Le implicazioni fiscali delle attribuzioni tra familiari
Le implicazioni fiscali delle attribuzioni tra familiari
Profili dell'imposizione diretta del Patto di famiglia
di Paolo Puri
Associato di Diritto Tributario, Università della Tuscia
Premessa: l'assenza di una normativa tributaria volta ad agevolare il passaggio generazionale dell'impresa
Con legge 14 febbraio 2006, n. 55 è stato introdotto nel nostro ordinamento l'istituto del Patto di famiglia che dovrebbe rappresentare lo strumento privilegiato per il passaggio generazionale dell'impresa in ambito familiare. Sulla spinta di raccomandazioni comunitarie [nota 1] e di politica economica viene così recepita l'istanza alla regolamentazione pattizia della successione nella titolarità e nel governo dell'impresa con la finalità di preservare il valore della stessa attribuendone la gestione ai soli familiari imprenditorialmente più affidabili.
L'approccio del tributarista al fenomeno della devoluzione convenzionale del patrimonio imprenditoriale con funzione di anticipazione successoria e di valorizzazione della vocazione produttiva e della continuità imprenditoriale non può non prendere le mosse da una prima osservazione circa l'inesistenza di una organica disciplina tributaria agevolativa o, comunque, finalizzata al risultato.
Non possono, infatti, rappresentare interventi agevolativi del passaggio generazionale né la soppressione dell'imposta sulle successioni che proprio per la sua generalità rappresenta il frutto di una scelta di politica fiscale che non agevola la successione nell'attività imprenditoriale più di qualsiasi altra successione, né la disciplina in tema di operazioni straordinarie (cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni) introdotta dal D.lgs. n. 358/1997 e recentemente superata. Peraltro neanche quest'ultima disciplina appariva come funzionale al passaggio generazionale nell'impresa. Per dimostrare tale affermazione è sufficiente ricordare che l'eterogenità delle operazioni interessate dal carattere di straordinarietà e la loro collocazione nel crocevia fra la fiscalità d'impresa, fiscalità societaria e fiscalità delle persone fisiche (socie delle società o venditrici delle relative partecipazioni) aveva ristretto i margini di manovra del legislatore, limitandolo all'introduzione di sistemi di imposizione sostitutiva sulle plusvalenze relative ad aziende e partecipazioni. Era, peraltro, una disciplina che poneva l'accento sull'aspetto riorganizzativo o di ristrutturazione aziendale e che non regolava il fenomeno contiguo delle strategie per la continuità e la successione d'impresa. Anzi quest'ultimo fine non sembrava neanche rappresentare quelle "valide ragioni economiche" che potevano legittimare comportamenti e operazioni che l'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 avrebbe altrimenti qualificato come elusivi [nota 2].
è peraltro vero che talvolta operazioni con le finalità di garantire il passaggio generazionale possono sfruttare disposizioni agevolative transitorie e/o settoriali previste eventualmente anche con altri fini: si pensi alle periodiche norme sulle regolarizzazioni di società di fatto o sulle assegnazioni agevolate di beni o, più di recente, alla disciplina sulla rivalutazione delle partecipazioni [nota 3]. Si tratta comunque di escamotage tecnici che fruiscono di normative "passeggere", spesso prive di una ratio sistematica, che anzi in termini di politica tributaria sottolineano proprio la non organicità di una disciplina di riferimento che tradizionalmente ha trascurato le origini familiari del tessuto imprenditoriale del Paese.
Le medesime conclusioni in termini di insufficienza rispetto al fine del passaggio generazionale valgono per l'attuale disciplina che, cancellato il meccanismo agevolativo dell'imposizione sostitutiva, si limita a confermare il regime della neutralità per i conferimenti di aziende e partecipazioni di controllo e collegamento effettuati secondo il regime di continuità dei valori fiscali riconosciuti.
L'unico intervento che risponde alle finalità in questione sembra allora essere quello contenuto nell'art. 3, comma 25 della L. n. 662/1996 che ha introdotto nel T.U.I.R. la previsione per cui «il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito (a familiari)[nota 4] non costituisce realizzo di plusvalenze dell'azienda stessa» a condizione che l'azienda stessa sia «assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa» con possibilità che lo stesso regime si applichi «anche qualora, a seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall'apertura della successione, della società esistente tra gli eredi, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi» [nota 5].
In tale scarno scenario si colloca dunque l'odierna disciplina del c.d. Patto di famiglia che non supera il tradizionale divieto dei patti successori sancendo piuttosto la liceità delle convenzioni con le quali si dispone della propria successione in forma diversa dal testamento e in deroga al regime successorio imperativo.
Cenni ai profili strutturali e funzionali del Patto di famiglia
In forza delle nuove norme sul Patto di famiglia è oggi civilisticamente lecito un contratto attraverso il quale «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce in tutto o in parte, le proprie quote, a uno o più discendenti» [nota 6], a condizione che a tale contratto partecipino «anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari» con diritto per questi ultimi alla liquidazione del valore delle quote previste dagli artt. p. 536 e ss. del codice civile.
Nulla è però detto a proposito del trattamento tributario di tale negozio. Lacuna che vale tanto per l'imposizione diretta che per quella indiretta così da lasciare il tributarista di fronte all'obiettivo di inserire nel sistema impositivo qualcosa di imprevisto e per certi versi imprevedibile. Non è peraltro compito di quest'ultimo l'individuazione della natura giuridica di tale nuovo istituto potendo solo prendere le mosse dalle varie ipotesi fino ad oggi avanzate dalla dottrina civilistica per formulare, a sua volta, ipotesi sul regime di tassazione applicabile.
Anche se la natura di siffatto contratto non è stata - ovviamente - ancora oggetto di una sicura ricostruzione da parte della dottrina civilistica.
Secondo quella che allo stato pare essere l'opinione prevalente la circostanza che sul piano causale il Patto di famiglia realizzi «un trasferimento in funzione successoria avente struttura divisionale» non è sufficiente a caratterizzare il contratto. è parimenti innegabile infatti che «se il momento dispositivo è essenziale, quello divisionale presuppone che i legittimari siano più di due, ben potendo tale categoria al momento della conclusione del patto esaurirsi ad un solo legittimario», onde appalesare «i tratti autonomi e distintivi d'un trasferimento liberale operato in funzione successoria» [nota 7]. Tale impostazione è ancora più evidente nell'affermazione di chi ritiene che il Patto di famiglia si presti ad essere «inteso come una qualificata ipotesi di donazione, gravata da onere a carico del donatario» [nota 8].
Non manca però chi, anche in forza della collocazione topografica nel codice civile, sottolinea «il carattere materialmente divisorio dell'operazione, anche se la funzione divisoria è solo eventuale poiché non tutti gli aderenti al patto sono destinatari dell'azienda» [nota 9] concludendo nel senso che si tratterebbe «di un atto strutturalmente e funzionalmente tra vivi, essendo il trasferimento immediato, privo di corrispettivo per l'imprenditore e caratterizzato da causa di liberalità ma non gratuito per il destinatario che deve liquidare anticipatamente la quota di legittima ai legittimari attuali e quella, accresciuta degli interessi, ai legittimari sopravvenuti. Non è un contratto a prestazioni corrispettive ma è un contratto oneroso per l'acquirente» [nota 10].
Ciò allora che sembra emergere agli occhi del tributarista - al di là dello svilupparsi di un dibattito teorico ancora iniziale - è, da un lato, la netta divaricazione dei metodi approccio: quello unitario [nota 11] che sottolinea il momento dispositivo con spirito liberale [nota 12] e la funzione di anticipazione successoria a fronte di quello atomistico più attento ai singoli trasferimenti. Dall'altro lato non possono non risaltare gli effetti economici di un tale nuovo contratto. Quest'ultimo, infatti, nei suoi tratti essenziali comporta per il beneficiario un'attribuzione qualitativamente determinata consistente nel trasferimento gratuito di azienda o di partecipazioni sociali e per gli altri legittimari un'attribuzione solo quantitativamente determinata derivante dall'obbligo per il beneficiario di liquidare, in denaro o in natura, la quota di legittima.
Ciò posto - pur pendendo per la visione del fenomeno unitaria e di tipo liberale [nota 13] - si può passare all'esame delle conseguenze tributarie che discendono dagli spostamenti patrimoniali dovuti al Patto di famiglia.
Le liberalità inter vivos nell'imposizione diretta
L'approccio alla disciplina del Patto di famiglia può utilmente prendere le mosse da una visione panoramica della disciplina delle liberalità inter vivos.
La dismissione senza contropartita di posizioni giuridiche economicamente valutabili come componenti attive del patrimonio può rilevare ai fini dell'imposizione diretta sotto vari aspetti. In primo luogo come decremento del patrimonio del disponente l'atto gratuito/liberale; inoltre, per i beni che si riconnettono ad un'attività d'impresa, il fenomeno traslativo come causa della cessazione dell'attività medesima in capo ad un soggetto (ed il contestuale inizio in capo ad un altro soggetto). Infine la modificazione del possessore, recidendo il nesso con la precedente attività dell'alienante, può determinare una diversa qualificazione e l'inserimento in una diversa categoria reddituale [nota 14].
L'aspetto di gran lunga più importante è però quello della rilevanza nella determinazione del reddito imponibile del disponente degli atti liberali aventi ad oggetto beni relativi all'impresa. Dalla necessità - espressa dal principio di inerenza - di una specifica relazione fra attività e reddito prodotto ("derivazione" dall'esercizio d'impresa) discende, ai fini della determinazione del reddito d'impresa, il rilievo dei soli atti liberali funzionali al perseguimento del programma imprenditoriale. L'atto volto a soddisfare interessi personali, in quanto estraneo all'esercizio dell'impresa, è dunque considerato irrilevante ai fini dell'imposizione del reddito del disponente.
Dal punto di vista normativo ciò si riflette nell'elencazione apparentemente chiusa dell'art. 100 T.U.I.R. (oneri di utilità sociale) e dell'art. 108, comma 2 (spese di rappresentanza) delle liberalità deducibili in quanto funzionali al conseguimento dell'oggetto sociale, lasciando nel dubbio la sorte di eventuali altre ipotesi di erogazioni liberali comunque strumentali [nota 15].
Sempre nell'ottica del disponente l'estraneità della liberalità dall'attività d'impresa presuppone una previa "destinazione a finalità estranea all'esercizio dell'impresa" del bene o diritto che ne costituisce oggetto. L'art. 58, comma 3 del T.U.I.R. ne prevede dunque l'assunzione a componenti reddituali (plusvalenze) in misura pari alla differenza tra valore normale e costo non ammortizzato. Se però oggetto della liberalità è un'azienda o un complesso aziendale, la non inerenza all'attività d'impresa dell'atto, non implica una diversa "destinazione" dei beni che mantengono una relazione funzionale con l'attività precedentemente svolta. Il principio - dopo un lungo percorso inizialmente giustificato nella logica dell'agevolazione per il rafforzamento dell'apparato produttivo nazionale - sembra ora assunto a rango di regola sistematica dall'art. 58 del T.U.I.R..
Per il beneficiario della liberalità è invece l'estraneità di quest'ultima all'esercizio di attività produttive ed il mancato accoglimento della nozione di "reddito entrata" a far sì che per donazioni ed altre attribuzioni liberali inter vivos sia esclusa qualsiasi rilevanza reddituale.
Unica eccezione per le liberalità di cui benefici un soggetto già operante nell'ambito del reddito d'impresa. Infatti proprio il collegamento con l'attività d'impresa, per sua natura ordinata a far fronte a qualsiasi rischio ed a profittare di qualsiasi vantaggio anche da eventi non considerati o non prevedibili nel programma dell'attività stessa, giustifica l'inclusione delle liberalità fra le componenti positive come sopravvenienze attive (art. 88, comma 3, lett. b) T.U.I.R.) [nota 16]. L'emersione di tale componente reddituale prescinde, peraltro, dall'eventuale assoggettamento ad imposta, in capo al disponente, di plusvalenze od altre componenti reddituali.
Delineato così il quadro normativo per le liberalità inter vivos si può passare ad esaminare più nello specifico il trattamento delle attribuzioni patrimoniali conseguenti al Patto di famiglia.
Il trasferimento gratuito dell'azienda nell'art. 58, comma 2 del T.U.I.R.
Il trasferimento dell'azienda dal disponente al beneficiario è apparentemente il passaggio che sembra presentare minori problemi.
Se infatti oggetto della cessione è un'azienda il trasferimento dovrebbe in ogni caso usufruire della disciplina contenuta nell'art. 58, comma 2 del T.U.I.R.. Ciò è certamente vero se si accolgono le tesi che sottolineano il carattere liberale dell'atto, ma può tutto sommato valere anche se si abbraccia l'impostazione dell'atto a carattere divisionale enfatizzando la funzione anticipatoria del trasferimento per causa di morte e constatando che comunque tale primo passaggio è a carattere gratuito.
La norma in questione - che ha avuto il pregio di risolvere la tradizionale questione se la morte dell'imprenditore individuale comportasse la realizzazione delle plusvalenze latenti d'azienda - è comunque di non facilissima interpretazione.
Sul piano sistematico accoglie il principio che non c'è destinazione a finalità estranea se il complesso aziendale per la sua destinazione unitaria mantiene comunque la sua relazione funzionale con un programma imprenditoriale.
Sul piano funzionale essa va certamente nella direzione di salvaguardare il passaggio generazionale e contemporaneamente le imposte dirette sui plusvalori latenti dei beni aziendali: si è infatti inteso, da un lato, evitare che un eccessivo carico fiscale impedisca agli eredi o donatari di proseguire l'attività, obbligandoli a liquidare i beni aziendali per fare fronte ai sopraggiunti debiti tributari e, dall'altra parte, non rinunciare alle imposte sui pregressi plusvalori maturati in capo all'imprenditore, poiché questi emergeranno al momento dei successivi trasferimenti dei beni. La neutralità del passaggio e l'assenza di un salto d'imposta è infatti garantita dall'automatico collegamento ai vecchi valori fiscalmente riconosciuti presso il disponente risultando consacrata la continuazione del medesimo ciclo fiscale per i beni appartenenti all'azienda trasferita, senza che questo effetto sia condizionato ad un determinato comportamento contabile del beneficiario o tantomeno dall'indicazione del valore dell'azienda in atto. Il criterio legale di assunzione dei valori è infatti stabilito dalla legge senza che residuino margini di scelta per i contribuenti. [nota 17]
La tassazione dei plusvalori è così rinviata al momento della successiva vendita totale o parziale dei beni (art. 81, comma 1, lett. h-bis) T.U.I.R.) ovvero nell'istante in cui si giustifica per il definitivo realizzo (verso corrispettivo) dei plusvalori e per l'impossibilità di continuare a seguire le vicende dei beni (cioè di misurare e tassare gli incrementi di valore in un momento successivo).
Al caso di specie (Patto di famiglia) non sembra invece applicabile la disposizione che disciplina il caso che tra taluni degli eredi venga in essere una società di fatto (cui si applicherà il regime dei redditi d'impresa) a seguito della successione nell'azienda. Non avendosi una successione – ma semmai un negozio che ne anticipa taluni effetti - non dovrebbe ritenersi applicabile una disposizione che invece ne fa espresso rinvio.
La neutralità del trasferimento anche rispetto all'assegnatario entra però in crisi se quest'ultimo al momento dell'assegnazione già rivesta la qualifica di imprenditore. In tal caso, infatti, si renderà applicabile l'art. 88, comma 3 del T.U.I.R. che considera sopravvenienze attive «i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità» [nota 18]. La disposizione in oggetto sembra infatti prevalere su quella dell'art. 58 T.U.I.R. che riguarda beneficiari che operano al di fuori del reddito d'impresa.
Per altro verso è in questo caso la stessa ratio del Patto di famiglia che sembra determinare l'attribuzione del bene aziendale all'impresa esercitata dal beneficiario rendendo difficilmente ipotizzabile un'assegnazione che riguardi la sfera personale del soggetto. Un'ipotesi di non imponibilità potrebbe tutt'al più dipendere dalla tipologia dell'azienda oggetto del patto laddove è proprio la disomogeneità del complesso aziendale ad escludere l'assorbimento nella sfera imprenditoriale esistente, lasciando supporre un'acquisizione alla sfera personale con successiva destinazione ad impresa. [nota 19]
L'eventuale componente reddituale sarà comunque costituita dall'intero incremento patrimoniale determinato in base al valore normale (e senza essere influenzato nella sua determinazione, da valori fiscalmente riconosciuti per il disponente) al netto degli oneri di liquidazione dei legittimari gravante sul beneficiario.
Il trasferimento gratuito della partecipazione ai fini delle imposte dirette
Per il trasferimento gratuito della partecipazione non esiste una norma analoga a quella prevista per le aziende poiché salvo il caso - peraltro marginale - di una partecipazione detenuta da un imprenditore individuale ed inserita nell'ambito dei beni d'impresa [nota 20], l'atto gratuito non integra in capo alla persona fisica donante una fattispecie tassata e per il donatario un reddito imponibile. I plusvalori insiti nella partecipazione restano sospesi fino al momento della successiva (eventuale) cessione a titolo oneroso ad opera del donatario persona fisica non imprenditore che acquisirà i beni assumendo quale costo quello sostenuto dal donante (art. 68, comma 6 T.U.I.R.).
Nella remota ipotesi che il donatario sia un imprenditore individuale le partecipazioni ricevute potranno invece rappresentare una sopravvenienza attiva ex art. 88, comma 3, lett. b) T.U.I.R. se e nella misura in cui le partecipazioni ricevute abbiano una specifica destinazione fra i beni d'impresa.
Ai fini di completare il trattamento dell'ipotesi in questione va però ricordato che con disposizione avente carattere antielusivo l'art. 16, comma 1 della L. n. 388/2001 dispone che «il beneficiario di un atto di donazione o di altra liberalità tra vivi, avente ad oggetto valori mobiliari inclusi nel campo di applicazione dell'imposta sostitutiva di cui all'art. 5 del D.lgs. 21 novembre 1997, n. 461, ovvero un suo avente causa a titolo gratuito, qualora ceda i valori stessi entro i successivi 5 anni, è tenuto al pagamento dell'imposta sostitutiva come se la donazione non fosse stata fatta, con diritto allo scomputo dell'imposta sostitutiva dalle imposte eventualmente assolte ai sensi dell'art. 13, comma 2».
Disposizione che peraltro appare ormai di dubbia utilità e applicabilità. Infatti a seguito dell'abolizione dell'imposta sostitutiva del 27% (art. 2, comma 2 del D.lgs. n. 344/2003) i donatari che procedano ad una successiva cessione infraquinquennale non sono più tenuti al pagamento dell'imposta sostitutiva del 27% al posto del donante. Pertanto ammettendo l'operatività della norma in questione il nuovo criterio di tassazione previsto per le partecipazioni qualificate obbligherebbe il donatario a verificare l'aliquota marginale del donante [nota 21] al fine di applicarla in suo luogo sul 40% della plusvalenza realizzata.
La questione dell'inerenza del costo nelle donazioni modali
La ricostruzione del Patto di famiglia come una donazione modale ovvero come un negozio in parte oneroso/solutorio impone un'ulteriore verifica con riguardo alla questione della deducibilità in base al principio di inerenza dei costi che il beneficiario sostiene per liquidare le quote di legittima.
In particolare nel caso della ricostruzione come donazione modale non sembra dubbio che il modus rappresenti il costo che il donatario deve sostenere per acquisire l'azienda e, dunque, che lo stesso sia astrattamente deducibile in base al principio di inerenza. Tuttavia nella pratica tale ricostruzione mi sembra difficilmente conciliabile con la previsione contenuta nell'art. 58, comma 2 T.U.I.R., a meno di non escludere la fattispecie in questione dalla previsione normativa sulla base dell'osservazione che proprio il modus farebbe perdere all'originario atto di disposizione la qualifica di gratuità. D'altra parte la contestualità negoziale fra donazione e diritto alla liquidazione della quota confina l'ipotesi al solo caso in cui il beneficiario già operi in regime di reddito d'impresa, ma anche in tale remota eventualità è difficilmente conciliabile un regime che esclude l'emersione della plusvalenza in capo al donante a condizione che l'azienda sia assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa con una fattispecie che in forza del modus imposto al donatario imporrebbe l'incremento del valore fiscalmente riconosciuto dei beni ricevuti in misura pari al costo (modus) sostenuto.
Parimenti singolare la posizione degli eredi beneficiari del modus che - come meglio vedremo in seguito - ai fini delle imposte dirette ricevono una attribuzione difficilmente riconducibile a qualsiasi ipotesi di reddito imponibile. L'originaria mancata acquisizione dell'azienda donata e della qualifica di imprenditore rende inapplicabile le disposizioni in tema di reddito d'impresa nonchè le previsione contenuta nell'art. 67, lett. h-bis) T.U.I.R., mentre la qualificazione dell'attribuzione in termini di liberalità esclude altre ipotesi di reddito diverso.
Nel caso in cui oggetto dell'atto liberale siano partecipazioni è invece la stessa previsione di cui all'art. 67, comma 6 T.U.I.R. ad escludere la rilevanza del costo sostenuto per la liquidazione delle quote. Il riferimento normativo è infatti "al costo del donante" senza possibilità di riferimento ad ogni altro onere inerente come invece previsto per le partecipazione acquistate a titolo oneroso.
Tali conclusioni sembrano chiudere il campo a tutte quelle variazioni sullo schema-base dell'operazione di c.d. family buy out che con finalità più o meno elusive tentano di spostare il costo della liquidazione delle quote di legittima sull'azienda o sulla società cui sono conferite le partecipazioni ricevute per donazione. Ma parimenti dimostrano l'inadeguatezza di fondo dell'attuale disciplina: è infatti evidente che esigenze di equità suggerirebbero la deducibilità del "costo" della liquidazione dei legittimari in quanto costo effettivamente sostenuto dal beneficiario per acquisire l'azienda. [nota 22]
La tassazione come redditi diversi delle plusvalenze da cessione dell'azienda realizzate dal familiare assegnatario
Anche se la fattispecie sembra attenere più alla definitiva uscita dalla famiglia del bene aziendale è opportuno ricordare che il meccanismo introdotto dall'art. 58, comma 2, del T.U.I.R. è completato dalla qualificazione della cessione dei beni aziendali ricevuti per donazione venga come un reddito diverso.
La continuità dei valori fiscalmente riconosciuti e l'esigenza di evitare salti d'imposta è infatti assicurata, da un lato, attraverso il mancato realizzo dei plusvalori all'atto del trasferimento gratuito ai familiari e dall'altro con la riqualificazione di questi plusvalori come «plusvalori tassabili nell'ambito dei redditi diversi». Scelta che raggiunge gli obiettivi di chiusura del ciclo fiscale dei beni d'impresa ancorché al di fuori del reddito d'impresa, nella suggestione di evitare che soggetti siano chiamati a «dichiarare un reddito d'impresa senza mai essere stati imprenditori».
Oltre a quanto osservato a proposito dell'applicazione dell'art. 16 della L. 388/2001 la soluzione adottata lascia aperti alcuni problemi ulteriori:
- l'inclusione delle plusvalenze tra i redditi diversi non copre l'ipotesi in cui i beni aziendali vengano trasferiti a terzi a titolo gratuito ovvero destinati all'autoconsumo degli stessi familiari. Infatti in entrambi i casi suddetti, mancando una cessione a titolo oneroso, non può realizzarsi la previsione contenuta nell'art. 67 lett. h-bis) T.U.I.R.; nel sistema dei redditi diversi è infatti difficilmente concepibile, in assenza di una norma espressa, una tassazione in caso di trasferimento gratuito e non ipotizzabile una tassazione dell'autoconsumo in mancanza di un regime d'impresa e l'esercizio di un'attività cui riferire una diversa utilizzazione e funzionalizzazione dei beni;
- si può ritenere che - malgrado il silenzio dell'art. 67, lett. h-bis) T.U.I.R. – le plusvalenze da cessione parziale o totale dell'azienda acquisita a titolo gratuito tornino invece ad essere tassate nell'ambito dei redditi d'impresa se il donatario prosegua l'attività del dante causa (con conseguente acquisizione della qualifica di imprenditore).
Va infine ricordato che l'inserimento dei «negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende» nell'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 funge da presidio contro la tentazione di arbitraggi fiscali [nota 23] sulle donazioni d'azienda. In particolare operazioni in cui la donazione d'azienda appaia finalizzata alla "canalizzazione" della plusvalenza su di un familiare con bassa aliquota marginale per consentire a quest'ultimo la vendita al terzo acquirente finale (con eventuale retrocessione del prezzo all'originario imprenditore). Più dubbio è invece l'utilizzo della norma antielusiva per colmare la lacuna determinata dallo spostamento nei redditi diversi ove non opera il principio dell'autoconsumo dei beni aziendali. Altrettanto dubbia è la possibilità che sotto la copertura della norma antielusiva possano rientrare ipotesi - come nel caso di preventivo conferimento in società di un compendio immobiliare cui segua il trasferimento delle partecipazioni rivenienti in sede di patto di cui famiglia - in cui più che eludere il fisco si vogliano aggirare i limiti e le condizioni di accesso al Patto di famiglia.
La liquidazione dei legittimari
La normativa sul Patto di famiglia prevede per i legittimari un diritto alla liquidazione della quota di legittima che in quanto diritto attuale di natura patrimoniale, è pienamente disponibile da parte del suo titolare. Ed infatti la legge statuisce espressamente che ad esso, in tutto o in parte, i legittimari esclusi possono rinunziare [nota 24]. Inoltre tanto i legittimari prescelti che i legittimari esclusi possono senz'altro accordarsi tra loro, per estinguere l'originaria obbligazione pecuniaria mediante datio in solutum. L'estensione della disponibilità pattizia è tale da riguardare anche il momento dell'adempimento. [nota 25] L'adempimento differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si configurerà come negozio traslativo di adempimento, del quale, a beneficio della certezza, il menzionato art. 768-quater, terzo comma, postula come necessaria l'expressio causae. Proprio in previsione del predetto differimento, è anche ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il quale l'obbligazione pecuniaria venga sostituita con un'obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal danaro. Né si deve escludere che i partecipanti al patto per la difficoltà di pervenire ad una cognizione unanimemente condivisa del valore dell'azienda o delle partecipazioni, decidano di quantificare le quote di legittima in via transattiva. [nota 26]
Di fronte alle molteplici varianti entro cui può spaziare l'autonomia degli interessati il tributarista deve ancora una volta ricorrere alle ipotesi.
Dal punto di vista dell'imposizione diretta non sembra che la vicenda assuma un particolare rilievo. Una volta escluso che in sede di liquidazione si eroghino somme in sostituzione di redditi ex art. 6 del T.U.I.R. si deve concludere nel senso che la liquidazione del credito del legittimario avvenendo al di fuori della sfera imprenditoriale esclude qualsiasi rilievo impositivo. Alle stesse conclusioni si deve giungere se si accede alla tesi che configura l'ipotesi come una liquidazione anticipata della quota di legittima. In nessun caso peraltro si può affermare che i legittimari attraverso la liquidazione assumono un'obbligazione di fare, non fare o permettere imponibile ex art. 67, comma 1, lett. l) T.U.I.R. [nota 27].
E queste conclusioni rendono fiscalmente irrilevanti le circostanze eventuali di un differimento dell'adempimento e della datio in solutum.
Per quanto riguarda il beneficiario che deve procedere alla liquidazione la configurazione del debito da liquidazione come un debito suo proprio che non attiene comunque al complesso aziendale o alle partecipazioni ricevute, rende tale costo indeducibile. Specularmente l'eventuale rinunzia [nota 28] dei legittimari alla liquidazione non rileverà come sopravvenienza attiva imponibile per il beneficiario.
Particolarmente penalizzata è invece l'ipotesi in cui il Patto di famiglia prevede un obbligo di liquidare i legittimari attraverso il trasferimento di beni [nota 29] già oggetto del primo passaggio dal disponente al beneficiario determinando l'emersione di una plusvalenza imponibile in capo al legittimario per destinazione a finalità estranea.
Più interessente è invece l'ipotesi per la quale i legittimari da liquidare accettino in sede di liquidazione una quota degli utili futuri prodotti dall'azienda o dalle partecipazioni ricevute dall'assegnatario. Dovendosi escludere che in virtù di tale accordo divengano soci o comunque associati in partecipazione ed essendo parimenti escluso che sia la società ad accollarsi il debito dell'assegnatario, non resta che concludere nel senso che si tratta di una mera ipotesi in cui il debito dell'assegnatario viene commisurato sugli utili senza mutare né la natura del debito né il soggetto debitore.
[nota 1] Raccomandazione 94/1069/CE in G.U.C.E. 31 dicembre 1994, L 385 volta a sensibilizzare l'imprenditore ai problemi della successione e a indurlo a preparare l'operazione per tempo esortando nel contempo i legislatori nazionali a fare in modo che il diritto di famiglia e il diritto successorio non ostacolino questa operazione. Così è peraltro in altri Stati europei (Germania, Francia, Svizzera) «dove il contratto successorio, l'institution contractuelle e la piena legittimità della clause commerciale stipulata tra l'imprenditore e il suo coniuge, attuano forme di devoluzione convenzionale del patrimonio ereditario orientate alla valorizzazione della vocazione produttiva dei singoli beni in funzione anticipatoria della successione (come nel caso della trasmissione inter vivos dell'azienda agricola in Germania) o alla continuità imprenditoriale come nel caso dell'azienda gestita anche dal coniuge dell'imprenditore in Francia, al mantenimento dei familiari, alla possibilità di rinunciare preventivamente all'azione di riduzione, al superamento del principio dell'intangibilità qualitatitiva della quota di legittima e alla conversione della pretesa dei legittimari da reale in obbligatoria». (MANES, «Prime considerazioni sul Patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», Contratto e Impresa, 2006, p. 550).
[nota 2] Va tuttavia osservato che il Parere n. 6/2004 del Comitato consultivo per le norme antielusive ha ritenuto che un'operazione finalizzata a favorire l'inserimento dei figli nell'attività commerciale può configurare i validi motivi di ordine economico previsti dall'art. 37-bis.
[nota 3] Così, ad esempio, nel passato (l'operazione non ha attualmente molto senso stante l'abolizione dell'imposta sostitutiva del 27%) era ipotizzabile che un genitore "affrancasse" rivalutandola la propria partecipazione qualificata, quindi la dividesse attraverso una donazione tra più figli in modo da renderle tutte partecipazioni non qualificate, e dopo cinque anni (per non incorrere nella presunzione di onerosità di cui all'art. 16, comma 1 della L. n. 383/2001) procedesse al riassetto della proprietà dell'impresa, anche per mezzo della rivendita totale o parziale della partecipazione originariamente detenuta, fruendo dalla nuova valutazione per il calcolo della plusvalenza imponibile e di un assoggettamento ad imposta con aliquota del 12,5% invece che il 27% originariamente previsto per le partecipazioni qualificate.
[nota 4] Il riferimento ai familiari è stato soppresso nel testo attuale dell'art. 58 del T.U.I.R. Viene così, almeno dal punto di vista fiscale, superata la logica fondamentalmente miope che il passaggio di generazione dell'impresa sia solo una questione familiare meritevole di sovvenzione se ed in quanto permanga tale e non, viceversa, quando garantisca "oggettivamente" il futuro del complesso produttivo.
[nota 5] Peraltro come meglio vedremo in seguito, pur enfatizzando la portata della disposizione contenuta nell'art. 58, comma 2 T.U.I.R. anche per casi analoghi ma con apertura di una successione (vedi il caso dell'assegnazione dell'azienda al socio superstite), non si può ritenere essere comunque di fronte ad una disposizione capace di rispondere da sola a tutte le esigenze di continuità e successione d'impresa. Essa è infatti limitata oggettivamente ai passaggi aziendali e non risolve completamente i fenomeni di continuità dell'impresa con introduzione di nuovi soci.
[nota 6] è inoltre previsto che quanto ricevuto dai contraenti deve essere imputato alla rispettiva quota di legittima ed è escluso da collazione o riduzione.
[nota 7] Così ZOPPINI, Profili sistematici della successione anticipata (note sul Patto di famiglia), in Studi in onore di Giogio Cian, in corso di pubblicazione, consultato per gentile concessione dell'Autore. Quest'ultimo ritiene che gli effetti siano «l'anticipazione dell'effetto devolutivo, perché le sostanze di cui si dispone a titolo liberale con il Patto di famiglia non vengono in considerazione alla morte del disponente; esse costituiscono, infatti, una massa giuridicamente distinta dal patrimonio devoluto per il tramite della successione ereditaria. La stabilità dell'effetto attributivo: ai fini del trattamento giuridico riservato dall'ordinamento ai beni di cui si dispone con il patto, è come se in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore, come recita appunto l'art. 768-quater c.c. La definitiva determinazione del valore al momento della conclusione del contratto, come attesta il fatto che il diritto di credito dei legittimari sopravvenuti è predeterminato nella quantità. In sintesi la volontà negoziale di coloro che sarebbero in quel momento chiamati quali legittimari tiene luogo della vocazione dettata dalla legge e, in questo senso, ne surroga, convenzionalmente gli effetti, dando luogo ad una delazione a titolo particolare».
[nota 8] Così CACCAVALE «Appunti per uno studio sul Patto di famiglia» - Notariato n. 3/2006 e MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume, e LUPETTI «Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume. Più in generale sulla donazione modale vedasi, CARNEVALI, La donazione modale, Milano, 1969; ID., Le donazioni, in Trattato di Diritto Privato diretto da Rescigno, p. 6, Le successioni, II, Torino, 1997, p. 553 e ss., CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Giuffrè, 1983 p. 806 e ss., e più recentemente CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, in Tratt. Bessone, V, Torino, 2005, p. 118 e ss.
[nota 9] Osserva MANES, cit., p. 555 che «nel caso di legittimari non assegnatari dell'azienda il meccanismo di liquidazione dei legittimari è simile a quello previsto per la divisione di immobili non comodamente divisibili che impone di prevedere la partecipazione, ancorchè solo in funzione rinunciativa, di tutti i potenziali legittimari ai fini della validità del contratto, in analogia a quanto previsto per la divisione ereditaria che richiede il litisconsorzio necessario di tutti gli eredi. La riforma recupera la possibilità, nota al codice del 1865, di realizzare in vita un atto di divisione a titolo gratuito con la finalità di regolare la futura successione. Il risultato è analogo a quello ottenuto dalla donazione in quote indivise a tutti i potenziali legittimari con contestuale cessione a titolo oneroso da parte di alcuni donatari ai legittimari che gestiranno l'azienda».
[nota 10] MANES, cit., p. 555 e 556. La posizione sembra essere anche quella espressa da PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006 che pur ritenendo inaccoglibile la natura divisionale del patto «se non in senso assolutamente atecnico e quindi privo di rilevanza sotto questo profili», comunque esclude nettamente la configurazione come donazione modale.
[nota 11] L'individuazione della causa unitaria è particolarmente enfatizzata da Rizzi.
[nota 12] Un'unica causa di liberalità accomunerebbe dunque tutti i trasferimenti patrimoniali contenuti nel patto poiché anche la liquidazione effettuata dai beneficiari dei diritti degli altri legittimari troverebbe la propria causa nella precedente assegnazione dell'azienda effettuata dall'imprenditore ai beneficiari.
[nota 13] In tal senso mi sembrano assolutamente condivisibili le seguenti affermazioni di BASILAVECCHIA (in «Le implicazioni fiscali delle attribuzioni tra familiari», in questo volume) «Pare indubitabile che l'approccio corretto e soddisfacente sia il secondo, anche perché meglio rispondente alla obiettiva rilevanza del collegamento - tra negozi e tra obbligazioni - nell'istituto; ed altrettanto indubitabile che la spiegazione migliore del fenomeno, una volta accolta l'impostazione "unificante", sia quella che prende atto dell'indubbia preminenza che nella disciplina assumono istituti giuridici tipici del diritto successorio: è solo in questo contesto, dunque, che il Patto di famiglia può essere spiegato, senza negare con questo la natura di atto inter vivos e l'immanenza ad esso di problematiche tipicamente inerenti alla funzionalità dell'impresa e alla stabilità della governance».
[nota 14] è quello che FEDELE «Il regime fiscale di successioni e liberalità», Riv.Dir.Trib, 2003, I, p. 859, nt. 158, efficacemente definisce come il fenomeno determinato «essenzialmente dal passaggio da reddito da attività (lavoro autonomo o d'impresa) a reddito da cespite».
[nota 15] Osserva FEDELE, op. ult. cit., p. 865 che «in conclusione, la disposizione liberale, in quanto tale, evidenzia una componente reddituale passiva, alla stregua di una perdita, se riconducibile all'attività d'impresa. è questione interpretativa stabilire se, ai fini delle imposte sui redditi, possano considerarsi 'inerenti' solo le liberalità rientranti in categorie normativamente previste (oneri di utilità sociali, spese di rappresentanza), ovvero anche ipotesi di erogazioni o contributi a tali categorie non riconducibili, ma evidentemente strumentali per il conseguimento dell'oggetto sociale».
[nota 16] Cfr. sul tema BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997.
[nota 17] Se, peraltro, ci si chiede quali siano le conseguenze di una eventuale "rivalutazione" (rispetto ai valori del dante causa) effettuata da parte dei beneficiari del trasferimento si possono avanzare due ipotesi: secondo alcuni (BEGHIN, «I trasferimenti gratuiti di azienda ai familiari nella disciplina agevolativa introdotta con legge n. 662/1992», Riv. dir. trib., 1998, p. 59; PORCARO, «Le ragioni della "sistematica" neutralità delle recenti norme sulle ristrutturazioni aziendali: dal trsferimento gratuito, al conferimento, alle fusioni», Rass. trib., 1997, p. 1569) tale rivalutazione comporterebbe addirittura il venir meno del regime di neutralità e la realizzazione di una plusvalenza in capo al trasferente l'azienda (essendo ormai irrilevante la fattispecie dell'iscrizione di una plusvalenza in capo all'avente causa), secondo altri (STEVANATO, «Riorganizzazione delle attività produttive e rilevanza delle plusvalenze iscritte», in Rass. trib., 1998, p. 1547) l'art. 58, comma 2 non subordina il particolare regime di neutralità ad un determinato comportamento contabile del beneficiario come invece faceva l'art. 3 del D.lgs. n. 358/1997. Infatti a differenza di quest'ultima disposizione, che sancisce un criterio cui ancorare la determinazione di una plusvalenza per il conferente, la disposizione in esame «espunge espressamente il particolare fenomeno traslativo dal novero degli atti di realizzo, e salvaguarda gli interessi erariali legando il beneficiario ai medesimi valori fiscali riconosciuti presso il proprio dante causa, nonché introducendo nell'art. 81 del T.U.I.R. una nuova fattispecie di redditi diversi, rivenienti da cessioni poste in essere da eredi o donatari di un trasferimento gratuito d'azienda…Un tale comportamento contabile andrebbe assimilato, piuttosto, ad una vera e propria iscrizione di plusvalenze in bilancio (ora fiscalmente irrilevante), cioè ad una rivalutazione volontaria, attuata dal beneficiario, rispetto ai valori (fiscali) di assunzione dell'azienda, individuati inderogabilmente dalla legge nei vecchi valori fiscalmente riconosciuti presso il trasferente» (STEVANATO, cit.).
[nota 18] Così recentemente l'amministrazione finanziaria (parere del 3 novembre 2005) per un caso di donazione d'azienda.
[nota 19] E non si dovrebbe realizzare alcun "salto d'imposta" se l'azienda oggetto della liberalità ed in origine relativa all'impresa del disponente, cessata la destinazione all'esercizio dell'attività di quest'ultimo, venga poi nuovamente destinata all'esercizio della diversa impresa del beneficiario ed assunta a valore di costo.
[nota 20] In tal caso la donazione realizzerebbe una destinazione a finalità estranea del bene con conseguente emersione di una plusvalenza imponibile in base al valore normale ai sensi dell'art. 58, comma 3 T.U.I.R.
[nota 21] La verifica dovrebbe avvenire nel periodo d'imposta della cessione con conseguente difficoltà o impossibilità della stessa se il donatore sia nel frattempo deceduto, sia trasferito all'estero o non sia più soggetto ad imposta.
[nota 22] Si giunge a conclusioni diverse in termini di "deducibilità" del costo di liquidazione dei legittimari se si ipotizza una sorta di comunione fra i legittimari e dunque si accolga la tesi dell'atto divisionale.
[nota 23] La convenienza di tali operazioni dovrà essere misurata calcolando anche l'aggravio finanziario legato alla mancata rateizzazione della plusvalenza sulla cessione posta in essere dal donatario che abbiamo visto essere inoperante per i redditi diversi.
[nota 24] Oggetto della rinunzia, non sono i presunti diritti successori, già per effetto del patto commutati in diritto attuale, bensì proprio il diritto all'immediato pagamento della somma. Contra MERLO, «Il Patto di famiglia», cit., p. 8.
[nota 25] Osserva CACCAVALE, cit., che le parti, le quali possono convenire di posticipare l'adempimento ad una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del Patto e della eventuale liquidazione della quota dei legittimari. «La legge contempla in modo espresso tale ipotesi all'art. 768-quater, terzo comma, avendo riguardo verosimilmente al più specifico caso, sul quale si soffermerà tra breve l'attenzione, di un intervenuto accordo di adempimento in natura da parte dei contraenti; epperò non vi è alcuna ragione per non estendere tale facoltà anche al caso in cui il pagamento debba essere invece effettuato in danaro». Secondo FIETTA, «Patto di famiglia», cit., p. 25, «nell'ipotesi in cui il contratto originario abbia già stabilito il quanto del pagamento a favore dei non assegnatari, pure dilazionandone l'adempimento, il contratto successivo di datio in solutum probabilmente non richiederà il rigore previsto dal comma terzo, interessando solo le parti coinvolte nel pagamento e non avendo effetti per gli altri partecipanti».
[nota 26] Secondo CACCAVALE, cit. «per non disconoscere ogni valenza normativa alla previsione, si potrebbe ipotizzare che la liquidazione in natura che viene in considerazione è quella che sia compiuta sul presupposto che il valore dei beni assegnati ai legittimari esclusi corrisponda esattamente all'importo della somma di danaro che essi avrebbero riscosso. In altri termini - ferma la facoltà dei legittimari preferiti e dei legittimari esclusi di concordare una novazione oggettiva, a seguito della quale la nuova obbligazione sostituisca quella precedente a prescindere dall'equivalenza o meno delle rispettive prestazioni - la disposizione in commento prevede che, con l'accordo altresì del contraente che compie l'assegnazione, in quanto soggetto interessato, nella normalità dei casi, anche alla integrità degli interessi dei legittimari non assegnatari, possa essere convenuto, per soddisfare le ragioni di questi ultimi, un adempimento in natura, che tuttavia debba precipuamente assolvere alla medesima funzione di apporzionamento del pagamento in danaro, cosicché l'accordo resti connotato da quella medesima natura ricognitiva dei valori in gioco, che è tipica - sebbene necessiti di essere in seguito più puntualmente definita - dell'accordo liquidatorio in generale».
[nota 27] Sul punto si ricordi che nel passato l'amministrazione finanziaria ha ravvisato l'applicabilità della norma sulle obbligazioni di fare, non fare e permettere ad una rinuncia all'instaurazione di un rapporto di lavoro e future controversie (Ris. Min. n. 150/E del 22 luglio 1996) ma più recentemente lo ha escluso (Ris. Min. 22 febbraio 2005, n. 26/E) per il corrispettivo ricevuto per mancata adesione ad un'Opa).
[nota 28] In generale sul tema dei profili tributari della rinunzia cfr. CASTALDI, Rinuncia nel diritto tributario, in Dig. IV, Disc. Priv. Sez. comm., XII, Torino, 1996, p. 523 e ss.
[nota 29] è quanto accade se, ad esempio, il Patto prevede che il beneficiario liquidi i legittimari con la cessione della proprietà degli immobili che facevano parte del complesso aziendale ceduto mantenendoli comunque a titolo di locazione.
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