Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie
Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie
di Giovanni Rizzi
Notaio in Vicenza

Premessa

L'art. 2 della legge 14 febbraio 2006 n. 55 [nota 1] ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto denominato "Patto di famiglia"; A tal fine il legislatore è intervenuto modificando il codice civile aggiungendo dopo l'art. 768 un nuovo capo (capo V-bis) formato da sette articoli (dal 768-bis al 768 octies)

L'art. 768-bis c.c. di nuova introduzione definisce il Patto di famiglia come il «contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti».

Il Patto di famiglia è dunque un "contratto". Si tratta di un contratto "tipico" [nota 2] in quanto trova la sua disciplina specifica nelle nuove disposizioni ora introdotte nel codice civile. Tra i primi commentatori non è mancato, peraltro, chi ha qualificato il Patto di famiglia come "donazione modale" ai sensi dell'art. 793 c.c. [nota 3] pur ammettendo la "coesistenza" anche di altri profili causali di carattere non donativo [nota 4]. La circostanza che il legislatore all'art. 768-quater ultimo comma c.c. abbia dovuto prevedere espressamente la non assoggettabilità di quanto ricevuto in forza del Patto di famiglia a collazione e riduzione, effetti tipici della donazione, starebbe proprio a dimostrare la natura donativa del Patto stesso. Inoltre si è pure osservato come nel testo originario del progetto di legge l'atto di assegnazione dell'azienda veniva qualificato esplicitamente come donazione.

In realtà si ritiene che il legislatore più che disciplinare delle varianti compatibili con lo schema dell'atto di donazione ovvero dei diversi modi di atteggiarsi del contratto tipico di donazione, cosicchè al verificarsi di determinati presupposti possano essere "disattivati" alcuni degli effetti tipici connessi all'atto di donazione (collazione e riduzione), abbia voluto disciplinare un nuovo contratto, con sua causa tipica ed unitaria, piuttosto che una fattispecie complessa caratterizzata da un coacervo di profili causali con prevalenza del profilo donativo. Tant'è vero che da un lato il legislatore all'art. 768-bis c.c. (rubricato "nozione") definisce il Patto di famiglia come «il contratto con cui…» quasi a voler sottolineare il carattere autonomo, tipico ed unitario del Patto di famiglia, non riconducibile pertanto ad altre fattispecie contrattuali, e dall'altro il legislatore, proprio a conferma della scelta fatta, ha pensato bene di depennare dal testo normativo definitivo ogni riferimento alla "donazione" che compariva invece nel testo originario del disegno di legge.

Scopo del Patto di famiglia è quello di consentire all'imprenditore di disciplinare nell'ambito della propria famiglia, il passaggio nella titolarità e conseguentemente nella gestione dell'azienda, in modo da assicurare, con il consenso di tutti, un subentro che non esponga il nuovo titolare dell'azienda a rischi di rivendicazione da parte degli altri familiari, che possano mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza dell'attività aziendale, nell'incertezza della titolarità dei beni aziendali e che comunque non comporti anche un depauperamento a carico degli altri potenziali legittimari o comunque una lesione della loro quota legittima. [nota 5]

Al Patto di famiglia possono quindi riconoscersi finalità di regolamentazione preventiva dei rapporti successori per il trasferimento immediato (e non con effetti post mortem) del bene azienda, e quindi, in sostanza, a tale istituto possono riconoscersi finalità divisionali: scopo ultimo dell'istituto è di evitare la messa in comunione del bene "azienda" facilitando e semplificando le operazioni divisionali. E non a caso:

- il legislatore ha scelto di collocare la disciplina del Patto di famiglia subito dopo l'art. 768 c.c. ossia a completamento della disciplina dettata in materia di divisione ereditaria e prima delle disposizioni dedicate alla donazione;

- il legislatore, all'art. 768-quater secondo comma c.c., parla con riguardo al discendente/beneficiario di "assegnatario dell'azienda";

- il legislatore, proprio perché trattasi di regolamentazione preventiva dei rapporti successori ha dovuto, per coerenza, modificare anche l'art. 458 c.c. nel senso di prevedere, dopo aver sancito il divieto dei patti successori, la salvezza di «quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti» che ora disciplinano per l'appunto il Patto di famiglia.

Sebbene non possa essere qualificato come donazione, il Patto di famiglia per le finalità che consente di perseguire (arricchimento in senso economico dei beneficiari e conseguente depauperamento del disponente, senza che tutto ciò sia dovuto in adempimento di una specifica obbligazione) va ascritto tra «le liberalità» che a norma dell'art. 809 c.c. possono risultare anche da "atti diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c.". E che il Patto di famiglia rientri tra quegli "atti diversi" che possono concretizzare una liberalità sembra trovare testuale conferma:

- nella disposizione dell'art. 768-quater ultimo comma c.c., che disciplina uno degli effetti tipici e qualificanti lo stesso istituto del Patto di famiglia, la "disattivazione" dei meccanismi della collazione e della riduzione, meccanismi che operano non solo per la donazione ma anche per qualsiasi altra "liberalità" in virtù del rinvio espresso operato dall'art. 809 c.c. (per quanto riguarda le norme sulla «riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari») e del richiamo invece operato dall'art. 737 c.c. (che estende l'obbligo della collazione a tutto ciò che è stato «ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente») (in questo senso, l'argomento che si può trarre dalla disposizione dell'art. 768-quater ultimo comma non è determinante per sostenere la tesi della qualificazione del Patto di famiglia in termini di "donazione modale", essendo possibile giustificare tale disposizione ragionando anche in termini di "liberalità").

- nel disposto dell'art. 768-quater terzo comma c.c. la dove si stabilisce che i beni assegnati ai partecipanti non assegnatari dell'azienda debbano essere imputati alle loro quote di legittima (ed infatti la norma sull'"imputazione ex se" di cui all'art. 564 secondo comma c.c. rientra tra le disposizioni sulla "riduzione delle donazioni" che l'art. 809 c.c. estende in maniera espressa alle liberalità).

In conclusione il Patto di famiglia può qualificarsi come:

- atto "inter vivos" (producendo effetti immediati e non subordinati all'evento "morte" del disponente [nota 6])

- atto a titolo gratuito (comportando il trasferimento di beni e diritti senza corrispettivo)

- atto di liberalità (a carico dell'imprenditore/disponente ed a favore, in via diretta ed immediata, della parte assegnataria dell'azienda, ed in via indiretta e mediata, degli altri legittimari) [nota 7]

- atto con finalità divisionali e di regolamentazione preventiva dei rapporti successori, nel senso, cioè, di consentire, già durante la vita dell'imprenditore, l'estromissione del "bene azienda" dalla futura comunione ereditaria, con ciò favorendo e semplificando le operazioni divisionali (realizzando, al contempo, un'eccezione al divieto dei patti successori sancito dall'art. 458 c.c. , peraltro ammessa per effetto della modifica apportata dalla nuova legge anche all'art. 458 suddetto).

Patto di famiglia e impresa familiare

Nel definire il Patto di famiglia l'art. 768-bis c.c. stabilisce che lo stesso è il «contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiarel'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda…».

Che significato bisogna dare all'inciso «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare» contenuto nella norma in commento?

L'art. 230-bis c.c. che detta la disciplina dell'impresa familiare riconosce ai familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado) che prestano in modo continuativo la propria attività di lavoro nella famiglia o nell'azienda dell'imprenditore individuale, i seguenti diritti:

- il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;

- il diritto a partecipare agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con gli stessi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato (tale diritto di partecipazione può essere liquidato in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro ovvero in caso di alienazione dell'azienda)

- il diritto di prelazione nel caso di divisione ereditaria e di trasferimento dell'azienda.

Non c'è dubbio che in caso di stipula di un Patto di famiglia avente per oggetto un'azienda cui collaborano altri familiari (diversi dai discendenti/beneficiari) agli stessi debbono essere riconosciuti sia il diritto al mantenimento (semprechè, ovviamente, detti familiari continuino a prestare la loro attività nell'impresa, sussistendo anche nei confronti del nuovo titolare i presupposti di cui all'art. 230-bis c.c.) che il diritto di partecipazione agli utili ed agli incrementi, con un distinguo in ordine a tale ultimo diritto:

a) se detti familiari, in occasione del trasferimento dell'azienda, cessano di prestare la loro attività nell'impresa, il diritto di partecipazione agli utili ed incrementi agli stessi spettante dovrà essere liquidato in denaro dal disponente, in relazione a quanto disposto dall'art. 230-bis quarto comma c.c., (il pagamento potrà avvenire anche in più annualità determinate, in difetto di accordo, dal giudice);

b) se detti familiari, invece, continuano, stante il consenso del nuovo titolare, a prestare la loro attività nell'impresa, gli stessi potranno o chiedere la liquidazione in denaro, come nel caso precedente, ovvero rinviare detta liquidazione, acquisendo in tal modo un diritto di credito (pari all'importo degli utili ed incrementi maturati nei confronti del disponente), credito destinato ad incrementarsi in relazione agli utili ed incrementi che matureranno nei confronti del nuovo titolare (ovviamente se i beneficiari dell'azienda sono più di uno, tra gli stessi verrà a costituirsi una società, rispetto alla quale non è configurabile una prosecuzione del rapporto di impresa familiare cosicchè si ricadrà necessariamente nell'ipotesi di cui sub a).

Dubbi potrebbero, invece, sussistere in ordine all'altro diritto riconosciuto ai collaboratori dall'art. 230-bis c.c. ogniqualvolta vi sia un trasferimento dell'azienda ossia in ordine al diritto di prelazione.

Normalmente, secondo quelli che sono i principi generali elaborati dalla dottrina, il diritto di prelazione si ritiene incompatibile con:

- il contratto di donazione (compresa la donazione modale) mancando un corrispettivo cui possa "surrogarsi" il titolare del diritto di prelazione con la conseguenza che si verificherebbe una sorta di conversione "ex lege" dell'atto di donazione in un atto a titolo "oneroso", impedendo, quindi, al donante di realizzare la propria volontà; si noti, peraltro, come la affermata incompatibilità della prelazione con l'atto di donazione sia tutt'altro che un dato "assoluto": nel campo societario sono sempre più frequenti clausole di prelazione (convenzionale) destinate ad operare anche nel caso di donazione di partecipazioni societarie; pertanto non può escludersi che, là dove vi sia un interesse a non escludere la prelazione, la stessa possa comunque operare anche in presenza di un atto di donazione;

- qualsiasi altro contratto nel quale, a fronte del trasferimento di un bene o di un diritto, non sia prevista una controprestazione fungibile (si pensi ad esempio alla permuta). Ma anche la affermata incompatibilità della prelazione con l'atto con controprestazione infungibile é tutt'altro che un dato "assoluto"; si pensi alla prelazione prevista per i beni "culturali" dall'art. 60 D.lgs 42/2004: ebbene tale prelazione è prevista anche per il caso di permuta come espressamente sancito dal comma secondo del suddetto art. 60.

Senonchè, è altrettanto innegabile, che il diritto di prelazione di cui all'art. 230-bis c.c. presenti delle caratteristiche e delle peculiarità tali da differenziarlo in maniera marcata dalle altre figure di "prelazione legale".

In termini generali, infatti, la prelazione viene collegata a negozi comportanti il trasferimento di un bene o di un diritto. Mai, prima dell'entrata in vigore della disposizione dell'art. 230-bis c.c., si era pensato alla prelazione nel caso di un atto di divisione, tradizionalmente (almeno in giurisprudenza) considerato come negozio di natura "dichiarativa" e non "traslativa". Eppure l'art. 230-bis c.c. stabilisce che «in caso di divisione ereditaria…i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda». E se in dottrina vi è chi ha limitato l'applicabilità di tale disposizione al solo caso di collaboratori familiari che siano anche coeredi, riducendo il diritto di prelazione ad una sorta di diritto di preferenza a vedersi assegnata l'azienda in sede di divisione, conformemente a quanto previsto dagli artt. 720 e 722 c.c. [nota 8] non è mancato chi invece ha riconosciuto detto diritto di prelazione a qualsiasi collaboratore familiare anche se estraneo alla comunione ereditaria, in quanto scopo di tale diritto è di tutelare coloro che partecipando all'impresa familiare prestano la loro attività nell'azienda e di evitare che l'azienda finisca con l'essere attribuita ad un soggetto (e tra i coeredi potrebbero non esserci partecipanti all'impresa familiare) che non avendo alcun interesse alla continuazione dell'attività di impresa potrebbe essere indotto a liquidare, scorporare ovvero alienare l'azienda stessa. [nota 9] In dottrina non è mancato neppure chi [nota 10] ha ritenuto applicabile il diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c. anche nel caso di atto di donazione e di atto a titolo gratuito in genere: si è osservato che il legislatore all'art. 230-bis c.c. non ha parlato di alienazione o trasferimento a "titolo oneroso" (come nel caso della prelazione agraria o della prelazione urbana) o comunque di "prezzo" (come nel caso della prelazione tra coeredi) ma ha parlato esclusivamente di "trasferimento dell'azienda", utilizzando pertanto un termine (trasferimento) che certamente può ricomprendere qualsiasi negozio ad effetti traslativi e quindi anche la donazione o gli atti di liberalità in genere: in questo caso, sostengono i sostenitori di tale tesi, i collaboratori familiari potrebbero comunque esercitare il proprio diritto di prelazione e nel fare ciò dovranno corrispondere una somma pari al valore dell'azienda (il donatario non perderebbe l'arricchimento connesso all'atto di donazione pur dovendo subire la "surrogazione" dell'oggetto della donazione: una somma di denaro in luogo dell'azienda). Anche in questo caso, per giustificare questa particolare estensione del diritto di prelazione ci si appella allo scopo che il legislatore ha voluto perseguire nel riconoscere ai partecipi il diritto stesso, che è quello di tutelare coloro che, partecipando all'impresa familiare, prestano la loro attività nell'azienda e di evitare che l'azienda finisca con l'essere attribuita ad un soggetto (il donatario) che potrebbe non aver alcun interesse alla continuazione dell'attività di impresa. Si rammenta che autorevole dottrina [nota 11] ha ammesso il diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c. anche nel caso di conferimento dell'azienda in società, ossia con riguardo a fattispecie contrattuale nella quale manca una controprestazione fungibile.

Alla luce anche delle elaborazioni dottrinali sviluppatesi in ordine al diritto di prelazione nell'ambito dell'impresa familiare, quale soluzione può proporsi con riguardo al Patto di famiglia?

Il Patto di famiglia, come sopra già precisato, non può essere qualificato come atto di donazione, ma è un contratto tipico, con una propria causa autonoma (unitaria o complessa che essa sia). è un contratto tipico il cui scopo "primario" è quello di attuare il "trasferimento del bene azienda". Non per nulla l'art. 768-bis c.c. nel dettare la definizione del Patto di famiglia parla di «contratto con cui,…l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda…». A sua volta l'art. 230-bis c.c. stabilisce che «in caso…di trasferimento dell'azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda». Dal confronto tra le due disposizioni richiamate ci sembrerebbe, obiettivamente difficile, oggi, sostenere che il Patto di famiglia, assurto a contratto tipico per il trasferimento dell'azienda nell'ambito familiare, non rientri tra le fattispecie "di trasferimento dell'azienda" cui fa riferimento l'art. 230-bis quinto comma c.c.

è vero che se il Patto di famiglia non è qualificabile come atto di donazione nondimeno realizza una "liberalità" ai sensi e per gli effetti dell'art. 809 c.c., come sopra, sempre già precisato, non essendo prevista controprestazione direttamente a favore del cedente ed a carico della parte beneficiaria.

Può, pertanto, il Patto di famiglia, stante la sua natura di atto di liberalità, ritenersi compatibile con il sorgere del diritto di prelazione in capo ai partecipi dell'impresa familiare?

A tale quesito si ritiene di dover rispondere in maniera affermativa, e ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

a. la "compatibilità" tra il Patto di famiglia e la prelazione dei partecipi all'impresa familiare è testualmente sancita dal legislatore, là dove, nell'art. 768-bis c.c., stabilisce che il Patto di famiglia è il «contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare…, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, …». Il legislatore ha, con tale previsione, subordinato, in maniera espressa, la stipulabilità del Patto di famiglia al rispetto della disciplina dettata in tema di impresa familiare (in questo senso deve intendersi il "compatibilmente" utilizzato dal legislatore), ritenendo prevalente l'interesse dei collaboratori familiari rispetto a quello dei partecipanti al Patto.

Il richiamo alla disciplina dell'impresa familiare operato nella norma in commento è totale e non limitato ad alcuni aspetti soltanto di tale disciplina (ad esempio al solo diritto alla liquidazione) e quindi il richiamo deve ritenersi esteso all'intera disciplina contenuta nell'art. 230-bis c.c., compresa la disciplina dettata dal quinto comma e relativa al diritto di prelazione.

La disciplina dell'impresa familiare, cioè, trova integrale applicazione e non subisce deroga alcuna (neppure in ordine al diritto di prelazione) qualora si intenda stipulare un Patto di famiglia. Ne deriva che anche nel caso di stipula del Patto di famiglia "scatta" il diritto di prelazione spettante ai collaboratori dell'impresa familiare. [nota 12]

b. Le ricostruzioni sostenute da autorevole dottrina e quali sopra illustrate, che riconoscono il diritto di prelazione, in caso di divisione ereditaria, a qualsiasi partecipe all'impresa familiare anche se estraneo alla comunione ereditaria, ed in caso di "trasferimento dell'azienda" anche nell'ipotesi di donazione o di atto a titolo gratuito in genere, nell'ampliare in maniera considerevole l'ambito di applicazione di questa particolare forma di prelazione, dimostrano come sia tutto da dimostrare e comunque non sia affatto pacifico che alla prelazione ex art. 230-bis c.c., si applichino i principi generali elaborati dalla dottrina in tema di prelazione e pure sopra indicati. L'equazione "Patto di famiglia in quanto atto donativo (o comunque atto di liberalità) = esclusione del diritto di prelazione", è pertanto tutta da dimostrare.

c. Sostenere la incompatibilità del diritto di prelazione con il Patto di famiglia significherebbe fare dire al legislatore esattamente il contrario di quanto invece ha molto probabilmente voluto dire: il legislatore ha stabilito, a chiare lettere, che la disciplina dettata per il Patto di famiglia dagli artt. 768 e ss. c.c. si applica compatibilmente (e quindi "se compatibile") con la specifica disciplina dettata per l'impresa familiare (che in caso di trasferimento dell'azienda riconosce ai partecipi il diritto di prelazione); non ha detto invece che nel caso di stipula del Patto di famiglia si applica anche la disciplina dell'impresa familiare se ed in quanto compatibile (con esclusione quindi di quegli istituti, quali la prelazione, che potrebbero apparire in contrasto con la natura di atto di liberalità propria del Patto di famiglia).

d. La ricostruzione proposta, inoltre, è l'unica in grado di dare un significato, un contenuto all'inciso in commento.

Abbiamo ricordato come le disposizioni in materia di impresa familiare, che l'art. 768-bis c.c. impone di osservare, riconoscano ai collaboratori familiari il diritto di mantenimento, il diritto di partecipazione agli utili dell'impresa familiare e agli incrementi dell'azienda ed il diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria e di "trasferimento dell'azienda".

Innanzitutto, appare addirittura superfluo osservare come il diritto al mantenimento prescinda da eventi traslativi dell'azienda, si maturi e si consumi giorno dopo giorno per il fatto di prestare la propria attività lavorativa nell'impresa o nella famiglia; con il trasferimento dell'azienda tale diritto cesserà nei confronti del trasferente, in quanto per il lavoro già prestato nel passato il diritto è già stato goduto; per il futuro, invece, tale diritto può eventualmente risorgere nei confronti del nuovo titolare qualora continui, anche nei suoi confronti, il rapporto di collaborazione del familiare; pertanto con riguardo a tale diritto non si pone nemmeno un problema di "compatibilità" nel caso di stipula del Patto di famiglia;

Con riguardo al diritto di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell'azienda, l'art. 230-bis quarto comma stabilisce che «esso può essere liquidato in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa della prestazione del lavoro ed altresì in caso di alienazione dell'azienda». Pertanto col trasferimento dell'azienda si determina la possibilità di richiedere la liquidazione in denaro di tale partecipazione (a meno che l'avente diritto, continuando nel rapporto di collaborazione, non preferisca rinviare la liquidazione e conservare il "credito" maturato da far valere nei confronti del nuovo titolare). Ma il diritto di credito corrispondente alla partecipazione maturata non può essere pregiudicato e messo in discussione nel caso di trasferimento della azienda: si tratterà solo di determinare modi e termini per la liquidazione fermo restando che il diritto maturato dal partecipe non potrà essere "cancellato" per effetto dell'evento traslativo. E ciò vale anche per il caso di stipula del Patto di famiglia; ne consegue che se anche nella norma non vi fosse stato l'inciso «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare», comportando il Patto di famiglia alienazione dell'azienda, il diritto di credito (corrispondente alla partecipazione agli utili ed incrementi maturata per effetto dell'attività svolta) non poteva, comunque, essere messo in discussione stante il disposto dell'art. 230-bis c.c. (così come non potrebbe essere messo in discussione nel caso di stipula, ad esempio, di un atto di donazione dell'azienda o di conferimento dell'azienda in una società, ecc.)

Per quanto riguarda il diritto al mantenimento ed il diritto di partecipazione agli utili ed incrementi si tratta, pertanto, di diritti che non sorgono per effetto della stipula del Patto di famiglia, ma che preesistono alla stipula del PATTO stesso per effetto dell'attività prestata dal collaboratore familiare, giusta quanto disposto dall'art. 230-bis c.c., diritti che non potrebbero essere disconosciuti anche a prescindere dal richiamo espresso alla disciplina dell'impresa familiare operato dall'art. 768-bis c.c.; con riguardo a detti diritti non si pone neppure un problema di compatibilità con il Patto di famiglia operando in tempi e su piani diversi.

Da tali considerazioni deriva la logica conseguenza che se deve ritenersi, l'inciso in commento («…compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare…»), riferito solo a salvaguardare il diritto di mantenimento ed il diritto di partecipazione agli utili ed incrementi, lo stesso sarebbe del tutto inutile e superfluo.

Se, invece, si vuol dare un senso a questa disposizione è al diritto di prelazione che bisogna fare riferimento: questo diritto, al contrario, avrebbe potuto "cedere il passo" a fronte di un atto di liberalità, stante le non concordanti opinioni manifestate in dottrina circa l'operatività o meno del diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c. in presenza di un atto a titolo gratuito. Ed è proprio per salvaguardare questo diritto dei collaboratori familiari che il legislatore è intervenuto, con una norma "ad hoc", esigendo il rispetto dell'intera disciplina dettata in materia di impresa familiare, senza esclusione alcuna.

In conclusione non si può non osservare come le finalità connesse al diritto di prelazione di cui all'art. 230-bis c.c. siano del tutto similari a quelle che abbiamo visto caratterizzare il Patto di famiglia: sia nell'uno che nell'altro caso scopo ultimo è quello di assicurare la continuazione dell'attività imprenditoriale nell'ambito della famiglia. Evidentemente il legislatore nel conflitto tra il discendente, beneficiario del Patto di famiglia, che teoricamente potrebbe anche non aver mai prestato la propria attività lavorativa nell'impresa e che potrebbe anche non avere interesse a continuare l'attività di impresa, ed i familiari collaboratori, che invece tale attività l'hanno prestata, contribuendo al successo ed alla crescita dell'azienda familiare, ha ritenuto di dare preferenza a questi ultimi. Il legislatore ha, evidentemente, ritenuto che i collaboratori familiari diano maggiori garanzie per la continuazione dell'attività di impresa.

Ne consegue che:

- se unici collaboratori ex art. 230-bis c.c. sono proprio i discendenti beneficiari del Patto di famiglia non vi sarà problema alcuno, essendo comunque assicurata la compatibilità con le disposizioni dell'impresa familiare (semprechè in presenza di più collaboratori/familiari il trasferimento avvenga a loro favore in parti uguali);

- se tra i collaboratori ex art. 230-bis c.c. oltre ai discendenti beneficiari del Patto di famiglia vi siano anche degli altri familiari, questi ultimi dovranno, comunque, essere messi in condizione di esercitare il diritto di prelazione loro riconosciuto;

- se tra i collaboratori ex art. 230-bis c.c. vi siano solo familiari diversi dai discendenti beneficiari del Patto di famiglia, gli stessi dovranno essere messi in condizione di esercitare il diritto di prelazione loro riconosciuto.

Le modalità di esercizio della prelazione

Per quanto riguarda le modalità di esercizio del diritto di prelazione, l'art. 230-bis stabilisce che «si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'art. 732 c.c.» ; pertanto:

- l'intenzione da parte dell'imprenditore di cedere l'azienda va comunicata all'avente diritto e notificata allo stesso; la norma parla solo di "notificazione" ma non precisa le modalità con cui va fatta la comunicazione e non precisa nemmeno se la notificazione va fatta con semplice lettera raccomandata come, ad esempio, per la "prelazione agraria" (legge 590/1965) o mediante Ufficiale Giudiziario come, invece, per la "prelazione urbana" (legge 392/1978); deve ritenersi ammissibile, pertanto, qualsiasi forma che consenta di fornire la prova dell'avvenuta comunicazione all'avente diritto;

- deve ritenersi ammissibile anche una rinuncia "preventiva" al diritto di prelazione, che intervenga prima della notifica della intenzione di trasferire l'azienda, escludendo con ciò la necessità stessa di procedere a detta notifica [nota 13;]

- la prelazione deve essere esercitata entro il termine di due mesi dall'ultima delle notificazioni agli aventi diritto;

- se i collaboratori che intendono esercitare il diritto di prelazione sono più di uno, l'azienda è assegnata a tutti in parti uguali (il principio è desumibile dall'ultimo comma dell'art. 732 c.c.), e tra gli stessi si verrà a costituire una società di fatto.

Si discute in dottrina se, in caso di violazione del diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c., si applichi il RISCATTO, previsto dall'art. 732 c.c.

Parte della dottrina [nota 14] è favorevole all'applicabilità del riscatto, osservando che trattasi pur sempre di una fattispecie di prelazione legale, e che come tale di carattere reale tutelabile mediante il riscatto. I sostenitori di tale tesi ritengono che non potendosi applicare la disposizione dell'art. 732 c.c. (che consente l'esercizio del riscatto fintantochè dura lo stato di comunione ereditaria) il riscatto deve ritenersi esercitabile sino al momento della liquidazione in denaro del diritto di partecipazione spettante ai collaboratori familiari.

Altra parte della dottrina [nota 15], invece, ritiene la disposizione sul retratto di cui all'art. 732 c.c., proprio perché concepita in relazione alla sussistenza di una comunione ereditaria, non applicabile alla prelazione ex art. 230-bis c.c., in quanto "non compatibile", con la conseguenza che ai partecipi all'impresa familiare in caso di violazione del diritto di prelazione spetterebbe solo il diritto al risarcimento dei danni. Riteniamo preferibile quest'ultima ricostruzione in quanto, mancando, fra l'altro, un sistema di pubblicità dell'impresa familiare, il riscatto finirebbe per penalizzare oltre modo il terzo acquirente, privo di qualsiasi strumento per poter accertare se con riguardo all'azienda trasferita sussistono aventi titolo al diritto di prelazione e del successivo diritto di riscatto.

In ordine alle modalità di esercizio della prelazione, si può, fondatamente, ritenere che nella fattispecie di cui all'art. 230-bis c.c. il diritto di prelazione spettante ai partecipi all'impresa familiare operi non tanto come diritto ad essere preferiti nella stipula dello specifico contratto avente per oggetto l'azienda, quanto come diritto ad essere messi nella condizione di acquisire (a titolo oneroso) l'azienda, anche eventualmente con contratto diverso da quello che il titolare dell'azienda intendeva porre in essere (come sembra potersi evincere dalla disposizione che riconosce il diritto di prelazione anche in caso di divisione ereditaria, e che la prevalente dottrina ritiene applicabile anche ai partecipi all'impresa familiare estranei alla comunione ereditaria). Si verificherebbe, nel caso in cui l'imprenditore intendesse porre in essere un contratto a titolo gratuito ovvero con controprestazione infungibile, una sorta di "conversione legale" del contratto di trasferimento, al fine di consentire ai partecipi all'impresa familiare di esercitare il diritto di prelazione loro riconosciuto. Proprio per tale modalità di operare del diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c., bisogna escludere che la comunicazione dell'intenzione di alienare l'azienda (la cd. "denuntiatio"), da notificare ai partecipi all'impresa familiare, possa essere qualificata ed abbia a valere come "proposta contrattuale"; si tratterebbe, pertanto, di semplice atto di interpello, il cui scopo sarebbe quello di mettere in condizione i collaboratori familiari di esercitare il diritto di prelazione, nel caso in cui l'imprenditore intendesse comunque trasferire l'azienda, anche stipulando un contratto diverso da quello che era intenzionato a concludere. Ferma restando la facoltà dell'imprenditore di desistere dalla intenzione di alienare l'azienda qualora si produca la "conversione legale" del contratto di trasferimento per effetto dell'esercizio della prelazione dei partecipi, non potendo, comunque, lo stesso essere costretto a stipulare un contratto diverso da quello voluto. La libertà contrattuale dell'imprenditore ne risulta certamente "limitata" ma tale limitazione risponde ad un'esigenza di tutela del concorrente e prioritario interesse dell'impresa a essere acquisita da chi già vi presta la propria opera.

Ma se la stipula del Patto di famiglia non deve pregiudicare il diritto di prelazione che l'art. 230-bis c.c. riconosce ai collaboratori familiari nel caso di trasferimento dell'azienda, ne consegue che:

a) sarà comunque possibile stipulare il Patto di famiglia qualora:

- all'impresa del "cedente" non collabori alcun suo familiare (neppure prestando la sua attività di lavoro nella famiglia così come disposto dall'art. 230-bis primo comma c.c.), cui possa eventualmente spettare, nel caso di cessione dell'azienda il diritto di prelazione

- all'impresa del "cedente" collaborino (eventualmente prestando la loro attività di lavoro nella famiglia così come disposto dall'art. 230-bis primo comma c.c.), solo ed esclusivamente i "discendenti" che siano anche i beneficiari del Patto di famiglia , cosicchè al di fuori degli stessi non sussista altro familiare cui possa eventualmente spettare il diritto di prelazione;

b) qualora all'impresa del "cedente" collaborino (eventualmente prestando la loro attività di lavoro nella famiglia così come disposto dall'art. 230-bis primo comma c.c.) anche (o solo) soggetti diversi dai beneficiari del Patto di famiglia, ad esempio collaboratori che non siano discendenti (coniuge, parenti in linea collaterale, affini) e che non possono neppure essere "beneficiari" di un Patto di famiglia (tali potendo essere solo i discendenti) ovvero altri discendenti che l'imprenditore, peraltro, non vuole beneficiare col trasferimento dell'azienda, non sarà, invece, possibile stipulare il Patto di famiglia a meno che tutti i collaboratori familiari non beneficiari rinuncino espressamente al diritto di prelazione. In questo senso sarà necessario l'intervento in atto dei collaboratori familiari al fine di far constare, dall'atto stesso, la rinuncia espressa al diritto di prelazione ex art. 230-bis c.c. (a meno che non sia stata eseguita la notifica dell'intenzione a cedere l'azienda a tutti gli aventi diritto e sia decorso il termine di due mesi dall'ultima delle notificazioni senza che nessuno di essi abbia manifestato la volontà di esercitare il diritto di prelazione o sia stata comunque ottenuta la rinuncia preventiva scritta).

Se taluno dei collaboratori familiari non beneficiari manifesti, invece, la propria intenzione di esercitare il diritto di prelazione, non si potrà procedere alla stipula del Patto di famiglia, ed all'imprenditore si presenterà la seguente alternativa:

- o desistere dall'intenzione di trasferire l'azienda (non potendo ritenersi costretto a stipulare un contratto a titolo oneroso chi era intenzionato a concludere un Patto di famiglia, come sopra già precisato);

- ovvero stipulare un atto di cessione di azienda a titolo oneroso con conseguente trasferimento dell'azienda ai collaboratori familiari che abbiano comunicato la loro intenzione di esercitare il diritto di prelazione (tra i quali potrebbero esserci anche i discendenti potenziali destinatari del Patto di famiglia, ai quali comunque va notificata, a tali fini, la "denuntiatio").

Ovviamente qualora si addivenga comunque alla stipula del Patto di famiglia, in violazione del diritto di prelazione spettante ai partecipi all'impresa familiare "non beneficiari", l'atto così stipulato non sarà né nullo né comunque invalido; al collaboratore familiare non resterà che richiedere il risarcimento dei danni subiti (oltre alla liquidazione della partecipazione agli utili ed agli incrementi); ovviamente se si aderisse, invece, alla tesi che ammette il retratto anche per la prelazione ex art. 230-bis c.c., al collaboratore familiare, leso nel suo diritto spetterebbe il diritto di riscatto; ma come sopra già precisato si ritiene preferibile la tesi che ritiene incompatibile la disciplina del retratto con il diritto di prelazione ex art. 230-bis. c.c

Intervento in atto dei collaboratori familiari

Nel caso in cui sia configurabile, rispetto all'imprenditore/cedente, un rapporto di impresa familiare ex art. 230-bis c.c., in virtù dell'attività di lavoro prestata in modo continuativo nella famiglia o nell'impresa dal coniuge, da parenti entro il terzo grado o da affini entro il secondo grado, sarà, pertanto, necessario, per i motivi tutti sopra esplicitati (ossia, a seconda della tesi accolta, evitare un'azione per risarcimento dei danni o l'esercizio del riscatto), far intervenire al Patto di famiglia detti collaboratori familiari (ovviamente che già non debbano intervenire in quanto coincidenti con i discendenti/beneficiari e/o con i potenziali legittimari), al fine di far constare espressamente in atto la rinuncia espressa al diritto di prelazione, condizione, questa, per rendere il Patto di famiglia "compatibile con le disposizioni in materia di impresa familiare" così come prescritto dall'art. 768 bis c.c.; (a meno che, come già fatto rilevare, non sia stata eseguita la notifica dell'intenzione a cedere l'azienda a tutti gli aventi diritto e sia decorso il termine di due mesi dall'ultima delle notificazioni senza che nessuno di essi abbia manifestato la volontà di esercitare il diritto di prelazione o sia stata comunque ottenuta la rinuncia preventiva scritta)

L'intervento in atto di detti collaboratori familiari sarà inoltre opportuno anche al fine di far constare:

- la determinazione ed approvazione dell'ammontare dei crediti spettanti ai collaboratori suddetti per gli utili e gli incrementi, maturati in virtù dell'opera prestata nell'impresa familiare (nei cui corrispondenti debiti "aziendali" dovrà eventualmente subentrare la parte beneficiaria, nel caso in cui non si proceda alla loro immediata liquidazione)

- la eventuale liquidazione dei crediti spettanti ai collaboratori familiari per gli utili e gli incrementi, maturati in virtù dell'opera prestata nell'impresa familiare, nel caso in cui, a seguito del trasferimento dell'azienda, i collaboratori intendano o debbano (per il venir meno dei presupposti di legge) cessare la propria attività lavorativa nell'impresa familiare o intendano comunque, anche nel caso di prosecuzione del rapporto, essere liquidati dei propri diritti di partecipazione, così come consentito dall'art. 230-bis quarto comma c.c.

Patto di famiglia e partecipazioni societarie

Col Patto di famiglia possono essere trasferite anche "partecipazioni societarie". Sul punto la disposizione dell'art. 768-bis c.c. non è molto chiara e suscita non pochi dubbi in ordine all'effettivo ambito di applicazione della nuova normativa. Infatti ci si è chiesti se il Patto di famiglia possa riguardare il trasferimento di qualsiasi partecipazione societaria o se debbono porsi delle limitazioni. Al riguardo sono state prospettate diverse ricostruzioni:

1. Parte della dottrina ritiene che oggetto del Patto di famiglia possano essere solo quelle partecipazioni societarie che, attribuendo al suo titolare la possibilità di influire sulla gestione dell'azienda sociale, facciano acquisire al titolare stesso la qualifica di "imprenditore". [nota 16] Infatti, tutta la disciplina in tema di Patto di famiglia sembrerebbe dettata in funzione dell'interesse dell'"imprenditore" a garantire il passaggio generazionale nella titolarità e nella gestione dell'azienda familiare. Tant'è vero che l'art. 768-quater c.c. stabilisce espressamente che «al contratto devono partecipare…coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore». Ed anche il successivo art. 768-sexies c.c. fa espresso riferimento alla «apertura della successione dell'imprenditore».

Il riferimento in tali norme alla successione "dell'imprenditore" farebbe pertanto propendere per una interpretazione restrittiva della normativa in commento, nel senso di limitare l'applicazione del nuovo istituto solo ai trasferimenti di partecipazioni societarie che, a prescindere dal tipo di società (società di persone, Srl, SpA) consentano ai propri titolari di partecipare o comunque di influire sulla gestione dell'azienda sociale, cosicché gli stessi possano qualificarsi come "imprenditori" [nota 17] (ne sarebbero escluse, per esempio le quote o le azioni di socio accomandante nelle società in accomandita semplice o per azioni).

2. altra parte della dottrina ritiene, invece, che oggetto del Patto di famiglia possano essere tutte le partecipazioni societarie di ogni tipo ed entità, a prescindere dal fatto che tali partecipazioni consentano ai loro titolari di partecipare effettivamente all'attività imprenditoriale svolta dalla società. Una simile limitazione, infatti, non sembrerebbe potersi desumere dalla disposizione "definitoria" dell'art. 768-bis c.c. ove da un lato si parla di «imprenditore che trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda» mentre dall'altro si parla invece non più di "imprenditore" ma più semplicemente di «titolare di partecipazioni societarie che trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote» [nota 18]; il tenore letterale della norma legittimerebbe, pertanto, una interpretazione estensiva della normativa in commento.

Nella disposizione dell'art. 768-bis c.c., sembrerebbe, pertanto, che il legislatore abbia voluto affrancare il trasferimento delle partecipazioni societarie dalla circostanza che il cedente eserciti, per il tramite della società, un'attività di impresa e possa pertanto qualificarsi come "imprenditore" [nota 19].

3. da segnalare, infine, un'ulteriore proposta interpretativa che è stata avanzata in dottrina e che si pone a "metà strada" tra la interpretazione restrittiva e la interpretazione estensiva sopra riportate sub 1. e sub 2. In base a tale ulteriore proposta, possono costituire oggetto del Patto di famiglia tutte le partecipazioni societarie, a prescindere dalla circostanza che consentano o meno al loro titolare di partecipare o comunque di influire sulla gestione dell'impresa sociale, ma con la esclusione, peraltro, delle partecipazioni di quelle società nelle quali non esista un'effettiva attività di impresa (come nel caso delle società di "mero godimento") nonché delle azioni negoziate in mercati regolamentati o emesse da società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, stante, in quest'ultimo caso, la facoltà di disinvestimento garantita dal mercato. [nota 20]

4. Alle ricostruzioni interpretative sopra riportate, si potrebbe aggiungere una quarta ricostruzione che qui si vuole proporre, quale spunto per un'ulteriore riflessione sull'argomento. Questa proposta "alternativa" prende spunto dal dubbio se possano costituire oggetto del Patto di famiglia le partecipazioni societarie di ogni tipo o se, sotto il profilo oggettivo, debbono essere poste delle limitazioni: in questo caso il dato letterale ricavabile dalla disposizione "definitoria" dell'art. 768-bis c.c. farebbe, infatti, propendere per una interpretazione "restrittiva" della normativa in commento, nel senso, cioè, di consentire il ricorso al Patto di famiglia solo per il trasferimento delle quote di società di persone e delle partecipazioni di Srl ma non anche per le azioni di SpA. Nella norma in commento infatti si parla solo ed esclusivamente di "partecipazioni societarie" e di "quote" senza che mai si faccia neppure un minimo accenno alle azioni [nota 21] (anche se si potrebbe, pure, fondatamente ritenere che le azioni rientrino nella categoria generale delle "partecipazioni societarie").

In pratica si potrebbe sostenere:

- che il legislatore abbia, da un lato, escluso la necessità che il cedente, per il tipo di partecipazione societaria che detiene, partecipi alla gestione dell'azienda sociale e debba per ciò essere qualificato come "imprenditore" (anche per la oggettiva difficoltà di accertare tale circostanza in capo a chi partecipa ad una società, non essendo sempre facile stabilire quando in concreto tale condizione si verifica)

- dall'altro, abbia, invece, limitato l'ambito di applicazione del Patto di famiglia solo alle partecipazioni di quelle società che hanno una struttura personalistica, per una sorta di presunzione ex lege del carattere "imprenditoriale" dei soci di dette società, per effetto di una "imputabilità diretta" ai soci stessi dell'attività sociale, possibile solo in dette società basate sull'intuitus personae (si tratterebbe pertanto delle società di persone e delle Srl, che a seguito della legge di riforma, almeno secondo quelle che sono state le intenzioni dichiarate dal legislatore, hanno assunto una connotazione "personalistica", così da differenziarsi nettamente dalla SpA, prototipo invece delle società di capitali); rimarrebbero escluse, invece, dal Patto di famiglia le azioni di s.p.a., strumenti di circolazione del "capitale" più che espressione di una partecipazione ad un'attività imprenditoriale. [nota 22] Da segnalare, a tal proposito, come a seguito dell'entrata in vigore della legge di riforma (D.lgs 5/2003) risulti ora esclusa qualsiasi possibile ingerenza dei soci di s.p.a. nella gestione della società posto che l'art. 2364 c.c., nel suo nuovo testo, non consente più all'assemblea dei soci di deliberare su atti gestori che siano sottoposti alla sua competenza, potendo solo rilasciare "autorizzazioni" per il compimento di atti di amministrazione (dovrebbe, invece, potersi ammettere il Patto di famiglia con riguardo alle azioni di accomandatario di società in accomandita per azioni, posto che «i soci accomandatari sono di diritto amministratori» (art. 2455 c.c.), per cui tali partecipazioni societarie più che come strumenti di "investimento" appaiono, per definizione, come veri e propri strumenti di partecipazione alla gestione dell'azienda sociale).

Le soluzioni proposte meritano alcune riflessioni.

Da un punto di vista "sistematico", la soluzione più coerente con il sistema introdotto dalla legge 55/2006 (anche se di più difficile applicazione pratica), sembrerebbe quella indicata come "interpretazione restrittiva" (riportata sub 1), anche se non ci si può nascondere come tale soluzione appaia particolarmente "insidiosa" per gli operatori pratici (ed in primis per i Notai) chiamati a valutare caso per caso, sulla base di criteri discretivi e quindi del tutto opinabili, il carattere "imprenditoriale" di una determinata partecipazione societaria, non essendo sempre facile stabilire se una determinata partecipazione consenta, per il tramite della società, quell'esercizio dell'attività di impresa che dovrebbe costituire la condizione per la assoggettabilità ad un Patto di famiglia (è necessaria una partecipazione diretta alla gestione della società o è sufficiente una semplice "influenza" sulla gestione? Ed in quest'ultimo caso qual è l'esatto confine oltre il quale tale influenza può considerarsi rilevante o al di qua del quale deve invece considerarsi del tutto irrilevante in ordine alla gestione di quella determinata società?). [nota 23]

Sotto questo profilo la ricostruzione che abbiamo indicato come "proposta per la riflessione" (riportata sub 4., pur limitando l'ambito oggettivo del Patto di famiglia (per l'esclusione delle azioni di Srl) presenta l'indubbio vantaggio di fornire criteri certi ed oggettivi per la determinazione dell'oggetto del Patto di famiglia.

Non ci sentiamo invece di condividere la soluzione indicata come "interpretazione estensiva" (e riportata sub 2.) ponendosi in netto contrasto con quella che è la ratio che ispira l'intera disciplina del Patto di famiglia; non ci sembra, infatti, possibile che col Patto di famiglia possano essere trasferite anche partecipazioni societarie che costituiscono forme di investimento del capitale più che strumenti di partecipazione all'esercizio collettivo di un'impresa.

Più convincente, rispetto alla soluzione sub 2, appare, invece, la proposta interpretativa riportata sub 3, che sembra meglio coniugare l'esigenza di rispettare la ratio della normativa con l'esigenza di una non eccessiva problematicità nella sua applicazione pratica, benchè persistano margini, pur se più limitati, di giudizio discrezionale (rimane, infatti, pur sempre il problema di stabilire quando una società debba considerarsi di "mero godimento", per cui debba escludersi una qualsiasi esplicazione di attività di impresa. In particolare una o poche operazioni nel corso dell'anno sono sufficienti a farla ritenere comunque "impresa sociale" ed assoggettabile al Patto di famiglia?).

L'art. 768-bis c.c. stabilisce che il titolare di partecipazioni societarie possa trasferire le proprie quote in tutto o in parte. Si ritiene che il trasferimento parziale possa riguardare l'oggetto stesso del trasferimento, cosicché il "titolare" potrebbe trasferire anziché l'intera partecipazione che detiene in una determinata società (cessandone, in tal modo di farne parte), soltanto una frazione (riservandosi la titolarità della rimanente frazione e quindi continuando a far parte della società, seppur con una minore quota di partecipazione), ma anche il diritto oggetto di trasferimento, cosicché il "titolare" potrebbe trasferire la partecipazione (o la frazione della partecipazione) in piena proprietà ovvero in nuda proprietà ovvero potrebbe sulla stessa costituire a favore della parte beneficiaria il diritto di usufrutto (si rammenta che mentre si discute in dottrina se sia ammissibile l'usufrutto su quote di società personali, anche se dottrina e giurisprudenza prevalenti propendono per la soluzione positiva, per quanto riguarda le partecipazioni di Srl la possibilità di costituzione del diritto di usufrutto è ora espressamente ammessa dall'art. 2471-bis c.c.)

Nel definire il Patto di famiglia l'art. 768-bis c.c. stabilisce, inoltre, che lo stesso è il «contratto con cui,…. nel rispetto delle differenti tipologie societarie, … il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti»

Che significato bisogna dare all'inciso «nel rispetto delle differenti tipologie societarie» contenuto nella norma in commento?

Si ritiene che, con tale inciso, il legislatore abbia voluto subordinare l'efficacia (nei confronti della società) del trasferimento delle partecipazioni societarie, attuato mediante lo strumento del Patto di famiglia, al rispetto della "legge di circolazione" stabilita dalla normativa vigente ovvero dai patti sociali, in relazione alle diverse tipologie societarie [nota 24].

Pertanto:

1) se si tratta di società di persone:

- innanzitutto bisogna verificare se i soci nei patti sociali hanno previsto una specifica disciplina per il trasferimento delle quote sociali (si rammenta che se in dottrina non manca chi nega la validità delle clausole che derogano al principio del necessario consenso unanime di tutti i soci per il trasferimento delle quote, in quanto contrarie alla natura delle società di persone, la maggioranza degli autori ne afferma la validità; e così anche in giurisprudenza)

- in caso contrario, se i patti sociali nulla dicono al riguardo, ovvero se contengono un rinvio sul punto alle norme di legge, per il trasferimento delle quote sarà necessario il consenso di tutti i soci secondo quella che è la disciplina generale in tema di modifica dell'atto costitutivo dettata dall'art. 2252 c.c. ; pertanto, in questo caso, al Patto di famiglia dovranno intervenire anche gli altri soci (che potrebbero essere anche dei terzi estranei al nucleo familiare) e ciò al fine di prestare il proprio consenso, e rendere pertanto efficace il trasferimento delle quote nei confronti della società. [nota 25] Si rammenta che qualora si tratti della quota di partecipazione del socio accomandante, semprechè la stessa possa costituire oggetto del Patto di famiglia, l'art. 2322, secondo comma c.c. richiede, per l'efficacia del trasferimento verso la società, il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.

2) se si tratta di società di capitali:

- innanzitutto bisogna verificare se i soci nello statuto hanno previsto una specifica disciplina (ad esempio clausole di gradimento o clausole di prelazione) per il trasferimento delle partecipazioni societarie (partecipazioni di Srl o azioni di SpA). A seconda di quanto disposto nello statuto si dovrà, pertanto, ottenere il preventivo gradimento, ovvero comunicare agli altri soci l'intenzione di cedere le partecipazioni societarie per consentire loro l'esercizio del diritto di prelazione. Sotto questo profilo sarà quanto mai opportuno dare atto nel contratto di Patto di famiglia dell'intervenuto gradimento, ovvero del mancato esercizio della prelazione nei termini, ovvero della preventiva rinuncia alla prelazione da parte degli altri soci (che potrebbero anche intervenire all'atto al fine di far constare tale loro rinuncia). Semprechè, ovviamente, lo statuto non escluda espressamente l'operare delle varie clausole di gradimento e di prelazione per il caso in cui il trasferimento delle partecipazioni societarie avvenga a favore di discendenti del socio. Se lo statuto prevede, invece, la intrasferibilità assoluta delle partecipazioni societarie (con conseguente diritto di recesso a favore dei soci, in caso di Srl, mentre nelle SpA il divieto di trasferimento non potrà eccedere i cinque anni) non sarà possibile trasferire le partecipazioni suddette mediante il Patto di famiglia con effetto nei confronti della società.

- in caso contrario, se lo statuto nulla dice al riguardo, ovvero se contiene un rinvio sul punto alle norme di legge, le partecipazioni societarie debbono intendersi liberamente trasferibili per atto inter vivos (per le Srl vedasi l'art. 2469 c.c.) e quindi anche con il Patto di famiglia.

Per quanto riguarda l'efficacia del trasferimento delle partecipazioni societarie attuato con il Patto di famiglia nei confronti della società:

- in caso di partecipazioni di Srl, si applica la disposizione dell'art. 2470 c.c. per cui anche il trasferimento di partecipazioni attuato con il Patto di famiglia avrà effetto di fronte alla società dal momento dell'iscrizione nel libro soci: conseguentemente l'atto pubblico di costituzione del Patto di famiglia dovrà essere, a cura del Notaio rogante, depositato al Registro Imprese competente entro i trenta giorni successivi alla stipula, mentre l'iscrizione a libro soci avrà luogo, su richiesta del "cedente" o della "parte beneficiaria" verso esibizione del titolo (Patto di famiglia) da cui risultino il trasferimento della partecipazioni e l'avvenuto deposito;

- nel caso di azioni di SpA si applica invece la disposizione dell'art. 2022 c.c. così come richiamata dall'art. 2355 quarto comma c.c.: pertanto il trasferimento dei titoli azionari (nominativi) si opera (con effetto verso la società) mediante l'annotazione del nome del beneficiario del Patto di famiglia sia sul titolo che nel libro soci, ovvero col rilascio di nuovi titoli intestati al nuovo titolare e con l'annotazione di tale rilascio nel libro soci. L'annotazione ovvero il rilascio del nuovo titolo dovranno essere richiesti dal beneficiario mediante esibizione alla società del titolo (Patto di famiglia)

Nel caso di SpA, nella quale non siano stati emessi i titoli azionari, il trasferimento delle azioni attuato mediante il Patto di famiglia avrà effetto nei confronti della società dal momento dell'iscrizione nel libro soci (art. 2355 primo comma c.c.)


[nota 1] Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 50 del 1 marzo 2006 e quindi entrata in vigore il giorno 16 marzo 2006.

[nota 2] Nel senso che si tratti di un «ulteriore contratto, avente una sua funzione tipica di natura complessa irriducibile a quella dei tipi contrattuali già disciplinati dal codice civile» G. PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006.

[nota 3] In questo senso vedi A. MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume, il quale peraltro ritiene pure sostenibile la tesi "alternativa" che riconosce al Patto di famiglia la natura giuridica di atto divisionale. Esclude invece che il Patto di famiglia possa qualificarsi come "donazione modale" G. PETRELLI «La nuova disciplina…» cit.

[nota 4] Ravvisa nel Patto di famiglia una causa mista o complessa (accanto alla causa di liberalità vi sarebbe una causa solutoria) M.C. LUPETTI «Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out» - in questo volume (il quale peraltro ammette che potrebbe anche prospettarsi «una causa unitaria rappresentata dalla funzione di regolamentazione dei futuri assetti successori dei legittimari in ordine all'azienda ceduta»).

[nota 5] In questo senso vedasi la relazione alla proposta di legge n. 3870 dell'8 aprile 2003 ove si afferma che con il Patto di famiglia il legislatore ha inteso «conciliare il diritto dei legittimari con l'esigenza dell'imprenditore che intende garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più dei propri discendenti, prevedendo da una parte la liceità di accordi in tal senso, dall'altra la predisposizione di strumenti di tutela dei legittimari che siano esclusi dalla proprietà dell'azienda stessa».

[nota 6] In questo senso anche G. PETRELLI «La nuova disciplina…» cit., il quale esclude che il Patto di famiglia integri un patto successorio istitutivo, difettandone la natura di atto mortis causa.

[nota 7] Nonostante l'art. 809 c.c. estenda agli atti di liberalità le norme che regolano la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli (art. 803 c.c.), si ritiene questa specifica disciplina non applicabile al Patto di famiglia in quanto fattispecie specificatamente disciplinata dalla disposizione dell'art. 768 sexies c.c.; in questo senso vedi A. MERLO «Divieto dei patti successori…» cit.

[nota 8] V. PANUCCIO L'Impresa familiare, Milano, 1981; G. OPPO, Dell'impresa familiare in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Cedam, Padova, 1992; M. TANZI Impresa familiare in Enc. giur. Treccani Roma, 1989; F. CORSI Il regime patrimoniale della famiglia - trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, Milano, 1984.

[nota 9] A. GHIDINI L'impresa familiare, Padova, 1977; C.M. BIANCA Diritto civile II - La famiglia le successioni, Milano 1985; A. DI FRANCIA Il rapporto di impresa familiare, Padova 1991; A. ARENIELLO «Impresa familiare: la prelazione nella divisione ereditaria. L'esercizio della prelazione» Riv. Not., 2002, p. 74.

[nota 10] A. DI FRANCIA Il rapporto di impresa familiare, Padova 1991; M. TANZI Impresa familiare in Enc. giur. Treccani Roma, 1989; N. FLORIO Famiglia e impresa familiare, Bologna, 1977.

[nota 11] F. GALGANO Impresa familiare - Quaderni della Rivista del Notariato, 1988.

[nota 12] Per A. MERLO «Divieto dei patti successori…» cit. invece la qualifica di donazione assegnata al Patto di famiglia esclude che in capo ai partecipanti all'impresa familiare sorga il diritto di prelazione. In senso più dubitativo invece G. PETRELLI «La nuova disciplina…» cit., per il quale «sembra esclusa la compatibilità del diritto di prelazione ex art. 230-bis con la natura giuridica del Patto di famiglia».

[nota 13] Con riguardo specifico all'art. 732 c.c., richiamato dall'art. 230-bis, vedasi Cass. 14 gennaio 1999 n. 310 «Il coerede può rinunciare al diritto di prelazione prima che gli venga notificata la specifica proposta di alienazione e cioè prima della denuntiatio, perché egli ha tale diritto fin dall'acquisto della qualità di erede: vera rinuncia è quella concernente un generico progetto di alienazione, mentre quella successiva alla notifica è mancato esercizio del diritto di prelazione».

[nota 14] A. GHIDINI, L'impresa familiare, Padova 1977; C.M. BIANCA, Diritto civile II - La famiglia le successioni, Milano 1985; V. PANUCCIO, L'Impresa familiare, Milano 1981; G. OPPO Dell'impresa familiare in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Cedam, Padova, 1992; M. TANZI Impresa familiare in Enc. giur. Treccani, Roma 1989; F. GALGANO «Impresa familiare», Quaderni della Rivista del Notariato, 1988.

[nota 15] F. CORSI Il regime patrimoniale della famiglia - Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, Milano 1984; A. ARENIELLO «Impresa familiare: la prelazione nella divisione ereditaria. L'esercizio della prelazione», Riv. Not., 2002, p. 74; M. COMENALE PINTO «Impresa familiare e diritti dei partecipi e atti di trasferimento» Atti del convegno organizzato dal Comitato Notarile Pontino; L. BALESTRA L'impresa familiare, Milano 1996.

[nota 16] Nel senso che «la cessione dovrebbe avere ad oggetto una partecipazione che consenta (anche solo potenzialmente) al cessionario di continuare ad esercitare nell'azienda quel potere gestionale già presente in capo al cedente (a prescindere che si tratti di impresa individuale o collettiva, come si legge nei lavori parlamentari) o, comunque, di influire sulle scelte gestionali della società» M.C. LUPETTI «Il finanziamento …» cit. (il quale pertanto esclude dalla nuova normativa la cessione della quota di accomandante di Sas, ovvero di un piccolo pacchetto azionario di società quotata in borsa). Nello stesso senso anche G. PETRELLI G. PETRELLI «La nuova disciplina…» cit. Per G.F. CONDò «Il Patto di famiglia», FederNotizie 2006 p. 59 si deve ritenere che le partecipazioni che possano costituire oggetto del Patto di famiglia siano quelle di "società di famiglia". G. BARALIS «Attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali» in questo volume, ritiene che «il cedente non deve essere un investitore ma un soggetto che nell'ambito dell'impresa collettiva partecipa in maniera significativa al comando».

[nota 17] Per A. BUSANI «Azienda ceduta in due mosse», IlSole24Ore n. 50, 20 febbraio 2006 oggetto del Patto di famiglia debbono essere «quote o azioni che costituiscano l'espressione di un'attività imprenditoriale svolta dal disponente».

[nota 18] In questo senso G. FIETTA «Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume per il quale la nuova normativa trova applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio "risparmiatore" o solo nudo proprietario.

[nota 19] Per E.L. GUASTALLA «Un patto per tutta la famiglia», IlSole24Ore n. 50, 20 febbraio 2006 nella nozione di imprenditore va compreso «anche chi, pur non potendosi definire imprenditore da un punto di vista tecnico giuridico, sia semplicemente titolare dell'azienda (senza essere imprenditore) o titolare delle partecipazioni sociali che la rappresentano».

[nota 20] è questa la proposta interpretativa avanzata da F. TASSINARI «Il Patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali», in questo volume.

[nota 21] Evidenzia l'equivocità della disposizione in commento P. MANES «Prime considerazioni sul Patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», Contratto e Impresa 2/2006, la quale osserva come nella norma in oggetto «…si indicano genericamente le partecipazioni sociali parlando della loro titolarità in capo al disponente ma poi si menzionano solo le quote come oggetto di trasferimento, ciò che sembrerebbe escludere le azioni».

[nota 22] Ammette alla nuova disciplina le azioni di SpA «purchè si tratti di partecipazioni di controllo (o di riferimento) che attribuiscano il potere di influire sulla gestione della società» G. PETRELLI «La nuova disciplina…» cit..

[nota 23] Ben evidenzia la difficoltà di poter stabilire a priori se una determinata partecipazione «sia o meno rilevante ai fini della fissazione e del perseguimento di una specifica politica gestionale», A. PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto con gli strumenti negoziali alternativi al testamento» - in questo volume, il quale conclude nel senso che non è possibile escludere tout court dal Patto di famiglia «partecipazioni da ritenersi irrilevanti ai fini della gestione dell'impresa collettiva, poiché tale irrilevanza potrebbe essere smentita da eventuali patti intercorrenti tra i soci».

[nota 24] Nel senso che oltre alle regole tipologiche del tipo societario dovranno essere rispettate anche le eventuali norme statutarie che disciplinano il trasferimento per atto tra vivi: G. FIETTA «Divieto dei Patti successori…» cit.

[nota 25] Nel senso prospettato anche A. MERLO «Divieto dei patti successori…» cit. e M.C. UPETTI «Il finanziamento…» cit.

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