L'emersione della categoria della successione anticipata
L'emersione della categoria della successione anticipata
(note sul Patto di famiglia) [*]
di Andrea Zoppini
Ordinario di Diritto Privato Comparato, Università di Roma Tre

Problemi interpretativi emergenti dal Patto e impostazioni.

Il Patto di famiglia, istituto oggi disciplinato dagli artt. 768-bis e seguenti del codice civile, pone all'interprete quesiti di non agevole e immediata soluzione, anche o forse proprio perché tra loro strettamente connessi, che toccano in radice la struttura della fattispecie e così pure la sua disciplina.

Si pensi, tra i possibili esempi, alla necessaria partecipazione di tutti i legittimari al patto (art. 768-quater, primo comma, c.c.), alla riduzione teleologica del riferimento alle «proprie quote» (art. 768-bis c.c.), al significato della imputazione alla quota indisponibile (art. 768-quater, terzo comma, c.c.), alla possibilità di comprendere altri e ulteriori beni, diversi da quelli aziendali, nell'oggetto del contratto, alla possibile successione per rappresentazione qualora l'ascendente che abbia partecipato al Patto di famiglia abbia rinunciato alla porzione a lui/lei spettante.

Del pari è evidente - su un piano più generale - che ove si ascrivano gli effetti del contratto alla liberalità donativa, da ciò inevitabilmente discendano conseguenze in termini di disciplina tali da determinare risultati palesemente incoerenti. Se così fosse, se ne dovrebbe trarre la conclusione di essere di fronte ad un 'corpo estraneo' che una non impeccabile tecnica legislativa è stata incapace di rendere coerente con il sistema delle successioni a causa di morte.

Al fine di sciogliere questi e altri interrogativi non sono di risolutivo ausilio l'appello al «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», né è agevole trarre indizi o orientamenti univoci dall'intenzione del legislatore.

Quanto all'intenzione del legislatore, la nuova fattispecie intende rimuovere taluni limiti funzionali del diritto delle successioni, secondo un auspicio da tempo formulato dalla dottrina, ma proveniente anche dalla fonte comunitaria. Proprio perché il passaggio generazionale determina una frammentazione della proprietà che può influire negativamente sull'efficienza della gestione e genera un potenziale conflitto tra l'erede imprenditore e quello che all'impresa è estraneo, la dinamica successoria dovrebbe al contempo preservare l'unità del bene produttivo, favorire univocità del controllo, anticipare in vita il trasferimento dell'impresa e, dunque, l'investitura della leadership nel complesso produttivo.

Questi obiettivi non potevano essere perseguiti coerentemente in un ordinamento, qual era il nostro, incapace di operare una selezione e una ripartizione preferenziale in ragione della natura dei cespiti caduti in successione: a tal fine erano, infatti, d'ostacolo il principio dell'unità della successione, l'uguaglianza qualitativa oltre che quantitativa delle quote, l'impossibilità per il dante causa di operare una divisione fuori dall'atto di ultima volontà (artt. 733 e ss. c.c.).

Parimenti, e soprattutto, le disposizioni liberali realizzate in vita, quando sia stata lesa la quota di riserva, possono essere sempre poste in discussione al momento della morte del disponente, pregiudicando così la possibilità di predefinire un assetto certo e stabile del patrimonio: fenomeno questo particolarmente problematico quando si tratti di beni produttivi, atteso che diviene difficilmente scindibile ciò che si ascrive al donato e ciò che invece va ricondotto all'iniziativa e alla gestione del donatario.

Infine, il divieto, fissato all'art. 458 c.c. dei patti sulle successioni future limita la possibilità d'una composizione degli interessi ordinata in vita dallo stesso de cuius.

Quanto invece alla lettera della legge, essa è stata piegata al fine d'estendere, nei presupposti soggettivi e oggettivi, il perimetro applicativo d'una fattispecie originariamente pensata – anche da chi scrive – per il solo imprenditore individuale. Proprio perché le addizioni e le interpolazioni hanno indubbiamente corrotto l'originaria coerenza di quel progetto, si può dubitare che oggi ad esso possa attribuirsi il valore di prova o forse anche d'indizio significativo nel ricostruire la volontà del legislatore storico.

Ciò non ostante, non (mi) pare dubitabile che il 'meccanismo' tecnico allora descritto sia stato integralmente recuperato dal legislatore, seppure – come detto – rendendo meno nitidi i presupposti applicativi e così pure la dinamica effettuale. Se questo è vero, i modelli normativi che al progetto originario hanno offerto più diretta ispirazione possono venire anche oggi in aiuto, specie per chi voglia porsi nella dichiarata prospettiva di proporre un'interpretazione del nuovo istituto e d'offrire per esso un'adeguata collocazione sistematica.

Di quei modelli appare altresì confermata la scelta di politica del diritto, atteso che mi pare certo, in termini dogmatici, che oggi è assegnato un valore assiologico poziore alla trasmissione dei beni produttivi fuori e prima della successione ereditaria. Sì che il Patto di famiglia potrebbe essere annoverato tra le regole del diritto privato d'impresa e testimoniare la «ricommercializzazione del diritto commerciale» (anche) nel settore delle successioni a causa di morte.

In queste pagine, intendo verificare se e in che misura sia possibile ricostruire il «Patto di famiglia» entro la cornice concettuale e dogmatica della successione anticipata. Ciò perché la novità della disciplina sollecita l'interprete a elaborare categorie nuove, che sappiano coerentemente rappresentare la peculiarità di effetti che si svolgono lungo la linea di displuvio tra l'atto tra vivi a contenuto liberale e la successione mortis causa.

La scelta - mi rendo perfettamente conto - potrebbe essere tacciata di palese Inversionsmethode nonché di precomprensione del diritto nazionale alla luce delle matrici concettuali di origine tedesca, secondo un paradigma peraltro non infrequente e diffusamente documentato nella storiografia della dottrina italiana.

è, tuttavia, proprio la più tenue coerenza della lettera della legge che impone all'interprete un più saldo raccordo e una verifica sistematica del nuovo istituto. In questa prospettiva, ritengo conoscitivamente utile e sistematicamente fruttuoso verificare se le categorie dogmatiche che altri ordinamenti, e segnatamente quello germanico, hanno elaborato per consimili fattispecie, possano offrire all'interprete una valida bussola per operare un'adeguata ricostruzione sistematica, per identificare coerenti proposte interpretative, per verificare, con più compiuta consapevolezza, le ricadute applicative e disciplinari.

Un diverso problema che trascorre la materia successoria: le disposizioni testamentarie «in forma indiretta».

Prima di vagliare le condizioni d'uso della successione "anticipata", è opportuno rammentare che, ormai da tempo, la dottrina italiana avverte l'esigenza d'aggiornare le categorie dogmatiche con cui si rappresenta la successione a causa di morte.

Si tratta di analisi che s'iscrivono nella più generale riflessione sulla "crisi" e sulla "perdita di funzione" della dinamica successoria, atteso che la trasmissione intergenerazionale della ricchezza avviene al di fuori della successione ereditaria e prescindendo dagli istituti che per essa il legislatore aveva pensato.

Chi voglia rintracciare nel sistema gli indici normativi più sicuri d'un regolamento delle successioni piegato all'identità dei beni può senz'altro comporre un inventario muovendo dalle ipotesi che la dottrina ascrive alle successioni «anomale», quali fattispecie che registrano una deviazione dalle regole ordinarie della delazione e/o dal principio di unità della successione, ovvero dai casi in cui l'assegnazione preferenziale si realizza in sede di divisione ereditaria.

In particolare, ai fini della riflessione che qui si va svolgendo, acquistano rilievo quei fenomeni che la dottrina ha registrato nei termini delle successioni "contrattuali anomale" ovvero degli effetti "parasuccessori" in virtù di strumenti negoziali o societari che intermediano la trasmissione dei patrimoni e attraverso cui si dispone della ricchezza mobiliare 'aggirando' la vicenda ereditaria. Come le successioni anomale disciplinate dalla legge, così pure quelle di matrice contrattuale delineano un sistema successorio "parallelo" e forme di delazione «triangolari» che revocano in dubbio il valore stesso della successione universale. Si tratta del fenomeno reso possibile dal contratto a favore di terzo da eseguirsi dopo la morte dello stipulante, fattispecie che il codice civile prevede in termini generali all'art. 1412 e che con certezza non ricade nell'àmbito di applicazione del divieto dei patti successori (art. 458 c.c.).

La diagnosi d'un effetto «parasuccessorio» ha, tuttavia, assolto un ruolo prettamente descrittivo, atteso che si limita a perimetrare l'area vietata alle convenzioni private: in sostanza, l'interprete verifica se, e a quali condizioni, gli accordi destinati a produrre i propri effetti dopo la morte dello stipulante siano leciti, in quanto non impingono nel divieto dei patti successori ovvero nelle norme imperative che governano la successione ereditaria. Ma, soprattutto, il ricorso alla categoria dei negozi «con effetti trans mortem» ovvero alle "successioni contrattuali anomale" non ha costituito la premessa per applicare una disciplina diversa da quella riservata agli "altri atti di liberalità" tra vivi di cui si legge all'art. 809 c.c. Proprio per questo, quella proposta dottrinale è stata oggetto d'una recisa critica da parte di chi ha costatato che il tentativo di riscrivere l'ordine di riduzione delle liberalità tra vivi è incoerente e privo d'un'adeguata giustificazione teorica.

è, tuttavia, sul piano della disciplina applicabile che s'avvertono in maniera più evidente le possibili incongruenze che il fenomeno degli effetti parasuccessori di fonte contrattuale determina. Si pensi alla conclusione in ordine alla quale «il beneficiario [di un contratto assicurativo] ha diritto alla somma assicurata anche se [...] fosse indegno, o incapace [di ricevere]». Del pari, il beneficiario di un contratto a favore di terzo con effetti post mortem può trovarsi in una situazione ingiustificatamente poziore rispetto a quella del chiamato a titolo particolare, con l'effetto pratico di scardinare l'ordine nella riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima e/o per il pagamento dei debiti ereditari.

Proprio per questo, alle ricostruzioni dottrinali appena ricordate possono contrapporsi due diverse proposte interpretative.

Da un lato, la dottrina - che si lega ad un nome autorevole della scienza civilistica, quello di Giorgio Giampiccolo - che riconduce al negozio mortis causa l'assicurazione a favore di terzo designato nel testamento (art. 1920, secondo comma, c.c.). Sarebbe così possibile guadagnare il risultato interpretativo d'evitare le discrasie che si produrrebbero applicando la disciplina della donazione, in particolare per quanto concerne le norme in tema d'indegnità e revocazione, di collazione e riduzione, d'incapacità a ricevere.

Dall'altro, anche sulla scorta di questa dottrina, ho provato ad argomentare in termini più generali la possibilità di applicare analogicamente la disciplina 'materiale' del diritto delle successioni, segnatamente le regole previste per il legato di specie (art. 649 c.c.), a quelle che stipulativamente possono designarsi come disposizioni testamentarie "in forma indiretta": faccio riferimento alle fattispecie in cui si registra un modo di disposizione revocabile non testamentario del proprio patrimonio "per il tempo in cui [il disponente] avrà cessato di vivere", come avviene esemplarmente per il contratto a favore di terzo da eseguirsi dopo la morte dello stipulante. Ciò che giustifica l'applicazione analogica della disciplina successoria, nella sua parte 'materiale' - ossia con riguardo alla disciplina della sostanza dell'operazione economica -, consiste nel fatto che in esse non si riscontra un immediato intento liberale, in quanto il disponente può sino all'ultimo, anche nel testamento, modificare la designazione del beneficiario.

Sui significati della successione anticipata: vaglio critico della dottrina anteriore al Patto di famiglia.

Quello degli effetti "parasuccessori" rappresenta un fenomeno diverso e, per taluni aspetti, opposto rispetto alla successione "anticipata", anche se le due vicende sono non infrequentemente accostate e talora confuse.

In termini sociologici, l''anticipazione' degli effetti successori è legata al fatto che il prolungarsi della vita media ha determinato un salto generazionale nella trasmissione ereditaria, in quanto statisticamente si eredita in un'età compresa tra i trenta e i cinquant'anni, dunque dopo l'inserimento nel mondo del lavoro. Anche da ciò si trae conferma della perdita di funzione degli istituti successori, in quanto la successione a causa di morte ha perduto il ruolo di 'dotare' patrimonialmente la generazione successiva, cómpito che ricade integralmente sulla famiglia e che si realizza attraverso le liberalità tra vivi.

Quando l'analisi si sposta sul piano giuridico, con la successione «anticipata» si è suggerito di designare quei trasferimenti di ricchezza operati da chi, prefigurando gli effetti della futura devoluzione ereditaria, intenda beneficiare in vita coloro che saranno i propri eredi. L'elemento destinato a legare atti dispositivi strutturalmente e funzionalmente eterogenei - dall'atto unilaterale, a quello bilaterale, al contratto a favore di terzo; mentre la causa liberale conosce un'articolazione che va dalla donazione pura, a quella modale, mista, a quelle c.d. indirette - si risolverebbe, quindi, nell'intento negoziale di anticipare la trasmissione del diritto rispetto all'apertura della successione, al fine di operare attribuzioni preferenziali immediate a favore di taluni eredi.

Come s'è appena detto, la legittimità nonché la concreta utilità pratica d'una categoria dogmatica si misura in ragione del fatto che essa configura il fulcro della selezione normativa in funzione essenzialmente dell'applicazione d'una disciplina. Proprio su questo piano sono venute nella nostra, e così pure nella dottrina tedesca, le critiche più significative a chi nel passato ha suggerito la categoria della successione "anticipata".

Poteva, in effetti, fondatamente dubitarsi della possibilità di ravvisare nell'anticipazione in vita degli effetti ereditari i tratti d'un fenomeno sistematicamente e dogmaticamente unitario: l'intenzione di coordinare i singoli atti di disposizione ad uno scopo unitario di distribuzione, «cioè allo scopo di attuare fin d'ora un regolamento della futura successione», alla stregua degli indici normativi non è apparso sufficiente ad identificare una causa negoziale tipica, né a ricondurre le varie attribuzioni al medesimo antecedente, né in fondo costituisce un'anomalia nel disegno del codice. E ciò per le seguenti concorrenti ragioni.

a) Il sistema positivo non attribuiva rilievo alle liberalità attuate coll'intento di anticipare la futura delazione: ogni disposizione liberale, salva dalla collazione nei limiti della quota disponibile (737, secondo comma, c.c.), naturalmente rileva quale anticipazione della futura eredità del disponente. Se, quindi, il fenomeno è osservato nella prospettiva dell'effetto giuridico, esso indistintamente rileva ai fini dell'imputazione alla futura quota ereditaria;

b) l'intento negoziale di realizzare un'anticipazione della successione ereditaria non era di per sé idoneo a spiegare effetti (neanche) ai fini della dispensa dalla collazione, atteso che essa, come si deriva dall'art. 737 c.c., dev'essere espressamente manifestata;

c) "l'anticipazione" degli effetti successori ai fini dell'applicazione della disciplina successoria - mentre non è in discussione il fatto che si realizzi attraverso negozi inter vivos - si risolve nei problemi inerenti alla riduzione delle disposizioni lesive, rispetto a valori che in ogni caso si determinano inderogabilmente al momento dell'apertura della successione, come vogliono gli art. 747 e ss. c.c. (non a caso l'attenzione prestata al fenomeno in altre esperienze giuridiche è strettamente connessa alla possibilità di rinunciare all'eredità, possibilità preclusa nel nostro ordinamento dall'art. 557, secondo comma, c.c.).

In definitiva, era insuperabile la conclusione che nella "successione anticipata" non potessero ravvisarsi i caratteri d'un autonomo istituto: non, dunque, una successione anticipata, ma mero anticipo sulla successione ereditaria non ancora aperta.

Ciò, tuttavia, non ha impedito di costatare che l'anticipazione della successione ereditaria determina una ragione più intima di contraddizione con i motivi ispiratori del sistema, atteso che talora gli strumenti negoziali che realizzano forme di attribuzione preferenziale a favore dei futuri eredi importano il sacrificio della revocabilità dell'atto di disposizione. Non a caso, la dottrina che ha più studiato la successione «anticipata» ha riguardato il fenomeno come un problema della dinamica successoria, in quanto ne ha evidenziato il lato potenzialmente patologico e l'imperfetta e inadeguata efficacia degli strumenti di tutela che tutelano il disponente che abbia visto infranto il proprio intento.

Dall'«anticipo» dell'effetto attributivo all'«anticipazione» della vicenda successoria quale categoria normativa.

Le conclusioni appena rappresentate meritano d'essere ripensate alla luce del Patto di famiglia e, al medesimo tempo, quell'analisi offre precise indicazioni per chi voglia identificare gli elementi strutturali e funzionali della nuova fattispecie.

In tale prospettiva, il centro di gravitazione del Patto di famiglia e il perno della manifestazione della volontà negoziale - nonché l'elemento distintivo rispetto ad altre fattispecie già offerte dal diritto positivo - dev'essere ravvisato nel fatto che «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione» (art. 768-quater, ultimo comma, c.c.).

In ciò si registra una deroga alla regola che autorizza la dispensa dalla collazione nei limiti della quota disponibile, così come è disattesa la regola che non consente di rinunciare all'azione di riduzione anteriormente all'apertura della successione. Quanto disposto col Patto di famiglia non rileva, dunque, nel calcolo della quota disponibile che si realizza «al tempo della morte» (art. 556 c.c.), né opera il meccanismo della collazione, che mira a redistribuire, conteggiandoli nella quota disponibile, gli arricchimenti conseguiti in vita dal coniuge e dai discendenti chiamati alla successione in qualità di coeredi.

Coerente con tali effetti, di cui costituisce un corollario, è quanto previsto dall'art. 768-sexies c.c.: «all'apertura della successione dell'imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali».

Dalla norma se ne deriva: i) che non si ha revocazione della liberalità per l'eventualità in cui si aggiungano ulteriori legittimari (art. 803 c.c.); ii) che il legittimario sopravvenuto ha diritto ad un valore, non producendosi alcun effetto reale com'è tipico invece della riduzione delle disposizioni lesive (art. 561 c.c.); iii) che l'ammontare spettante al legittimario sopravvenuto è predeterminato nella quantità, dovendosi fare riferimento alla quota spettante al legittimario sul compendio patrimoniale oggetto del Patto di famiglia; iv) che il valore del compendio si determina al tempo in cui si è perfezionato il contratto traslativo e non, invece, al momento dell'apertura della successione.

Antecedente di tali effetti è il contratto di cui il legislatore ha descritto negli elementi strutturali agli artt. 768-bis, ter e-quater c.c.

Quanto alla natura del Patto di famiglia, esso nulla ha a che vedere con il contratto ereditario, atteso che indubitabilmente il contratto è atto tra vivi, in quanto immediatamente produttivo di effetti in capo ai contraenti.

Il legislatore nel premettere all'articolo 458 c.c. che è «[f]atto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti» ci rammenta che sotto l'epigrafe del patto successorio convivono atti eterogenei, tra i quali pure atti tra vivi quali sono la rinuncia ad un'eredità futura o - sinché vive il donante - la rinuncia ad avvalersi dell'azione di riduzione. E ciò, ad altro riguardo, conferma che il ricorso agli strumenti di delazione alternativi al testamento non costituisce una variabile in qualche misura dipendente dal grado di autonomia negoziale che può esplicarsi coll'atto di ultima volontà, come esemplarmente conferma il fatto che investe, come e forse più del nostro, gli ordinamenti che positivamente disciplinano atti di disposizione mortis causa strutturalmente bilaterali.

Sul piano causale, il Patto di famiglia realizza un trasferimento in funzione successoria avente struttura divisionale, ciò che giustifica la collocazione topografica nel codice, in linea peraltro con il progetto originario, che ne aveva suggerito l'inserimento dopo l'art. 734 c.c., intitolato alla «divisione fatta dal testatore».

Se, tuttavia, il momento dispositivo è essenziale, quello divisionale presuppone che i legittimari siano più di due, ben potendo tale categoria al momento della conclusione del patto esaurirsi ad un solo legittimario.

Parimenti, l'effetto attributivo per i contraenti è a rigore solo eventuale, atteso che non tutti i legittimari contraenti debbono risultare necessariamente assegnatari, potendo essi a séguito dell'apporzionamento rinunciare alla propria quota (analogamente, in ciò, a quanto accade in un'ordinaria operazione divisionale). E questo risultato trova, oggi, un sostegno teorico nell'opinione di chi ha argomentato che la divisione si configura, in punto funzionale, non in ragione dell'effetto di sciogliere una comunione, quanto per l'idoneità a realizzare un apporzionamento proporzionale.

Si appalesano, allora, i tratti autonomi e distintivi d'un trasferimento liberale operato in funzione successoria.

a) L'anticipazione dell'effetto devolutivo, perché le sostanze di cui si dispone a titolo liberale con il Patto di famiglia non vengono in considerazione alla morte del disponente; esse costituiscono, infatti, una massa giuridicamente distinta dal patrimonio devoluto per il tramite della successione ereditaria;

b) la stabilità dell'effetto attributivo: ai fini del trattamento giuridico riservato dall'ordinamento ai beni di cui si dispone con il patto, è come se «in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore», come recita appunto l'art. 768-quater c.c;

c) la definitiva determinazione del valore al momento della conclusione del contratto, come attesta il fatto che il diritto di credito dei legittimari sopravvenuti è predeterminato nella quantità.

In sintesi, la volontà negoziale di coloro che sarebbero in quel momento chiamati quali legittimari tiene luogo della vocazione dettata dalla legge e, in questo senso, ne surroga convenzionalmente gli effetti, dando luogo ad una delazione a titolo particolare.

Quanto s'è appena detto illustra il senso di quanto disposto dall'art. 768-quater c.c., ai sensi del quale «[i] beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti», atteso che il senso di tale "imputazione" alla quota indisponibile attiene esclusivamente, e si esaurisce, nella disposizione che si è realizzata con quel Patto di famiglia (in ciò non diversamente da quanto si legge nel medesimo articolo, che al secondo comma fa riferimento alle «quote previste dagli articoli 536 e seguenti»).

Computo della quota di legittima e imputazione sono, dunque, necessariamente relative in quanto riferite al valore di cui si dispone con il contratto.

Del pari, quanto argomentato spiega la ragione per cui non si possa avere rappresentazione, ai sensi dell'art. 564, terzo comma, c.c., quando una delle parti del Patto di famiglia abbia rinunciato all'apporzionamento, né i di lui/lei discendenti possono essere considerati legittimari sopravvenuti. La massa di cui si è disposto con il Patto di famiglia è, come detto, estranea alla delazione ereditaria e alle regole della vocazione legale che ad essa si connettono. Ciò trova conferma nel disposto dell'art. 768-quater, terzo comma, che fissa il regime della sostituzione nell'àmbito del Patto di famiglia con riguardo al peculiare caso in cui "l'assegnazione" non sia contestuale al "trasferimento", ma necessiti d'ulteriore manifestazione di volontà, dovendo intervenire «i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti».

Analisi degli elementi strutturali della fattispecie

Alla luce dell'analisi svolta, i dubbi inerenti agli elementi costitutivi e così pure alla disciplina del fatto devono essere sciolti coerentemente con la dinamica effettuale che l'ordinamento a quella fattispecie ha assegnato.

Quanto alla fattispecie, ci si è interrogati se il patto possa essere concluso solo con taluni dei legittimari presenti o, al limite, con uno solo di essi. Quest'opzione, cui si è approdati al fine dichiarato di ampliare lo spazio operativo dell'istituto e di superare possibili atteggiamenti opportunistici generati dalla richiesta della volontà unanime, è sorretta da una pluralità di argomenti: quello derivante dal polivoco dato letterale, quello teleologico consistente nel fine di favorire il passaggio generazionale delle imprese, quello sistematico che si deriva dall'art. 1113, terzo comma, c.c., da cui si deriva l'inopponibilità e non l'invalidità della divisione in caso di preterizione d'una parte necessaria. Coloro che sono disposti a rispondere affermativamente, si dividono poi tra coloro che ammettono che gli effetti tipici del Patto di famiglia possano spiegarsi anche nei confronti dei non intervenienti, che allora saranno trattati alla stregua dei terzi di cui all'art. 768-sexies c.c., e quanti ritengono invece che gli effetti tipici del Patto di famiglia si produrrebbero solo nei confronti delle parti del contratto, permanendo a favore dei non intervenuti le tutele previste dalle regole ordinarie del diritto successorio.

Questa proposta interpretativa merita, tuttavia, di essere disattesa e ciò per molte e decisive ragioni.

è subito opportuno rimuovere un argomento, che pure è stato speso: il collegare la perfezione del contratto ad un elemento potenzialmente incerto, per la obbiettiva difficoltà o impossibilità d'identificare i legittimari del disponente. Tale interrogativo trova risposta a contrario nell'art. 803 c.c., dovendosi ritenere valido il Patto di famiglia concluso dall'imprenditore che «ignorava di avere figli … al tempo» del contratto.

Un secondo argomento non è probante: il Patto di famiglia non mira, come detto, allo scioglimento di un regime giuridico di contitolarità su un diritto reale: se ne deriva, pertanto, che l'art. 1113, 3° comma, c.c. proprio perché manifesta il favore per la risoluzione dei regimi di contitolarità, non offre indizi quando una comunione non possa ravvisarsi e conseguentemente non autorizza a ritenere che l'interesse all'attribuzione preferenziale dei beni produttivi debba prevalere sulla tutela dei legittimari.

Alla soluzione che ritengo preferibile, concorrono indici che sono in realtà sufficientemente univoci, e che possono trarsi dalla volontà del legislatore storico, dal tenore testuale delle norme e così pure, questa volta in punto di conseguenze, dagli evidenti effetti inefficienti e dalla potenziale litigiosità che sortisce la partecipazione al patto di solo taluni dei legittimari.

Del pari, non è sistematicamente coerente, oltre che verosimilmente costituzionalmente illegittimo, ritenere che il contratto possa operare direttamente in pregiudizio dei legittimari che non abbiano dato il proprio consenso alla conclusione del Patto di famiglia.

A tali argomenti, diffusamente discussi nel dibattito dottrinale che l'istituto ha aperto, è possibile aggiungerne due che si svolgono nella traiettoria logica tracciata da queste riflessioni.

Se si accoglie la premessa che il Patto di famiglia realizza un atto dispositivo in funzione successoria, è coerente concludere che l'effetto devolutivo e divisionale può aversi solo con il consenso di coloro che in quel momento sarebbero chiamati quali legittimari, atteso che solo la positiva volontà negoziale di tutti i coeredi necessari è capace di surrogare gli effetti della vocazione legale. Di ciò è prova il fatto che la rinuncia del legittimario non assegnatario opera sul presupposto dell'avvenuto apporzionamento (come si può argomentare dall'art. 768-quater, secondo comma, c.c., ai sensi del quale gli «assegnatari … devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti»).

Al contempo, l'opinione che ammette la preterizione d'uno o più legittimari dovrebbe logicamente accettare che dalla medesima fattispecie possano discendere effetti tra loro incompatibili: se si accogliesse la tesi della inopponibilità del patto ai legittimari esclusi dal contratto, dovrebbe logicamente e giuridicamente accettarsi che il medesimo fatto dovrebbe essere qualificato e produrre gli effetti tipici della liberalità per i pretermessi; mentre dovrebbe produrre effetti opposti e inconciliabili per i legittimari che hanno concluso il Patto di famiglia. Atteso che tali effetti sono tra loro inconciliabili e non possono prodursi parzialmente o con efficacia solo relativa, si deve concludere che un Patto di famiglia concluso da taluni dei legittimari è inidoneo a disattivare il meccanismo della collazione, che necessariamente opera nei confronti del coniuge, dei figli e loro discendenti, o ad evitare gli effetti restitutori dell'azione di riduzione, così come il contratto dovrebbe comunque essere revocato per effetto della sopravvenienza di figli.

Per quanto concerne l'àmbito oggettivo su cui si spiegano gli effetti tipici del Patto di famiglia, i principali problemi interpretativi vertono intorno a due interrogativi: i) quale senso debba darsi al riferimento alle partecipazioni sociali; ii) se possano essere ricompresi nell'operazione liquidativa dei non assegnatari beni provenienti dallo stesso disponente diversi dall'azienda o dalle partecipazioni sociali.

La risposta, pure a fronte delle possibili incertezze derivanti dall'esegesi letterale delle norme, non può prescindere dal vincolo di coerenza tra il fine che il legislatore ha voluto stabilire tra un'ordinata ed efficiente trasmissione dei beni produttivi e il regime giuridico speciale che si realizza attraverso il Patto di famiglia.

Se questo è vero, mi sembrerebbe incoerente e ancóra di più costituzionalmente illegittimo, estendere il regime del Patto di famiglia a quelle partecipazioni sociali non qualificate, che costituiscono una mera forma di investimento, in quanto non 'incorporano' alcun potere imprenditoriale (come sono le partecipazioni di controllo o rilevanti ovvero quelle che attribuiscono poteri gestionali, diretti o indiretti, sull'impresa).

Per quanto concerne la possibilità di disporre con il Patto di famiglia di beni ulteriori rispetto a quelli imprenditoriali, segnatamente a tacitazione delle pretese dei non assegnatari, ciò che conta è che l'apporzionamento debba operarsi solo sui beni imprenditoriali. Pertanto, se il disponente interviene con ulteriori atti di disposizione, essi costituiscono adempimento del terzo rispetto alle obbligazioni che sorgono in capo all'assegnatario e, qualora si tratti di liberalità indirette nei di lui/lei confronti, su di esse si spiega la collazione e la riduzione.

…(segue) sui criteri identificativi della disciplina applicabile

Per quanto concerne la disciplina applicabile, essa dev'essere ritagliata analogicamente in coerenza con la duplice natura del Patto di famiglia, che riveste in un atto dispositivo tra vivi un contenuto effettuale successorio, segnatamente quello d'una disposizione a titolo particolare.

Ciò significa che, quanto ai requisiti e alla disciplina dell'atto, trovano applicazione, in quanto non derogate, le norme sul contratto di donazione: si pensi, ad esempio, alle norme sull'indegnità (art. 801 c.c.) ovvero a quelle sull'incapacità del tutore e del protutore (art. 779 c.c.).

Alle regole successorie dovrà, invece, analogicamente farsi appello per identificare i presupposti e la disciplina propria della dinamica effettuale.

Così il coniuge non è parte necessaria del contratto e non dovrà essere considerato legittimario sopravvenuto quando sia giudizialmente separato e la separazione gli/le sia stata addebitata (arg. art. 548); così pure è ragionevole concludere che il concepito è parte necessaria del contratto, come può argomentarsi dalla norma che gli assegna la capacità di succedere (art. 462 c.c.). Del pari è coerente con l'effetto descritto il fatto che trovi applicazione la disciplina della rescissione ultra quartum prevista dall'art. 763 c.c. in materia di divisione ereditaria e, conseguentemente, la norma che consente di troncarne il corso offrendo il supplemento (art. 767 c.c.).

Per quanto attiene alla responsabilità per i debiti ereditari, la tutela dei creditori rispetto all'atto dispositivo è affidata esclusivamente all'esercizio dell'azione revocatoria. Così pure il diritto di credito riconosciuto al legittimario sopravvenuto, ai sensi dell'art. 768-quater c.c., non risponde dei debiti ereditari, atteso che si tratta d'un acquisto costitutivo derivativo la cui fonte si radica nell'atto dispositivo originario: esso, infatti, non perviene iure ereditario, in quanto non trova un titolo nella successione dal dante causa.

Quanto al regime dell'invalidità, l'assenza di uno degli elementi strutturali della fattispecie (ad es. la conclusione di un Patto di famiglia con un soggetto non legittimario o su beni diversi da quelli produttivi) non necessariamente determina la nullità del patto, ma la liberalità che non può essere qualificata come successione anticipata può valere come liberalità donativa, sempre che ne abbia i requisiti di forma e di sostanza e se, alla stregua di un'analisi della volontà ipotetica delle parti, esse l'avrebbero voluta qualora avessero saputo dell'invalidità.


[*] Lo scritto è dedicato al prof. Giorgio Cian e apparirà negli Studi in Suo onore.

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