Attribuzione ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali
Attribuzione ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali
Il Patto di famiglia: un delicato equilibrio fra "ragioni" dell'impresa e "ragioni" dei legittimari
di Giorgio Baralis
Notaio in Casale Monferrato
Un indispensabile profilo generale: due scelte di campo. L'impatto della nuova disciplina sui principi generali della successione necessaria e su materie di confine
Pur se il mio intervento è limitato mi sembra indispensabile premettere alcuni punti di riferimento. Si tratta di principi base del nuovo intervento legislativo da cui discendono, appunto, specifiche conseguenze in ordine al mio lavoro.
Il Patto di famiglia di cui all'art. 768-bis c.c., ragionando alla stregua della normativa precedente, appare in violazione del divieto di cui all'art. 458 c.c., in quanto patto dispositivo. La novella ne predica, invece, la liceità e ciò costituisce una ulteriore fase di quella evoluzione, parte giurisprudenziale, parte legislativa, che mira a creare zone speciali, per così dire, in cui gli istituti commerciali vengono affrancati dalle regole del diritto comune. Ricordo esemplarmente le clausole di consolidazione in materia di società di persone [nota 1], le clausole di gradimento in caso di successione per le società di capitali ritenute, già prima dell'art. 2335-bis c.c., lecite dalla giurisprudenza, le clausole di riscatto di azioni in caso di morte [nota 2]. è vero che si trattava di casi borderline in cui l'esistenza del patto successorio non era sicura [nota 3], ma certamente, come scritto, si tratta di materie a confine per le quali l'operatore pratico si scontrava pur sempre con (legittimi) dubbi di liceità. Anzi, proseguendo il discorso di cui alla premessa, credo che si possa con onestà scientifica riconoscere come in non pochi casi la tendenza "lunga" giurisprudenziale e legislativa sia nel senso di "commercializzare" (entro certi limiti evidentemente) istituti prettamente civilistici: basta pensare, fra i molti esempi, all'azienda coniugale di cui all'art. 177 primo comma lett. d) identificata, secondo un certo indirizzo, come forma sociale [nota 4] e al pieno riconoscimento legislativo dell'imputabilità di attività commerciale in capo agli enti no profit, mettendo fine ai contrasti giurisprudenziali e dottrinari (ma si trattava soprattutto di dottrina e giurisprudenza risalenti) [nota 5] circa la possibilità di tale esercizio in capo agli enti di cui al libro primo, titolo secondo c.c. [nota 6] Questa direzione volta alla "commercializzazione" è sicuramente benefica perchè quasi sempre "svecchia" certe incrostazioni del diritto comune [nota 7] e in quest'ottica sarebbe stato certamente più utile un intervento che incidesse in materia più vistosa sul divieto di cui all'art. 458 c.c., in particolare avvicinandosi al modello, che giudichiamo ideale, del contratto successorio tedesco di cui al paragrafo 2274 e ss. BGB. Nel contempo, però, la circostanza di cui sopra costituisce un limite intrinseco alla riforma nel senso che lo scopo della novellazione dovrebbe ritenersi strettamente correlato a esigenze tipiche della materia commerciale.
Questo è il punto: la nuova disciplina mira ad evitare uno dei fenomeni più preoccupanti di disfunzione nell'attuale sistema successorio e cioè il passaggio generazionale dell'azienda dal titolare ai discendenti. Infatti a voler destinare prima della morte ad uno o più figli l'azienda, come è noto, si ponevano non pochi ostacoli dovuti alla circostanza che la sua valutazione era immancabilmente collegata al momento della morte del disponente con gravi problemi di valutazione all'apertura della successione, anche in ragione degli incrementi prodotti dal cessionario [nota 8]. Gravi problemi, si è scritto, sia in ragione dei "nuovi" valori aziendali a carico del cessionario sia perchè l'acquisto non poteva ritenersi sicuro e definitivo in ragione della possibilità dell'esercizio dell'azione di riduzione da parte degli altri legittimari. Meccanismi elaborati volti ad eliminare tali conseguenze esistevano (ad esempio donazione a tutti i legittimari e contestuale cessione delle quote o delle ragioni di comproprietà aziendale a uno di essi), ma erano carenti da vari punti di vista (si pensi alla sopravvenienza di legittimari, all'inadempienza nei pagamenti dell'acquirente delle quote o dell'azienda e altro ancora) e non garantivano seriamente la possibilità per il disponente di "tornare indietro" riprendendo in mano le proprietà cedute o di provvedere ad aggiustamenti di tiro successivi [nota 9]. Last but non least il patto si presta e si presterà a inserimento di condizioni, di termini di modalità varie che, prima della riforma erano impensabili, sopratutto per il grave pericolo di collidere con il divieto di cui all'art. 458 c.c. ; questo proflilo riveste un particolare interesse come avremo modo di sottolineare più avanti.
Ancora più grave, da un certo punto di vista, era (ed è) il problema di chiarire la riferibilità o l'indifferenza per la massa successoria del valore speciale della cosiddetta "partecipazione di controllo" [nota 10].
Ora, traendo le prime conclusioni, dalla premessa di cui sopra ci sembra di poter scrivere che si può interpretare la riforma secondo un ottica in cui la deroga al diritto comune, in ragione della commercializzazione di cui prima è stretta oppure ampia (nel senso che la riforma ha un respiro più ampio rispetto a ciò che appare ad una prima lettura).
Il senso della riforma si gioca sulla base della scelta di una di queste visuali.
E a mio parere la scelta deve essere nel senso di una interpretazione ristretta [nota 11].
Vediamone le ragioni.
Il meccanismo del microsistema, infatti, è a nostro modo di vedere il seguente: il Patto serve a fissare, in deroga ai principi di cui agli artt. 747 e 556 c.c., in maniera definitiva il valore del bene azienda (o delle partecipazioni sociali) cristallizzando i diritti dei legittimari attuali o sopravvenuti in ragione di tale valore;una volta che ciò sia, si potrà procedere o meno (è dubbio, però, il differimento sino alla morte del disponente, come si dirà oltre) alla liquidazione dei diritti dei legittimari non cessionari dell'azienda (o delle partecipazioni sociali), ma resta il fatto che quanto trasferito per liberalità al cessionario d'azienda o di quote non sarà più oggetto di riduzione o collazione [nota 12]; resta per la verità aperto il problema dell'inadempienza da parte del cessionario nei confronti degli "altri" [nota 13] legittimari, ma questo è un problema spinoso e sarà da altri approfondito, anche se personalmente ritengo, come dirò oltre, che non si applichi la normale disciplina di cui all'art. 1453 c.c. A nostro parere il valore deve essere fissato nel patto (o almeno i criteri di fissazione) e non è rinviabile successivamente (altro è dire che può essere modificato successivamente per consenso unanime e questo è certo possibile ex art. 768-septies c.c. ); mi sembra infatti che l'opposta opinione [nota 14] non tenga conto della specialità causale del patto, dell'esigenza di una sua (tendenziale) definitività, come si evince anche dal breve termine di impugnazione di cui all'art. 768-quinquies c.c. Mi sembra invece persuasiva la tesi [nota 15] che scollega il mancato pagamento della somma liquidata, se rinviata nel tempo, dall'inefficacia del patto, anche per quanto riguarda la risoluzione per inadempienza. Petrelli scrive [nota 16] che il legittimario, spostando la liquidazione nel tempo, attua una forma di rinuncia parziale alla sua tutela «con ciò assoggettandosi al relativo rischio, senza che ciò pregiudichi in alcun modo l'effetto preclusivo della collazione o riduzione». Concordo con tale conclusione, sempre collegata alla (tendenziale) definitività di cui sopra, che "spiegherebbe" anche la presenza della sola regola di cui all'art. 768-quinquies c.c. (e del suo brevissimo termine prescrizionale) e non della disciplina dell'inadempimento. [nota 17] Faccio, però, notare che le conseguenze non sono drammatiche perchè il legittimario potrà sempre "recuperare" (esistendo altri beni) al momento dell'apertura della successione e questo potrebbe spiegare, a mio parere, il mancato richiamo alla disciplina della risoluzione per inadempienza. Va da sè che l'autonomia contrattuale potrà anche rifiutare tali conseguenze deducendo in condizione l'effettiva liquidazione degli altri legittimari.
L'intervento legislativo, a mio parere, ha questa limitata funzione e non intacca i capisaldi del sistema della successione in genere e in particolare quelli della successione necessaria. Tant'è che rimangono gli articoli fondamentali in materia [nota 18] e cioè in particolare: l'art. 458 (divieto dei patti successori nella loro triplice forma istitutivi, dispositivi, rinunciativi) essendo l'articolo solo derogato in parte qua, l'art. 549 (divieto pesi e condizioni sulla legittima), l'art. 557 (irrinunciabilità preventiva all'esercizio dell'azione di riduzione) [nota 19], l'art. 556 c.c. (riunione fittizia). [nota 20]
Ma rimane anche qualche caposaldo delle liberalità inter vivos come la regola di cui all'art. 801 c.c. in relazione all'art. 809 c.c., risultando derogate solo le regole in tema di riduzione e collazione per quanto concerne la sopravvenienza di figli. [nota 21] Rimangono anche capisaldi del sistema successorio diversi che, in qualche maniera, come vedremo, influenzano la nostra materia come la regola di cui all'art. 66 c.c. in tema di morte presunta, articolo apparentemente "defilato"rispetto alla nostra materia.
E soprattutto vale (evidentemente non si tratta di "rimanere") il tessuto dei principi costituzionali e in particolare la "prevalenza" del principio solidaristico [nota 22], a tutela della famiglia (artt. 29 e 30) [nota 23] rispetto alla garanzia della libertà di attività economica o di tutela di determinate forme di impresa [nota 24] nonchè il limite di cui all'art. 42, ultimo comma [nota 25]. Ora è indispensabile tenere presente che effettivamente si può porre un problema di modifica indotta dalla nuova disciplina su altre norme del sistema riguardanti la materia propria della successione necessaria o materie di collegamento. Esempi concreti e interessanti possono essere portati avanti ad esempio per quanto concerne l'influenza della legislazione fiscale su quella civile [nota 26] o per quanto concerne la riforma del diritto societario sulla materia delle società di persone [nota 27] . Ma si tratta di settori in cui la modifica riguarda sostanzialmente norme dispositive o più particolarmente norme di organizzazione o comportanti importanti principi nuovi, ma conformi alle linee guida costituzionali; nel nostro caso, invece, si tratta perlopiù di principi di tipo fondante che dovrebbero essere limitati e per i quali ci sembra di dover concludere che la novella può innovare sulla disciplina della materia riformata e più che mai sulle discipline "limitrofe" solo se l'innovazione è espressa o almeno sufficientemente chiara. Insomma se si volesse prendere a prestito una ipotesi concorrente, a ulteriore supporto della nostra conclusione, potremmo rifarci al rapporto fra abrogazione espressa e tacita; come è noto l'abrogazione non si presume [nota 28] e l'abrogazione espressa di alcune norme non può essere estesa a materie analoghe o connesse. [nota 29]
Questo rapporto fra regole (quelle "storiche" della successione necessaria e le altre codicistiche citate) ed eccezione (il Patto di famiglia) mi sembra del tutto evidente, ma è indispensabile per mettere sull'avviso che l'uso dell'interpretazione evolutiva nel caso di specie deve intendersi molto limitato. Certo la tentazione di "commercializzare" ulteriormente la materia ai fini di renderla ancora più rispondente alle esigenze del mondo dell'impresa è forte [nota 30], ma il senso della novella è ridotto [nota 31] e i rischi di ricadute in termini di invalidità di pattuizioni mi sembra decisamente notevole.
Una breve digressione: il carattere eccezionale della disciplina del Patto
è questo un punto davvero rilevante perchè contestato in varia maniera da tutti quelli che optano per una interpretazione lata del Patto di famiglia. E il punto è molto importante perchè quanto più si collegano al microsistema "deviazioni" rispetto alla disciplina "normale", tanto più evidente ne risulterà l'eccezionalità. [nota 32]
Il tentativo di "portare fuori" dallo ius singulare il Patto di famiglia si sviluppa in due diverse maniere: la prima negando il carattere eccezionale del Patto, la seconda, non smentendone la natura eccezionale, ma affermando che l'uso del mezzo ermeneutico permette di "dilatare" sufficientemente il contenuto della nuova disciplina.
In questo paragrafo approfondiremo, nei limiti di questo lavoro, la prima alternativa, decisamente più interessante, mentre per la seconda spenderemo poche osservazioni nel paragrafo conclusivo.
Il primo tentativo si compirà cercando di riportare la disciplina del Patto di famiglia nell'alveo del diritto speciale. Si compirà, abbiamo scritto, perchè per ora, in ragione della sua recentissima entrata in vigore, la tendenza è appena accennata. A mio parere il tentativo si svilupperà cercando di assimilare, in certo modo evidentemente, il Patto di famiglia alle cosiddette "successioni anomale", appunto istituti speciali nei quali il fenomeno successorio unitario è rotto in ragione della tutela di speciali beneficiari o in ragione della tutela di particolari beni, con applicazione di regole proprie e di non applicazione di regole proprie del fenomeno successorio;viene spontaneo alla mente quel tipo di successione anomala che è la successione del coltivatore diretto e di cui all'art. 49 L. 3 maggio 1982, n. 203 [nota 33] (ma si veda pure l'art. 8, terz'ultimo comma L. 26 marzo 1965, n. 590). è vero che la disciplina delle successioni anomale è inderogabile [nota 34] o normalmente inderogabile [nota 35], ma è significativo che si per la successione del coltivatore diretto si scriva che la ratio legis è la tutela «dell'interesse collettivo ad evitare che le mutazioni di proprietà si risolvano…in cause di smembramento di unità economiche produttive» [nota 36]. D'altra parte si tenga presente che esistono ulteriori elementi di somiglianza in senso lato: si pensi all'inapplicabilità della norma sulla formazione della massa fittizia per l'indennità di cui all'art. 2122, comma primo c.c. [nota 37] e si compari tale circostanza con il principio di cui all'art. 768-quater ultimo comma c.c.; si comprenderà che certamente esiste qualche "munizione" per sostenere la tesi criticata. Insomma si tenterà di "specializzare" il Patto di famiglia richiamandosi, in termini diversi ma con qualche punto di incontro, alle successioni anomale speciali.
Diventa indispensabile esaminare il rapporto norma speciale/norma eccezionale.
L'eccezionalità [nota 38] può confluire nella specialità [nota 39]. Si rifletta su questa affermazione di N. Coviello: «…di vero, se le norme speciali sono quelle sono quelle che regolano rapporti a cui per la loro particolarità non si adattano convenientemente le norme generali, è chiaro che esse costituiscono una deviazione da queste propter utilitatem quandam, come tutte le norme di diritto eccezionale. La loro differenza si è affermata, ma non dimostrata». [nota 40] Questa tesi, malgrado l'autorità di Coviello e Rocco, non ha sortito grande fortuna, ma ha avuto e ha comunque una sua cittadinanza in una forma un poco diversa. Sostanzialmente il carattere eccezionale viene individuato in un rapporto di stretta colleganza con la norma speciale; quest'ultima rispetto alla norma generale regolerebbe un numero più ristretto di rapporti che hanno proprie particolarità denotanti;la norma eccezionale, invece, un gruppo ulteriormente più ristretto, per cui si avrebbe una «specialità più ridotta» [nota 41]. Questa differenza, puramente quantitativa, crea confini incerti e di conseguenza ha dogmaticamente scarso valore, ma è da segnalare perchè introduce un criterio "quantitativo" che tendenzialmente porta a ritenere…eccezionale nel sistema la presenza di norme eccezionali e quindi sarebbe un buon punto di partenza per la tesi favorevole all'allargamento della disciplina del Patto di famiglia.
Assai più interessante dogmaticamente è la ricerca di un criterio valutativo. In quest'ottica si scrive che la norma è speciale perchè riguarda un campo più circoscritto di rapporti in ragione di «un regolamento più confacente alle particolari esigenze di tali rapporti», mentre quella eccezionale rappresenta «una deviazione dalle norme direttive dell'ordinamento» [nota 42] o anche, in senso più limitato, dai principi che reggono un istituto giuridico [nota 43] o dal diritto comune [nota 44]. La distinzione, quindi, si porrebbe fra "adattamento" (diritto speciale) e "deviazione" (diritto eccezionale). Ma la formula, appagante a prima vista, non regge già ad un primo approfondimento perchè incappa nel vizio di "circolarità"; si noti infatti la definizione: "il diritto speciale è applicazione del sistema, con un adattamento a un ramo che ha speciali (corsivo nostro) esigenze" [nota 45]; in secondo luogo se in alcuni casi è assai facile, intuitivamente, capire la specialità (certamente è speciale la disciplina della vendita immobiliare rispetto alla vendita), in altri la distinzione riesce molto difficile, cioè riesce difficile, in pratica, individuare quando vi sia adattamento o deroga [nota 46] anche in ragione dell'incrocio o della connessione di principi generali fra di loro.
Un esempio per tutti. La disciplina della pubblicità immobiliare è quasi unanimamente giudicata eccezionale perchè deroga al principio dell'efficacia traslativa del consenso, ma nel contempo dovrebbe essere disciplina solo speciale perchè realizza il principio della tutela dell'affidamento nel campo importantissimo della circolazione immobiliare, ma nel contempo dovrebbe ancora tornare a riqualificarsi come disciplina eccezionale perchè la sua dilatazione oltre i casi previsti ingenererebbe incertezze nella e sulla consultazione e si lederebbe il principio dell'affidamento [nota 47], ma nel contempo laddove la pubblicità immobiliare realizza fini di mera notizia, dovrebbe tornare a valere il principio della specialità e quindi la possibilità di applicazione analogica a tutela dell'affidamento dei terzi che non è certo infirmato, ma protetto, dall'ampliamento delle segnalazioni di mera notizia. La circolazione delle partecipazioni sociali di società a responsabilità limitata regolata dall'art. 2470 c.c. è speciale o eccezionale? Il problema è molto importante, fra l'altro, per sapere se l'iscrizione può dilatarsi alle ipotesi diverse dall'alienazione, quali le vicende modificative.
Le esigenze circoscritte di questo lavoro non consentono assolutamente un proseguimento dell'indagine.
A me sembra che, se esistono veramente luci e ombre in tema di distinzione fra disciplina speciale/eccezionale, si possa con tranquillità convenire su questi due punti:
a una disciplina, pur in contrasto con il diritto comune, con un istituto, con altri principi generali è sempre comunque speciale e non eccezionale quando realizza un principio costituzionale. E questo, ad esempio, vale per la disciplina della successione anomala in agricoltura ex art. 44 della Carta. Questa conclusione a mio parere deve ritenersi sicura, ma la forza di inerzia del principio per cui la norma è eccezionale quando si contrappone ai principi del diritto comune è tale che esistono casi in cui la dottrina e la giurisprudenza si spaccano sull'eccezionalità o specialità di una certa disciplina;è il caso della prelazione agraria che pur è attuativa di un principio costituzionale anche se contrasta con il diritto comune in ragione della efficacia reale. [nota 48]
b una disciplina, non attuativa di un principio costituzionale, è sicuramente eccezionale quando diverge rispetto a molti (corsivo nostro) principi di diritto comune e (controprova), se dilatata nella sua applicazione, compromette ulteriori principi di diritto comune e addirittura principi costituzionali. E questo è il caso nostro. La tutela dei legittimari, come si è scritto, è, infatti, anche agganciata al principio di cui all'art. 29 della Carta, a quello di cui all'art. 42, ultimo comma c.c. [nota 49] nonchè a quello di cui all'art. 2, principio che, secondo una punta dottrinale di grande fascino giuspolitico, addirittura è espressione di un vero meta-valore [nota 50] secondo l'impianto di quel giusnaturalismo laico attenuato che costituisce il succo delle più evolute Costituzioni moderne [nota 51].
Ora esiste una garanzia costituzionale circa la libertà di iniziativa economica a tutela dell'impresa, ma notoriamente non esiste una ulteriore, specifica tutela dell'attività d'impresa che non sia quella di cui agli artt. 44 e 45 della Carta [nota 52].
Alla stregua di quanto scritto, corroborato dal preciso elemento letterale, ci sembra quindi assolutamente non condivisibile la tesi che, facendo leva sull'art. 768-sexies c.c., sottolinea con forza l'opportunità (e quindi, secondo la tesi criticata, la liceità) di estendere l'efficacia del patto a ipotesi in cui non partecipino tutti i legittimari, [nota 53] affermando che, diversamente, verrebbe lesa la finalità primaria dell'istituto (la stabilità del trapasso generazionale dell'azienda a favore di chi si suppone più dotato) in dipendenza «dell'atteggiamento anche solo capriccioso di un legittimario controinteressato». [nota 54] Stesse considerazioni per la tesi secondo la quale alla base della novella «sono sempre le ragioni (dell'efficienza) dell'impresa, quali si assumono essere sottese all'istituto in commento, che suggeriscono all'interprete di prescegliere fra le due letture della legge che sono ammissibili nel suo testo letterale quella che, ai fini della validità ed efficacia del patto, rende superfluo il consenso dei legittimari esclusi dall'assegnazione» [nota 55]. Ai fini della piena opponibilità del patto, anche per quanto concerne la determinazione quantitativa dei rispettivi diritti, basterebbe, in analogia al disposto dell'art. 1113 c.c., l'apposita convocazione. [nota 56] Una impostazione di questo genere a nostro parere, si pone fuori dal sistema per totale obliterazione dei criteri interpretativi, dei criteri dogmatici e soprattutto della gerarchia dei principi. [nota 57] Il Patto di famiglia suppone l partecipazione di tutti i legittimari a pena di nullità. Ritorneremo varie volte sul punto.
La deroga ai principi del diritto comune per quanto concerne il Patto di famiglia è già stata precisamente indicata nel paragrafo precedente e, come si vedrà avanti, una dilatazione di disciplina realizza proprio quanto sopra scritto al punto b). La disciplina del patto ci sembra, quindi, eccezionale, con tutte le rigide conseguenze che ne seguono.
La natura eccezionale del patto, e qui lo si accenna di passaggio, presenta riverberi anche per quanto concerne la ricostruzione dogmatica dell'istituto: se si ritiene che il modo apposto a donazione sia non soggetto a riduzione, in caso di lesione di legittima, ma, inefficace ex art. 549 c.c. [nota 58], vi saranno buoni argomenti per negare che il patto integri una donazione modale perchè la ricostruzione importerebbe, oltre all'irriducibilità testuale della attribuzione all'assegnatario, anche la violazione ulteriore del principio di cui all'art. 549 c.c. per gli altri legittimari. Infatti è preferibile una ricostruzione dogmatica quanto più possibile rispettosa dei principi della materia.
L'estrazione della regola dal caso "anomalo"
Segnalo, per completezza di esame critico, che il tentativo di escludere l'eccezionalità della disciplina (in particolare la non indispensabile partecipazione al patto di tutti i legittimari esistenti e conosciuti) è stato portato avanti sulla base di un assunto diverso; si tratta di rilievi fattuali che "dovrebbero" incidere in qualche modo sul contenuto della norma escludendone, almeno per un settore del suo contenuto, l'eccezionalità. Ci si è chiesti se non possa "funzionare" il Patto di famiglia, pur in assenza di qualche legittimario irreperibile o tossicodipendente [nota 59]; la domanda è posta retoricamente per far comprendere l'irragionevolezza di una soluzione negativa.
Si potrebbe ribattere ricorrendo al vecchio brocardo "adducere inconvenies…", ma non riterrei corretta la risposta perchè l'argomento consequenzialista, inteso modernamente, è tutt'altro che di scarso peso; l'argomento consequenzialista, però, e lo abbiamo scritto e ancora lo diremo anche più avanti, cede nel nostro caso di fronte "all'urto" con principi generali anche di rango costituzionale. Invece si deve rilevare che il "prezzo" inevitabile dell'astrattezza della norma è proprio il fatto di non potere essere soddisfacente per tutti i casi, e quindi per le zone di "penombra"; il giudizio di equità, come è noto, nasce proprio da tale esigenza, ma esso deve essere autorizzato dalla legge o dalle parti in causa, e non è viceversa possibile una interpretazione d'equità che collida con il senso compiuto della norma, come del resto riconosce tutta la manualistica corrente [nota 60].
Ma, affrontando il punto in maniera più corposa, a nostro parere è "logicamente"scorretto questo modo di argomentare. Autorevolmente già Bigiavi [nota 61] aveva escluso la persuasività di una conclusione per la quale si estraeva la regola dal caso anomalo e non dalle "regolarità" assunte dalla norma, ma molto più decisamente deve dirsi che costituisce un vero e proprio vizio di "fallacia" del discorso razionale argomentare dal caso particolare per arrivare da ciò ad una conclusione generale [nota 62].
Altro profilo generale: Il protagonista del Patto: l'imprenditore o il titolare delle partecipazioni sociali. Ancora due scelte di campo
E veniamo ad una ulteriore fondamentale lettura della norma: il presupposto soggettivo (imprenditore/titolare di partecipazioni sociali) è disomogeneo o esiste un comune denominatore? La prima alternativa mi sembra assolutamente impersuasiva: Tizio ha cinquemila azioni di società il cui capitale totale ammonta a 400. 000 azioni e (ci si chiede) può avvalersi del disposto dell''art. 768-bis c.c. ? E si applica lo stesso articolo se assegna un importante stock di azioni di risparmio? E può anche distribuire fra tutti i suoi legittimari tutti o alcuni dei suoi residui beni ai fini di pareggiare le situazioni? La risposta positiva mi sembra che dilati così tanto il senso della norma da escludere la sua giustezza, specie se si affermasse (cosa che negheremo successivamente) che il cedente, pur che esista una minima entità di partecipazioni sociali, può stipulare un Patto di famiglia assegnando agli "altri" legittimari altri beni. In questo modo si distorce la ratio della norma rendendola incoerente nelle sue applicazioni. Infatti nel caso di azienda si vuole la continuazione dell'impresa, fine che giustifica la parziale deroga al sistema; nel caso di cessione di una modestissima quantità di azioni di una grande società (ma perchè no? anche di una modestissima quota di srl) non ha senso derogare ai principi fondamentali del sistema per un risultato così scarso dal punto di vista degli interessi meritevoli di tutela, oltretutto coinvolgendo nel risultato fondamentale dell'art. 768-quater ultimo comma c.c. anche beni estranei all'azienda donati dal padre agli altri legittimari; in questi casi addirittura la cessione gratuita della modestissima partecipazione societaria appare più che altro un grimaldello elusivo di tutti i principi fondanti sopra elencati.
Il che significa che il riferimento all'impresa "colora" le quote sociali di cui dispone il cedente [nota 63].
Anche qui opera quella scelta di campo di cui prima si è scritto.
Chi accentua il nesso famiglia-impresa o famiglia-partecipazioni sociali sarà portato a coonestare l'applicazione della nuova disciplina solo laddove azienda o partecipazioni rappresentino la personalizzazione di un apporto di capacità, competenze, lavoro, effettuato dal disponente [nota 64] e non importa che si tratti di società di persone o di capitali, a responsabilità limitata o azionaria.
In altre parole il cedente non deve essere un investitore, ma un soggetto che, nell'ambito della impresa collettiva, partecipa in maniera "significativa" al comando (non necessariamente deve essere un potere di controllo) [nota 65]. Mi sembra istruttivo questo passo di Galgano [nota 66] che riporto: «Il possesso delle azioni è sempre, nella realtà economica, preordinato all'una o all'altra funzione: chi sottoscrive azioni, all'atto della costituzione della società, o acquista azioni di una società già costituita lo fa o per esercitare, da solo o d'intesa con altri, il comando della società oppure lo fa al solo scopo di effettuare un investimento di danaro. Non esiste, nel mondo degli affari, un'unica operazione, genericamente definibile come sottoscrizione o come acquisto di azioni: si sottoscrivono o si acquistano "pacchetti azionari" la maggioranza dei voti in assemblea e, quindi, il comando della società; oppure si sottoscrivono o si acquistano, a fini di mero investimento, piccole tranches di azioni, che non danno alcuna possibilità di accedere all'area di comando della società.
La sottoscrizione originaria o il successivo acquisto delle azioni è, nel primo caso, un'operazione imprenditoriale: è l'atto di chi destina danaro all'esercizio di una impresa e vuole, di conseguenza, conseguirne il comando o, quanto meno, concorrere in esso. è, nel secondo caso, una possibile forma di investimento del risparmio.»
In altre parole il comun denominatore fra disponente imprenditore e titolare di partecipazioni sociali è il mantenimento per la futura generazione di quello che è il valore di una realtà economica dinamica collegata all'impresa, ma di una realtà economica che fa capo in maniera "significativa" al disponente [nota 67]. Con una avvertenza e una precisazione: il carattere "significativo" non può che essere colto sulla base di valutazioni specifiche in ragione della entità e qualità della partecipazione; addirittura, e questo è un caso limite, la significanza può essere colta non sulla base della partecipazione in sé, ma correlandola anche ad altri aspetti salienti e denotanti il caso concreto, come l'esistenza di partecipazione già in capo al beneficato, dimodochè la somma delle due partecipazioni dia luogo ad un vero e proprio potere di comando in mano al beneficiario [nota 68]. Del resto se lo scopo della novella è facilitare il trapasso generazionale dell'azienda o delle partecipazioni ha senso che il profilo imprenditoriale venga valutato anche per il suo significato "complessivo", tenendo conto delle realtà complessive della famiglia.
La conclusione restrittiva che abbiamo assunto, del resto, è confermata da aspetti letterali della disciplina: il legislatore non sempre si riferisce alle due ipotesi dell'imprenditore che cede l'azienda o le partecipazioni sociali;a volte si riferisce ad un caso singolo per le due ipotesi (art. 768-quater primo comma, art. 768-sexies primo comma) e, non è senza significato il fatto che parli onnicomprensivamente di "imprenditore" e non è senza significato che quando individua il bene per cui si dispone con un unico termine onnicomprensivo si scriva di "azienda"(art. 768-quater, terzo comma c.c.).
Può farsi questione del perchè il legislatore non abbia, esso stesso, sciolto i dubbi collegando la trasmissione delle partecipazioni sociali a quegli aspetti imprenditoriali di cui si è prima scritto. Potrebbe parlarsi di legislatore frettoloso, ma a mio parere, esiste una ragione ben valida. Non era facile effettuare un collegamento come quello sopra indicato; in particolare non esiste una categoria astratta di partecipazioni sociali, come sopra si è scritto, che indichi, nell'ambito dei tipi societari, quali esprimano il collegamento indicato; è giocoforza rimettersi ad un criterio fattuale di tipo casuista. Del resto, se si riflette, lo stesso problema, ma più "facile", si era posto in sede di ultima codificazione allorchè il legislatore all'art. 320 c.c. ha dovuto indicare i casi in cui si imponeva l'autorizzazione tutelare a favore del minore. Il legislatore è stato estremamente breve indicando la continuazione dell'impresa commerciale e non ha neppure sinteticamente indicato le partecipazioni sociali espressive di rischio di impresa, ma anche in questo caso la dizione è comprensibile perchè accanto a partecipazioni che esprimevano in sè tale rischio, esistevano quelle a cui il rischio era controllabile casuisticamente come la fattispecie di cui all'art. 2314, secondo comma c.c., o di cui all'art. 2320, primo comma seconda parte (qualora "già" esistente la responsabilità dell'accomandante) o di cui all'art. 2362 c.c. (anteriormente alla riforma). [nota 69]
In buona sostanza quando esistono concetti troppo "aperti", e per di più con collegamenti fattuali, è, se non necessario, certo comprensibile, adottare criteri solo generici o sintetici, spettando poi all'interprete la precisazione nel caso concreto. Se si vuole, e con un esempio lontanissimo dal nostro tema ma che calza, si può fare l'ipotesi dell'art. 11 L. 4 maggio 1983, n. 184, modificato dall'art. 11 L. 28 marzo 2001, n. 149 dove il legislatore, dovendo districarsi fra i molteplici criteri pratici che possono giustificare l'adozione di minori senza genitori da parte di parenti, ha felicemente usato l'espressione di parenti «entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore». Nel nostro caso, certo, uno sforzo enunciativo meno problematico era certo possibile, ma rimane la giustificazione di fondo.
Se prevarrà, invece, una visione marcatamente più commercialistica, il Patto di famiglia si giustificherà in un'ottica decisamente meno imprenditoriale e più legata al valore intrinseco delle partecipazioni intese non solo come conferimento e partecipazione alla dinamica sociale ma anche come mero "investimento". Questo, è vero, corrisponde alla logica dello sviluppo dell'impresa collettiva moderna nella quale, secondo la bella espressione di Spada [nota 70] la partecipazione sociale è caratterizzata dal "depotenziamento del rischio come criterio di legittimazione del potere di direzione", ma è altresì vero che l'ottica particolare del legislatore, in questo caso, è un altra: è l'ottica particolare della continuità imprenditoriale.
Certo è, a mio parere, che, considerato che le due cessioni devono essere coerenti fra di loro, ritenere che la cessione di partecipazioni sociali sia sganciata da ogni loro peso corporativo impone di svalutare la qualifica soggettiva di imprenditore nel caso di cessione d'azienda (potrebbe quindi cederla chi la ha puramente ereditata senza gestirla). Ora questa svalutazione mi sembra assai più difficile che non "restringere" i casi di cessione di partecipazioni sociali nel senso di cui sopra, anche perchè quest'ultima tesi è senza dubbio assai più coerente con il fine del legislatore della novella.
è inutile sottolineare che non solo questa ambivalenza di scelta interpretativa crea e creerà in molti casi gravi perplessità per l'operatore del diritto, ma altre e non indifferenti incertezze si creeranno nell'ambito di una qualsiasi delle due tesi esposte perchè nel primo caso non sarà facile individuare i casi di confine in cui esiste un significativo potere corporativo collegato alla partecipazione sociale e nel secondo caso capire quando esista un significativo investimento meritevole di essere apprezzato come bene da dedurre specificatamente in Patto di famiglia.
Le attribuzioni agli "altri" legittimari.
Il problema del soggetto che attribuisce
Una fondamentale, ulteriore, conclusione che si ricava dalla finalità "ristretta" della norma e dall'eccezionalità della disciplina è che il cedente assegna al cessionario l'azienda (le quote) e non assegna agli altri legittimari altri beni extra aziendali; il disposto della norma è sufficientemente chiaro nello stabilire che a fronte della liberalità a favore del legittimario prescelto, questi debba liquidare gli altri legittimari in proporzione ai loro diritti; il controvalore dato dal cessionario dell'azienda è il mezzo con il quale quest'ultimo affranca la continuità imprenditoriale dal cedente a suo favore. L'art. 768-quater secondo comma indica chiaramente chi deve liquidare, secondo lo schema tipico del patto, gli altri legittimari e il terzo comma indicando genericamente che vi sono beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non fa che prendere atto della circostanza che il comma precedente prevede una liquidazione in denaro o con beni diversi.
Per la verità il cessionario con la norma realizza due obiettivi: il primo fissare in maniera definitiva il valore dell'azienda; il secondo evitare futura riduzione e collazione per quanto ricevuto. Per ottenere questo risultato normalmente pagherà con mezzi propri, magari indebitandosi; gli altri legittimari riceveranno senza dover subire collazione o riduzione.
La rinuncia alla liquidazione da parte degli altri legittimari nei confronti del cessionario d'azienda o di partecipazioni sociali sottrae sempre l'azienda o le partecipazioni a collazione e riduzione, ma, come vedremo, consente agli stessi di "recuperare" i loro diritti alla morte del cedente su altri beni lasciati o donati [nota 71], esistendo sempre la norma di cui all'art. 556 c.c. in tema di riunione fittizia, pur se il valore dell'azienda e delle partecipazioni sociali è "fermato" secondo i principi della novella [nota 72]. Salvo casi del tutto eccezionali, però, la rinuncia alla liquidazione suppone che altri, ovviamente quasi sempre il disponente, abbia soddisfatto le loro ragioni, magari precedentemente. Da qui, però, una domanda "tranchant": non è che possa il cedente, nell'ambito stesso del Patto di famiglia, soddisfare direttamente gli "altri"legittimari?
A me pare proprio di no [nota 73] .
O meglio li può assegnare, come può averli precedentemente assegnati, ma non con gli effetti di cui all'art. 768-quater e ss. c.c. (e quindi saranno aggredibili e non risulteranno a valore "contrattualmente" fisso) [nota 74], poichè anche per questa ipotesi gioca l'eccezionalità della norma che fissa requisiti "necessari" di fattispecie. Anzi un loro inserimento nel Patto di famiglia, si noti come contenuto proprio, fisiologico, dell'atto, darebbe luogo all'azione di annullamento, se non addirittura a nullità ex art. 458 c.c. [nota 75] con il grave problema di verificare se vi possa essere conversione ex art. 1424 c.c. (in Patto di famiglia e donazione "laterali") e con il problema, sempre da tale punto di vista, di verificare se non esista nullità per illiceità e come tale inconvertibilità [nota 76]. Questa conclusione parrebbe essere messa in forse dall'art. 768-quater penultimo comma c.c. che imputa quanto ricevuto dagli assegnatari non cessionari dell'azienda alla loro legittima; il che può apparire anomalo se la liquidazione fosse fatta dal cessionario. Non è così: in realtà è come se il disponente, nei confronti di questi ultimi, avesse surrogato l'azienda con altri beni disponendo a loro favore in via indiretta tramite il cessionario; proprio per tale provenienza indiretta l'inciso ha sicuramente senso e per stabilizzare l'effetto generale si esclude per tutti i contraenti riduzione e collazione [nota 77] .
La tesi favorevole all'allargamento del Patto di famiglia sino a ricomprendere altri beni del disponente a favore degli altri "legittimari" è sviluppata con particolare approfondimento da Petrelli [nota 78]. Merita darne conto. L'autore riconosce che la dizione della legge non legittima tale tesi; dopodichè ricava la sua conclusione dalla circostanza che la norma esplicitamente imputa alle quote di legittima degli "altri"assegnatari quanto ricevuto dal cessionario e non invece quanto ricevuto dal disponente perchè ciò è già stabilito dall'art. 564, secondo comma c.c.; ecco quindi la ragione, scrive l'autore, del silenzio della norma su quest'ultima attribuzione. Ma l'argomento ci sembra logicamente irrilevante; lo sarebbe "se" si dimostrasse precedentemente con altri argomenti (ad esempio l'argomento teleologico) che la dizione letterale è più ristretta rispetto al contenuto definitorio "vero" e allora il rilievo servirebbe a spiegare, a posteriori, perchè il legislatore non ha imputato alla legittima degli "altri" legittimari quanto ricevuto dal disponente. Mancando una reale giustificazione a monte relativa alla tesi criticata deve concludersi che la dizione di cui all'art. 768-quater penultimo comma c.c. correttamente è posta per imputare agli "altri" assegnatari le liberalità che ricevono, indirettamente, dal disponente.
La tesi criticata che ampia i soggetti deputati alla liquidazione includendovi il disponente, soffre, infine, di sospetta costituzionalità; infatti una deroga così ampia alle norme della successione necessaria a favore dell'imprenditore non sarebbe giustificata; la situazione di privilegio, invece, si razionalizza se si limita allo stretto necessario la deroga al diritto comune, ponendo, cioè, a carico del solo continuatore dell'impresa l'onere di liquidare gli altri legittimari.
Il profilo di incostituzionalità "raddoppia", a nostro parere, se si ammettesse che la titolarità, pur modesta, di quote sociali permetterebbe comunque di avvalersi della nuova disciplina per tutto il futuro asse ereditario "rivoluzionando" completamente i cardini della successione necessaria.
In realtà la tesi criticata è sostanzialmente una coperta troppo stretta. Infatti da una parte si tende ad allargare il patto includendovi molti altri beni del disponente in modo da facilitare il trapasso aziendale non indebitando l'assegnatario e quindi si privilegia un aspetto efficientistico, dall'altra, però, si amplierebbe l'insieme dei beni non soggetti a riduzione con grave danno dei legittimari sopravvenuti, in caso di insolvenza successiva degli originari partecipanti al patto, che non potrebbero perseguire i beni immobili extraziendali alienati ai terzi e comunque, per i beni attribuiti oltre la riserva a tacitazione dei diritti degli "altri" legittimari, non potrebbero invocare le regole della collazione. Da ciò un ulteriore dubbio di costituzionalità della norma. Insomma il bilanciamento degli interessi sfavorirebbe decisamente i legittimari sopravvenuti, ledendo interessi di rango superiore alla tutela dell'impresa.
Merita a questo punto dare conto in maniera riassuntiva delle conseguenze collegate ad una eventuale stipulazione del Patto di famiglia in cui il disponente, a fianco dell'attribuzione dell'azienda, ad esempio, soddisfi in proprio le ragioni degli altri legittimari, con altri beni, con rinuncia di questi ultimi ad ogni ragione liquidatoria nei confronti del cessionario.
a) Abbiamo scritto che tali disposizioni agli altri legittimari ben possono avvenire "fuori"dal Patto di famiglia (e cioè non per gli effetti di cui all'art. 768-quater e ss. c.c. ) [nota 79].
b) Abbiamo invece sopra scritto che una volontà contrattuale diretta specificatamente ad allargare l'area del patto sino a includervi, fisiologicamente si badi, attribuzioni a favore degli "altri" legittimari da parte del disponente, con rinuncia a ogni ragione liquidatoria nei confronti del cessionario d'azienda, collide con il divieto dei patti successori e contrasta con il principio di cui all'art. 1343 c.c., rendendo altresì problematica la conversione della convenzione in un corretto Patto di famiglia.
La situazione, al momento della morte, si rivelerà particolarmente grave quando, fidando tutti i partecipi nella definitività della convenzione, si scoprirà magari la sua illiceità, con conseguenze che ben si possono immaginare.
c) Il caso di cui al punto a) pare inoltre presentare specifici inconvenienti.
Apparentemente non vi sono inconvenienti, ma solo apparentemente…
Se Tizio, con due figli unici legittimari, dispone della propria azienda a favore del figlio Mevio ex art. 768-bis c.c. e contemporaneamente dona a Sempronio, l'altro suo figlio, un terreno edificabile, che al momento della morte, sarà di natura agricola, e se Sempronio in ragione della donazione a suo favore avrà rinunciato alla liquidazione, si verificherà una bizzarra situazione, a tutto danno di Sempronio, se il relictum non conterrà beni sufficienti almeno a soddisfare la sua legittima.
Equilibrio vi sarebbe solo a fronte di contemporanea donazione (con dispensa da collazione, si badi) da Tizio a Sempronio di somma pari al controvalore del suo diritto (rinunciato) alla liquidazione nei confronti di Mevio.
La donazione, poi, da Tizio a Mevio per approvigionarlo per il pagamento a Sempronio presta il fianco all'inconveniente che Mevio avrà l'azienda in via definitiva e con gli effetti di cui all'art. 768-quater, approvvigionandosi con una provvista di cui dovrà dar conto magari dopo lunghissimo tempo e in denaro svalutato.
Insomma, volendo esplicitare il tutto in un commento essenziale, è incongruo collegare alla rinuncia alla liquidazione ex art. 768-quater c.c. una donazione, che, a differenza della cessione d'azienda o di partecipazioni, è soggetta alle mutevoli variazioni di valore sino alla data di morte del disponente.
Viceversa il Patto di famiglia con pagamento dal cessionario agli altri legittimari si rivela perfettamente equilibrato.
Il momento temporale delle attribuzioni
La novella esplicita la regola della contestualità: l'imprenditore assegna e l'assegnatario soddisfa gli altri legittimari. Già prima si è scritto che le modalità temporali rappresentano la normalità, ma, se è vero che il fondamento dell'attribuzione all'assegnatario è sopratutto la fissazione del valore del bene attribuito, è evidente che l'autonomia privata potrà fissare modalità liquidatorie diverse;ad esempio, come vedremo, dal denaro, oppure modalità temporali non contestuali: potrà il disponente trasferire immediatamente o a tempo. Questo aspetto è particolarmente importante per due ragioni.
La prima, molto evidente, consiste nel fatto che spesso non si vuole abbandonare il timone di comando se non proprio alla fine dei propri giorni. La seconda è che la riserva di usufrutto (ci riferiamo in particolare all'azienda individuale) che parrebbe realizzare indirettamente il fine di cui sopra, si mostra mezzo non del tutto congruo. Infatti la gestione conseguente all'usufrutto inevitabilmente "cambierà", al momento della sua estinzione, il valore globale dell'azienda, ma non solo e non tanto per poste facilmente valutabili (cui quindi può corrispondere un pagamento senza veri problemi valutativi e sulla base di un inventario) quali quelle del capitale circolante, ma molto anche per il capitale fisso, per i contratti in corso alla fine dell'usufrutto, per l'avviamento [nota 80]. Il che significa che la cessione della nuda proprietà aziendale con riserva di usufrutto da parte del cedente [nota 81] potrà, in certi casi almeno, importare non facili problemi perchè in sede di collazione e imputazione si dovrebbe riunire il valore della piena proprietà secondo i comuni principi [nota 82], mentre la novella tende ad evitare proprio questo risultato [nota 83]fissando un valore una volta per tutte;ma d'altra parte non può dirsi soddisfacente non conteggiare in alcuna maniera quanto è il risultato dell'attività dell'usufruttuario.
Non è facile, quindi, trovare una soluzione appagante.
Analoghe conclusioni, anche se più smorzate, per l'ipotesi in cui il disponente mantenga il godimento dell'azienda, ex l'art. 771 secondo comma c.c., nel caso in cui si considerino comprese nella cessione i beni aggiunti successivamente. Discorso sensibilmente diverso per le partecipazioni sociali per le quali il trasferimento riguarda un valore (la nuda proprietà) che può essere immediatamente fissato e diventa insensibile alle successive vicende collegate al godimento dell'usufruttuario, salvochè vengano fissati dei correttivi collegati ai successivi sviluppi sino alla morte di quest'ultimo.
è giustificato in quest'ultimo caso e nel caso di cui sopra relativo all'azienda un meccanismo che demandi a criteri obiettivi o a valutazione del terzo il successivo incremento di valore, ma nel contempo riesce difficile immaginare un meccanismo che, al rovescio, fissi decrementi eventuali di valore cui si colleghino obblighi di restituzione a carico degli altri legittimari; tutto questo sarebbe chiaramente contro la ratio della novella. è sensato al contrario, mi pare, ritenere che, fermo e immutabile rimanendo il valore di base della nuda proprietà, si preveda un obbligo successivo dell'assegnatario per gli incrementi di valore ut supra, rimanendo invece a suo carico ogni eventuale decremento.
Questo risultato potrebbe essere ovviato solo ammettendo la liceità di una cessione "cum moriar", sempre ancorata a criteri rigidi di valutazione che realizzino l'obiettivo della novella e di cui prima si è dato conto. Il microsistema della novella potrebbe anche dirsi, in parte qua, rende lecita la cessione del bene con termine iniziale collegato alla morte del disponente (con valori prefissati o criteri predetereminati di adeguamento). è noto come sino ad oggi la donazione cum moriar è frequentemente qualificata in termini di nullità per violazione del divieto di patti successori istitutivi [nota 84], ma, per il bene azienda (e partecipazioni sociali) si potrebbe ammettere che la deroga di cui all'art. 458, primo comma c.c. si possa estendere a "qualunque" pattuizione traslativa dell'azienda o delle partecipazioni sociali secondo il disposto dell'art. 768-bis c.c., anche qualificata da non immediatezza delle attribuzioni ma da un termine temporale coincidente con la morte del disponente [nota 85]. La norma è, come si è scritto, eccezionale, ma, potrebbe dirsi, si rimane nel campo dell'interpretazione estensiva. Al contrario potrebbe dirsi che l'art. 458 c.c. è eccezionalmente derogato per quanto concerne solo i patti dispositivi, mentre una attribuzione cum moriar avrebbe natura istitutiva. Difficile indicare una soluzione persuasiva che supporrebbe una approfondita analisi, qui non possibile, circa la possibilità di una interpretazione estensiva di una norma proibitiva nel suo insieme oppure nei soli riguardi di un frammento di norma proibitiva, dovendosi ritenere le proibizioni non unitarie, ma separate (e quindi l'eccezionalità specificatamente proprio di ogni singolo divieto contenuto in un frammento di norma).
La permanenza nel tempo delle attribuzioni; il problema del legittimario che perde la qualifica al momento dell'apertura della successione. L'unità della successione
Quest'ultimo problema, quello della unitarietà della successione e quindi del coordinamento fra Patto di famiglia e futura successione, è questione di grande importanza.
Apparentemente il problema del collegamento si pone solo per quanto concerne la rinuncia alla liquidazione: se cioè sia rinuncia parziale alla riduzione o, come risulta dalla lettera, una rinuncia che non pregiudica il diritto all'eventuale recupero della riserva, a seguito di riunione fittizia, al momento dell'apertura della successione, pur non essendo soggetti a riduzione i beni di cui al patto. In realtà il problema manifesta tutta la sua importanza per quanto concerne il venir meno della qualifica di legittimario (il coniuge ad esempio, successivamente divorziato) in un secondo momento e il venir a esistenza di altro legittimario (o altri legittimari). Nel primo caso mutano i criteri di ripartizione della legittima, ma nel secondo caso si verifica il fenomeno assai più preoccupante di un legittimario che rischia di vedere compromesse le sue ragioni in maniera ingiusta e irragionevole. [nota 86]
Alcune riflessioni.
Se il legittimario perde la sua qualifica (ad esempio coniuge divorziato o separato con addebito, figlio disconosciuto in quanto adulterino, dopo l'intervento della Corte sull'art. 244 c.c. e altri esempi ancora) può certamente sostenersi la stabilità del patto e la stabilità della attribuzione al medesimo, salvo quanto disposto dall'art. 768-sexies, in quanto collegata ad una volontà comunque liberale e accettata da tutti i contraenti. Resta la stranezza dell'esclusione dell'azione di riduzione nei suoi confronti qualora (ipotesi borderline), mancato l'imprenditore, si constati che non esiste relictum e contemporaneamente all'ex legittimario con il patto sia stata attribuita una liquidazione, cosa certo possibile, di gran lunga superiore alla sua (già) riserva, ad esempio pari al 55% del valore dell'azienda assegnata al figlio, e quindi lesiva, fra l'altro, della riserva di quest'ultimo.
Si faccia, però, ora l'ipotesi, per il caso di cui prima, di una liquidazione pari anche al 50% del valore dell'azienda con la variante della sopravvenienza di un nuovo coniuge; ha senso che il prelievo ex art. 768-septies c.c. avvenga in egual misura nei confronti dell'ex coniuge e del figlio?. Ancora ha senso, ci si chiede, che il nuovo coniuge debba adattarsi ad un prelievo pari (solo) alla sua legittima ex art. 768-sexies in relazione al 768-quater, non avendo potuto partecipare alla definizione del patto? Il meno che si possa dire è che il regime della sopravvenienza non è armonico con il disegno generale del legislatore: ad esempio con la norma di cui al 66 c.c. che, per l'ipotesi (solo simile, è vero) della persona la cui morte è stata erroneamente dichiarata e che ritorna, prevede un regime, per la sopravvenienza, assai più soddisfacente. Il meno che si possa dire, nell'esempio fatto, è che esistono problemi di costituzionalità per la mancata applicazione del regime della collazione per quanto riguarda i valori oltre la riserva ricevuti dagli altri legittimari che, a differenza del legittimario sopravvenuto, hanno potuto "trattare" le loro spettanze e i valori. Il meno che si possa dire è che la rilevanza della (perduta) qualifica di legittimario per l'ex coniuge è contraria al regime delle sopravvenienze in materia successoria [nota 87]. Ci sembra quindi che esistano motivi discretamente convincenti per dubitare, qualora al momento della morte dell'imprenditore, sia venuta meno la qualifica di legittimario per un contraente e sia sopraggiunto un nuovo legittimario, che debba permanere l'attribuzione disposta a favore del primo nel patto o perlomeno (soluzione più ragionevole) per ritenere che venga meno il principio dell'irriducibilità dell'attribuzione nei suoi confronti .
A mio parere deve negarsi la perfetta autonomia del Patto di famiglia rispetto alla futura successione. [nota 88] Il Patto di famiglia è un microsistema non autonomo, però, rispetto alla futura successione. [nota 89] Esistono importanti indizi in questo senso, oltre i dubbi che affiorano per i motivi sopra esposti.
Già si è scritto che, pur se è un argomento strettamente letterale, che la rinuncia alla liquidazione non è rinuncia (parziale) all'azione di riduzione: incombe a chi sostiene questa tesi provare la deroga all'art. 557 c.c. Il testo letterale giustifica la conclusione che gli altri legittimari, per le ragioni più diverse (aspettative testamentarie lucrose correlate alla rinuncia, volontà di non gravare sul cessionario dell'azienda, etc. . . ) possono escludere la liquidazione recuperando, se del caso, l'azione di riduzione nei confronti degli altri beni caduti in successione [nota 90]. Come scritto sin dall'inizio, la riunione fittizia non è stata "cancellata" nel sistema del patto e rileva pur sempre, salvo quanto scritto per il valore del bene "azienda"; il calcolo della riserva opera, a successione aperta, anche sui beni di cui al patto, fermo rimanendo l'inapplicabilità di riduzione e collazione per essi, ma operando, in caso di rinuncia alla liquidazione, la riduzione sugli altri beni, lasciati o donati, in quanto esistano e in quanto ricorrano i presupposti [nota 91]. è del tutto eccezionale, infatti, il principio di cui all'art. 562 c.c. che "restringe" la massa ereditaria ai fini del calcolo della legittima [nota 92].
Non è ragionevole, ci sembra, a parte rilievi dogmatici di cui sopra, una diversa conclusione.
Si rifletta: è quasi scontato pensare che la rinuncia alla liquidazione sarà la contropartita di una donazione che il disponente l'azienda farà a "quel" legittimario. Se si tratterà di donazione di denaro vi sarà una situazione di equilibrio generale. Se il disponente donerà all'altro legittimario un bene suscettivo di incremento di valore, e questo si verificherà, è ragionevole che di ciò si tenga conto nella riunione fittizia anche a danno del donatario; ma se quest'ultimo subirà un forte decremento di valore in ordine al bene donato perchè non tenerne conto permettendogli la riduzione in ordine ai beni diversi da quelli del patto, ma calcolandoli nella rinuncia fittizia?
La novella importa certamente la formazione di un compendio in cui i debiti/crediti fra l'assegnatario dell'azienda e gli altri legittimari rimangono fra loro confinati, con esclusione di riduzione e collazione e da questo punto di vista il sistema arieggia quello di cui all'art. 562 c.c. per quanto concerne le ragioni del legittimario e dei donatari antecedenti nei confronti del donatario insolvente, ma, a differenza di questo caso, non vi è alcuna diminuzione della massa proprio perchè non vi è un caso di insolvenza. Quindi, all'apertura della successione, la riunione fittizia sarà globale perchè non vi è alcuna ragione di derogare al principio. Si rifletta su quest'altro esempio: il padre, secondo la novella, cede l'azienda all'unico figlio, partecipando al patto il coniuge;l'azienda è trasferita al valore di 600 e il coniuge riceve dal figlio la somma di 200. Al momento della morte non vi è relictum, ma esiste una successiva donazione fatta dal defunto a estraneo pari a 100 e il figlio assegnatario è precedentemente deceduto;ora non si vede alcuna ragione perchè non debba il coniuge recuperare 100, e non 50, presso il donatario, secondo le regole "solite" dell'art. 556 c.c.
La tesi che accogliamo importa ulteriori conseguenze. Eccone alcune:
- Se dopo il Patto di famiglia sopraggiunge un altro legittimario e, prima della sua liquidazione, il cedente muore lasciando un testamento con il quale soddisfa le ragioni del nuovo legittimario con un legato sostitutivo di legittima, a me sembra che la disposizione, se accettata, liberi i contraenti del patto da ogni loro obbligo nei confronti di quest'ultimo.
- Dopo il Patto di famiglia sopraggiunge un altro legittimario e quindi muore il disponente; ora in caso di insolvenza di qualche beneficiario, supposta l'inesistenza di relictum e donatum, se il patto è sganciato totalmente dalla successione è coerente affermare la solidarietà degli altri partecipanti al patto per il credito del nuovo legittimario [nota 93], mentre se collegamento esiste ci sembra che sia più coerente la soluzione per cui il debito non è solidale, ma parziario e proporzionale al valore delle donazioni, come capita nell'ipotesi di donazioni contemporanee secondo l'interpretazione che viene data all'art. 559 c.c. [nota 94]; infatti la circostanza che non operi l'azione di riduzione non toglie che debba valere il criterio residuale circa le modalità di prelievo dei diritti del legittimario.
- Se la rinuncia alla liquidazione non è rinuncia (parziale) alla legittima, non ha senso chiedersi quale sia l'effetto ai fini della «rideterminazione della riserva spettante agli altri legittimari» e cioè porsi il problema del cosiddetto «accrescimento della quota di legittima» [nota 95]. Infatti se la rinuncia non è da intendersi come rinuncia, provvisoria, alla liquidazione sarà una rinuncia liberale che importerà pur sempre il conteggio del rinunciante come legittimario.
- Invece tutt'altro che facile è chiarire se i legittimari sopravvenuti potranno, in perfetta alternativa al rimedio di cui all'art. 768-sexies, agire in riduzione secondo l'ordine codicistico in caso di altre liberalità [nota 96]. Delle varie ipotesi quella sopra delineata, quella per cui il rimedio di cui all'art. 768-sexies è esclusivo, quella per cui "l'ordine" è pur sempre quello dell'art. 553 e ss. c.c., ci sembra preferibile, perchè più "sistematica", quest'ultima, anche se il problema merita sicuro approfondimento.
Noi riteniamo che la risoluzione per inadempienza non qualifichi il Patto di famiglia qualora l'assegnatario dell'azienda non adempia, ma esiste per noi la tutela residuale relativa ai beni esistenti al momento della morte per il recupero della riserva. Evidentemente ciò non è possibile per chi sostiene la frattura fra il Patto di famiglia e la futura successione ritenendo che il patto sia un mero atto divisionale sganciato dalla futura successione;chi sostiene questa tesi, escluso il rimedio risolutorio che non pertiene all'atto divisionale [nota 97], dovrà puntare esclusivamente sulla speciale, ma di brevissima esperibilità [nota 98], azione di annullamento, essendo assai difficile ipotizzare il possibile utilizzo del rimedio rescissorio [nota 99].
Le attribuzioni agli "altri" legittimari e le modalità liquidatorie da parte del cessionario d'azienda o di partecipazioni sociali.
è certo un aspetto importante. Anzi è sintomatico che chi propugna l'allargamento del Patto di famiglia in tema di soggetti deputati alle attribuzioni, ut supra scritto, ne fa un cavallo di battaglia, perchè ha buon gioco a rivendicare il pericolo di indebitamento eccessivo da parte del cessionario d'azienda, almeno in certi casi. Ora è evidente che l'inconveniente è reale e non esiste una ricetta per superarlo facilmente; probabilmente la soluzione va trovata in un mix di espedienti che vanno dall'indebitamento del cessionario, da "moderate" donazioni effettuate dal disponente agli altri legittimari, ma certo anche da soluzioni che vanno reperite "all'interno" dell'operazione.
Mi spiego. L'azienda ceduta può essere "trasformata" in società con attribuzione agli altri legittimari di partecipazioni di minoranza, di quote prive di diritti corporativi e altro ancora; possono essere ceduti immobili aziendali. Apparentemente queste soluzioni potrebbero essere adottate dal disponente stesso, ma non è così, o almeno esistono pericoli in questo caso. Infatti se il disponente cede un immobile aziendale ad altro legittimario il Patto di famiglia è tale solo se si accetta la soluzione "ampia" di cui prima si è detto; altrettanto se il disponente cede partecipazioni di minoranza o peggio ancora partecipazioni prive di diritti corporativi.
Esiste, quindi, un ventaglio di soluzioni "ingenieristiche" [nota 100] che rende certamente le varie ipotesi meno "difficili", dal punto di vista dello sforzo finanziario del cessionario d'azienda o di partecipazioni sociali, di quanto possa sembrare.
Va da sé che rimane fermo il principio che le possibili, future attribuzioni non devono e non possono essere un grimaldello per disporre, da parte del cessionario, degli altri beni della futura successione del disponente, perché, in questa ipotesi, tornerebbe ad operare il divieto di cui all'art. 458 c.c.
Concordo senz'altro con Petrelli su alcune modalità "esecutive riguardanti le attribuzioni. E cioè che possono avvenire in natura [nota 101] o con mezzi monetari, che il pagamento può essere differito con relativo pagamento di interessi, che il valore può essere "indicizzato" in caso di pagamenti differiti [nota 102], che il computo della legittima va effettuato esclusivamente conteggiando come base di calcolo il valore dell'azienda o delle partecipazioni ricevute [nota 103].
Tempi e modalità delle attribuzioni
Abbiamo già in precedenza scritto circa l'ampia possibilità di liquidazione agli altri legittimari non contestualmente. Sono ovviamente aperte tutte le possibilità circa i tempi e i modi (denaro, beni in natura, servizi e altro ancora). Va da sè anche che le modalità potranno essere diverse per ogni singolo legittimario [nota 104], mentre abbiamo prima esposto le ragioni per cui il valore dell'azienda o delle partecipazioni cedute deve essere contenuto specifico del Patto e non può essere rinviato ad un momento successivo, ferma la possibilità, ovviamente, di rideterminare all'unanimità il valore prefissato.
"Recupero" degli atti liberali anteriori alla novella come Patto di famiglia?
L'interrogativo ha un sapore molto meno accademico di quanto possa sembrare. è infatti evidente l'interesse dell'imprenditore, che "già" abbia disposto dei propri beni aziendali o di partecipazioni sociali, di avvalersi della nuova disciplina per dare una struttura "definitiva" alle sistemazioni patrimoniali avvenute precedentemente. è anche evidente che, ammesso un possibile recupero nel senso di cui al titolo del presente paragrafo, esiste una tale varietà di casistica che ben difficilmente potrebbe darsi una risposta esaustiva.
Accontentiamoci di trattare il problema in generale, con un minimo di approfondimento.
A me sembra che l'accordo sia in via preliminare ammissibile ex art. 1322 c.c.; mi pare anche che tanto più sia facile un recupero nel senso di cui sopra quanto più si individui nel Patto un fattispecie donativa particolare che si ricollega alla "famiglia" contrattuale di cui 769 e ss. c.c.; infatti è più agevole (si fa per dire) introdurre e coonestare il concetto di un contratto modificativo di un contratto precedentemente a regime che non collegare due fattispecie contrattuali radicalmente diverse. Dopodichè chi scrive ritiene che nel nostro caso si siano realizzate entrambe le precondizioni di cui sopra e che quindi il discorso possa essere sviluppato.
Si tratta ora di chiarire il genere di modifica correlata al patto che si innesta su una pregressa donazione. Il diritto trasferito, a mio parere, non sarebbe modificato in se, ma verrebbe reso incontestabile agli effetti della riduzione e della collazione e il valore verrebbe "fermato"a tutti gli effetti, ivi compreso quello di cui all'art. 768-sexies c.c., con una pattuizione che interessa tutti i legittimari (a oggi naturalmente non quelli di ieri); gli effetti di cui prima si realizzerebbero in quanto inscindibilmente collegati alle attribuzioni a favore degli altri legittimari o (in tutto o in parte) alle rinunce alla liquidazione da parte di questi ultimi. Solo in un senso molto lato potrebbe dirsi che la nuova convenzione modifica il diritto attribuito: potrebbe farsi il caso consimile del bene donato e per il quale il legittimario interessato ha previamente rinunciato all'opposizione di cui alla recentissima modifica di cui all'art. 563 primo comma c.c. Causalmente, poi, il negozio dovrebbe trovare la sua ragione economica in una ridefinizione del valore e nelle correlative attribuzioni degli altri legittimari. Trascuriamo casi più complicati in cui si voglia prevedere il recesso per il disponente.
La convenzione inciderebbe in particolare su collazione e riduzione a venire, ma una modifica così complessa fuoriesce dal campo della novazione, come è noto, strettamente limitata al campo dei rapporti obbligatori [nota 105] e basti del resto pensare al coinvolgimento dell'azione di riduzione cui, come è noto, tecnicamente corrisponde non un obbligo del soggetto che la subisce ma una soggezione [nota 106].
Neppure mi sembra che si possa ricorrerre ad una convenzione che, con efficacia retroattiva obbligatoria, "si riporti" al momento della pregressa donazione. La convenzione sarebbe teoricamente possibile, ma non ci sembra che risolva il problema perchè, pur sempre, il momento temporale della donazione precedente non sarebbe qualificato dalla vigenza della nuova disciplina.
Se si vuole prendere l'avvio da casi consimili già discussi dottrinalmente e giurisprudenzialmente, a mio parere, può essere utile collegarsi all'ipotesi del patto di riscatto introdotto successivamente alla vendita. Per la verità potrebbe anche richiamarsi il caso del riservato dominio introdotto successivamente alla vendita, ma questa ipotesi è più complicata rispetto al caso del patto di riscatto, poichè si tratta di riconoscere una forma di competenza delle parti - e in particolare del compratore - a mettere in discussione la totalità di una vicenda traslativa per la quale già si sono prodotti effetti reali pieni e non una aspettativa [nota 107]. Il problema dell'accessorietà del patto di riscatto o, in alternativa della sua autonomia strutturale, mi sembra assai importante per la pubblicità immobiliare [nota 108], assai meno per il profilo che ci interessa. Come è noto una dottrina non maggioritaria, ma molto autorevole [nota 109] ammette tale modificazione relativa ad una vendita già conclusa ed efficace, importandone una modificazione degli effetti. [nota 110] Ora abbiamo prima scritto che solo in senso lato e generico possa dirsi che con il nuovo patto si modifichi il diritto reale attribuito, ragion per cui mi sembra nel nostro caso più facile superare i dubbi che riguardano, invece, il caso del patto di riscatto o della riserva di proprietà per i quali la stipula successiva minaccia proprio la definitività del trasferimento; aiuta anche, per quanto concerne questa conclusione, il trend legislativo che ha portato all'introduzione della modifica degli artt. 561 e 563 cc. , applicabili, ma qui la soluzione è certo facile, alle donazioni anteriori.
Resterebbero aperti comunque problemi non indifferenti; in particolare quello del coordinamento fra la pattuizione e il disposto di cui all'art. 768-sexies c. c, e cioè la speciale pattuizione è vincolante per i legittimari sopravvenuti? A proposito del contratto eliminativo (inteso non come controvicenda, ma come contratto ad effetti ripristinatori) autorevolmente si scrive che il pregiudizio dei terzi rileva allorchè gli stessi siano muniti di una aspettativa di diritto e non di fatto (come sarebbe nel nostro caso) [nota 111], ma nel nostro caso pare difficile accettare questa conclusione perchè, pur essendo di fatto l'aspettativa, la nuova disciplina è pur sempre eccezionale e quindi mi pare impersuasiva questa conseguenza economicamente svantaggiosa per i legittimari sopravvenuti. Per questa ipotesi, quindi, o dovrebbe dirsi che la sopravvenienza dei legittimari opera come condicio iuris risolutiva o che questo caso (soluzione meno preferibile) il patto non vale nei loro confronti.
La risposta positiva al quesito può essere data, quindi, solo con grande incertezza, e con l'intesa che il problema merita certo un notevole approfondimento.
Un commento finale: alle radici dell'interpretazione "ampia" del Patto di famiglia
Come abbiamo scritto la novellazione non può avere una portata eversiva: rimangono infatti tutti i principi sopra richiamati. Nella realtà delle cose se si vuole giustificare (o meglio capire) atteggiamenti interpretativi troppo evolutivi, e di cui abbiamo dato conto sopra, bisogna prendere atto che oggi il giurista ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un epoca di radicale cambiamento che lo spinge a oltrepassare il senso delle riforme per guardare, precorrendo i tempi, allo sviluppo futuro [nota 112]. Questa è la "cifra" per capire le soluzioni d'avanguardia che praticamente appiattiscono i punti di riferimento del sistema successorio del codice 1942. Si tratta quindi di un atteggiamento psicologico che in un certo senso ricorda certe caratteristiche del romanticismo filosofico ed esattamente per questi tipi di scelte interpretative di tipo "intuitivo" [nota 113] si è parlato di sovrainterpretazione [nota 114] mettendo in luce il carattere quasi gnostico dell'esito interpretativo [nota 115].
Operazione questa che ci sembra scorretta sia dal punto di vista del "metodo" interpretativo, che non avalla certo criteri di tipo decostruzionistico, sia perchè, come scritto ripetutamente, il legislatore ha introdotto una disciplina eccezionale facendo permanere i principi generali in tema di successione necessaria e quindi, ragionando sistematicamente, la gerarchia è pur sempre: prima il divieto e poi, eccezionalmente in certi casi, la libertà [nota 116] . Esemplarmente: «Il diritto è fatto di regole testuali e di regole ordinamentali (ricavate dal pensiero sistematico movendo dalle regole testuali);…chi invoca l'applicazione delle seconde ha l'onere di dimostrare che dall'ordine razionale delle regole testuali la regola invocata scaturisce in conformità delle "leggi" della logica dell'argomentazione (o retorica) e che amministra gli interessi in campo in modo plausibile; e …tale onere non è certamente adempiuto ogni qual volta si scambia un concetto per una sostanza (lo si "ipostatizza")» [nota 117]. Ora non mi sembra che sia stata fornita alcuna prova di regole ordinamentali nuove che abbiano variato profondamente il sistema della successione necessaria.
Ma in fondo la scelta interpretativa criticata ha alla radice, a nostro parere, un vizio di origine: la tutela esasperata delle ragioni del mercato da raggiungersi dando "mano libera" al disponente per qualunque scelta operativa o economica che ritenga più soddisfacente. Esemplare la seguente affermazione: «…allo stato dello sviluppo economico, sociale e culturale raggiunto dalla collettività appare ben più pressante l'esigenza di garantire la fluidità dei traffici commerciali e di consentire razionali e congrue sistemazioni della ricchezza nell'ambito della famiglia e, ciò, sopratutto con riguardo al peculiare bene "azienda", che non quella di preservare le persone, ormai sempre più avvedute (diciamo noi: lo è anche di regola il padre che dispone a favore dei figli?) ed esperte, dal rischio di atti poco ponderati». [nota 118]
Non resta che ribadire, per parte nostra, che sono fuori discussione i meriti collegati al vaglio delle esigenze economiche sottostanti ai singoli istituti e la costante attenzione per una interpretazione che sia, da tale punto di vista, adeguata; ma non è accettabile una ponderazione di opposte ragioni come quella sopra indicata che subordina all'efficientismo la prudenza, la cautela, l'attenzione che l'ordinamento deve assicurare per gli atti con cui si programma e si realizza la dispersione, anche parziale, di quanto costituisce il patrimonio familiare. [nota 119]- [nota 120]
[nota 1] Su cui ampiamente v. per tutti COTTINO-WEIGMANN, in AA.VV., Società di persone e consorzi, Tratt. di dir. comm . diretto da Cottino, Padova, 2004, p. 256 e ss.
[nota 2] V. CALVOSA, «Clausole di riscatto e divieto dei patti successori», Banca, Borsa, titoli di credito, 1992, I, p. 635 e ss.
[nota 3] V. sul punto con ampia visitazione della materia QUATRARO, Statuti sociali e volontaria giurisdizione societaria, Milano, T1, 1996, p. 538 e ss.
[nota 4] Tendenza oscillante v. con ampie citazioni MINACAPILLI, «La disciplina dell'impresa coniugale», Riv.Not., 2002, p. 367 e ss.; v. recentissimamente LIBONATI, Diritto commerciale, Impresa e società, Milano, 2005, p. 146.
[nota 5] V. per tutti e con grande chiarezza GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano, Roma, s.d., ma 1959, p. 11 e ss.
[nota 6] ALPA - «Il diritto commerciale fra lex mercatoria e modelli di armonizzazione», Contratto e impresa, 2006, p. 88 - sottolinea, e questo è sicuramente vero, che le innovazioni del diritto commerciale procedono soprattutto per leggi speciali o per codici di settore e poco sul codice civile; poi sottolinea, e in ciò parzialmente dissentiamo, che l'unificazione del codice civile e del codice di commercio «non ha portato ad una osmosi fra le due materie sul piano scientifico». A nostro parere l'osmosi c'è stata, ma per una serie di ragioni collegate alle "diverse velocità" cui ormai si muovono nella società civile il diritto commerciale e il diritto civile, le ragioni dell'unificazione mostrano di vacillare. In questo senso, autorevolmente, traendo spunto, però, dalla legislazione speciale e dalla sua influenza che mette in questione «la stessa direttiva fondamentale della codificazione» (e cioè l'unificazione fra diritto civile e commerciale), MENGONI, «Autonomia privata e costituzione», Banca, borsa, titoli di credito, 1997, I, p. 17. V. pure IRTI, Teoria generale del diritto e problema di mercato, AA.VV, Diritto ed economia, Padova, 1999, p. 261 e ss.
[nota 7] Attendiamo, per esempio, lo svecchiamento del'art. 1028 c.c. che limita fortemente, in senso del tutto anacronistico, la "destinazione industriale" del fondo dominante; uno spunto, forse, potrebbe ricavarsi dal recentissimo art. 2645-ter c.c .
[nota 8] V. per tutti GENOVESE, «Il "passaggio generazionale" dell'impresa la donazione di azienda e di partecipazioni sociali», Riv.dir.comm., 2002, I, p. 731 e ss., FORCHIELLI, «L'imputazione collatizia dell'avviamento commerciale», Giur.comm, 1983, I, p. 621.
[nota 9] Sembra non rilevare queste differenze MANES, «Prime considerazioni sul Patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», Contratto e impresa, 2006, p. 555.
[nota 10] V. bene ZOPPINI, «Le nuove proprietà nella trasmissione ereditaria della ricchezza», Riv.dir.civ., 2000, I, p. 225, IEVA, «Il profilo giuridico della trasmissione dell'attività imprenditoriale in funzione successoria: i limiti dell'autonomia privata e le prospettive di riforma», Riv.Not., 2000, p. 1347.
[nota 11] Così pure PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006, p. 405, ma Petrelli, come vedremo, in realtà interpreta la novella come derogante alla disciplina della successione necessaria in materia più ampia di quanto personalmente ritengo, come si vedrà del resto nel corso del lavoro.
[nota 12] Sostanzialmente sono i rilievi di FIETTA «Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume.
[nota 13] L'aggettivo è usato in senso non del tutto preciso perchè il cessionario è quasi sempre ma non indefettibilmente un legittimario; infatti se il cedente dispone a favore di un discendente non figlio ecco che il cessionario non è legittimario. L'aggettivo, quindi, lo si usa per comodità espositiva.
[nota 14] Può accettarsi, invece, come scritto nel testo, l'opinione di PETRELLI, op. cit., p. 438, che ammette un meccanismo di determinabilità.
[nota 15] V. PETRELLI, op. cit., p. 444 e 445.
[nota 16] Op. cit.loc.ult.cit.
[nota 17] Nel senso, invece, che si applichi il rimedio risolutorio GAZZONI, «Appunti e spunti in tema di Patto di famiglia», www, jidicium.it, p. 10.
[nota 18] Da intendersi in parte come principi regolatori della materia e in parte come principi generali del diritto; sulla distinzione la letteratura è ricchissima, v. riassuntivamente sui primi v. FERRANTI, «Prime impressioni sulle implicazioni sul piano della teoria generale del diritto e le conseguenze sul piano processuale della riconciliazione fra diritto ed equità operata dalla Corte », Giust. civ., 2005, I, p. 2922 e ss. e sui secondi IUDICA, per un diritto europeo, in Le ragioni del diritto, scritti in onore di Luigi Mengoni, III, Milano, 1995, p. 1981 e 1982. Ovviamente la distinzione non è sempre facile.
[nota 19] Malgrado qualche diversa opinione a seguito della modifica dell'art. 563 c.c., la legislazione e la giurisprudenza recenti non hanno affatto "attenuato" la rigidità dei principi in tema di legittima, v. BARALIS, «Riflessioni sull'atto di opposizione alla donazione» Riv.Not., 2006, p. 277 e ss., DELLE MONACHE, «Tutela dei legittimari e limiti nuovi all'opponibilità della riduzione nei confronti degli aventi causa del donatario» Riv.Not., 2006, p. 318 con ampie citazioni.
[nota 20] Contra, per quanto concerne quest'ultimo articolo MASCHERONI, «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati.», in questo volume.
[nota 21] In senso analogo MANES, «Prime considerazioni» cit., p. 565.
[nota 22] Sul collegamento fra famiglia e principio solidaristico, v. per tutti CANTELMO, I legittimari, in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, Padova, I, 1994, p. 471.
[nota 23] V. CANTELMO, I legittimari cit., p. 470 e 471.
[nota 24] V. amplius COSTANZO, «L'ingranaggio normativo», in Ars interpretandi, 2005, p. 228.
[nota 25] Il collegamento fra l'ultimo comma dell'art. 42 della Carta e la successione dei legittimari non è consueto, v. comunque CANTELMO, I legittimari cit., p. 472.
[nota 26] BARALIS, «Riflessioni sui rapporti fra legislazione tributaria e diritto civile. Un caso particolare: le società semplici di mero godimento», Riv. dir. comm, 2004, p. 171 e ss.
[nota 27] Esemplarmente e con grande approfondimento TASSINARI, I conferimenti e la tutela dell'integrità del capitale sociale, in Cnn, Studi e materiali, Studi sulla riforma del diritto societario, Milano, 1, 2004, p. 152 e ss.
[nota 28] Cass. 12 novembre 1973, n. 2979.
[nota 29] Cons. stato, sez. IV, 12 novembre n.767, Foro amm., 1974, I, p. 1315.
[nota 30] E non solo dell'impresa: una interpretazione adeguatrice in senso "forte", se si prescinde dall'eccezionalità, può portate molto lontano, così, ad esempio ad estendere la disciplina alle partecipazioni delle società fra professionisti.
[nota 31] Esemplarmente DENOZZA, «La struttura dell'interpretazione» Riv.trim.dir. e proc.civ., 1995, p. 65 «Esistono limiti alle implicazioni che possono essere tollerate nell'elaborazione dei criteri teleologici. Quando questo limite viene superato l'efficacia degli spunti di questo tipo collassa e il ruolo dominante passa inevitabilmente ad argomenti di altro tipo (letterale, dogmatico, eccetera)».
[nota 32] Nel senso dell'eccezionalità v. pure, autorevolmente SPADA, «Il trasferimento dell'azienda e delle partecipazioni sociali nel Patto di famiglia: trasferimeto di una impresa o di una ricchezza imprenditoriale?», Convegno presso l'Università degli studi di Roma La Sapienza, 19 giugno 2006, manoscritto gentilmente fornitomi dall'autore.
[nota 33] Sulle successioni anomale in genere, v. per tutti MENGONI, Successioni per causa di morte, successioni legittime, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1990, p. 229 e ss., DE NOVA, Successioni anomale legittime, in Dig. discipl. priv., sez. civ., Torino, 1999, XIX, p. 182 e ss.; G. e F. PANZA, Tratt. di dir civ. del Cnn diretto da Piero Perlingieri, Successioni in generale tra codice civile e costituzione, Napoli, 2004, p. 21 e ss.; IEVA e RASTELLO, Le successioni anomale, in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, Padova, 1994, p. 621 e ss.
[nota 34] V. MENGONI, op. cit., p. 231.
[nota 35] V. DE NOVA, op. cit., p. 183.
[nota 36] V. MENGONI, op. cit., p. 231.
[nota 37] V. MENGONI, op. cit., p. 232.
[nota 38] Ampio materiale sul punto è reperibile in D'AMICO, Libertà di scelta del tipo contrattuale e frode alla legge, Milano, 1993, p. 158 e ss.
[nota 39] La dottrina recente si è poco interessata del problema. Spunti, ad esempio, in PINO, La ricerca giuridica, Padova, 1996, p. 203-207; PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, Napoli, 2000, p. 10 e 11; TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1991, p. 32 e 33. Invece è ricca la trattazione nella dottrina risalente, specie sotto la vigenza dell'abrogato codice civile.
[nota 40] Autorevolmente COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano, I, Milano, 1915, p. 19, che richiama altresì l'analogo punto di vista di Rocco.
[nota 41] Così BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, 1958, I, p. 65, ma la tesi trova altri autorevoli esponenti a cominciare da Carnelutti, v. citazioni in D'AMICO, op. cit. loc. cit.
[nota 42] ALLARA, Le nozioni fondamentali del diritto civile, Torino, 1953, p. 30; sostanzialmente in questo senso, fra i molti, RAVà, Istituzioni di dir. priv., Padova, 1938, p. 24; BARASSI, Istituzioni di diritto civile, Milano, 1942, p. 13 e 15.
[nota 43] TRABUCCHI, Istituzioni cit., p. 32.
[nota 44] MIELE, Principi di diritto amministrativo, Padova, 1953, p. 190 e 191.
[nota 45] TRABUCCHI, Istituzioni cit. p. 33.
[nota 46] V. bene MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, I, p. 307, che fondamentalmente riprende e sviluppa il rilievo covelliano di cui si è prima scritto nel testo. Ci sembra del tutto insufficiente il criterio previsto da FERRARA sr. per il quale la norma speciale «completa e specifica in singole direzioni», mentre la norma eccezionale è «una interruzione della sua consequenzialità logica», Tratt. di dir.civ.it., Roma, 1921, p. 87. Può essere certamente in qualche caso una rottura del tessuto logico che denuncia la presenza di norma eccezionale, ma di regola è il contrasto di principi, e quindi un criterio assiologico, che permette di cogliere la natura di una norma.
[nota 47] GAZZONI, La trascrizione immobiliare, in Il codice civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, I, 1991, p. 594.
[nota 48] V. con ampi riferimenti circa i vari orientamenti dottrinali BUSANI, «La prelazione agraria del confinante», Nuova giur.civ.comm., II, 2000, p. 542 e 543; CAPIZZANO, CALBRESE, PERFETTI, La prelazione e il riscatto agrari, Torino, 1993, p. 24 e 25, per la giurisprudenza v. in senso fra loro diverso v. esemplarmente Cass. 1 aprile 2003, n. 4914 e Cass. 16 ottobre 1976, n. 3498.
[nota 49] Dubbiosamente come sopra scritto.
[nota 50] V. per tutti BALDASSARRE, Esistono norme giuridiche sopra costituzionali?, in AA.VV., Le ragioni del diritto, scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, III, 1995, p. 1679 e ss.; LAVAGNA, Le cosidette norme supercostituzionali:limiti alla revisione o clausola di continuità?, in AA.VV., Scritti in onore di Sergio Galeotti, Milano, II, 1998, p. 816; PERFETTI, «Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori», Jus, 1994, p. 172.
Eguali riscontri nell'ambito della speculazione etica ove si parla di "iperbeni", v. per tutti AA.VV., Introduzione all'etica, Milano, 2001, p. 100 e ss.
[nota 51] V. per tutti ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 157; MENGONI, CATRONOVO, Profili della secolarizzazione del diritto privato, in AA.VV., Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Milano, 1981, 2, p. 1195-1198; BOBBIO, L'età dei diritti, Torino, 1990, p. 125 e ss.
[nota 52] Sulla tutela costituzionale imperfetta dell'iniziativa economica privata di cui all'art. 41 v. per tutti PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1998, p. 684 e ss.; LIPARI, Diritto privato, una ricerca per l'insegnamento, Roma-Bari, 1974, p. 567 e ss.
[nota 53] In una precedente stesura di questo scritto avevo ritenuto doverosa la partecipazione al patto di tutti i legittimari "conosciuti", restando a disposizione di quelli ignoti il rimedio di cui all'art 768-sexies c.c.; SPADA - «Il trasferimento» cit. - ha rilevato che in questa maniera si contaminerebbero gli elementi oggettivi di fattispecie con poco credibili requisiti soggettivi. Ha ragione, ma ritengo che l'eccezionalità della disciplina - pur riconosciuta dall'importante autore -, nonchè quanto scritto nel testo e sviluppato anche alla nota (56), porti comunque a concludere nel senso della doverosa partecipazione di tutti i legittimari conosciuti e non conosciuti. Re melius perpensa, fra l'altro, la tesi risulta non accettabile per ulteriori motivi: gli artt. 687 e 803 c.c., fissano un principio generale in ordine all'efficacia della volontà testamentaria e della volontà del donante che tale permane solo in quanto consapevole dell'esistenza di tutti i legittimari (figli) al momento della redazione dell'atto (v. SEGNI, «Per una estensione delle ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie e del mandato», Riv.dir.civ., 1971, I, p. 94 e 95); quanto sopra rileva indirettamente anche nel nostro caso: l'art. 768-sexies prevede una deroga eccezionale (nel senso che continua l'efficacia del patto) al sistema della novella per quanto concerne i legittimari sopravvenuti, ma non vi è evidentemente alcun appiglio testuale per estenderla ai legittimari già esistenti, ma non conosciuti, la cui assenza, quindi, si riverbera sulla validità del patto.
[nota 54] ZABBAN, «La posizione degli altri legittimari nel Patto di famiglia», Convegno Paradigma, Milano, 29 marzo 2006.
[nota 55] CACCAVALE, «Appunti per uno studio sul Patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie», studio 101-2006/C del 22 marzo 2006, destinato alla Commissione studi Consiglio nazionale del notariato. Lo studio di Caccavale è certamente, ad oggi, il tentativo più argomentato ed elaborato a favore della tesi criticata per cui spesse volte ci riferiremo ad esso come studio esemplare.
[nota 56] CACCAVALE, «Appunti…» cit.
[nota 57] Conforme a questa conclusione con perfetta lucidità argomentativa, RIZZI, «Il Patto di famiglia, Analisi di un contratto per il trasferimento dell'azienda», p. 9 e 10, manoscritto cortesemente fornitomi dall'autore e di prossima pubblicazione su Notariato. Ovviamente non collide con quanto scritto nel testo la tesi di Rizzi per il quali è possibile una formazione progressiva del patto. Autorevolmentre nel senso del testo GAZZONI, «Appunti…» cit., p. 3, p. 5.
PETRELLI, «La nuova disciplina…» cit., p. 433, ritiene che «la lettera dell'art. 768-quarter, comma 1, c.c., molto netta nel richiedere la necessaria partecipazione al patto di tutti coloro che sarebbero legittimari in quel momento, va interpretata nel senso di vincolare al contenuto del patto (e quindi precludere collazione e riduzione) solo i legittimari che vi hanno partecipato, nonchè i soli legittimari "sopravvenuti", o di secondo grado, che non vi hanno partecipato, nei limiti dell'art. 768-sexies c.c. Con la conseguenza che in caso di rifiuto o indisponibilità di un legittimario sarà comunque possibile stipulare il Patto di famiglia, senza che possa ipotizzarsi nè la nullità del contratto, nè una responsabilità disciplinare del Notaio per violazione dell'art. 28 L.N., ma quel legittimario non sarà vincolato dal patto e - a meno di sua adesione con contratto successivo - potrà avvalersi della riduzione e della collazione anche riguardo ai beni aziendali» (in questo senso sostanzialmente anche SPADA, «Il trasferimento…» cit.).
La tesi dell'autore potrebbe riuscire un valido compromesso fra le due opposte tesi, ma non convince, a mio parere, perchè lo sforzo del legislatore è quello, a garanzia della definitività del trapasso generazionale, di "chiudere" l'operazione di trasferimento con la partecipazione immediata o a tratto successivo di tutti gli aventi diritto; la norma di cui all'art. 768-sexies muove dalla necessità, insuperabile, di tutelare i legittimari sopravvenuti. Del resto la tesi, se fosse vera, creerebbe delle sperequazioni palesi: perchè non accordare la stessa soluzione per i legittimari sopravvenuti? Vi sarebbe un irragionevole disparità di trattamento fra i legittimari che non aderiscono "oggi" al patto e i sopravvenuti a cui si impone, invece, un valore predefinito e "storico".
[nota 58] V. MENGONI, Successioni per causa di morte, successione necessaria, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 231.
[nota 59] MISEROCCHI, «Relazione su "Patti di famiglia per l'impresa"», Milano, 31 marzo 2006, IlSole24Ore 1 aprile 2006. Il chiaro autore cit. si pone la domanda anche per il caso di causa di riconoscimento in corso, ma questa ipotesi, certo, rientra de plano nell'art. 768-sexies c.c.
[nota 60] V. per tutti TORRENTE, SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 1994, p. 14; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, p. 32 e 33.
[nota 61] «"Normalità" e "anormalità" nella costruzione giuridica», Riv.dir.civ., 1968, I, p. 518 e ss.
[nota 62] "Fallacia da argomento converso", v. BONIOLO-VIDALI, Strumenti per ragionare, Milano, 2002, p. 108; COPI, Introduzione alla logica, Bologna, 1964, p. 81.
[nota 63] Svaluta, invece, il requisito soggettivo dell'imprenditore FIETTA «Divieto dei Patti successori…» cit.
[nota 64] Su questa linea di pensiero, che condividiamo, chiaramente PETRELLI - op. cit., p. 415 e ss. - Il chiaro Aut. sostanzialmente privilegia l'applicazione della nuova disciplina nell'ambito dell'impresa individuale o collettiva. Il problema è delicato e dovrebbe essere approfondito: certamente la soluzione di Petrelli è conforme ai lavori preparatori, ma non si esplicita dal testo di legge. Certamene chi valorizza il profilo personalistico di cui al testo esclude una applicazione della nuova disciplina al caso di partecipazione di public company, ma potrebbero esistere grandi realtà imprenditoriali in cui tuttavia permangono i requisiti personalistici di cui al testo. Lo stesso autore, comunque, ammette l'operatività della disciplina per le partecipazioni di controllo o di riferimento delle società azionarie, senza distinguerne le dimensioni.
[nota 65] In questo senso autorevolmente SPADA, «Il trasferimento dell'azienda…» cit.; fa riferimento alle partecipazioni di controllo come ipotesi non ulteriormente riducibile GAZZONI, «Appunti…» cit., p. 4.
[nota 66] Diritto commerciale, le società, Bologna, 2004, p. 147; in una ottica più complessa si perviene allo stesso risultato se, nell'ambito societario, vengono valorizzati gli aspetti economici e quindi, prescindendo dal diritto comune, si va alla ricerca di chi organizza, è responsabile, finanzia e ciò al fine di trovare il giusto collegamento fra impresa individuale e collettiva, v, da ultimo esemplarmente FERRO LUZZI, «Riflessioni sulla riforma.I: La società per azioni come organizzazione del finanziamento dell'impresa», in Riv.dir.comm., 1, 2005, p. 678 e ss.
Segnalo che autorevolmente, già prima della novellazione, la tutela delle ragioni dell'impresa nell'ambito successorio veniva con chiarezza riferita a: «a) l'azienda individuale, b) a quota di società di persone, c) la quota di controllo di una società di capitali», così SCHLESINGER, «Interessi dell'impresa e interessi familiari nella vicenda successoria», Riv.dir.civ., 1994, I, p. 448 e 449.
[nota 67] Il criterio, è vero, non ha confini esatti, ma, a parte i casi macroscopici, è inevitabile la soluzione casuista, la quale solo può tenere conto delle particolarità delle partecipazioni dal punto di vista del loro valore in ordine alla conduzione della società; si vedano del resto, per rendersi conto che in ipotesi affini non si può fare a meno di un contorno indefinito, l'art. 2359, secondo comma c.c. e l'art. 2, secondo comma L. 287/1990.
[nota 68] L'ipotesi è un caso di confine, ma nell'ambito del sistema in senso ampio, essa non è unica; ricordiamo ad esempio come nel diritto penale il giudizio di specialità non va definito sulla base di un confronto fra fattispecie astratte, ma in concreto in relazione alle particolarità del caso storico - v. bene GALLO, Appunti di diritto penale, Torino, I, 1999, p. 219 e ss. - e così nel caso nostro la partecipazione significativa può essere tale in quanto destinata a quel certo beneficiario e non altri.
[nota 69] V. riassuntivamente JANNUZZI, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2000, p. 518 e 519.
[nota 70] Nuova didattica, Diritto commerciale, Parte generale, I, 2005, p. 99.
[nota 71] Conforme RIZZI, «Il Patto di famiglia…» cit., p. 47, PETRELLI, «La nuova disciplina…» cit., p. 452 e 454; contra GAZZONI, «Appunti…» cit., p. 2.
[nota 72] Contra MASCHERONI, Divieto dei patti successori cit.
[nota 73] Conforme GAZZONI, «Appunti…» cit., p. 8.
[nota 74] Così anche esattamente FIETTA «Divieto dei Patti successori…» cit.; RIZZI, «Il Patto di famiglia…» cit., p. 45; contra LUPETTI «Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume.
[nota 75] Così seppur dubitativamente, MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume.
[nota 76] è dominante la tesi per cui la conversione è consentita in caso di illegalità ma non di illiceità, v. per tutti GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, p. 965. Per l'inconvertibilità v. Cass.14 luglio 1983, n. 4827.
[nota 77] Se si considera il solo trasferimento a titolo oneroso da parte del cessionario agli assegnatari, e non il valore surrogatorio di quanto da loro ricevuto indirettamente dal cedente, non si capisce l'esclusione dell'azione di riduzione, v. infatti MERLO «Divieto dei patti successori…» cit.
[nota 78] Op. cit., p. 441 e 442.
[nota 79] Con qualche dubbio, molto modesto per la verità, in certi casi, in punto validità, qualora il disponente avesse disposto di tutti i suoi beni per soddisfare i legittimari che avessero posto questo esito come condicio sine qua non per la stipula del patto. Il problema, estremamente delicato, era stato approfondito per verificare se in tali ipotesi esistesse una forma "rilevante" di coartazione, v. JEMOLO, «Stato di coartazione», Riv.dir.civ., 1963, II, p. 314, che potrebbe far mancare la causa liberale, v. TRABUCCHI, Violenza - vizio della volontà -, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975, p. 941 e specialmente p. 944.
[nota 80] V. sinteticamente CAMPOBASSO, Diritto commerciale, I, Torino, 1986, p. 163 e 165.
[nota 81] Fattispecie praticamente da sempre esclusa dall'ambito di operatività dei patti successori, v. amplius BERTINO, «I patti successori nella giurisprudenza», Nuova giur. civ. comm., 2003, II, p. 192 e 194.
[nota 82] V. per tutti MENGONI, Successioni cit., p. 212.
[nota 83] Contra MANES, «Prime considerazioni …» cit., p. 573.
[nota 84] V. per tutti FEOLA, in AA.VV. La donazione, Tratt.diretto da Bonilini, Torino, I, 2001, p. 290 e 291; una ampia ed esauriente esposizione si legge pure in PENE VIDARI, «Patti successori e contratti post mortem», Riv. dir. civ, 2001, II, p. 249 e ss.; v. pure L. COVIELLO, Lezioni di diritto successorio, Bari, 1958, p. 228.
[nota 85] Contra MANES, «Prime considerazioni …» cit., p. 551, RIZZI, «Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie» - in questo volume; favorevole ZOPPINI, «I profili di governance del Patto di famiglia; il ruolo del cedente dopo la stipula del patto», Convegno Paradigma, Milano, 29 aprile 2006.
[nota 86] In un ottica completamente diversa si muove INZITARI, «Ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo del Patto di famiglia», Convegno Paradigma, Milano, 29 marzo 2006. A nostro parere il legittimario sopravvenuto, come si dirà oltre, è sfavorito rispetto agli altri legittimari perchè non partecipa alla definizione del valore dell'azienda, si espone al rischio di insolvenza dei partecipanti al patto, matura un credito cui si aggiungono i meri interessi legali, non può che pretendere la sua riserva. Il chiaro autore, invece, ritiene particolarmente favoriti i legittimari sopravvenuti «perchè costoro godono di un credito certo anche se l'azienda si è dissolta mentre un normale legittimario non ha alcun diritto se il de cuius, prima della sua morte, dissolve il suo patrimonio avendo deciso di vendere per giocare il ricavato alla roulette» perdendo tutto. A me sembra, però, che vi sia una profonda differenza fra l'aspettativa (di fatto) dei legittimari nei confronti del de cuius e il loro diritto nei confronti dei legittimari che hanno anzi tempo avuto concretamente un bene e della cui conservazione debbono rispondere (si fa per dire) nei confronti di chi non ha avuto alcun anticipo di successione per ragioni casuali.
[nota 87] V. diffusamente per la materia testamentaria, ma con chiari riflessi per la nostra ipotesi, GIARDINI, Testamento e sopravvenienza, Padova, 2003.
[nota 88] In senso agnostico CACCAVALE «Appunti…» cit., conforme PETRELLI «La nuova disciplina…» cit.
[nota 89] Contra AMADIO, «La posizione degli altri soggetti legittimari», convegno Paradigma, Milano 29 marzo 2006, p. 9; MASCHERONI, «Divieto dei patti successori…» cit. Nel senso del testo, PETRELLI «La nuova disciplina…» cit., p. 452, RIZZI, «Il Patto di famiglia…» cit.
[nota 90] V. RIZZI e PETRELLI cit. alla nota precedente.Questa conclusione è giudicata paradossale da AMADIO - op. cit., loc.cit. - per il quale «è assai facile dimostrare le conseguenze paradossali, cui conduce l'applicazione della tesi appena esaminata, in relazione al caso in cui l'azienda assegnata superi il valore complessivo di disponibile più legittima spettante all'assegnatario. Si pensi al caso in cui, dato patrimonio 1200, un coniuge (ris=300) e tre figli (ris=200 ciascuno), disponibile 300, venga assegnata al primo figlio un'azienda che vale 600. Si pensi altresì all'ipotesi estrema in cui tutti i non assegnatari. rinuncino alla liquidazione. spettante sul bene assegnato (uguale complessivamente a 350 [ 150 al coniuge, e 100 a ciascuno degli altri figli]). Se fosse vero, come sostiene la tesi criticata, che ciò non intacca il diritto alla riserva, sul patrimonio residuo (pari a 600) essi dovrebbero poter conseguire l'intero valore della legittima (pari a 700!)».
Mi sembra che le cose stiano diversamente. Ovviamente il problema nasce se e in quanto la rinuncia alla liquidazione non abbia un significato liberale, ma significhi semplicemente una rinuncia ad avvalersi in quella sede, ma non in sede successoria, dei propri diritti; a me sembra, infatti, che alla rinuncia non si possano dare che questi due significati quando, si badi bene, gli altri legittimari non siano stati soddisfatti diversamente dal disponente, giacchè in questa ipotesi si avrebbe una rinuncia alla liquidazione non liberale. Se nel caso di specie il padre dispone per testamento a favore di altri (ivi compreso il figlio assegnatario) in ordine a 600, esiste azione di riduzione da parte dei rinuncianti alla liquidazione, in ragione della riunione fittizia e della priorità della riduzione in ordine alle disposizioni testamentarie. Se si apre la successione legittima non può operare l'art. 553 c.c. perchè applicabile solo ai successibili non legittimari ed allora ai rinuncianti spetterà un credito pari alla loro legittima, non liquidata a suo tempo, nei confronti dell'assegnatario, non assistiti ovviamente da azione di riduzione sui beni del patto.
La frattura che secondo Amadio esiste fra Patto di famiglia e futura successione ( e quindi la rinuncia alla liquidazione come rinuncia parziale alla legittima senza altro significato) a noi, come ulteriormente si scriverà nel testo, non ci sembra accettabile.
[nota 91] GAZZONI, «Appunti…» cit., p. 2, ritiene inaccettabile la tesi e scrive che collazione e riduzione sono collegate a riunione fittizia e imputazione, donde l'inoperatività di riduzione esclude l'operatività della riunione fittizia. Malgrado l'autorevolezza della tesi ci permettiamo di dissentire; tutto vero se il de cuius non lasciasse altri beni, ma se ne esistono altri o esistono donazioni pregresse del de cuius, come si vedrà nel testo, l'applicabilità della riunione fittizia risulta, in certi casi, decisamente ragionevole.
[nota 92] Ma, fra l'altro, la restringe solo per quanto concerne il legittimario agente e il donatario antecedente, non per quanto concerne il donatario insolvente, v. MENGONI, Successioni cit., p. 338.
[nota 93] Così PETRELLI «La nuova disciplina…» cit. Questa soluzione come scritto nel testo ci sembra poco armonica con la tesi dell'autore, che condividiamo, circa il collegamento fra Patto di famiglia e successione.
[nota 94] Cass.1495/1961; AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, p. 321
[nota 95] Così invece AMADIO, «La posizione…», cit., p. 9.
[nota 96] Così acutamente PETRELLI «La nuova disciplina…» cit., p. 460.
[nota 97] V. BURDESE, La divisione ereditaria, in Tratt.di dir. civ. diretto da Vassalli, Torino1980, p. 122.
[nota 98] Anche se è incerto il dies a quo v. bene PETRELLI «La nuova disciplina…» cit., p. 457
[nota 99] Pur ammessa la natura divisionale del patto, l'utilizzo del rimedio rescissorio appare molto problematico. Infatti il breve termine che contraddistingue l'azione di annullamento denuncia la volontà del legislatore di rendere incontestabile il patto nel termine più breve possibile, specie per quanto concerne i problemi di valore e ammesso che si possa invalidare per errore sul valore, questione dubitabile, come è noto (v. con larghissime citazioni ACCARDO, «Se sia possibile ammettere un errore di prezzo rilevante: spunti per vincere alcuni equivoci di giurisprudenza e dottrina», Nuova giur.civ.comm. 2000, II, p. 558 e ss.). E allora si avrebbe la stranezza di una azione di annullamento con termine molto breve, per ragioni che implicano un disvalore più grave che non quello cui si collega l'azione di rescissione che invece, incongruamente, avrebbe un termine prescrizionale più lungo. Infatti, ed è concetto espresso molto bene dalla migliore manualistica (v. esemplarmente IUDICA-ZATTI, Linguaggio e regole del diritto privato, Padova, 2002, p. 344 e 346), l'eventuale iniquità del contratto, salvo debite eccezioni, è un rischio che deve sopportare la parte contrattuale interessata, ma non realizza ontologicamente un vero disvalore sanzionato dalla legge; anche quando è ammessa eccezionalmente, l'azione di rescissione opera come rimedio equitativo, non volto a rimediare ad una patologia contrattuale.
[nota 100] V. sul punto assai bene, prima della novella, STELLA RICHTER «ir., Il "patto di impresa" nella successione dei beni produttivi», Diritto privato, 1998, IV, p. 267 e ss.
[nota 101] Op. cit. p. 31.
[nota 102] Op. cit. p. 36.
[nota 103] Op. cit. p. 26.
[nota 104] Su questi aspetti v. amplius PETRELLI, op. cit., p. 30 e ss.
[nota 105] V. per tutti MAGAZZù, Novazione (dir.civ.), in Enc. del dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 833.
[nota 106] V. per tutti MENGONI, Successioni per causa di morte, in Tratt.di dir.civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 241).
[nota 107] V. amplius sul punto GAZZONI, La trascrizione immobiliare, in il codice civile, commentario diretto da Schlesinger, Milano, I, 1991, p. 145; il richiamo alla riserva di proprietà tornerebbe ad essere interessante per il caso in cui si volesse introdurre il recesso.
[nota 108] V. infatti GAZZONI, La trascrizione cit, p. 150 e ss.
[nota 109] V. con citazioni GAZZONI, op. ult. cit., p155.
[nota 110] Cosa non ritenuta possibile per chi ne afferma, invece, la definitività, esemplarmente «il vero patto di riscatto non è un correttivo degli effetti nati dalla vendita, ma è un correttivo degli effetti che nascerebbero qualora il patto medesimo non arrivasse a corregerli ancor prima che nascano» BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino, II, 1958, p. 308.
[nota 111] LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 140 e 143 e ivi importanti citazioni dottrinali in materia.
[nota 112] Ecco una specie di lapsus freudiano: CACCAVALE - op. cit., loc.cit. - scrive che «è verosimile che…il legislatore si sia lasciato trasportare dall'entusiasmo (corsivo nostro) per la assoluta novità introdotta nell'ordinamento»; a mio parere l'entusiasmo, al contrario, mi sembra molto più dell'interprete.
[nota 113] Proprio in questo senso v. CAMMISA, Intentio auctoris. Segni di continuità fra giurisprudenza oracolare e giustizia razionale, Torino, 2001, p. 171.
[nota 114] V. bene CATTANEO, «La costituzione e il diritto familiare nella dottrina civilistica italiana dell'ultimo quarantennio», n Quadrimestre, 1989, p. 248 nonchè ECO, Interpretazione e sovrainterpretazione, Milano, 1995, p. 35 e ss., in particolare p. 45 e ss.
Non si sfugge, come accennato all'inizio di questo lavoro, alla difficoltà di ampliare il contenuto del microsistema collegandosi all'idea di "precomprensione" e cioè ad un atteggiamento interpretativo per il quale il contenuto della norma viene prima immediatamente collegato dall'interprete alle conoscenze, agli standards dell'ambiente in cui è radicato. Può anche essere che tali standards siano nel senso di una dilatazione della norma, ma la precomprensione serve solo ad aprire la strada ad un orizzonte interpretativo più ampio, con l'intesa, però, che la soluzione corretta è poi decisa dagli strumenti interpretativi tradizionali; l'argomento è amplissimo v. per tutti, con la solita profondità, MENGONI, «Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico», Jus, 1976, p. 22 e ss.
[nota 115] ECO, op. cit., loc. cit.
[nota 116] Coglie esattamente questo esito della riforma, in tempi in cui la stessa era solo preannunciata, ROPPO, «Per una riforma del divieto dei patti successori», Riv. dir. priv., 1997, p. 10.
[nota 117] SPADA, Nuova didattica, Diritto commerciale, II, p. 95 del manoscritto gentilmente fornitomi dall'autore.
[nota 118] CACCAVALE, TASSINARI, «Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma», Riv. dir. priv., 1997, p. 93.
[nota 119] Nel senso di un indispensabile equilibrio fra valutazioni economiche e criteri assiologici, v. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 112 e ss., che critica l'efficientismo luhmaniano, ma le sue osservazioni sono puntuali anche per quanto riguarda la sopravvalutazione dei risultati dell'analisi economica del diritto.
Francamente a noi sembra che "dopo" Rawls, Dworkin, Walzer, per parlare di importanti filosofi della politica e del diritto di livello internazionale, ma ben si può ricordare oltre a Mengoni, e solo esemplificando, i nostri Irti e Zagrebelsky, non sia accettabile una predominanza valutativa condotta sulla base dei criteri dell'analisi economica del diritto (ma v. contra MATTEI, MONATERI, Introduzione breve al diritto comparato, Padova, 1997, p. 39 e ss.). è decisamente istruttiva, fra l'altro la lettura di COLEMAN - La pratica dei principi, Bologna, 2006 - che, con argomenti che se non sono del tutto persuasivi, certo fanno molto pensare, mette in luce distorsioni dell'analisi economica del diritto proprio in un campo che tradizionalmente è considerato una specie di riserva di caccia per i sostenitori dell'analisi economica, e cioè il campo della responsabilità civile. E si noti che Coleman è autore importante. Stesse considerazioni, a fronte della recentissima modifica dell'art. 563 c.c., per quanto concerne le opinioni di Tassiniri e Busani che sacrificano irragionevolmente, a nostro parere, le ragioni dei legittimari in nome delle esigenze della circolazione giuridica, v. sul punto BARALIS, «Riflessioni sull'atto di opposizione alla donazione a seguito della modifica dell'art. 563 c.c.», Riv. not., 2006, p. 280.
[nota 120] Del fenomeno si potrebbe dare una lettura più complessa in chiave di atteggiamento "postmoderno". Il pensiero postmoderno (riferimenti in BARALIS, «Riflessioni sui rapporti…» cit., p. 174 e recentemente, con efficace esposizione, VECA, La priorità del male e l'offerta filosofica, Milano, 2005, p. 120 e ss.) è sostanzialmente caratterizzato da un bisogno intrinseco di "superamento" delle tradizioni culturali (v. BARALIS, «Riflessioni sull'atto di opposizione…» cit., p. 282 e 283) e dall'idea della radicale contingenza dei valori. Ora l'immissione in un contesto culturale di principi nuovi (come nel caso nostro) può portare o ad una valutazione correttiva sulla base delle novità, o a ritenere che superamento e contingenza dissipino il quadro precedente, creando una situazione culturale del tutto nuova (fra l'altro "casualmente" nuova, si sottolinea). Il tema non può essere qui indagato, ma la seconda alternativa nega in sostanza la razionalità dell'agire e non dà conto del fatto che è sensato, ragionevole, ed efficiente, ritenere che esista una linea di continuità (v. WILLIAMS, Genealogia della verità, Storia e virtù del dire il vero, Roma, 2005, p. 60) fra tradizione e novità (v. pure bene VISENTINI, «Il criterio storico nell'interpretazione del diritto», Diritto privato, 1998, II, p. 407 e ss.). Nel primo caso, fra l'altro, si consumerebbe totalmente quella rottura fra tradizione romanistica e diritto moderno che sembra essere l'aspirazione, pur se mai confessata apertamente, dei giuristi postmoderni (sull'idea di progresso giuridico si richiama lo splendido frammento di Pomponio su cui v. ASTUTI, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli, 1984, II, p. 807 e sul rapporto fra innovazione e tradizione in diritto romano v. ottimamente BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 1987, p. 294 e ss.).
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