociale, ivi comprese le azioni [nota 21];
· in secondo luogo, che non si possa selezionare, tra i diversi tipi di partecipazione sociale astrattamente ipotizzabili, a seconda che il relativo titolare possa o meno definirsi "imprenditore", dal momento che l'attribuzione di quest'ultima qualifica, desumibile da due specifici richiami legislativi nell'art. 768-quater comma 1 e nell'art. 768-sexies comma 1 c.c., ove intesa in senso tecnico (giuridico), spiazzerebbe in maniera del tutto ingiustificata tutti gli imprenditori (intesi in senso descrittivo e non giuridico) che svolgono l'attività di impresa sotto forma di società per azioni (o in accomandita per azioni), per i quali la finalità individuata nel precedente paragrafo ricorre in maniera particolarmente evidente.
Alla luce di tali considerazioni, prendendo atto, quindi, dell'impossibilità di erigere barriere di tipo strutturale escludendo tutte le partecipazioni azionarie o tutte le partecipazioni che non comportano riconoscimento in capo al titolare della veste di imprenditore ex art. 2082 c.c., si è cercato [nota 22] di arginare il predetto temuto impiego fraudolento richiedendo che colui che dispone di una (qualsiasi) partecipazione sociale con Patto di famiglia sia necessariamente soggetto che è in grado di gestire l'impresa, vuoi perché socio di controllo, vuoi perché unico accomandatario, oppure socio di Srl titolare di uno specifico diritto particolare concernente l'amministrazione ex art. 2468 comma 3 c.c., oppure perché ricorrono altre circostanze concrete che consentono comunque di riconoscere in capo a quel titolare una posizione gestoria rilevante all'interno della società.
L'interpretazione restrittiva così proposta sarebbe fondata sulla ratio del nuovo istituto, consistente, come accennato, nel garantire la stabilità dell'impresa a seguito del passaggio generazionale; ratio che, a sua volta, postulerebbe necessariamente che vi sia in capo al titolare, in atto o anche solo in potenza (si pensi - pure trattandosi di ipotesi un po' astratta nel panorama societario italiano - al socio di controllo che non riveste egli stesso né sceglie lui direttamente gli amministratori), un potere di gestione dell'impresa, dal momento che chi non può "gestire", per fortuna, non può neppure "destabilizzare".
Tale lettura restrittiva, fondata sullo scopo della norma, appare corretta solo ad una specifica condizione: che l'esigenza di stabilizzare il passaggio generazionale dell'impresa sia l'unica ratio del nuovo istituto e, in particolare, che a tale ratio non se ne debbano affiancare altre idonee a svolgere un ruolo anche con riferimento alle partecipazioni sociali non collegate alla gestione d'impresa.
Per avallare la lettura restrittiva testé riferita, si tratterebbe, più precisamente, di escludere che si possa individuare nel nuovo istituto una funzione ulteriore rispetto a quella comunemente condivisa da cui si è partiti.
In dottrina [nota 23], si è però rilevato, al fine di escludere il fondamento della tesi restrittiva al vaglio, che la deroga al diritto comune delle successioni che consegue alla stipulazione di un Patto di famiglia può svolgere un ruolo utile per le imprese, e quindi per l'intero mercato, anche laddove si consideri che la vicenda successoria, ove non sia governata in via preventiva con un atto di autonomia privata, può aumentare, per la pluralità e scarsa omogeneità dei successibili, per il mancato interesse di qualcuno di essi all'attività di impresa, o per altre ragioni contingenti, il rischio di disinvestimento da parte del titolare della partecipazione sociale (o dell'azienda), con conseguente diminuzione del capitale destinato a fini produttivi.
Se il nuovo istituto può essere definito non Patto di famiglia tout court, ma Patto di famiglia per l'impresa, come sostenuto nei primi convegni dedicati ad esso, l'esigenza di tutelare attraverso il trasferimento a discendenti opportunamente scelti, ex artt. 768-bis e ss. c.c., l'integrità di partecipazioni sociali che non possono in alcun modo garantire in capo al relativo titolare la gestione dell'impresa non appare incompatibile con le finalità dell'istituto.
Tali finalità assumono così una connotazione pubblicistica, guardando non alla stabilità della gestione dell'impresa a seguito del passaggio generazionale come un fine in sé, ma come un elemento utile, al pari di altri, al fine di favorire la crescita e la competitività delle imprese, in qualsiasi forma esercitate [nota 24].
In tale ottica, si dovrebbe così porre tra le finalità dell'istituto anche l'esigenza di evitare che la vicenda successoria di qualsiasi socio, anche non di controllo, possa favorire, per il gioco della tutela dei legittimari e delle operazioni divisionali, forme di disinvestimento e, quindi, ed in ultima istanza, di disgregazione del complesso produttivo.
L'impossibilità di escludere tale più ampia ratio esce rafforzata laddove si rifletta sulla circostanza che, in assenza di una connotazione pubblicistica dell'interesse tutelato, che solo il collegamento con le esigenze della crescita delle imprese e quindi dell'intero mercato sembra garantire, risulterebbe veramente difficile comprendere da un lato perché il bene produttivo (azienda e partecipazione sociale) meriti un trattamento differenziato rispetto al restante patrimonio dell'imprenditore, dall'altro perché i discendenti assegnatari del bene produttivo stesso, finché si contrappongono tra loro interessi meramente individuali, debbano fruire di una posizione privilegiata rispetto agli altri legittimari.
Garantire la stabilità dell'impresa a seguito del passaggio generazionale significa dunque, in definitiva, favorire ogni assetto familiare che consenta di evitare o rendere comunque più difficile che, apertasi la successione, il bene produttivo che ha costituito oggetto del Patto di famiglia sia trascinato nelle vicende successorie secondo le regole del diritto comune, che, improntate ad una logica individualistica, porterebbero spesso alla disgregazione del complesso produttivo di impresa, e ciò a prescindere dal fatto che tali vicende riguardino un socio di controllo oppure un socio di minoranza.
Il Patto di famiglia, in questa più precisa ottica, costituisce un episodio tardivo di quella commercializzazione del diritto privato che caratterizzò profondamente, nella forma come nella sostanza, la codificazione italiana del 1942.
L'unico elemento che sembra in ogni caso necessario, ove si condivida la ratio dell'istituto così proposta, è dato dall'esistenza effettiva, in capo alla società le cui partecipazioni sociali siano oggetto di un Patto di famiglia, di un'attività di impresa, sorgendo fondati dubbi circa la praticabilità dell'istituto, e quindi circa la validità del relativo atto, conformemente del resto ad un'opinione che sembra dominante tra i primi commentatori [nota 25], tutte le volte in cui la società presenta caratteristiche di c.d. società di mero godimento.
Rilievo, quest'ultimo, che, indipendentemente dal fatto che la conclusione venga fondata sull'istituto della frode alla legge di cui all'art. 1344 c.c. oppure direttamente sull'interpretazione (restrittiva) dell'art. 768-bis c.c., appare idoneo a contrastare efficacemente, seppure rimettendo in capo al Notaio incaricato di redigere l'atto valutazioni delicate e spesso difficili, ogni possibile impiego elusivo per la finalità prospettata all'inizio del paragrafo [nota 26].
Il meccanismo tecnico che ha consentito al legislatore di disinnescare, per i beni produttivi oggetto di Patto di famiglia, la tutela ordinaria dei legittimari
Norma centrale del nuovo istituto, si è già detto, è l'art. 768-quater comma 4 c.c., secondo cui, una volta apertasi la successione dell'imprenditore, «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione».
La norma solleva innanzitutto un problema di tipo esegetico, dovendosi stabilire se la definizione di "contraenti" si riferisca soltanto ai discendenti assegnatari (o anche al singolo discendente assegnatario) del bene produttivo che acquista direttamente dall'imprenditore disponente oppure, anche, agli altri soggetti che partecipano al patto, correttamente qualificati dal legislatore, nell'art. 768-quater comma 1 c.c., come «coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore».
Nel primo caso, la deroga al diritto successorio comune sarebbe limitata al bene produttivo, mentre nel secondo essa si estenderebbe anche alla liquidazione disposta a favore dei soggetti partecipanti al patto diversi dal discendente assegnatario del primo bene.
Il significato che deve essere attribuito al termine "contraenti" presuppone che sia chiarita la struttura del contratto disciplinato negli artt. 768-bis e ss. c.c. .
I primi commentatori, invero, appaiono sul punto divisi tra una lettura estensiva (o, avuto riguardo al fatto che le nuova normativa disciplinerebbe un unico negozio normalmente plurilaterale, unitaria) ed una lettura restrittiva (o, avuto riguardo al fatto che le nuova normativa disciplinerebbe più negozi tra loro autonomi, atomistica).
Secondo la lettura estensiva-unitaria, sostenuta dalla maggioranza dei commentatori [nota 27], fondata - più che sulla definizione dell'art. 768-bis c.c., che di per sé evocherebbe l'idea un contratto bilaterale riguardante soltanto l'imprenditore disponente ed il discendente assegnatario - sul complesso delle disposizioni di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c., ogni conclusione che negasse ai "legittimari" non assegnatari la veste di formale parte contraente del Patto di famiglia si porrebbe in contrasto, oltre che con la perentoria formulazione dell'art. 768-quater comma 1 c.c., che impiega, riferendosi ad essi, l'espressione "devono partecipare", con la volontà del legislatore di sacrificare l'interesse dei legittimari nei soli e ristretti limiti in cui ciò è necessario per garantire l'obiettivo del passaggio generazionale, consentendo comunque ai medesimi di fruire della liquidazione di cui all'art. 768-quater comma 2 c.c. («gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura»).
Il meccanismo prescelto dal legislatore consisterebbe, secondo questa prima impostazione, nel realizzare per il bene produttivo una successione anticipata, destinata a coinvolgere, come la successione vera e propria, tutti i "legittimari".
Tale successione anticipata, dovrebbe però fare i conti, al momento della morte dell'imprenditore, con l'eventualità che siano venuti ad esistenza, per la nascita di ulteriori figli o per la costituzione del rapporto di filiazione a seguito del riconoscimento di un figlio naturale, oppure per l'insorgenza di un nuovo rapporto di coniugio, oppure per il decesso o comunque il mancato acquisto dell'eredità di un discendente ed il subentro in luogo del medesimo (per un titolo però diverso dalla rappresentazione: cfr., infatti, art. 740 c.c. in tema di collazione, ritenuto altresì applicabile in caso di azione di riduzione) di altro discendente non partecipante al patto, ulteriori soggetti che, non avendo partecipato al Patto di famiglia, devono comunque essere tutelati stante la loro veste di legittimari.
Per questi ultimi, più precisamente, e - bisogna aggiungere - solo per questi ultimi, il legislatore avrebbe dettato l'art. 768-sexies c.c., che riconosce a ciascuno di tali soggetti, a titolo di liquidazione della propria quota di legittima sul bene produttivo a suo tempo oggetto di Patto di famiglia, il diritto di rimettere in gioco il Patto di famiglia e di «chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali».
Dal combinato disposto degli artt. 768-quater comma 1 e 768-sexies comma 1 c.c., si ricaverebbe, sempre nella medesima ottica, che sono terzi ai sensi di quest'ultima norma tutti coloro che sono legittimari al momento di apertura della successione dell'imprenditore e non sono compresi nella definizione data dalla prima norma.
La distinzione tra le due categorie risulterebbe così scolpita in maniera netta e non sovrapponibile, senza alcuna possibilità in particolare che scelte di autonomia privata (ti escludiamo volotariamente dal Patto di famiglia) o stati soggettivi di disponente ed assegnatari (non sapevamo o non ricordavamo che esisteva anche quel figlio naturale riconosciuto, o che il rapporto di coniugio non era ancora cessato) consentano di ascrivere alla nozione di terzi di cui all'art. 768-sexies c.c. soggetti rientranti comunque nella definizione dell'art. 768-quater.
Secondo una diversa lettura, di tipo invece restrittivo-atomistico, proposta in maniera assai argomentata da alcuni commentatori [nota 28], solo l'imprenditore disponente ed i discendenti assegnatari sarebbero parti del Patto di famiglia, e quindi contraenti ai sensi dell'art. 768-quater comma 4 c.c. al vaglio [nota 29].
La tesi viene argomentata sul piano logico, riconoscendosi innanzitutto che, nonostante l'argomento favorevole che la definizione dell'art. 768-bis c.c. potrebbe in sé suggerire, non mancano altre norme che indurrebbero piuttosto a preferire, stando sempre al solo dato letterale, la conclusione opposta (es. l'art. 768-quater comma 1 c.c., o anche lo stesso citato art. 768-quater comma 4 c.c., che - per ammissione degli stessi sostenitori di tale impostazione - non avrebbe senso limitare ai soli discendenti assegnatari e non anche agli altri familiari liquidati).
Se si vuole garantire una soluzione razionale ed efficiente del passaggio generazionale del bene produttivo, sostengono gli autori citati, occorre comunque togliere peso ai familiari diversi dai discendenti prescelti per l'assegnazione: comunque si interpretino gli artt. 768-bis ss. c.c., non vi è dubbio che, quantomeno per il disposto dell'art. 768-sexies c.c., il legislatore abbia intrapreso quest'ultima via.
Più precisamente, la razionalità (ma anche l'efficienza) della soluzione proposta consisterebbe nel permettere a disponente ed assegnatari del bene produttivo di sfuggire ad un eventuale rifiuto, o comunque richiesta di un prezzo ingiustificatamente elevato, del singolo familiare non assegnatario, nella convinzione che ogni interpretazione che ravvisi nella partecipazione di quest'ultimo al patto, quale soggetto contraente, un indefettibile requisito di validità del medesimo imporrebbe spesso ai discendenti prescelti di pagare un prezzo derivante dall'arbitrio del singolo e confliggente, per definizione, con la stabilità (ma anche l'efficienza) dell'impresa, e quindi in grado di depotenziare in maniera significativa, e spesso anche di frustrare completamente, le ragioni della riforma.
A tale inconveniente si sarebbe potuto sfuggire solo prevedendo una sorta di liquidazione coattiva di tali familiari sulla base di una valutazione esterna e cogente del bene produttivo oggetto di Patto di famiglia eseguita da un terzo imparziale, secondo un meccanismo che, peraltro, il legislatore, per la grave compressione dell'autonomia privata che comunque ne deriverebbe in capo a tutti i soggetti coinvolti, e che quindi, per altra via, finirebbe per minare alla radice, a sua volta, il successo dell'istituto, non ha inteso introdurre nel dettato legislativo.
L'espressione «devono partecipare» contenuta nell'art. 768-quater comma 1 c.c. dovrebbe pertanto, se si vuole sfuggire all'inconveniente prospettato, essere interpretata in modo restrittivo, ritenendo che il legislatore:
· ai fini della validità del patto, si sia comunque accontentato della presenza, quali parti, di imprenditore disponente e discendenti assegnatari, e,
· ai fini della sua opponibilità agli altri familiari aventi diritto di partecipare (salvo, si è precisato, per ciò che attiene alla determinazione del valore), agli effetti di cui all'art. 768-quater c.c., la cui applicazione è essenziale per stabilizzare il trasferimento del bene produttivo davanti alle conseguenze previste dal diritto comune al momento dell'apertura della successione, si sia comunque accontentato che i "legittimari" non assegnatari siano messi in grado - tramite formale invito - di partecipare al patto, secondo un meccanismo, peraltro, già contemplato, a diversi fini, da altre norme del codice civile, e, in particolare, dall'art. 1113 comma 3 c.c., per quanto riguarda l'intervento nel procedimento di divisione dei creditori ipotecari iscritti e di coloro che abbiano acquistato diritti sugli immobili in forza di atti tempestivamente trascritti.
Così sommariamente esposte le due contrapposte tesi, la prosecuzione del percorso argomentativo ipotizzato richiede che ci si soffermi su questo primo punto critico, al fine di offrire ulteriori argomenti per optare, in maniera sufficientemente solida, per una di esse.
…(segue) il Patto di famiglia produce un effetto complesso ed è concepito dal legislatore come contratto con funzione divisoria in senso lato, del quale tutti coloro che sarebbero in quel momento legittimari sono necessariamente parte
Bisogna ammettere che la scelta tra le due tesi difficilmente potrà fondarsi su argomenti inconfutabili.
Essa, piuttosto, sarà fondata, almeno in parte, sulla sensibilità dell'interprete che, di fronte alla laconicità e talvolta incoerenza del dettato legislativo, sarà portato a ricorrere a paradigmi interpretativi di carattere generale, quali la natura eccezionale o meno dell'intero istituto e delle sue singole norme, oppure a valutazioni inevitabilmente legate alla propria sensibilità personale, quali la prevalenza delle esigenze della tutela dei legittimari rispetto all'esigenza di garantire il passaggio generazionale (oppure, anche argomentando dal diritto comunitario, viceversa).
Ciononostante, sembra possibile addurre, in favore della prima delle tesi sopra prospettate, qualche ulteriore specifico argomento.
A tal fine, tuttavia, appare inevitabile approfondire preliminarmente quali sono i vantaggi che l'istituto necessariamente riconosce al discendente assegnatario al momento della futura apertura della successione dell'imprenditore disponente e, soprattutto, quali sono i contrappesi che il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di prevedere a fronte di tali vantaggi.
Il vantaggio, come già accennato, in forza dell'art. 768-quater comma 4 c.c., è dato dall'esclusione per il bene produttivo oggetto di Patto di famiglia, della collazione e dell'azione di riduzione al momento in cui si apre la successione.
è certo, grazie a quest'ultima norma, ed anche alla tutela meramente obbligatoria che l'art. 768-sexies c.c. riserva agli altri legittimari che non hanno partecipato al patto, che, salvo il rimedio generale della risoluzione per inadempimento, esteso dall'art. 768-sexies comma 2 c.c. in caso di "inosservanza" dell'obbligo di liquidare i legittimari sopravvenuti al patto, nessuno potrà più, dopo la morte dell'imprenditore disponente, sottrarre il bene all'assegnatario che ne è divenuto titolare con il Patto di famiglia.
Non è tuttavia altrettanto certo, limitandosi al precetto di cui all'art. 768-quater comma 4 c.c., che nessuno potrà più fare valere il valore del bene produttivo e delle liquidazioni eseguite tramite il Patto di famiglia per ottenere compensazioni in denaro o mediante altri beni relativamente all'asse ereditario futuro, secondo il modo di operare proprio della collazione e dell'azione di riduzione.
Per dare all'assegnatario del bene produttivo ed a tutti gli altri partecipanti questa ulteriore importante sicurezza, occorre interpretare la normativa al vaglio in modo tale da ipotizzare che, tra patrimonio oggetto del Patto di famiglia da un lato e residuo patrimonio ereditario al momento dell'apertura della successione, esista una barriera invalicabile in entrambe le direzioni.
Occorre ammettere non solo, come è pacifico, che le sperequazioni eventualmente risultanti dalla futura successione non possano rimettere in discussione le attribuzioni eseguite mediante il Patto di famiglia, ma anche che le sperequazioni eventualmente risultanti da quest'ultimo non possano mettere in discussione le attribuzioni ereditarie finali.
Ovvero, occorre ammettere che i due patrimoni costituiscano due masse completamente autonome tra loro [nota 30], in relazione alle quali gli aventi diritto, e comunque coloro che, al momento di apertura della successione, rivestono la posizione di legittimari, potranno fare valere le proprie ragioni separatamente, escludendosi categoricamente che chi ha ottenuto di meno relativamente al Patto di famiglia, sia questi il "legittimario" partecipante oppure, come si vedrà, lo stesso discendente assegnatario del bene produttivo, possa utilizzare il procedimento successorio per compensare, seppure relativamente ai soli beni ereditari, il proprio svantaggio.
Occorre ammettere, in definitiva, che le due masse siano trattate, per esprimere in maniera semplificata ma icastica il concetto, come se costituissero la successione di due persone diverse.
Quest'ultima affermazione non è supportata direttamente da alcun dato legislativo, perché il disposto dell'art. 768-quater comma 4 c.c. si limita a mettere al riparo il bene produttivo anticipatamente trasferito, e non estende i propri benefici, letteralmente, ai futuri beni ereditari.
Ove tuttavia si volesse negare quest'ultima conseguenza, in nome della permanente attualità (e preminenza) della tutela dei legittimari e del carattere eccezionale dell'intera normativa di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c., tutta condannata ad essere applicata secondo regole di stretta interpretazione, si dovrebbe altresì prendere atto che l'effetto "stabilizzante" del Patto di famiglia si ridurrebbe a poca cosa, in quanto, relativamente alle attribuzioni patrimoniali complessivamente derivanti dal patto, la partita, seppure per i soli beni che costituiranno il futuro asse ereditario, dovrebbe essere considerata comunque aperta fino al momento di apertura della successione, o meglio fino al momento di definizione della successiva divisione ereditaria.
Ne deriverebbe che ciascun familiare dell'imprenditore dovrebbe in ogni caso temere che quei contrasti che il legislatore ha voluto evitare con riferimento al bene produttivo grazie al Patto di famiglia risorgerebbero comunque, rimettendo per di più in gioco il valore del bene produttivo e di ogni altra attribuzione patrimoniale collegata al patto stesso al momento di apertura della successione, seppure al solo scopo di stabilire se spetti a taluno un di più relativamente ai (soli) beni che formano oggetto dell'asse ereditario.
Beni che, però, possono anche essere significativi, e di valore ragguardevole.
Questa conclusione condannerebbe il Patto di famiglia ad un sostanziale insuccesso, perché, come l'esperienza e la sensibilità professionale consentono di sottolineare, toglierebbe a tutti la serenità di ripartire da zero, in condizione di perfetta parità, al momento dell'apertura della successione e, soprattutto, creerebbe una pericolosa attesa del redde rationem, ed anche un altrettanto pericoloso conflitto di interessi tra legittimari in ordine alla consistenza del futuro asse, dal momento che, in ipotesi, solo ove quest'ultimo raggiunga un certo ammontare taluno dei familiari potrebbe confidare di rimettere in parità, considerate entrambe le masse, la propria complessiva posizione patrimoniale.
Adducere inconveniens, naturalmente, non est invenire remedium.
Tuttavia, non ci si può nascondere che, nel tenore letterale delle norme in tema di Patto di famiglia, c'è un elemento che non consente di accogliere la tesi secondo cui al momento di apertura della successione ciascun legittimario potrebbe comunque rimettere completamente in gioco, facendo valere i propri diritti attraverso collazione o riduzione limitatamente ai beni ereditari, le risultanze del Patto di famiglia, o meglio le eventuali sperequazioni che da questo hanno tratto causa.
L'argomento riposa sull'inciso dell'art. 768-quater comma 3 primo periodo c.c., secondo cui «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti».
Quale significato assume la norma? Cosa accadrebbe di diverso se tale precetto non esistesse?
Riesce invero difficile ipotizzare che, se il precetto non esistesse, la stabilità delle attribuzioni, per quanto riguarda i beni oggetto del Patto di famiglia (bene produttivo e beni liquidati agli altri partecipanti), potrebbe essere rimessa in causa, perché tale circostanza si dovrebbe comunque fondare su pretese fatte valere a titolo di collazione o di riduzione, relativamente alle quali opererebbe, comunque, il precetto di cui al successivo comma 4 dell'art. 768-quater c.c., con il relativo perentorio divieto, esteso a tutti i "contraenti".
Conseguentemente, è giocoforza ritenere che il precetto al vaglio, operando sempre con riguardo alla massa oggetto di Patto di famiglia e non alla massa ereditaria, conformemente alla propria collocazione all'interno del codice, assuma il diverso significato di prevedere l'esistenza, in capo a ciascun legittimario, di due autonome "quote di legittima", non comunicanti tra loro in entrambe le direzioni, così definitivamente sancendo la totale autonomia delle due masse in questione.
L'espressione «quote di legittima loro spettanti» di cui all'art. 768-quater comma 3 c.c. si collega all'espressione «quote previste dagli articoli 536 e seguenti» contenuta nel precedente comma 2: mentre quest'ultimo precetto fissa il quantum dovuto, il primo stabilisce gli effetti di soddisfacimento della legittima propri di tale liquidazione [nota 31].
Il tutto con esclusivo riferimento ai beni oggetto di Patto di famiglia, per i quali il legislatore sceglie in tale modo di operare conteggi autonomi, riconoscendo al patto, attraverso tale scelta, valore di una vera e propria successione non solo anticipata, ma anche autonoma, per la quale il problema del computo della legittima ha ragione di porsi separatamente e, vista la "particolarità" rappresentata dall'esistenza in vita del disponente, con regole sue proprie.
Con le espressioni predette, dunque, il legislatore ha sancito che, oltre alla legittima da computare su asse ereditario e donazioni eseguite dal defunto (disciplinata negli artt. 536 e ss. c.c), vi è una "legittima anticipata" da computarsi sul compendio oggetto di ciascun Patto di famiglia, del tutto autonoma dalla precedente (disciplinata dagli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.).
Il Patto di famiglia diviene così, anche nel lessico del legislatore, una successione anticipata e definitiva, salvi soltanto gli effetti previsti dall'art. 768-sexies c.c., relativamente alla quale ciascun partecipante diverso dall'assegnatario è considerato come un legittimario, avente diritto ad una quota parte del valore del bene produttivo.
La ragionevolezza di quest'ultima conclusione sul piano della tutela degli interessi in gioco appare evidente ove si rifletta altresì sulla circostanza che, diversamente opinando (cioè negando che nei conteggi ereditari si debbano tenere fuori le attribuzioni eseguite mediante Patto di famiglia), non si comprenderebbe perché:
· se si accede alla tesi secondo cui il valore attribuito ai beni nel patto resta fermo, si dovrebbero computare e, senza alcuna giustificazione e coerenza logica, sommare tra loro valori riferiti a diversi momenti temporali (data del patto e data di apertura della successione), ovvero,
· se si accede alla tesi secondo cui il valore attribuito ai beni nel patto, ai fini dei predetti conteggi ereditari, deve essere comunque aggiornato (e quindi ricalcolato) con riferimento al momento di apertura della successione, si dovrebbe rimettere in gioco, con i prevedibili contrasti e costi, oltre che con la negazione vera e propria, a questo punto, di quell'effetto di stabilizzazione che costituisce il perno dell'istituto, quel valore autonomo attribuito dal patto a ciascun bene che sembra costituire, con buona ragione, un momento centrale, a sua volta, della novità legislativa.
La digressione testé compiuta consente di ritornare alla scelta tra le due tesi sopra prospettate in merito al ruolo degli altri "legittimari", diversi dai discendenti assegnatari, partecipanti al Patto di famiglia e, quindi, in ordine alla questione da cui si è preso le mosse, alla corretta interpretazione del termine "contraenti" contenuto nell'art. 768-quater comma 4 c.c.
La tesi secondo cui tali due masse configurano, nella sostanza, due diverse vicende successorie della medesima persona tra loro completamente autonome non assume più un valore meramente descrittivo, ma rappresenta la conclusione di un complesso iter argomentativo ed assurge a vera e propria chiave di lettura dell'istituto.
La completa autonomia delle due masse di beni (rispettivamente, beni oggetto del patto e beni ereditari) sottolinea e valorizza in maniera rimarchevole il ruolo degli altri "legittimari" con riferimento al Patto di famiglia, rendendo evidente la necessità che la posizione di ciascun legittimario risulti tutelata in pieno in entrambe le sedi, e giustificando quindi la conclusione secondo cui ciascun soggetto che sarebbe legittimario ove la successione dell'imprenditore si aprisse la momento della conclusione del Patto di famiglia deve partecipare a pieno titolo, quale parte di tale contratto.
Con la conseguenza, ancora, che il discrimine tra soggetti che "devono partecipare" al patto ex art. 768-quater comma 1 c.c. e soggetti di cui all'art. 768-sexies comma 1 c.c. deve essere posto in maniera netta, non essendo in alcun modo possibile che chi rientra nella prima norma possa, perché i paciscenti si sono dimenticati di lui oppure perché egli ha declinato l'invito, rientrare successivamente in gioco ai sensi della seconda norma, il cui ambito è a sua volta esattamente ed inderogabilmente stabilito dal legislatore.
Ad ulteriore conferma di tale conclusione, infine, può addursi la scelta legislativa di inserire il nuovo istituto, all'interno del libro secondo del codice, nel titolo dedicato alla divisione, anziché nel titolo dedicato alla donazione o in un titolo autonomo.
Tale scelta assume un preciso significato proprio in considerazione della natura lato sensu divisionale che il legislatore ha riconosciuto all'istituto, che, se nell'autonomia completa delle due masse considerate sopra trova la propria premessa e giustificazione, nella necessità di una partecipazione piena e in veste di parti contrattuali di tutti gli aventi diritto, sotto pena di nullità del patto, trova la propria logica conseguenza.
La sensibilità personale dell'interprete può tornare in gioco, a conclusione dell'intero ragionamento, soltanto per rilevare che ciò che si perde, indubbiamente, in termini di efficacia del Patto di famiglia consentendo a ciascun "legittimario" di negare il proprio consenso (o subordinarlo a considerevoli attribuzioni) si guadagna, altrettanto indubbiamente, in termini di ribadita rilevanza di tutti i rapporti familiari in atto.
Il Patto di famiglia diventa uno strumento praticabile con successo in tutte le famiglie coese ed in tutte quelle famiglie che, seppure non coese, riescono tuttavia a contrattare valore del bene produttivo ed entità della liquidazione dovuta a ciascun partecipante-contraente.
…(segue) ricognizione complessiva degli effetti prodotti dal Patto di famiglia in deroga alle regole di diritto comune delle successioni
L'insieme delle norme caratterizzanti il Patto di famiglia, rinvenuto sopra negli artt. 768-quater comma 4, ma anche commi 2 e 3, e 768-sexies comma 1 c.c., consente di sottolineare che la principale deroga che l'istituto apporta al diritto delle successioni per causa di morte riguarda il principio di unicità della successione.
Al pari di quegli istituti che l'ordinamento già prevedeva [nota 32], e che la dottrina ha identificato spesso con il termine di successioni anomale, il legislatore configura la vicenda successoria sui beni oggetto di Patto di famiglia alla stregua di una vicenda autonoma, che non si fa condizionare e non condiziona a sua volta, come si è cercato di dimostrare, la successione generale della persona di cui si tratta.
A differenza delle successioni anomale, tuttavia, il Patto di famiglia consente, in più, che la successione del bene produttivo - con la sola eccezione, peraltro inderogabile da parte dell'autonomia privata, di cui all'art. 768-sexies comma 1 c.c., che impone di fare i conti, apertasi effettivamente la successione dell'imprenditore, con i legittimari sopravvenuti, che, in quanto tali, non hanno potuto partecipare al patto - avvenga anticipatamente rispetto al momento di apertura della successione dell'imprenditore così come stabilito dal primo articolo del libro secondo del codice civile, l'art. 456.
Se proprio si vuole condividere l'intento didascalico della L. 55/2006, sarebbe allora stato opportuno che l'inciso, introdotto dall'art. 1 di tale legge, «fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti», fosse stato inserito nell'art. 456 c.c., anziché nell'art. 458 c.c. in tema di patti successori.
Se così stanno le cose, conviene ora cercare di meglio comprendere, al fine di completare la disamina del meccanismo tecnico proprio del nuovo istituto, le conseguenze di tale anticipazione della successione, al fine sia di meglio interpretare il significato da attribuire all'espressione descrittiva "anticipata ed autonoma successione" che si è sopra utilizzata, sia di individuare in maniera compiuta il rapporto che si pone tra il Patto di famiglia ed il contratto di donazione.
"Anticipare" la successione mediante la stipulazione di un Patto di famiglia vuole dire, in primo luogo, garantire quella stabilità dell'attribuzione patrimoniale descritta nei precedenti paragrafi, che trova il proprio fondamento e strumento di attuazione nell'autonomia perfetta tra beni oggetto del Patto di famiglia da un lato e futuro asse ereditario dall'altro.
Ma "anticipare" la successione vuole altresì dire, come emerge dall'inciso contenuto nell'art. 768-quater comma 3 c.c., e come già messo in evidenza da alcuni dei primi commentatori [nota 33], valutare le attribuzioni patrimoniali oggetto del Patto di famiglia nel momento in cui quest'ultimo viene perfezionato, senza più possibilità di riaprire tale valutazione al momento dell'apertura della successione dell'imprenditore.
Negli artt. 768-bis e ss. c.c si trova un riferimento alla determinazione di un valore:
nell'art. 768-quater comma 2, laddove si stabilisce che i partecipanti al contratto devono esser liquidati «con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste agli articoli 536 e seguenti»;
nell'art. 768-quater comma 3 c.c., dove si prevede che i beni (in natura: inciso finale del precedente comma 2) «assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti».
In forza di tali norme, tutti i beni oggetto di assegnazione al discendente e di liquidazione (in natura) a favore degli altri partecipanti devono essere valutati dai contraenti (e non solo da imprenditore disponente e discendente assegnatario) nel momento in cui si perfeziona il patto stesso.
La «somma corrispondente al valore delle quote previste agli articoli 536 e seguenti», invero, può essere determinata solo conoscendo il valore del bene produttivo, che ai fini del quoziente di cui trattasi viene assunto dal legislatore come dividendo.
Il valore di cui parla il comma 3 del citato articolo, da parte sua, altro non può essere se non il valore dell'eventuale bene in natura che l'assegnatario ha utilizzato per soddisfare, in tutto o in parte, gli altri familiari partecipanti.
L'individuazione di tale valore non richiede perizie da parte di terzi imparziali [nota 34], ma è interamente rimessa alla decisione dei contraenti, ovvero di imprenditore disponente, discendenti assegnatari e altri familiari partecipanti.
Se non si forma consenso tra tutti i contraenti in ordine alla determinazione di tale valore, non si può procedere alla stipulazione del Patto di famiglia.
Tale concorde determinazione di valore, inoltre, deve riguardare anche, come si è visto, gli eventuali beni in natura che siano stati trasferiti ad uno o più partecipanti per soddisfare in tutto o in parte la loro quota.
Qualora un solo familiare partecipante si rifiuti di condividere il valore proposto per un bene in natura destinato ad essere attribuito ad un altro partecipante, per ciò solo il Patto di famiglia non potrà essere perfezionato.
La condivisione di ciascun valore da parte di ciascuno dei partecipanti costituisce invero, nell'ottica del legislatore, e secondo l'interpretazione a cui si è ritenuto di aderire, una condizione essenziale perché il legislatore, aprendo le porte al Patto di famiglia, consenta che si producano le importanti deroghe al diritto comune delle successioni che da quest'ultimo derivano.
Ogni diversa scelta, infatti, si sarebbe tradotta o in una forte compressione della posizione dei legittimari non consenzienti, difficilmente riconducibile a sistema, o in un depotenziamento dell'intero istituto, inevitabile ove si ammettesse che taluno dei partecipanti possa, al momento di apertura della successione dell'imprenditore, chiedere, seppure ai soli fini della propria liquidazione, una nuova valutazione dei beni.
Ne consegue, allora, che anche nella specifica ipotesi di cui all'art. 768-sexies comma 1 c.c., riguardante quei soggetti che solo successivamente al perfezionamento del Patto di famiglia acquisiscono lo stato familiare su cui si fonda la loro qualifica di legittimari la momento di apertura della successione, il valore dei beni che costituiscono oggetto del patto resta, anche per tali soggetti terzi, quello stabilito dai contraenti in sede di stipulazione del patto medesimo, e non può essere, in alcun modo e per nessuna ragione, nuovamente determinato. E ciò sebbene nessun contributo tali soggetti abbiano dato alla determinazione di tale valore per essi vincolante.
La lettera della legge appare in tal senso inconfutabile [nota 35]: il diritto, il credito pecuniario, che tali legittimari acquistano verso i beneficiari del Patto di famiglia si misura con riferimento alla «somma prevista dall'art. 768-quater, aumentata degli interessi legali».
Quest'ultima conclusione consente di mettere a fuoco, ed evidenziare, l'ultima deroga che l'istituto del Patto di famiglia introduce rispetto al diritto successorio comune. Tale deroga - introdotta, a quanto consta, per la prima volta nell'ordinamento - si riferisce al principio secondo cui, acquistandosi la veste di legittimario soltanto al momento di apertura della successione, tutti i legittimari sono posti dalla legge nella medesima posizione giuridica, indipendentemente dal momento in cui hanno acquisito lo stato familiare su cui si fonda tale loro veste e dalla durata di tale stato rispetto alla vita del de cuius.
Si tratta di una scelta strettamente collegata alla configurazione del Patto di famiglia come una successione anticipata, che resta tuttavia dirompente per i principi di diritto successorio.
La qual cosa non significa, peraltro, che l'interprete, per quanto gli è dato, debba valutare tale esito in maniera negativa.
Essere coniugi per un giorno o per decine di anni non è più per il legislatore, seppure ai limitati fini del Patto di famiglia, la stessa cosa. Parimenti, non è più la stessa cosa essere nati (o riconosciuti) come figli prima o dopo il compimento da parte del proprio genitore di un determinato atto liberale.
Essere titolari dello stato familiare al momento di perfezionamento di un Patto di famiglia o non esserlo significa porsi come contraente necessario anche al fine della determinazione del valore dei beni oppure subire senza alcuna possibilità di rimedio la determinazione di un valore già stabilito da altri.
Ciò nondimeno, la soluzione data dal legislatore appare non solo esente da possibili censure di incostituzionalità, ma anche razionale ed equilibrata, almeno nella misura in cui si riconosce praticabile dal legislatore ordinario, senza censure di tipo costituzionale, l'idea, per i beni produttivi la cui conservazione presenta in senso ampio una valenza di tipo pubblicistico, di una successione anticipata rispetto al momento della morte.
Conclusione, quest'ultima, che appare ulteriormente fortificata ove si ammetta che l'autonomia privata possa comunque prevedere, introducendo apposite clausole nel Patto di famiglia, un meccanismo di tutela rafforzata di tali eventuali legittimari sopravvenuti.
Il complesso delle considerazioni svolte consente ora di meglio delineare il rapporto che si pone tra il Patto di famiglia ex artt. 768-bis e ss. c.c. e la donazione ex artt. 769 e ss. c.c. .
Pure essendo entrambi gli istituti espressamente qualificati dal legislatore come contratti, con la conseguenza che ad entrambi si applicano, in quanto compatibili e non derogate da regole specificamente dettate per ciascuno di essi, le norme generali prescritte in tema dagli artt. 1321 e ss. c.c., pure essendo entrambi gli istituti connotati dall'intento liberale che deve essere presente in capo all'imprenditore disponente ed al donante, come si desume, per il Patto di famiglia, dall'attenzione che il legislatore ha posto per disinnescare le conseguenze di eventuali azioni di riduzione o collazioni (istituti che, entrambi, presuppongono necessariamente una liberalità), pure essendo infine innegabile che entrambi gli istituti - salva la legittimità del ricorso, al pari degli altri contratti, a figure generali quali il termine iniziale o la condizione sospensiva - configurano un'attribuzione immediata a favore rispettivamente di discendente assegnatario e donatario, non può trascurarsi la profonda differenza che esiste tra un'attribuzione destinata ad essere rimessa in gioco a seguito dell'apertura della successione di colui che esegue la liberalità, come accade nel caso della donazione, ed un'attribuzione destinata invece a configurare una vera e propria successione anticipata ed autonoma, impermeabile ad ogni vicenda che possa verificarsi a seguito dell'apertura della successione di colui che esegue la liberalità (salva la tutela accordata sui beni oggetto del patto a favore dei legittimari sopravvenuti ex art. 768-sexies c.c.), come accade invece nel caso del Patto di famiglia.
Ne consegue che, ferma la facoltà delle parti di optare in ogni caso per l'uno oppure per l'altro istituto, non è possibile ascrivere il Patto di famiglia, quale caso di specie, al genere dei contratti di donazione, neppure, volendosi valorizzare l'attribuzione richiesta (salvo rinuncia) a favore degli altri partecipanti, alla luce delle norme che disciplinano la donazione modale (artt. 793 - 794 c.c.) [nota 36].
Ne consegue, ulteriormente, che la presenza dell'intento liberale non consente, nonostante la collocazione delle nuove norme all'interno del titolo specificamente dedicato a tale istituto, di qualificare il Patto di famiglia come contratto di divisione, e neppure come atto equiparato alla divisione ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 764 c.c.
Ciò tanto più in considerazione del fatto che non si può impedire di perfezionare un Patto di famiglia, per conseguire il vantaggio dell'applicazione degli artt. 768-quater comma 4 e 768-sexies comma 1 c.c. in caso di sopravvenienza di legittimari, laddove non vi siano familiari aventi diritto di partecipare diversi dal discendente assegnatario.
L'attribuzione diretta da parte di colui che vuole effettuare la liberalità a favore di colui che ne beneficia, da una parte, e la necessità che sul compendio che costituisce oggetto di successione anticipata siano soddisfatti (salvo rinuncia) tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell'imprenditore disponente, dall'altro, faranno carico all'interprete di definire, caso per caso, presupposti e limiti di un'applicazione analogica delle singole norme dettate dal legislatore con riguardo sia alla donazione sia alla divisione.
Ma non potranno evitare, in ogni caso, che al Patto di famiglia sia riconosciuta una natura giuridica autonoma, quale contratto sui generis idoneo a produrre effetti suoi propri [nota 37], non assimilabili a quelli dei menzionati contigui istituti [nota 38].
Liquidazione dei familiari partecipanti con denaro o beni dell'imprenditore anziché dell'assegnatario
I primi commentatori della nuova legge in tema di Patto di famiglia, pure di fronte, come meglio si vedrà nel prossimo paragrafo, ad aperture importanti - e, verrebbe quasi da aggiungere, inedite - poste in essere dal legislatore nei confronti dell'autonomia privata, non hanno potuto non sottolineare un problema estremamente rilevante a livello operativo che il legislatore ha invece lasciato irrisolto [nota 39].
La necessità di riconoscere sul compendio oggetto del Patto di famiglia effetti in senso lato divisionali, ha indotto il legislatore a prescrivere, salvo il caso di rinuncia da parte dell'avente diritto, che, tramite il patto medesimo, si addivenga alla liquidazione dei diritti, calcolati, come si è visto, secondo le regole della legittima (artt. 536 e ss. c.c.), spettanti a ciascuno dei familiari partecipanti diversi dall'assegnatario del bene produttivo.
L'esperienza professionale insegna tuttavia che, in un rilevante numero di casi, il discendente assegnatario non possiede un patrimonio personale idoneo al fine di soddisfare gli altri familiari partecipanti al patto, il cui valore eguagli quindi l'ammontare complessivo della somma dovuta a titolo di liquidazione, da calcolarsi, a sua volta, tenuto conto della presenza o meno di un coniuge e del numero degli altri discendenti partecipanti.
Perché il Patto di famiglia possa in concreto funzionare su larga scala, è necessario ipotizzare, si è detto [nota 40], che la somma di denaro richiesta ai fini della liquidazione possa provenire non solo dall'assegnatario del bene produttivo, ma anche dallo stesso imprenditore disponente, normalmente in grado, quanto meno per ragioni anagrafiche, di fare fronte con mezzi propri a tale liquidazione.
Senonché, il tenore letterale delle nuove norme, ed in particolare il disposto dell'art. 768-quater comma 2 c.c., pone l'obbligazione di liquidazione in capo direttamente all'assegnatario, con ciò ingenerando il dubbio che un'eventuale liquidazione eseguita dallo stesso disponente, ma più in generale eseguita da qualsiasi soggetto diverso dall'assegnatario medesimo, configuri, quando non un patto successorio istitutivo nullo ex art. 458 c.c., un'attribuzione che non può usufruire di quella stabilità propria delle attribuzioni relative al Patto di famiglia.
Il tema merita sicuramente un approfondimento.
In questa sede, volendosi limitare ad una prima sintetica riflessione, e riprendendo alcune delle conclusioni sopra ipotizzate, sembra possibile ritenere, innanzitutto, che in nessun caso l'attribuzione eseguita da soggetto diverso dall'assegnatario possa configurare un patto successorio nullo.
Nonostante il nuovo tenore dell'inciso iniziale dell'art. 458 c.c., essere al di fuori del perimetro testualmente dettato dal legislatore negli artt. 768-bis e ss. c.c. non significa per ciò solo rientrare nel divieto dei patti successori, dal momento che i tre divieti stabiliti dall'art. 458 c.c. si riferiscono a tre fattispecie connotate in positivo, la cui ricorrenza deve essere caso per caso riscontrata.
Qualsiasi attribuzione eseguita da soggetto diverso dall'assegnatario del bene produttivo, pure ponendosi al di fuori della lettera dell'art. 768-quater comma 2 c.c., produrrebbe comunque effetti immediati, e comunque svincolati rispetto al momento della morte del disponente, con ciò distinguendosi in maniera inequivocabile dai patti successori istitutivi vietati dal citato art. 458 c.c.
Né la nullità di tale specifica attribuzione potrebbe essere argomentata ritenendo che tramite essa si ponga in essere un patto successorio dispositivo, in considerazione del fatto che il discendente assegnatario, per chiudere il Patto di famiglia, dispone della parte di tale somma che a lui stesso spetterebbe in caso di apertura della successione.
Per aversi patto dispositivo, infatti, occorre che l'attribuzione, oltre che riferibile ad un diritto che il disponente acquisterebbe attraverso la futura successione di chi attualmente ne è titolare, sia realizzata senza il consenso del titolare.
Circostanze, invece, l'una e l'altra, che non si verificano nel caso di specie, dove da un lato la volontà dell'assegnatario ipotetico disponente ex art. 458 c.c. rileva genericamente quale consenso al Patto di famiglia e non è specificamente indirizzata ai fini di tale attribuzione e dove, soprattutto, è in ogni caso necessario, a differenza di quanto accade nei cc. dd. patti successori dispositivi, il consenso dell'imprenditore, della cui futura successione di tratterebbe.
Infine, neppure sarebbe legittimo ipotizzare che, nel caso di specie, si abbia un patto successorio rinunciativo, in cui rinunciante è il discendente assegnatario del bene produttivo e oggetto della rinuncia è quella somma di denaro o quel bene in natura che viene trasferito dall'imprenditore al familiare partecipante.
E ciò neppure ipotizzando, più precisamente, che ricorra un'ipotesi di c.d. rinuncia onerosa, quale corrispettivo dell'assegnazione del bene produttivo.
L'esistenza del patto rinunciativo pare definitivamente esclusa dal ricorrere congiunto, nel caso al vaglio, di due elementi, ovvero da un lato l'immediatezza del trasferimento a favore del soggetto beneficiario, dall'altro l'impossibilità di considerare il trasferimento stesso come una liberalità posta in essere nei confronti del familiare partecipante, dal momento che, almeno laddove la liquidazione corrisponda alla quota di legittima o comunque non superi il valore del bene produttivo, unico beneficiario della liberalità è lo stesso discendente assegnatario, tenuto per legge a liquidare gli altri partecipanti, che risulta in tal modo tacitato, o quanto meno "estromesso" agli effetti dell'art. 1272 c.c. [nota 41]
Il problema che si pone, pertanto, non riguarda la validità di tali attribuzioni "atipiche", che non può essere in alcun modo messa in discussione, bensì la loro riconducibilità agli effetti propri del Patto di famiglia, con la conseguente possibilità di riconoscere a tali specifiche attribuzioni, eseguite al dichiarato fine di liquidare i familiari partecipanti al Patto di famiglia, quella stabilità propria delle assegnazioni eseguite con quest'ultimo patto, e non a titolo di donazione o altra liberalità di diritto comune.
Alcuni dei primi commentatori, così correttamente impostato il problema, hanno ritenuto di dovere dare all'interrogativo risposta affermativa [nota 42].
Tale conclusione, invero, potrebbe essere argomentata attraverso due diversi ordini di considerazioni:
· in primo luogo, è principio generale del vigente ordinamento, come si desume dall'art. 1180 c.c., che ogni obbligazione pecuniaria può essere adempiuta, con efficacia liberatoria verso il debitore, anche da qualsiasi soggetto terzo, e ciò sebbene il debitore stesso si opponga, essendo considerato prevalente dalla legge l'interesse del creditore di ricevere quanto dovutogli rispetto all'interesse del debitore di eseguire lui stesso la prestazione;
· in secondo luogo, nel caso di specie, l'attribuzione da parte dell'imprenditore disponente in luogo del discendente assegnatario non si presenta autonoma, ma si giustifica al fine di consentire una più agevole, ed in molti casi - stante l'insufficienza del residuo patrimonio dell'assegnatario stesso - l'unica definizione possibile, del Patto di famiglia così come delineato dallo stesso legislatore, con la conseguenza che non sarebbe possibile rinvenire nell'attribuzione un titolo diverso rispetto al Patto di famiglia medesimo.
L'unica conseguenza di tale scelta, sarebbe pertanto, in tale ottica che potremmo definire estensiva, che il compendio oggetto di Patto di famiglia non sarà più limitato al solo bene produttivo, ma si estenderà a tutto ciò, bene produttivo, denaro o, come meglio si vedrà nel prossimo paragrafo, altri beni di qualsiasi tipo, esca in tale contesto dal patrimonio dell'imprenditore, sia a titolo di assegnazione al discendente prescelto per il passaggio generazionale nel bene produttivo, sia a titolo di liquidazione degli altri familiari partecipanti.
Su tale "compendio ampliato" si dovranno dunque calcolare anche le quote di legittima di cui all'art. 768-quater comma 3 c.c.
Pure dovendosi riconoscere l'estrema opinabilità del problema, e l'indubbia rilevanza pratica dell'interesse che induce a sostenere tale interpretazione estensiva dell'istituto, non possono sottovalutarsi le conseguenze dirompenti che tale scelta comporterebbe nel rapporto stesso tra la successione anticipata che avviene mediante il Patto di famiglia e la successione ordinaria.
Ove si ritenga, come sembra inevitabile, che, una volta accolta l'interpretazione estensiva, questa debba applicarsi sia all'ipotesi in cui l'imprenditore liquidi in denaro, sia a quella in cui il medesimo liquidi attribuendo beni in natura (ex art. 768-quater comma 2 ultimo periodo c.c.), non può invero non ritenersi fuori sistema ogni "attrazione" di beni diversi dai beni produttivi indicati dal legislatore nella logica propria della successione anticipata, fondata e giustificata invero, finché il diritto comune successorio resterà quello che oggi conosciamo, su esigenze specifiche di conservazione del valore dei beni produttivi, stante l'interesse generale di evitare che, in occasione del passaggio generazionale, si disperdano le capacità produttive di aziende o società.
Senza bisogno di impostare il rapporto tra norme ordinarie della successione per causa di morte e norme speciali dettate con il Patto di famiglia per le successioni anticipate, come pure sembra possibile, in termini di regola ed eccezione, non può accettarsi che qualsiasi bene produttivo svolga la funzione di un veicolo idoneo ad attrarre nella disciplina della successione anticipata qualsiasi bene non produttivo che sia di proprietà dell'imprenditore disponente.
Ciò tanto di più in considerazione del fatto,
· da un lato, che ammettere, a beneficio di una più ampia espressione dell'autonomia privata, un'interpretazione oltre la lettera della legge in una normativa, come si vedrà nel prossimo paragrafo, così attenta ad aprire spazi a quest'ultima autonomia, rappresenta un'operazione ermeneutica difficilmente giustificabile in termini sistematici;
· dall'altro lato, che la conclusione appare fonte di gravi aporie sistematiche ove si rifletta sulla circostanza che l'assegnazione in natura a favore degli altri familiari partecipanti non deve necessariamente limitarsi al valore della loro quota di legittima, che si pone alla stregua di un solo valore minimo, ma si può altresì estendere ad un di più, comprensivo, al limite, dell'intera quota disponibile (sempre calcolata con riferimento alla massa autonoma oggetto del Patto di famiglia), risultando in tal modo ancora più evidente la difficoltà di ritenere compatibile con l'intero libro secondo del codice civile la soluzione estensiva sopra proposta.
Ne consegue, quindi, che ogni decisione dell'imprenditore di intervenire personalmente in sede di liquidazione di uno o più partecipanti al Patto di famiglia dovrà apprezzarsi come liberalità, diretta o indiretta (eventualmente ex art. 1180 c.c.) - a favore, normalmente, dello stesso discendente assegnatario (solo l'eccedenza rispetto alla liquidazione da questi dovuta potrà rappresentare una liberalità a favore del familiare partecipante) - retta dal diritto successorio comune, ed estranea agli effetti previsti dal legislatore con riguardo al Patto di famiglia [nota 43].
Una liberalità, se si consente l'espressione descrittiva, che si innesta sul Patto di famiglia, ma resta a questo estraneo, sopportando, una volta apertasi la successione, gli effetti sia della collazione sia, ricorrendone i presupposti, dell'azione di riduzione.
Le nuove frontiere dell'autonomia privata tra rinunce, liquidazioni in natura, contratti successivi, contratti risolutivi e modificativi, diritti di recesso
Il legislatore ha scelto di aprire l'istituto del Patto di famiglia all'autonomia privata:
A. nell'art. 768-quater comma 2 primo periodo c.c., che stabilisce che il diritto alla liquidazione spetta ai familiari partecipanti «ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte»;
B. nell'art. 768-quater comma 2 ultimo periodo c.c., che stabilisce che «i contraenti possono convenire che la liquidazione possa avvenire, in tutto o in parte, in natura»;
C. nell'art. 768-quater comma 3 ultimo periodo c.c., che stabilisce che «l'assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti»;
D. nell'art. 768-septies n. 1) c.c., che stabilisce che «il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il Patto di famiglia …mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo»;
E. nell'art. 768-septies n. 2) c.c., che stabilisce che «il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il Patto di famiglia … mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un Notaio».
Tralasciando le due ultime ipotesi, che, stante la complessa casistica ad esse riconducibile, richiederebbero una trattazione articolata, incompatibile con le dimensioni del presente contributo, ciascuna delle prime tre aperture previste dal legislatore merita di essere considerata autonomamente, anche per la migliore definizione di Patto di famiglia che può essere data a seguito della relativa ricognizione.
A. La rinuncia alla liquidazione prevista dalla legge a proprio favore da parte del familiare partecipante al Patto di famiglia può essere considerata, ad un primo approccio, alla stregua di un patto successorio rinunciativo eccezionalmente ammesso dal legislatore.
Approfondendo l'istituto, ci si accorge tuttavia che così non è, e che la rinuncia in esame non è una rinuncia ad un diritto che entrerà nel proprio patrimonio, sotto forma di attribuzione mortis causa (nella configurazione generale di cui all'art. 458 c.c.) o di diritto ad agire in riduzione nei confronti di una liberalità in ipotesi lesiva della legittima (nella configurazione particolare di cui all'art. 557 comma 2 c.c.), soltanto alla morte di una persona attualmente vivente, ma costituisce una rinuncia destinata a produrre i propri effetti quando tutti i soggetti interessati sono ancora in vita.
è, in sostanza, la rinuncia ad un diritto attuale e non ad un diritto futuro che sorgerà con l'apertura di una determinata successione.
E, come tale, è estranea in via di principio al tema dei patti successori.
Solo sul piano descrittivo, invero, può affermarsi che tale rinuncia sta alla successione anticipata che si realizza con il Patto di famiglia come un patto successorio rinunciativo sta alla successione ordinaria: ma è troppo poco per trarne delle implicazioni giuridiche di qualsiasi tipo.
Più che indagare sulla natura giuridica di tale rinuncia, conviene piuttosto riflettere sulla circostanza che il legislatore - evidentemente al fine di favorire la conclusione di Patti di famiglia in situazioni in cui non sono disponibili le risorse per soddisfare l'intera quota legittima, ma vi è comunque l'interesse di ciascun familiare a dare il proprio consenso - l'ha ritenuta ammissibile anche se di tipo parziale.
Nel silenzio del legislatore, non sembra, inoltre, che tale rinuncia possa essere successivamente revocata, perché qualsiasi revoca andrebbe a mettere in discussione, in contrasto con la ratio stessa dell'istituto, la stabilità delle attribuzioni disposte con il Patto di famiglia.
Sempre nel silenzio del legislatore, invece, non sembra che tale rinuncia debba necessariamente essere contestuale al perfezionamento del Patto di famiglia.
Vi sono infatti almeno due casi in cui una rinuncia successiva può assumere un preciso significato, giovando alla stabilizzazione dell'attribuzione del bene produttivo e, in definitiva, alla stessa finalità perseguita dal legislatore con l'introduzione del Patto di famiglia, ovvero:
· il caso in cui la liquidazione a favore di un determinato partecipante avvenga mediante «contratto successivo» espressamente dichiarato collegato al Patto di famiglia inizialmente stipulato (cfr. art. 768-quater comma 3 c.c.), ovvero, più genericamente, sia prevista una liquidazione differita, ed in cui il familiare creditore solo successivamente alla conclusione del primo contratto matura la convinzione di rinunciare in tutto o in parte al proprio diritto [nota 44];
· il caso in cui, successivamente alla conclusione di un Patto di famiglia, sopravvenga un nuovo "legittimario" che sia interessato a rinunciare, già prima dell'apertura della successione dell'imprenditore, alla tutela a lui accordata dall'art. 768-sexies comma 1 c.c., dove, pure dovendosi riconoscere l'estrema opinabilità della questione, posta esattamente sulla linea di confine tra atti tra vivi e atti per causa di morte, sembra preferibile addivenire ad una soluzione aperta all'autonomia privata, ritenendo che la tutela di cui all'art. 768-sexies c.c. sia stata posticipata al momento di apertura della successione dell'imprenditore non per una necessità logica connessa alla natura mortis causa della tutela stessa, ma solo per evitare, per economia dei mezzi giuridici, che il sopravvenire di nuovi legittimari esponga i beneficiari del Patto di famiglia a continue richieste di esborso, laddove il patto ormai è stato stipulato ed il fondamento della tutela è la veste di legittimario, che si acquista solo, per definizione, al momento in cui si apre la successione (si pensi all'ipotesi, non di scuola, del nuovo coniuge che premuore all'imprenditore, dove appare evidente l'interesse - sancito dall'art. 768-sexies c.c. - di evitare azioni nei confronti dei beneficiari del patto, ma dove non si vede, neppure considerando attentamente la ratio del divieto dei patti successori rinunciativi, l'interesse ad evitare che vi sia immediata rinuncia ad una tutela che è riferita ad una "successione" che l'ordinamento considera già avvenuta fin dal momento di conclusione del Patto di famiglia).
B. Non vi sono ragioni per imporre che la liquidazione a favore dei familiari partecipanti avvenga necessariamente in denaro, né che l'ammontare della stessa coincida per forza con la quota di legittima (calcolata come frazione del valore del bene produttivo assegnato al discendente) ad essi spettante ove si aprisse in quel momento la successione dell'imprenditore.
Se quest'ultimo valore rappresenta soltanto una soglia minima (tra l'altro superabile per effetto di una rinuncia totale o parziale a tale tutela), potendo l'autonomia privata spingersi fino a riconoscere al familiare partecipante, a titolo di liquidazione, una somma corrispondente alla legittima a lui spettante aumentata dell'intera disponibile (sempre calcolata sulla massa autonoma oggetto del Patto di famiglia), non vi è neppure ragione per escludere che la liquidazione possa altresì avvenire in denaro.
Ne deriva che la previsione dell'inciso finale dell'art. 768-quater comma 2 c.c. costituisce un'apertura all'autonomia privata che già potrebbe essere giustificata in base ai principi, ma che il legislatore ha voluto espressamente prevedere per evitare che, una volta che l'istituto - ad avviso di chi scrive, come si è cercato di dimostrare, senz'altro frettolosamente - è stato posto in diretto collegamento con il divieto dei patti successori, alcune interpretazioni estensive di quest'ultimo finissero per comprimere indebitamente l'autonomia privata.
La liquidazione in natura, in ogni caso, costituirà un'attribuzione che resta parte integrante del Patto di famiglia, alla quale la disciplina dettata dal libro quarto del codice civile per la datio in solutum non potrà trovare applicazione diretta, non essendo nel caso di specie possibile, stante la contestualità ed unitarietà dell'operazione, distinguere tra momento in cui l'obbligazione liquidatoria sorge e momento in cui la prestazione viene consensualmente modificata.
Neppure relativamente alla liquidazione in natura (in tutto o in parte), il legislatore prevede, infine, la necessità di perizie o valutazioni di terzi.
C. La previsione contenuta nell'art. 768-quater comma 3 ultimo periodo c.c. si presenta di più complessa lettura, dal momento che la stessa sembra non sovrapponibile all'ipotesi, che risulterà probabilmente ricorrente, di liquidazione differita di uno o più familiari partecipanti, relativamente alla quale non vi sarà bisogno di "contratti successivi", ma soltanto di adempimenti successivi, tali comunque da coinvolgere soltanto debitore e creditore e non anche gli altri contraenti del Patto di famiglia.
A che cosa ha dunque inteso riferirsi il legislatore?
Anche la norma al vaglio si presta ad un'interpretazione estensiva, secondo cui l'autonomia privata potrebbe "frazionare" il normale Patto di famiglia, stabilendo, con il consenso di tutti i partecipanti, che la stessa individuazione della liquidazione spettante agli stessi avvenga con "contratto successivo", di cui tutti i contraenti del patto saranno necessariamente parte e che dovrà, con una expressio causae imposta direttamente dal legislatore [nota 45], farsi carico di procedere alla relativa individuazione.
L'utilità di tale "frazionamento", in tale ottica, potrebbe apprezzarsi nell'intento di non ritardare il passaggio generazionale conseguente al patto stesso con complesse valutazioni riguardanti il valore del bene produttivo: se tutti i contraenti sono d'accordo, si potrebbe, senza degradare il Patto di famiglia a semplice donazione, posticipare tale momento, fermo restando che il contratto successivo deve risultare in maniera riconoscibile (da cui l'obbligo della expressio causae) e concludersi coinvolgendo tutti i contraenti dell'originario patto.
L'ipotesi al vaglio acquista un preciso significato solo se si accetta che il primo patto rinunci a fissare il valore del bene produttivo, fermo restando che la determinazione del valore attraverso il successivo contratto dovrà comunque riferirsi al momento in cui fu concluso il primo patto.
Una siffatta lettura solleva indubbiamente perplessità non trascurabili, da un lato apparendo poco opportuno, normalmente, consentire che siano vincolati al patto dei discendenti assegnatari che ancora non conoscono il valore del bene in relazione al quale sorgeranno a proprio carico gli obblighi di liquidazione previsti dalla legge, dall'altro rimettere tale valutazione ad un accordo successivo, in mancanza del quale sembrerebbe ipotizzabile, come unica via d'uscita, una esecuzione in forma specifica di tipo plurilaterale e fondata su una determinazione giudiziale del valore che potrà essere ricavata soltanto attraverso valutazioni peritali.
Si ha l'impressione, nella sostanza, che in tale modo più che aprire all'autonomia privata si finisca per consentire ai discendenti assegnatari del bene produttivo un vero e proprio salto nel buio, fonte di instabilità anziché di sicurezza giuridica.
Meglio è, allora, ritenere che il legislatore abbia inteso, attraverso la norma in esame, disciplinare, più modestamente, l'ipotesi in cui, una volta che il patto abbia previsto, come è in ogni caso possibile (e, si ha ragione di ritenere, frequente), una liquidazione differita di uno o più partecipanti, occorra comunque l'expressio causae e la partecipazione di tutti gli originari contraenti laddove, con successivo contratto, si intenda derogare alle modalità di pagamento o estinguere l'obbligazione con l'attribuzione di un bene in natura.
La ragione di tale rafforzata tutela risiede, evidentemente, nella necessità di mantenere sotto il controllo di tutti i familiari interessati [nota 46] determinate vicende patrimoniali all'interno della famiglia che si prestano a trattamenti di favore e, più in generale, a soluzioni poco trasparenti.
[nota 1] Raccomandazione 94/1069/CE (G.U.C.E. 31 dicembre 1994, L.385). In tema, E. CALò, «Piccole e medie imprese: cavallo di Troia di un diritto comunitario delle successioni?», Nuov.giur.civ.comm., 1997, II, p. 217 e ss.
[nota 2] Comunicazione 98/C93/02 (G.U.C.E. n. C93 del 28 marzo 1998).
[nota 3] Riporta P. MANES, «Prime considerazioni sul Patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», Contr. impr., 2005, p. 539, che «in Italia sono oltre tre milioni le piccole imprese i cui proprietari o azionisti fanno riferimento ad una famiglia: ciò significa che le imprese familiari rappresentano circa il 90 per cento delle aziende».
[nota 4] Disegno di legge S-2799, presentato il 2 ottobre 1997, nel corso della XIII Legislatura. In tema, cfr. M. IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto d'impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», Riv.Not., 1997, p. 1371; A. ZOPPINI, «Il Patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future)», Riv.dir.priv., 1998, p. 255 e ss. Durante la XIV legislatura, il progetto è stato ripreso con i disegni di legge 1353 - S., presentato il 23 aprile 2003, e 3870 - C., presentato l'8 aprile 2003, entrambi confluiti nel disegno 3567 - S. (tutti prevedendo, tuttavia, una diversa collocazione dell'istituto all'interno del codice civile).
[nota 5] Seduta Senato n. 552 del 26 gennaio 2006. Per una ricostruzione di tali lavori, G. PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006.
[nota 6] Per una riflessione generale sul tema, cfr. J. E. HUGHES, Family wealth, Princeton, 2004.
Per la situazione italiana, ed in una prospettiva più giuridica, cfr., invece, A. BORTOLUZZI, Successione nell'impresa, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. comm., Aggiornamento, vol. **, Torino, 2003, p. 897 e ss., e A. PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, in Tratt. di dir.civ. del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2003, p. 207.
Per alcune valutazioni di tipo sociologico, conseguenti al prolungarsi della vita umana, alla posticipazione degli acquisti per causa di morte rispetto all'età in cui ci si inserisce nel mondo del lavoro e, conseguentmente, alla perdita di funzione da parte dei tradizionali istituti successori, cfr., A. ZOPPINI, Profili sistematici della "successione anticipata" (note sul Patto di famiglia), in Studi in onore di Giorgio Cian, in corso di pubblicazione.
[nota 7] La deroga che il Patto di famiglia rappresenta rispetto al divieto dei patti successori di cui all'art. 458 c.c. è sostenuta, sulla scia dell'espressa indicazione contenuta nell'art. 1 L. 55/2006, da quasi tutti i primi commentatori, peraltro divisi tra loro al fine di stabilire se si tratta di patto successorio istitutivo (più che altro, negandosi pacificamente la natura mortis causa dell'attribuzione effettuata con il Patto di famiglia, nel senso descrittivo secondo cui si tratta di una successione anticipata, ovvero di una regolamentazione preventiva rispetto alla morte di un assetto successorio eccezionalmente consentito dal legislatore), dispositivo (così M. LUPETTI «Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume; MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume; G. PETRELLI, op. cit; G. BARALIS, «Attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali», Patti di famiglia per l'impresa, in questo volume) oppure rinunciativo (così gli stessi M. LUPETTI, op. cit.; A. MERLO, op. cit.).
[nota 8] è opinione consolidata tra i primi commentatori che il nuovo Patto di famiglia non costituisca un atto per causa di morte, ma costituisca senz'altro un atto tra vivi, un atto cioè i cui effetti non sono collegati alla morte dell'imprenditore disponente (per tutti, cfr. A. MASCHERONI, «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume).
[nota 9] A. ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», IlSole24Ore, 3 febbraio 2006, p. 27. Cfr. anche, l'efficace considerazione di P. MANES, op. cit., p. 540, secondo cui «quando il numero dei membri della famiglia che hanno rapporti con l'impresa aumenta, l'applicazione da parte dei genitori di logiche di uguaglianza porta a determinare situazioni di coesione del tutto illusorie che si traducono rapidamente in una difficoltà gestionale dell'azienda».
[nota 10] In senso contrario cfr. tuttavia, in posizione isolata, G. SICCHIERO, «La causa del Patto di famiglia», in corso di pubblicazione su Contr. impr., la cui lettura del contratto in questione quale atto mortis causa non intende però mettere in discussione la (normale) immediatezza del trasferimento del bene produttivo, bensì, esclusivamente, rendere applicabili al Patto di famiglia alcuni istituti delle successioni anziché dei contratti, a partire dalla responsabilità personale illimitata del beneficiario che accetta il trasferimento.
Tale conclusione, che sul piano testuale viene giustificata proprio dalla scelta dell'art. 1 della L. 55/2006 di configurare il Patto di famiglia come una deroga al divieto dei patti successori istitutivi, è tuttavia costretta ad ipotizzare una nozione di atto mortis causa diversa da quella fatta propria dalla dottrina successoria, estesa anche a negozi destinati a produrre effetti sostanziali, e non solo prodromici, durante la vita del disponente.
[nota 11] CACCAVALE «Appunti per uno studio sul Patto di famiglia» - Notariato n.3/2006, p. 289.
[nota 12] C. CACCAVALE, op. cit., secondo cui «è verosimile che, nell'anteporre la previsione di salvezza del nuovo istituto, il legislatore si sia lasciato trasportare dall'entusiasmo per la assoluta novità introdotta nell'ordinamento e dall'intento, dunque, di dare ad essa immediata risonanza».
Nello stesso senso, lasciando solo aperta la possibilità che nel patto siano contenuti, eventualmente, dei patti rinunciativi, C. BOLOGNESI, «La continuità generazionale dell'impresa: codificazione del Patto di famiglia», in Impresa, Dir. e prat .comm., 2006, p. 450 ss.; P. MANES, op. cit., p. 551.
[nota 13] Guardando oltre confine, l'istituto che presenta maggiori analogie con il nuovo Patto di famiglia italiano sembra essere la donation - partage francese, disciplinata, a seguito della legge n. 71 - 523 del 3 luglio 1971, negli artt. 1076 e ss. code civil, quale specie del genere partage d'ascendant, a sua volta disciplinato dall'art. 1075.
Tale istituto, che è stato "piegato" alle esigenze del passaggio generazionale dell'impresa (solo individuale) con la L. 88 - 15 del 5 gennaio 1988, viene valutato dalla dottrina francese alla stregua di un atto tra vivi idoneo ad anticipare, per i beni - anche non produttivi - che ne sono oggetto, la successione per causa di morte dell'ascendente.
Pure presentando l'istituto, per la possibilità di omettere alcuni discendenti e di comprendere qualsiasi tipo di bene, oltre però che per la sua inidoneità a sfuggire all'azione di riduzione dei legittimari una volta apertasi la successione, delle specificità che lo allontanano dal Patto di famiglia italiano (entrambi gli istituti danno luogo ad una "successione anticipata", ma solo quello italiano, come si vedrà nel testo, consente una successione che sia anche autonoma), la dottrina francese non ha mancato di rilevare, a proposito del rapporto con il divieto dei patti successori, come «l'analyse de la donation - partage comme une anticipation successorale pourrait conduire à voir dans cet acte un pacte sur succession future. Le donateur, en accord avec les gratifiés, partageant, avant son décès, les biens de sa succession, la donation - partage semble un pacte sur succession future, exceptionnellement valable. On peut cependant objecter que, loin de déroger à la prohibition des pactes sur succession future, la donation - partage, à l'inverse, la respecte» (C. PAULIN, «Partage d'ascendant», Rép. Civ. Dalloz, 1998, p. 3), dal momento che essa attribuisce dei beni ai discendenti immediatamente, e non con effetto dal momento della morte dell'ascendente.
[nota 14] G. PETRELLI, op. cit.
[nota 15] G. RIZZI, «Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie» - in questo volume.
[nota 16] A. BUSANI, «Patto di famiglia e governance dell'impresa trasferita» - in questo volume; P. MANES, op. cit., p. 545 e ss., anche per ulteriori riferimenti.
[nota 17] Cfr., per tutti, P. FORCHIELLI, «L'imputazione collatizia dell'avviamento commerciale», Giur. comm., 1983, I, p. 621 e ss.; G. RAGUSA MAGGIORE, «Impresa familiare e collazione», in Vita not., 1990; A. GENOVESE, «Il "passaggio generazionale" dell'impresa: la donazione di azienda e di partecipazioni sociali», Riv. dir. comm., 2002, I, p. 731 e ss.
[nota 18] Cfr., in particolare, D.lgs. 99/2004, art. 7, in tema di conservazione dell'integrità fondiaria; L. 97/1997, in tema di diritti del coltivatore diretto di area montana; L. 203/1982, art. 49, in tema affitto coattivo della quota di azienda agricola caduta in successione a favore di coeredi non coltivatori.
[nota 19] A. MASCHERONI, op. cit.; A. ZOPPINI, Profili sistematici…, cit.
[nota 20] Il riferimento apre la strada alla conclusione di Patti di famiglia riguardanti singoli rami di azienda (conformi G. PETRELLI, op. cit.; C. BOLOGNESI, op. cit., p. 452), o, persino, quote indivise di un'azienda.
[nota 21] Ai sensi dell'art. 2346 comma 1 c.c., «la partecipazione sociale è rappresentata da azioni; salvo diversa disposizione di leggi speciali lo statuto può escludere l'emissione dei relativi titoli o prevedere l'utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione»: la partecipazione sociale, nel lessico del diritto societario riformato, rappresenta la nozione di genere, di cui l'azione rappresenta nozione di specie; la nozione di quota perde il proprio significato tecnico; in senso atecnico, come parte di un tutto, deve considerarsi sinonimo di partecipazione sociale (il genere nella sua completezza), e non può leggersi come sinonimo di partecipazione sociale non azionaria (il genere meno una specie).
[nota 22] G. BARALIS, op. cit.
[nota 23] C. CACCAVALE, op. cit.
[nota 24] Si tratta peraltro del medesimo obiettivo considerato dall'art. 2 della L. 366/2001 di delega al governo per la riforma del diritto societario.
[nota 25] G. PETRELLI, op. cit.
[nota 26] Potrebbe ipotizzarsi, per quanto riguarda il tipo di azioni che possono costituire oggetto di Patto di famiglia, che si dovrebbe comunque trattare, portando a logica conseguenza la ratio indicata nel testo, di azioni che non siano negoziate in mercati regolamentati o, meglio, che non siano emesse da società che hanno fatto ricorso, tramite tale emissione, al mercato del capitale di rischio secondo la definizione data dall'art. 2325-bis c.c., stante la facoltà di disinvestimento comunque garantita, in entrambi i casi, dal mercato e, quindi, l'inutilità di un Patto di famiglia per disincentivare un disinvestimento che resterebbe comunque agevole.
In realtà, sembra preferibile ritenere che anche le azioni cc.dd. quotate possano anche nei predetti casi costituire oggetto di Patto di famiglia, essendo quest'ultimo istituto idoneo, nell'ottica del legislatore, a garantire anche in tali realtà che il disinvestimento non avvenga per effetto di vicende successorie, ferma restando la possibilità che lo stesso avvenga comunque per altre ragioni attinenti la sfera del titolare.
[nota 27] A. ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve…», cit.; A. MASCHERONI, op. cit.; G. BARALIS, op. cit. .
[nota 28] C. CACCAVALE, op. cit.; L. A MISEROCCHI, «Il Patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali», Convegno Patti di famiglia per l'impresa, 31 marzo 2006, Milano, organizzato dalla Fondazione Italiana per il Notariato; G. SICCHIERO, op. cit.
[nota 29] Alcuni degli Autori a cui ci si riferisce (C. CACCAVALE, op. cit.), per la verità, non escludono che l'interpretazione dell'art. 768-quater comma 4 c.c. debba essere "atecnica", estendendosi comunque anche agli altri partecipanti che non sarebbero contraenti: ne conseguirebbe, ascrivendo al legislatore un lessico certamente contorto, che i "partecipanti" non sarebbero "contraenti", ma che l'art. 768-quater comma 4 c.c., che pure parla di "contraenti", si applicherebbe anche ai "partecipanti".
[nota 30] In senso conforme, A. ZOPPINI, Profili sistematici…, cit.
[nota 31] Il riferimento all'imputazione, nel contesto della norma, non può non implicare anche soddisfacimento, dal momento che la "legittima anticipata" relativa al Patto di famiglia non richiede alcun conteggio esteso a donazioni dirette o indirette pregresse, computandosi sempre ed in maniera autonoma sul valore del bene produttivo.
[nota 32] Cfr. retro nota 17.
[nota 33] G. FIETTA «Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume.
[nota 34] Naturalmente, la non doverosità di tale perizia, non esclude l'opportunità, in molti casi, della stessa, soprattutto laddove la valutazione del bene produttivo richieda elementi di giudizio che solo una relazione peritale adeguatamente redatta può fornire alle parti.
[nota 35] La compressione dei diritti dei legittimari sopravvenuti ai sensi dell'art. 768-sexies comma 1 c.c., quale conseguenza del carattere anticipato ed autonomo della "successione" relativa al Patto di famiglia, trova un bilanciamento nel disposto del secondo comma dello stesso art. 768-sexies c.c., ai sensi del quale «l'inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell'art. 768-quinquies».
Il legittimario sopravvenuto, grazie a quest'ultima norma, può fare valere, in caso di inadempimento, un rimedio risolutorio dell'intero Patto di famiglia (con prescrizione annuale ex art. 768-quinquies comma 2 c.c. e, per il resto, in base alle regole, deve ritenersi, di cui agli artt. 1453 e ss. c.c., nonostante il richiamo all'istituto dell'annullamento evocato sul piano letterale dallo stesso art. 768-quinquies c.c.).
La tutela di tale legittimario sopravvenuto resta obbligatoria (cfr. art. 1458 comma 2 c.c.), ma, in deroga alla regola generale per cui solo chi è parte del contratto può fare valere la risoluzione, si estende all'intero Patto di famiglia, del quale il legittimario in parola non può essere considerato parte.
Per una diversa lettura dell'art. 768-sexies c.c., cfr. tuttavia, seppure in posizione isolata tra i primi commentatori, U. LA PORTA, «La posizione dei legittimari sopravvenuti», Patti di famiglia per l'impresa, in questo volume.
[nota 36] Configurano il Patto di famiglia come donazione modale M. LUPETTI, op. cit.; A. MERLO, op. cit. . Contra, anche argomentando dalla previsione della liquidazione dei familiari partecipanti come elemento necessario dell'istituto, a differenza del modus che è rimesso invece ad una libera scelta dell'autonomia privata, G. PETRELLI, op. cit.
[nota 37] Essendo effetto necessario del Patto di famiglia la liberalità del disponente verso il discendente assegnatario, ci si è posti in dottrina (propendono per l'affermativa G. FIETTA, op. cit.; e, sembra, G. PETRELLI, op. cit.) il problema di ipotizzare se sia legittima la stipulazione onerosa dell'assegnazione al discendente a titolo di negotium mixtum cum donatione (si pensi, per es., all'interesse dell'imprenditore disponente a garantirsi, come corrispettivo che vale solo una parte del bene produttivo assegnato, una prestazione di assistenza o di mantenimento).
[nota 38] In tale senso, tra gli altri, G. PETRELLI, op. cit.; G. RIZZI, op. cit.
[nota 39] A. BUSANI, op. cit.
[nota 40] A. MASCHERONI, op. cit.
[nota 41] L'istituto dell'espromissione disciplinato dall'art. 1272 c.c., pure riferibile anche ad un negozio autonomo, specificamente concluso per realizzare la vicenda circolatoria della posizione debitoria contemplata dalla norma, deve invero essere ricostruito dall'interprete alla stregua di un effetto, che può derivare, oltre che da un negozio ad hoc, anche da altri negozi aventi diversa struttura e funzione.
[nota 42] A. MASCHERONI, op. cit.
[nota 43] In senso conforme, A. ZOPPINI, Profili sistematici…, cit.
[nota 44] Tale specifica ipotesi di rinuncia, che - per la sua idoneità a coinvolgere interessi di familiari diversi dal debitore - non sembra assimilabile ad una remissione del debito ex artt. 1236 e ss. c.c., dovrà essere qualificata come negozio a sua volta parte integrante del Patto di famiglia, con conseguente applicazione dell'onere di forma di cui all'art. 768-ter c.c.
[nota 45] Non sembra che vi siano precedenti in tale senso in altre norme di legge.
[nota 46] Non sembra tuttavia che la partecipazione al contratto successivo sia estesa anche a coloro che hanno assunto la veste di legittimari (rectius: di familiari che, se si aprisse la successine in quel momento, sarebbero legittimari), dovendo il termine sostituti leggersi esclusivamente con riferimento alle vicende personali degli originari contraenti (es. se premuore un figlio partecipante, in suo luogo dovranno partecipare al contratto successivo i figli del medesimo).
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