L'apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione
L'apertura della successione: imputazione, collazione e riduzione
di Federico Magliulo
Notaio in Roma

Generalità

La disciplina della collazione, della riduzione e dell'imputazione in presenza di un Patto di famiglia stipulato in base alla nuova disciplina di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c., introdotti dalla legge 14 febbraio 2006 n. 55, potrebbe apparire a prima vista un aspetto alquanto marginale del nuovo istituto.

Quest'ultimo presenta, infatti, non pochi problemi interpretativi sia in relazione alla struttura sia in relazione all'oggetto del patto, che assumono notevole rilevanza pratica, e che dunque appaiono dotati di assoluta priorità nell'attenzione degli interpreti.

Nondimeno, ad un più attento esame, risulta evidente, come si avrà modo di constatare nel prosieguo della presente trattazione, che le rilevanti deroghe ai tradizionali istituti della collazione, della riduzione e dell'imputazione, che si verificano in presenza della stipulazione di un Patto di famiglia, sono assolutamente fondamentali per ricostruire l'essenza stessa del nuovo istituto e per risolvere in conseguenza taluni dei grandi problemi strutturali che, come si diceva, si muovono sullo sfondo del nuovo scenario disegnato dal riformatore.

I profili causali dell'attribuzione mortis causa

è noto che, dal punto di vista dell'attribuzione traslativa, il fenomeno della successione mortis causa è caratterizzato dal fatto che la morte è elevata a causa dell'attribuzione stessa sia in senso soggettivo che in senso oggettivo, in quanto, sotto entrambi i profili, l'attribuzione è commisurata alla situazione esistente al momento della morte.

Tale conclusione costituisce invero il frutto di un lungo processo interpretativo, che trovò il culmine nella fondamentale ricostruzione del Giampiccolo, che rimane a tutt'oggi il punto di riferimento in materia.

Secondo quest'ultimo autore l'essenza dell'atto a causa di morte risiede nella circostanza che l'evento morte è assunto a «punto di origine e di individuazione della stessa situazione regolata, che è la situazione che verrà a sussistere appunto dopo la morte del soggetto: in altri termini è l'oggetto stesso che viene a porsi al di là della vita del suo autore …Atto mortis causa è quello che ha per funzione sua propria di regolare rapporti e situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione».

Da ciò appunto si evince che la morte è elevata a causa dell'attribuzione.

Ne consegue, secondo l'orientamento in esame, che «…indici propri dell'attribuzione a causa di morte risultano necessariamente, nel minimo, la considerazione dell'oggetto dell'attribuzione come entità commisurata in tutti i suoi elementi (esistenza, consistenza, modo di essere) al tempo della morte dell'attribuente, e la considerazione della persona del beneficiario come esistente in quello stesso momento. In altre parole l'attribuzione mortis causa non può, in quanto tale, avere ad oggetto che un quod superest, né può, per restar tale, che essere soggetta alla condizione della sopravvivenza del beneficiario: dove l'una delle due condizioni manchi, non può - di regola - qualificarsi un'attribuzione a causa di morte». [nota 1]

Dunque sotto il profilo soggettivo è richiesto che i beneficiari dell'atto dispositivo a causa di morte siano esistenti al momento della morte e siano quindi sopravvissuti al de cuius.

Ciò naturalmente presuppone che la qualità di soggetto avente titolo a diritti successori deve essere rivestita al momento della morte del disponente.

Sotto il profilo oggettivo è, invece, richiesto che l'entità e la valutazione del lascito siano da effettuarsi al momento della morte.

In altre parole cade in successione e rileva ai fini dei calcoli successori solo il quod superest e, per altro verso, i valori rilevati ai fini delle valutazioni successorie sono quelli esistenti alla morte e non al momento dell'atto dispositivo, salva l'applicazione per il denaro del principio nominalistico ex art. 751 c.c.

La residualità dell'attribuzione, dunque, implica che all'attribuente permanga il libero potere di disposizione del bene. è infatti proprio l'esercizio di detto potere che fa uscire dal patrimonio del disponente il bene che è oggetto della disposizione, sottraendolo così alla massa ereditaria e lasciando all'acquirente mortis causa il solo residuo [nota 2].

La reductio ad successionem delle liberalità fra vivi

A fronte di ciò si pone per altro verso il problema della sorte degli atti di liberalità fra vivi in prospettiva della futura successione.

Tali atti, invero, non costituiscono negozi a causa di morte e dunque essi sono caratterizzati dall'immediatezza dell'attribuzione traslativa e dalla conseguente immediata sottrazione del potere dispositivo in capo al donante, salva la particolare fattispecie di cui all'art. 790 c.c.

Nondimeno il legislatore considera tendenzialmente tali operazioni un anticipo della futura successione e dunque egli si preoccupa di porre in essere dei rimedi per ricondurre al fenomeno successorio le attribuzioni liberali tra vivi.

Si tratta in altri termini di operare una reductio ad successionem di un atto tra vivi e dunque di recuperare, in parte e per quanto possibile, quegli aspetti funzionali alla causa mortis, che la donazione, in quanto atto tra vivi, di per sé non presenterebbe.

A tale fondamentale funzione adempiono i tradizionali istituti della collazione e della legittima.

Il primo tende a porre come regola generale il principio secondo cui la donazione è considerata come un acconto della futura successione.

Si tratta di una regola derogabile dal de cuius, tramite l'istituto della dispensa della collazione, nei limiti della disponibile (art. 737 c.c.).

La collazione costituisce peraltro un istituto alquanto diverso per finalità ed ambito di applicazione da quello della legittima, non foss'altro perché esso tende a porre, in modo derogabile, una totale eguaglianza quantitativa nelle liberalità in favore dei prossimi congiunti del de cuius, mentre la legittima impone, anche se in modo inderogabile, solo l'assicurazione a ciascun legittimario di una quota minima, lasciando libero il de cuius di attribuire la quota disponibile anche solo ad alcuno dei legittimari.

Ciononostante la collazione presenta punti di contatto con la legittima.

La collazione, infatti, può costituire una tutela indiretta ed avanzata della legittima perché essa può essere idonea ad evitare la lesione di quest'ultima, sottraendo nella divisione ereditaria beni a colui che abbia ricevuto liberalità in vita e consentendo in tal modo che tali beni vadano ai legittimari che nulla invece abbiano ricevuto in vita.

La collazione condivide, inoltre, con l'istituto della legittima l'attribuzione di una rilevanza postuma agli atti liberali fra vivi rispetto al fenomeno successorio nella sua complessità e con riferimento ai valori del momento dell'apertura della successione (artt. 747 e 750 c.c.).

Da ciò consegue che talune regole sono dal legislatore considerate comuni ad entrambi gli istituti (cfr. artt. 556, primo comma, 564 ultimo comma, 564 terzo comma, in relazione all'art. 740 c.c.).

Nell'istituto della legittima, ove pure si opera una reductio ad successionem della liberalità tra vivi, quest'ultima è attuata tramite gli istituti della riunione fittizia (art. 556 c.c.) e dell'imputazione (art 564 c.c., secondo comma, c.c.), che tendono nella sostanza a neutralizzare il disallineamento delle regole proprie del fenomeno successorio rispetto a quelle proprie degli atti tra vivi ed a riconsiderare le attribuzioni liberali tra vivi in funzione del complessivo fenomeno successorio.

La deroga ai principi successori tradizionali operata con il Patto di famiglia

Le deroghe inerenti al profilo soggettivo dell'attribuzione

Orbene la nuova disciplina del Patto di famiglia sembra invece derogare in toto ai tradizionali principi generali sopra esposti.

Viene a tale riguardo in rilievo innanzitutto il profilo soggettivo dell'attribuzione.

Le norme in materia di Patto di famiglia, infatti, essendo dirette a realizzare immediatamente, in vita del disponente, un determinato assetto di interessi su una certa massa patrimoniale, destinato a resistere anche dopo la morte dello stesso, prende in considerazione solo i legittimari esistenti alla data di stipulazione del Patto di famiglia.

Dispone infatti l'articolo 768-quater, primo comma, c.c. che «al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore».

Tale disposizione dunque costituisce una rilevante deroga ai principi generali secondo cui la qualifica di legittimario, come ogni altra qualifica soggettiva ai fini di attribuzioni patrimoniali mortis causa, va verificata esclusivamente con riferimento alla situazione esistente al momento dell'apertura della successione.

è vero per altro verso che il successivo art. 768-sexies, primo comma, c.c. dispone che «all'apertura della successione dell'imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater, aumentata degli interessi legal».

Tale regola è senza dubbio applicabile ai legittimari nel senso tradizionale del termine, vale a dire quelli che sono tali al momento dell'apertura della successione, essendo ovviamente possibile non solo che ai legittimari esistenti al momento della redazione del patto se ne aggiungano altri al momento della morte del disponente (ad es. per la nascita di ulteriori figli), ma anche che ai legittimari originari subentrino altri soggetti (ad esempio per rappresentazione).

Ma quello sancito dall'art. 768-sexies, primo comma, c.c. costituisce un diritto minore e per così dire affievolito rispetto ai tradizionali diritti dei legittimari, poiché, come avremo modo di approfondire nel prosieguo della presente trattazione, esso ha ad oggetto valori patrimoniali cristallizzati al momento della stipulazione del Patto di famiglia e non, come di regola avviene nel fenomeno successorio, considerati al momento dell'apertura della successione.

Inoltre il diritto liquidatorio dei legittimari, originari o sopravvenuti, non integra la facoltà per il suo titolare di divenire comproprietario del patrimonio del disponente, ma solo quella di conseguire una liquidazione dei propri diritti di legittima.

Invece tradizionalmente nel nostro ordinamento, sulla scorta della tradizione francese, la legittima è considerata quota di eredità. [nota 3]

Le deroghe inerenti al profilo oggettivo dell'attribuzione

Quanto al profilo oggettivo dell'attribuzione traslativa non può non rilevarsi che il bene oggetto dell'attribuzione nel Patto di famiglia è considerato nella sua consistenza in essere al momento della stipula del contratto ed il disponente ne perde immediatamente la titolarità e dunque anche il potere di disporne.

A tale proposito deve dunque innanzitutto rilevarsi che la perdita immediata della titolarità del bene impedisce, alla stregua delle esposte considerazioni, di rinvenire nel Patto di famiglia un'attribuzione traslativa mortis causa, dovendosi piuttosto essa qualificare come una liberalità tra vivi [nota 4].

Ne consegue che impropria appare la modifica apportata dalla riforma all'art. 458 c.c. che, aggiungendo le parole «fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti,» al primo periodo, che disciplina i patti istitutivi, e non al secondo periodo di detto articolo, che disciplina i patti dispositivi e rinunziativi, mostra di configurare il Patto di famiglia come una deroga al divieto dei patti successori istitutivi, che costituiscono indubbiamente atti a causa di morte [nota 5].

Invece alla stregua di quanto sopra esposto dovrebbe risultare evidente che la deroga all'art. 458 c.c. interessa più precisamente i patti dispositivi e rinunziativi poiché il legittimario non assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni sociali oggetto del Patto di famiglia, con l'accettazione della liquidazione di cui all'art. 768-quater secondo comma c.c. o con la rinuncia a tale liquidazione ivi prevista, in sostanza dispone dei propri diritti successori sulla massa patrimoniale dedotta nel patto e relativa ad una successione non ancora apertasi.

Ma quel che più interessa in questa sede è che il valore sulla base del quale vengono liquidati i legittimari non solo attuali, ma anche futuri, è quello che l'azienda o le partecipazioni sociali oggetto del Patto di famiglia hanno al momento della stipulazione del patto stesso e non, come avverrebbe in base alle regole tradizionali, al momento della morte del disponente.

E, si badi bene, la cristallizzazione di detto valore al momento della stipula del Patto di famiglia ha effetto non solo per i legittimari in essere a tale momento che abbiano partecipato all'atto, ma anche per i legittimari sopravvenuti.

Ciò si desume in modo sufficientemente chiaro sempre dall'art. 768-sexies c.c., nella parte in cui esso prevede che la somma da liquidare ai soggetti che non abbiano partecipato al contratto è quella prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater c.c. "aumentata degli interessi legali".

Dunque l'unico ristoro che i legittimari sopravvenuti ricevono a fronte della cristallizzazione del valore dei beni oggetto del Patto di famiglia è rappresentato dal solo riconoscimento degli interessi legali, la cui spettanza invero non avrebbe avuto alcun senso se la valutazione fosse stata effettuata al momento della morte del disponente.

La disapplicazione della reductio ad successionem e la causa del Patto di famiglia

A fronte di ciò l'art. 768-quater ultimo comma c.c. prevede che «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione».

Vengono in altre parole disapplicati proprio quei principi che, come si è detto, sovraintendono alla reductio ad successionem delle liberalità tra vivi.

Peraltro ancorché tale disapplicazione sia letteralmente riferita solo a quanto ricevuto dai contraenti, deve ritenersi che analoga sorte sia riservata anche a quanto ricevuto dai legittimari sopravvenuti in forza dell'art. 768-sexies c.c.

Costoro, infatti, non fanno altro che ricevere quanto sarebbe stato loro riservato qualora avessero potuto partecipare alla stipulazione del Patto di famiglia, onde non avrebbe alcun senso una disparità di trattamento al riguardo tra i legittimari originari e quelli sopravvenuti.

Alla stregua di tali circostante deve essere dunque ricostruita anche la causa del Patto di famiglia.

Per quanto detto, infatti, non sembra che il nuovo istituto possa essere qualificato come una donazione modale.

Tale ricostruzione, infatti, sarebbe possibile solo in una prospettiva rispettosa dei tradizionali principi che sovraintendono alla redutio ad successionem delle liberalità fra vivi.

In tale ottica infatti ben potrebbe sostenersi che il disponente abbia effettuato una donazione al legittimario preferito, ponendo a carico di costui l'onere di soddisfare con denaro o altre utilità il diritto di legittima degli altri legittimari.

Ma tale ricostruzione risulta a ben vedere del tutto inadeguata se si considera i più profondi effetti che il Patto di famiglia produce, in base alla nuova normativa, sul tradizionale fenomeno della reductio ad successionem.

Alla stregua di tali effetti sembra, infatti, che la funzione del Patto di famiglia sia appunto costituita dalla segregazione del patrimonio attribuito dal donante dal resto del patrimonio del de cuius ed in particolare dal conseguimento di una sostanziale irrilevanza ai fini successori di quanto attribuito con il patto: è questo invero il risultato perseguito dalle parti e tutelato dalla nuova legge.

D'altro canto la citata disposizione di cui all'art. 768-sexies c.c. e la sua riferibilità ai legittimari sopravvenuti impedisce di ritenere che il Patto di famiglia costituisca nel diritto positivo a tutti gli effetti un fenomeno di "successione anticipata", almeno se tale espressione sia intesa senso letterale [nota 6].

Se infatti il Patto di famiglia producesse gli stessi effetti che determinerebbe la successione mortis causa, ove essa si aprisse al momento della stipulazione del Patto di famiglia, nessun diritto potrebbero vantare coloro che rivestono la qualifica di legittimario al momento della morte del disponente, per la semplice ragione che la qualifica di legittimario dovrebbe rilevare solo all'atto della successione anticipata.

Ma l'art. 768-sexies c.c. esclude una siffatta conclusione poiché esso considera rilevante la nozione tradizionale di legittimario, laddove attribuisce i diritti liquidatori della quota di legittima a coloro che rivestano tale qualifica con riferimento al momento della morte.

Tale considerazione dunque rafforza a nostro avviso la tesi che la vera natura dell'istituto del Patto di famiglia risieda nella segregazione patrimoniale dei beni oggetto del Patto di famiglia rispetto al fenomeno successorio, in quanto, come si è visto, l'art. 768-sexies c.c. consente di attribuire ai legittimari sopravvenuti i diritti di liquidazione ivi previsti, ma non di effettuare la reductio ad successionem dell'attribuzione patrimoniale effettuata con il patto.

In altre parole la nozione di successione anticipata può essere un utile ed acuto espediente descrittivo del fenomeno del Patto di famiglia, a condizione che essa non sia intesa in senso assoluto, alla stregua di quanto sopra esposto.

Ma a questo punto appare a nostro avviso più aderente alla effettiva funzione dell'istituto del Patto di famiglia ricorrere al menzionato concetto di segregazione patrimoniale.

L'incidenza dei profili causali sulla struttura del Patto di famiglia

Le conseguenze della preterizione di taluno dei legittimari

Tale ricostruzione della causa del Patto di famiglia è idonea, tra l'altro, anche a risolvere il problema sollevato dai primi commentatori della riforma relativo alla struttura del patto ed in particolare alla necessità o meno, ai fini della validità del negozio, di tutti coloro che rivestirebbero la qualità di legittimari se la successione si aprisse al momento della stipulazione del patto [nota 7].

Ed invero la circostanza che la citata segregazione del patrimonio attribuito dal donante assurga a causa dell'attribuzione del disponente, fa sì che la mancanza della partecipazione al contratto di uno dei predetti legittimari determini l'impossibilità di realizzare detta funzione e si traduca in conseguenza in un vizio della causa negoziale.

Tale conclusione appare a nostro avviso inevitabile alla stregua del principio generale dell'intangibilità delle sfere giuridico-patrimoniali sancito dall'art. 1372 primo comma c.c. In forza di tale principio ogni qual volta il contratto è diretto a realizzare effetti nella sfera giuridica di un soggetto, questo deve necessariamente intervenire alla stipulazione del contratto stesso.

Per converso la possibilità che, in deroga a tale principio, il contratto possa produrre effetti nella sfera giuridica di un terzo rimasto estraneo all'accordo negoziale è rimessa dal secondo comma del citato art. 1372 c.c. ad una specifica disposizione di legge.

Tale disposizione, ponendo un'evidente eccezione ad una regola generale, non può essere desunta in via analogica, ma deve essere sancita da una norma espressa, in base all'art. 14 delle preleggi.

Ma dalla lettura delle nuove norme in materia di Patto di famiglia non si evince alcuna disposizione espressa in tal senso, anzi la lettera della legge richiede, al contrario, che al contratto debbano partecipare, pur non precisando a quali effetti, anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore (art. 768-quater c.c.). [nota 8]

D'altro canto la mancata partecipazione al contratto di un soggetto destinatario degli effetti negoziali non può nel caso di specie nemmeno essere surrogata dall'instaurarsi di un rapporto obbligatorio, come avviene nella vendita di cosa altrui ex art. 1478 c.c.

L'instaurarsi di tale rapporto, infatti, ha lo scopo di consentire al contratto di svolgere la propria funzione, senza tuttavia ledere la sfera giuridico-patrimonale del terzo proprietario del bene venduto.

Ma ciò non è evidentemente possibile nel caso del Patto di famiglia, nel quale, anche laddove si facesse obbligo alle parti di soddisfare le ragioni del legittimario non intervenuto all'atto, rimarrebbe ferma la cristallizzazione del valore di liquidazione alla data della stipulazione del Patto di famiglia (cfr. art. 768-sexies c.c.).

Ciò priverebbe in ogni caso il legittimario pretermesso del diritto a far valere le proprie ragioni su valori aggiornati al momento dell'apertura della successione.

Del resto se il Patto di famiglia non producesse necessariamente tale cristallizzazione dei valori, esso non potrebbe essere utilmente distinto da una normale donazione modale.

Ne risulta confermato, da un lato, che la segregazione del patrimonio oggetto del Patto di famiglia svolge un ruolo causale, dall'altro, che tale funzione non può essere perseguita senza l'intervento dei legittimari presunti.

Sotto tale aspetto la fattispecie è dunque analoga a quella della divisione con pretermissione di uno dei condividenti, nella quale si ritiene che la manca la partecipazione di uno dei condividenti determini l'impossibilità di realizzare la causa divisoria e costituisca, dunque, un vizio causale generante la nullità del negozio divisorio [nota 9].

è bene precisare che l'affinità con la divisione si limita solo a quest'aspetto, rappresentato dall'impossibilità di perseguire la funzione contrattuale senza la partecipazione di determinati soggetti, che sono destinatari dell'effetto negoziale tipico.

Ma non può ritenersi che il Patto di famiglia presupponga sempre anche una funzione divisoria del patrimonio del capo famiglia.

E ciò non tanto per la considerazione che i mezzi di soddisfacimento delle ragioni del legittimario non assegnatario dell'azienda debbano provenire, a quanto pare, dal patrimonio dell'assegnatario stesso; il sistema codicistico dimostra, infatti, che la funzione divisoria può ritenersi sussistente anche nei negozi traslativi stipulati allo scopo di far cessare uno stato di comunione [nota 10].

La vera ragione di differenziazione della causa del Patto di famiglia da quella divisoria risiede nella considerazione che quest'ultima potrebbe del tutto mancare, come avviene nel caso in cui non sussistano altri legittimari al momento della stipula del Patto di famiglia oltre al discendente assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni sociali [nota 11].

è ben vero, peraltro, che la stessa legge consente di rendere efficace il patto nei confronti di coloro che risultino legittimari al momento dell'apertura della successione e che non abbiano partecipato al patto, perché evidentemente non rivestenti tale qualifica se la successione si fosse aperta al momento della stipula del Patto di famiglia (art. 768-sexies c.c.).

Ma si tratta con ogni evidenza di una deroga giustificata dall'impossibilità materiale di chiamare a partecipare all'atto soggetti la cui qualifica di legittimario sia allo stato ignota, in tal caso e solo in tal caso, potendosi ravvisare una deroga normativa espressa al principio della relatività dei contratti.

I possibili rimedi al vizio da preterizione

Ci si potrebbe chiedere, peraltro, se un Patto di famiglia che non possa ritenersi tale per la mancata partecipazione di un legittimario esistente, o più in generale per ogni altra ipotesi di mancanza dei requisiti tipici del Patto di famiglia (ad es. la deduzione in contratto di partecipazioni non di impresa, laddove si ritenga che oggetto del patto possano essere solo partecipazioni che consentano la gestione dell'impresa sociale ) possa comunque sortire un qualche effetto giuridico.

Ma, a ben vedere, non possono che trovare applicazione al riguardo i principi generali dell'ordinamento.

In forza di tali principi sarà sempre possibile che il negozio nullo possa essere convertito in un negozio valido, laddove, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità (art. 1424 c.c.).

In tal caso dunque il Patto di famiglia nullo potrebbe convertirsi in una valida donazione modale.

O addirittura è possibile che, laddove un'attenta ricostruzione della volontà delle parti accerti che esse abbiano sin dall'origine direttamente perseguito lo scopo corrispondente ad una donazione modale, il contratto potrebbe essere oggetto di una diretta riqualificazione come donazione modale, ad onta del nomen juris impropriamente utilizzato nel testo contrattuale.

Ma in entrambi i casi risulta chiaro che gli effetti negoziali prodottisi presentano rilevanti differenze rispetto a quelli del Patto di famiglia, con particolare riferimento alla stabilità dell'assetto patrimoniale in prospettiva della futura successione dell'imprenditore, e devono come tali essere voluti dalle parti.

Nessun effetto segregativo, infatti, può rinvenirsi dalla donazione modale, che rimarrebbe esposta ai tradizionali fenomeni della collazione e della riduzione, alla stregua di ogni altra donazione.

Ed in ogni caso un fenomeno di conversione o di riqualificazione presuppone ovviamente che il contratto sia munito dei requisititi di sostanza e soprattutto di forma della donazione modale.

Dunque il contratto, non solo dovrà essere stipulato per atto pubblico, ma dovrà recare, a pena di nullità l'intervento dei testimoni, intervento che invece non sarebbe a rigore doveroso, come si vedrà, nel Patto di famiglia.

Nulla vieta, inoltre, che il Notaio rogante possa inserire nel Patto di famiglia, a richiesta della parti, una clausola in base alla quale i contraenti convengono che, laddove per qualsiasi causa il contratto non possa valere quale Patto di famiglia, esso valga quale donazione modale.

Tale clausola, infatti, non fa altro che esplicitare una volontà delle parti che, come si è detto, assume rilevanza determinante in base all'art 1424 c.c. per la convertibilità del negozio.

Del resto tale cautela non presuppone necessariamente un dolo delle parti o del Notaio rogante nel concludere un Patto di famiglia nullo, essendo ben possibile che tutti legittimamente ignorino una possibile causa di nullità del Patto di famiglia (si pensi a figli naturali ignoti o ai nascituri concepiti di cui si ignori l'avvenuto concepimento al momento della stipulazione del patto).

Le differenze tra la disciplina del Patto di famiglia e quella delle donazioni

La particolare causa negoziale, che, alla stregua delle esposte considerazioni, deve ritenersi propria del Patto di famiglia, è alla base anche delle rilevanti differenze di disciplina di quest'ultimo istituto rispetto alla donazione tradizionale.

Tale diversità di disciplina è, infatti, palese, non solo in relazione alla menzionata disapplicazione degli istituti della collazione e della riduzione di cui si è detto poc'anzi, ma anche in relazione ad altri elementi di differenziazione meno evidenti, ma pur sempre importanti.

Eloquente è al riguardo l'impossibilità di applicare alle attribuzioni patrimoniali derivanti dal Patto di famiglia la disciplina della revocazione delle donazioni per sopravvenienza di figli di cui all'art 803 c.c., atteso che l'istituto della sopravvenienza di figli non può che confluire nel più ampio fenomeno dell'insorgenza, al momento dell'apertura della successione, di legittimari che non abbiano potuto partecipare alla stipulazione del patto.

Esso è disciplinato dall'art. 768-sexies c.c. non già con l'incondizionata attribuzione al legittimario sopravvenuto di una facoltà di impugnativa dell'assetto negoziale, bensì con la mera attribuzione di un diritto di credito, che presuppone, come si è visto, per ogni altro verso, l'opponibilità allo stesso della segregazione patrimoniale ai fini successori.

La particolare natura causale del Patto di famiglia, inoltre, induce a ritenere non applicabile a tale istituto la norma che impone a pena di nullità l'assistenza dei testimoni nel relativo atto pubblico.

Di tale problematica il sistema codicistico non si occupa né per la donazione né per il Patto di famiglia, in relazione ai quali il codice prescrive in entrambi i casi la sola forma dell'atto pubblico (artt. 782 e 768-ter c.c.).

La norma sui testimoni è, invece, contenuta nella sedes materiae propria della disciplina dell'atto pubblico, vale a dire nella legge notarile (L. 16 febbraio 1913, n. 89), la quale all'art. 48 si limita, per quanto qui interessa, a prescrivere l'assistenza dei testimoni nei soli "atti di donazione".

Ma, una volta chiarito che il Patto di famiglia non è donazione, non sembra possibile estendere allo stesso in via analogica la norma sull'assistenza dei testimoni, stante il principio della libertà delle forme e dell'eccezionalità delle prescrizioni formali.

Per altro verso un'evidente differenza di disciplina normativa tra la donazione vera e propria ed il Patto di famiglia, se si considera ancora attuale nel sistema positivo il carattere dell'irrevocabilità della donazione [nota 12], può ravvisarsi nella possibilità che nel Patto di famiglia possa essere introdotta volontariamente una clausola attributiva del diritto di recesso in forza dell'art. 768-septies n. 2 c.c.

Deve infine rilevarsi che la particolare connotazione causale del Patto di famiglia come sopra ricostruita e la conseguente sua peculiare disciplina normativa, non esclude ovviamente che esso sia ascrivibile al genus delle liberalità fra vivi.

Si tratterebbe dunque di una particolare ipotesi di liberalità, caratterizzata da una disciplina sui generis, ma pur sempre di una liberalità.

Ne consegue che essa da punto di vista fiscale non può subire un trattamento differenziato rispetto alla donazione tradizionale, poichè la normativa fiscale riserva un uguale trattamento non solo ai «trasferimenti di beni e diritti per donazione», ma anche a quelli per «altra liberalità tra vivi» (art. 13 secondo comma della L. 18 ottobre 2001 n. 383).

Il fenomeno dell'imputazione nel Patto di famiglia

La normale irrilevanza dell'imputazione in caso di segregazione patrimoniale

Contro la ricostruzione del profilo causale del Patto di famiglia come fenomeno segregativo del patrimonio oggetto di sistemazione in relazione alla reductio ad successionem delle liberalità tra vivi, sembrerebbe porsi a prima vista il terzo comma dell'art. 768-quater c.c., secondo cui «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti».

Se infatti il patrimonio oggetto del Patto di famiglia fosse effettivamente isolato da quello successorio e sottratto a collazione e riduzione, non avrebbe alcun senso la predetta imputazione alla legittima dei beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda.

Costoro, infatti, una volta esclusa la rilevanza di quanto ricevuto ai fini della regolamentazione del fenomeno successorio, non avrebbero prima facie alcuna ragione di imputare quanto ricevuto alla legittima ad essi spettanti, poiché i calcoli inerenti la riduzione dovrebbero essere effettuati solo sul relictum e sulle ordinarie liberalità effettuate in vita dal de cuius, senza tenere conto di quanto assegnato con il Patto di famiglia.

La norma in esame risulta inoltre vieppiù misteriosa se si considera che il codice del '42 sancisce la regola generale secondo cui ciò che è esente da collazione è esente anche da imputazione (art. 564 ultimo comma c.c.).

Orbene quanto ricevuto in forza del Patto di famiglia rappresenta una nuova ulteriore ipotesi codicistica di esenzione da collazione in forza dell'art. 768-quater ultimo comma c.c., che in quanto tale non dovrebbe sottrarsi alla regola generale del citato art. 564 ultimo comma c.c.

Per altro verso la tradizionale dottrina ereditaria ritiene che, a sua volta, ciò che è esente da collazione è esente anche da riunione fittizia, nel senso che il richiamo effettuato dall'art. 556 c.c. alla collazione è esteso non solo alle regole sulle modalità della collazione, ma anche alle altre regole sull'oggetto della stessa, per simmetria con l'imputazione [nota 13].

Del resto la riunione fittizia è con ogni evidenza un'operazione strumentale all'imputazione, perché essa è funzionale alla reductio ad successionem di cui si è detto, sicchè non avrebbe senso un diverso trattamento tra le due fattispecie.

L'imputazione del legittimario che succede per rappresentazione

Nondimeno, a ben vedere, sussistono ragioni che inducono a ritenere necessaria, a taluni effetti, un'imputazione alla legittima anche di quanto ricevuto in forza del patto, pur in presenza del menzionato fenomeno della segregazione del patrimonio attribuito.

Viene a tale proposito in rilievo l'art. 564, terzo comma, c.c., relativo al legittimario che succede per rappresentazione, il quale ai fini dell'esercizio dell'azione di riduzione deve imputare anche le liberalità fatte al suo ascendente.

Le ragioni di tale specifica previsione di imputazione risiedono nella considerazione che colui che succede per rappresentazione succede iure proprio sebbene in forza di una delazione per relationem, tant'è che egli può succedere al de cuius ancorché abbia rinunciato all'eredità della persona in luogo della quale subentra (art. 468, secondo comma, c.c.).

Ne deriva che, in mancanza della disposizione di cui all'art. 564, terzo comma, c.c., egli potrebbe reclamare la quota di legittima del proprio ascendente senza imputare quanto da quest'ultimo ricevuto a titolo di liberalità dal de cuius.

Ma, poiché la delazione del successore per rappresentazione ha, come si è detto, carattere derivato, è parso equo che egli subisca gli effetti dell'imputazione delle donazioni ricevute dal proprio ascendente, altrimenti ne risulterebbero alterate le basi economiche della successione.

Diversamente opinando si determinerebbe, infatti, una moltiplicazione delle attribuzioni patrimoniali a titolo di legittima, che potrebbe assottigliare in modo rilevante la consistenza patrimoniale della quota di legittima di ciascun avente diritto.

In materia di Patto di famiglia può dunque accadere che partecipi al patto un soggetto che sarebbe tale se la successione si aprisse in quel momento e che egli riceva un'attribuzione a tacitazione della legittima ex art. 768-quater c.c.

Ma potrebbe poi accadere che all'apertura della successione egli non rivesta la qualità di legittimario, perché, operando il fenomeno della rappresentazione, a rivestire tale qualifica sarebbero i suoi discendenti ex art. 536 ultimo comma c.c.

Costoro, non avendo partecipato al patto ed avendo una propria ed autonoma, ancorché derivata, delazione ereditaria, ben potrebbero vantare i diritti di cui all'art. 768-sexies c.c.

A diverse conclusioni potrebbe, invero, pervenirsi solo ove si configurasse il Patto di famiglia come un fenomeno di "successione anticipata".

In tal caso, infatti, come si è già avuto modo di accennare, nessun diritto di tipo successorio potrebbero vantare coloro che rivestono la qualifica di legittimario al momento della morte del disponente, poiché tale qualifica dovrebbe rilevare solo all'atto della successione anticipata.

Ma, come si è detto, l'art. 768-sexies c.c. esclude una siffatta conclusione, poiché esso considera rilevante la nozione tradizionale di successore mortis causa, laddove attribuisce diritti liquidatori della quota di legittima a coloro che rivestano la qualifica di legittimario con riferimento al momento della morte.

Ma se ciò vale con riferimento, ad esempio, ai figli o al coniuge sopravvenuti del disponente, non si vede per quale ragione altrettanto non debba avvenire per i discendenti del figlio del de cuius che vengano alla successione per rappresentazione.

In tale contesto normativo la regola secondo cui i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti, sancita dal terzo comma dell' art. 768-quater c.c., in combinato disposto con l'art. 564 terzo comma c.c., impedisce al legittimario di reclamare l'indennizzo già attribuito al proprio rappresentato.

Si potrebbe a tal fine forse discutere se al legittimario che succeda per rappresentazione possano spettare almeno gli interessi legali sui valori ricevuti dal suo ascendente, posto che l'art. 768-sexies c.c. prevede che all'apertura della successione dell'imprenditore i legittimari sopravvenuti possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater, «aumentata degli interessi legali».

Ma a nostro avviso nemmeno gli interessi competono al successore per rappresentazione se si ritiene, come appare preferibile, che l'imputazione retroagisca al momento della stipulazione del Patto di famiglia, onde non vi sarebbe causa per il pagamento dei medesimi interessi.

Alla stregua delle esposte considerazioni si spiegherebbe anche la ragione per la quale la regola dell'imputazione è posta dal terzo comma dell'art. 768-quater c.c. solo con riferimento agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda e non anche agli assegnatari medesimi.

Questi ultimi infatti sono aventi causa dal de cuius e dunque nei loro confronti non sussisterebbe alcun dubbio sull'applicabilità dell'art. 564, terzo comma, c.c.

I primi invece sarebbero, almeno nella normale configurazione del Patto di famiglia, aventi causa dall'assegnatario e peraltro in ragione di una pattuizione dispositiva che potrebbe configurare una sorta di corrispettività tra la rinunzia ai propri diritti di legittima sul patrimonio attribuito e le somme o le altre utilità ricevute in cambio.

Peraltro si tratta di una preoccupazione forse eccessiva del legislatore, perché la presenza, in ipotesi, di siffatta corrispettività non è in grado di escludere nei confronti del de cuius la qualifica di donazione indiretta di tale attribuzione, come tale soggetta alle regole della legittima ex art. 809 c.c. [nota 14]

è vero peraltro che anche l'art. 564 terzo comma c.c. costituisce pur sempre una fattispecie di imputazione e che dunque a rigore anche in tal caso quanto ricevuto in forza del Patto di famiglia dovrebbe essere esente da imputazione, in quanto esente da collazione, in forza del combinato disposto degli artt. 564, ultimo comma, e 768-quater, ultimo comma, c.c.

Ma è anche vero che la funzione dell'imputazione del successore per rappresentazione di cui all'art. 564, terzo comma, c.c. è diversa da quella dell'imputazione ordinaria di cui all'art. 564, secondo comma, c.c.

Quest'ultima è, infatti, diretta ad evitare ulteriori ed indebite locupletazioni del legittimario, il quale, se non effettuasse l'imputazione, conseguirebbe valori patrimoniali, riferiti al complessivo patrimonio del de cuius, superiori rispetto alla quota di legittima a lui spettante.

L'imputazione del rappresentante è, invece, diretta, come si è visto, ad evitare distorsioni del calcolo della legittima nel suo complesso in ragione della moltiplicazione dei beneficiari [nota 15].

Quest'ultima esigenza, per evidenti ragioni, non viene meno anche in presenza di un fenomeno di segregazione ereditaria del patrimonio, quale si è visto essere l'istituto del Patto di famiglia.

L'imputazione ordinaria, invece, perde ogni sua ragion d'essere laddove si effettui una sistemazione patrimoniale con l'accordo degli interessati su di una massa patrimoniale segregata dal resto del patrimonio ereditario.

La norma di cui all'art. 768-quater terzo comma c.c. va dunque letta come se essa dicesse che i beni assegnati agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle sole quote di legittima loro spettanti inerenti al patrimonio segregato.

Ed un'espressa indicazione in tal senso potrebbe rinvenirsi nella circostanza che la norma riferisce l'imputazione de qua ai soli «beni assegnati con lo stesso contratto», a conferma che i beni oggetto del contratto costituiscono una massa patrimoniale segregata dal residuo patrimonio ereditario.

Collazione e successione per rappresentazione

Le predette ragioni sistematiche inducono peraltro a ritenere che il legittimario che succede per rappresentazione ed è rimasto estraneo al patto non è soggetto a collazione per quanto ricevuto in forza del patto dal suo ascendente, come dovrebbe avvenire in forza dell'art. 740 c.c., ancorché dal punto di vista letterale la norma di cui all'art. 768-quater, ultimo comma, c.c. escluda da collazione solo quanto ricevuto "dai contraenti".

Del resto la norma a ben vedere non circoscrive l'esclusione da collazione ai soli rapporti successori con i contraenti, ma si limita a delimitare esclusivamente dal punto di vista oggettivo ciò che è escluso da collazione, individuandolo con quanto ricevuto ovviamente dai contraenti. Dunque, anche dal punto di vista letterale, l'esclusione di tali attribuzioni da collazione è impersonale.

Imputazione alla legittima e comunione legale tra coniugi

Infine la norma di cui al terzo comma dell'art. 768-quater c.c. potrebbe essere diretta a conferire natura liberale-successoria a quanto ricevuto dai partecipanti al patto al fine di evitare l'insorgenza della comunione legale sui beni acquistati a tale titolo [nota 16], posto che gli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda sono aventi causa dagli assegnatari medesimi e non dal de cuius.

Ma anche in tal caso, come si è gia avuto modo di rilevare, la preoccupazione del legislatore è forse eccessiva in quanto si tratterebbe pur sempre di attribuzioni patrimoniali che, anche per agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, costituiscono nei confronti del de cuius, atti di liberalità, sia pure indiretta.

Ciò quanto meno se si condivida l'orientamento giurisprudenziale secondo cui anche quanto ricevuto per liberalità indiretta costituisce bene escluso dalla comunione legale, ai sensi dell'art. 179, lettera b), c.c. [nota 17]

Rinuncia ai diritti dei legittimari e rappresentazione

La rappresentazione nella successione necessaria in generale

Ma il fenomeno della rappresentazione pone particolari problemi in materia di Patto di famiglia anche con riferimento all'ipotesi in cui il c.d. rappresentato sia intervenuto al patto al solo scopo di rinunciare alla propria quota di liquidazione, come previsto e consentito dal 768-quater, secondo comma, c.c.

Ci si chiede a tale riguardo se siffatta rinuncia possa far insorgere nei discendenti del rinunciante i diritti di cui all'art. 768-sexies c.c.

In realtà tale problematica presuppone innanzitutto che si chiariscano i principi, a dir poco oscuri, che regolano il fenomeno della rappresentazione nella successione necessaria, pur presentando il fenomeno della rappresentazione nella specifica materia del Patto di famiglia particolari risvolti applicativi.

Orbene nella successione necessaria in generale il fenomeno della rappresentazione non pone particolari problemi laddove il c.d. rappresentato premuoia al de cuius.

Non v'è dubbio, infatti, che il discendente del rappresentato gode in tal caso di tutti i diritti di legittima che spetterebbero al suo ascendente ai sensi dell'art. 536, ultimo comma, c.c.

La questione diviene più complessa laddove l'operatività della rappresentazione non derivi da premorienza, ma da rinuncia.

A nostro avviso in quest'ultimo caso nella successione necessaria andrebbe distinta l'ipotesi del legittimario leso da quella del legittimario preterito.

Laddove, infatti, si verifichi una mera lesione di legittima, senza preterizione del legittimario, all'apertura della successione può accadere che il legittimario rinunci all'eredità a lui comunque devoluta, sia pure per una quota lesiva della legittima, ovvero che egli consegua l'eredità per la quota lesiva e rinunci alla sola azione di riduzione.

Nella prima ipotesi non sembra esservi dubbio che, come per le ordinarie ipotesi di rappresentazione, il rappresentante possa esercitare tutti i diritti del rappresentato e dunque non solo il diritto di subentrare nella delazione per la quota lesiva, ma anche il diritto di chiedere l'integrazione della legittima.

Nel caso in cui, invece, il legittimario leso consegua l'eredità per la quota lesiva e rinunci alla sola azione di riduzione, egli rimarrebbe pur sempre erede per la quota lesiva.

Ne consegue che non pare possibile che i discendenti di quest'ultimo possano reclamare la sola integrazione della legittima in luogo del proprio ascendente rimasto erede nella quota lesiva, essendo senza dubbio unica la delazione ereditaria.

Laddove invece di tratti di un legittimario preterito, questi non può rinunciare ad altro che all'azione di riduzione, non configurandosi nei suoi confronti nessuna delazione attuale dell'eredità [nota 18], che possa essere posta a base di una vera e propria rinuncia all'eredità stessa.

Ma nella fattispecie la rinunzia all'azione di riduzione implica in buona sostanza una rinunzia in toto alla posizione ereditaria, essendo in questo caso l'azione di riduzione l'unico strumento per conseguire la qualità di coerede. [nota 19]

Ma, se ciò è vero, ne dovrebbe derivare che il discendente del rinunciante possa far valere i diritti del proprio ascendente a titolo di rappresentazione, come egli avrebbe potuto fare se il proprio ascendente fosse stato chiamato all'eredità e avesse a questa rinunciato. [nota 20]

La rappresentazione e la rinuncia ai diritti liquidatori del Patto di famiglia

Ciò posto, in materia di Patto di famiglia, ci si potrebbe chiedere cosa accada se il discendente del de cuius, che sarebbe legittimario ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore, intervenga nel Patto di famiglia per rinunciare alla propria quota di liquidazione, laddove egli all'apertura della successione abbia discendenti.

Orbene, alla stregua delle esposte considerazioni, se l'ascendente premuore o rinuncia all'eredità o, se preterito, rinuncia all'azione di riduzione dovrebbero applicarsi gli stessi principi di cui sopra.

Ne deriverebbe che il discendente in rappresentazione assume la veste di legittimario al momento dell'apertura della successione e può far valere i propri diritti ex art. 768-sexies c.c., in quanto soggetto che non ha partecipato all'atto.

Né opererebbe in tal caso il correttivo dell'imputazione di cui al combinato disposto degli artt. 564, terzo comma, e 768-quater, terzo comma, c.c. perché, avendo l'ascendente rinunciato alla propria quota di liquidazione, nulla ha conseguito ed in conseguenza nulla c'è da imputare a colui che gli subentra per rappresentazione.

Solo laddove il c.d. rappresentato alla morte dell'imprenditore disponente sia chiamato all'eredità per una quota lesiva, consegua quest'ultima e rinunci alla sola azione di riduzione, il discendente in rappresentazione non potrebbe far valere i propri diritti ex art. 768-sexies c.c., allo stesso modo in cui egli non potrebbe far valere in generale il diritto all'integrazione della legittima, perché l'accettazione dell'eredità lesiva blocca ogni ulteriore delazione successiva.

E non v'è dubbio, alla stregua del terzo comma dell'art. 768-quater c.c., che quanto viene percepito in dipendenza del Patto di famiglia a titolo liquidatorio viene percepito a titolo di legittima.

Ci si può tutt'al più chiedere se il discendente in rappresentazione che sia anche erede non rinunziante del proprio ascendente possa essere chiamato a rispettare la rinuncia di quest'ultimo alla quota di liquidazione effettuata nel Patto di famiglia.

Il rappresentante, infatti, in quanto erede di una parte del contratto dovrebbe essere considerato egli stesso parte contrattuale.

Ma tale conclusione è assai dubbia, se si considera che il legittimario in rappresentazione, anche se erede del rappresentato, agisce comunque iure proprio quando reclama diritti sull'eredità del de cuius principale. Dunque la rinunzia alla quota di liquidazione del rappresentato costituisce del pari una rinuncia ad un diritto proprio di quest'ultimo e non ad un diritto suscettibile in quanto tale di trasmissione ai propri eredi.

A maggior ragione se l'ascendente non premuore e, se leso, non rinuncia all'eredità o, se preterito, non rinuncia alla legittima, ma si sia limitato alla sola rinuncia alla quota di liquidazione del Patto di famiglia, il discendente non può vantare alcun diritto di liquidazione ex art. 768-sexies c.c.

Egli, infatti, non può ritenersi rivestire la qualità di legittimario all'apertura della successione, la quale spetta unicamente al suo ascendente.

Effetti della segregazione patrimoniale sulla devoluzione dei beni estranei al Patto di famiglia

L'ordine della riduzione delle donazioni

Mette conto infine di precisare che la segregazione patrimoniale a fini successori e la conseguente esclusione della reductio ad successionem delle attribuzioni patrimoniali che si determinano a seguito del Patto di famiglia producono effetti non solo nell'ambito degli elementi patrimoniali oggetto del patto, ma anche in relazione alla successione mortis causa sul residuo patrimonio del disponente.

In altri termini la segregazione patrimoniale di cui trattasi opera in senso biunivoco, con riferimento ad entrambe le masse patrimoniali di cui sopra.

L'indifferenza a fini successori delle attribuzioni patrimoniali contenute nel Patto di famiglia ha, infatti, importanti conseguenze anche nell'attribuzione mortis causa degli altri beni del de cuius.

Viene a tale riguardo in rilievo innanzitutto l'ordine della riduzione delle donazioni, che in forza dell'art. 559 c.c. è regolato con riferimento alla priorità temporale delle donazioni, senza che il de cuius possa derogarvi, come è invece possibile per l'ordine di riduzione delle disposizioni testamentarie (art. 558, secondo comma, c.c.).

Le ragioni sia dell'ordine cronologico di riduzione delle donazioni, sia dell'impossibilità per il de cuius di derogarvi sono tradizionalmente individuate nel principio di irrevocabilità della donazione [nota 21].

Se infatti il de cuius potesse, effettuando una donazione ulteriore, far sì che essa gravi sulla disponibile ad onta di una donazione anteriore, ciò implicherebbe una sostanziale revoca di quest'ultima.

Non è questa la sede per dare un giudizio sull'opportunità di tale scelta, specie alla stregua del superamento del dogma dell'irrevocabilità della donazione operato dal legislatore del '42 [nota 22].

Ma, per quanto qui interessa, è evidente che nel momento in cui le nuove norme escludono che le liberalità derivanti dall'attuazione del Patto di famiglia possano essere oggetto di riduzione, per ciò stesso esse incidono sulla posizione dei donatari anteriori.

Infatti le precedenti ordinarie donazioni che, considerando i beni del de cuius che sarebbero poi stati oggetto del patto famiglia, andavano a gravare sulla disponibile, si potrebbero trovare, invece, per effetto della segregazione patrimoniale dei beni del patto, a gravare in tutto o in parte sulla legittima.

Ma tale conseguenza non appare inaccettabile dal punto di vista sistematico, poichè in definitiva i beneficiari delle donazioni anteriori non possono vantare alcuna aspettativa di diritto sulla circostanza che i residui beni che il donante aveva al momento di tali donazioni soddisfino la legittima e che dunque tali donazioni non possano essere oggetto di riduzione.

Si tratta invero di un'aspettativa di mero fatto, poiché il de cuius potrebbe perdere in vita i beni residui e dunque le precedenti donazioni, che potevano considerarsi effettuate sulla disponibile se si valuta la consistenza patrimoniale del de cuius a quell'epoca, possono invece non esserlo se si considera la consistenza patrimoniale del de cuius al momento dell'apertura della successione.

Ed invero il Patto di famiglia, determinando come si è visto una segregazione patrimoniale ai fini successori, produce gli stessi effetti in parte qua della perdita dei beni che ne sono oggetto dal patrimonio computabile ai fini successori.

Né deve meravigliare la subordinazione degli interessi dei donatari anteriori rispetto a quella dei beneficiari del Patto di famiglia che consegue a tale assetto normativo.

Il legislatore, infatti, ha con ogni evidenza effettuato una scelta a favore delle ragioni di continuità dell'impresa individuale o societaria del de cuius, in prospettiva della quale ha operato ben altre deroghe ai tradizionali principi successori [nota 23].

L'incidenza della segregazione patrimoniale sulle donazioni successive alla stipulazione del Patto di famiglia.

Ed anzi l'incidenza della segregazione patrimoniale derivante dal Patto di famiglia sulla sistemazione successoria del residuo patrimonio del disponente appare ancora più intensa con riferimento alle donazioni successive alla stipulazione del Patto di famiglia.

Può infatti accadere che il de cuius abbia attribuito sui beni del patto la legittima e la disponibile al soggetto assegnatario dell'azienda, lasciando che agli altri legittimari venisse liquidata la sola quota di legittima sui tali beni.

è inoltre possibile che egli successivamente alla conclusione del patto, e pur non avendo effettuato in precedenza altre donazioni che avrebbero potuto gravare sulla disponibile come sopra precisato, doni in forma ordinaria i residui beni che non hanno costituito oggetto del Patto di famiglia a coloro che invece nel patto stesso avevano ricevuto la sola legittima, confidando in una sorta di compensazione tra le disparità di trattamento effettuate nelle due operazioni.

Ebbene la segregazione patrimoniale dei beni del patto fa sì che, se le liberalità successive hanno la forma di una donazione ordinaria e non di un Patto di famiglia (ad es. perché non si tratti di beni di impresa), il legittimario assegnatario dell'azienda possa pretendere la legittima su dette liberalità proprio perché delle attribuzioni operate nel Patto di famiglia non si può più tenere alcun conto ai fini successori.

Ma anche in tal caso si tratta di una precisa scelta del legislatore, che commette ai legittimari da liquidare con il Patto di famiglia l'onere di porre particolare attenzione nella tutela dei propri interessi in sede di stipulazione del patto stesso.

Costoro, infatti, dovendo sapere che, a seguito del patto, il patrimonio che ne è oggetto viene del tutto stralciato dai calcoli successori, avranno interesse, se lo ritengano opportuno, a richiedere in sede di stipulazione del Patto di famiglia e quale condizione della loro adesione allo stesso, la liquidazione non già della sola quota di legittima sui beni del patto, ma di una quota di ugual caratura rispetto a quella dell'assegnatario dell'azienda.


[nota 1] G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell'atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 51 e ss.

[nota 2] F. MAGLIULO, «Il divieto del patto successorio istitutivo nella pratica negoziale», Riv. not., 1992, p. 1416. Peraltro secondo Giampiccolo l'atto a causa di morte contrattuale, ammesso da talune legislazioni straniere, è comunque produttivo di effetti immediati, così ad esempio il § 2288 del BGB, il quale, pur ammettendo che il disponente alieni successivamente con atto inter vivos l'oggetto dell'attribuzione pattizia mortis causa, lo obbliga, ove si tratti di legato, a corrispondere al beneficiario il controvalore. Inoltre è in genere disposta l'invalidità di atti di disposizione a titolo gratuito posti in essere successivamente all'accordo successorio (art. 1083 cod. Nap. e § 2287 BGB).

[nota 3] A sostegno di tale affermazione sotto il vigore del codice del 1865 veniva addotto il disposto dell'art. 808 secondo il quale la legittima è «quota di eredità» ed è dovuta «in piena proprietà». Tali espressioni non furono ripetute nel corrispondente art. 549 del c.c. vigente, ma la soppressione viene giustificata nei lavori preparatori non già con l'intento di innovare al sistema previgente, bensì con la considerazione che «superflua sarebbe stata la riproduzione della norma che la porzione legittima è quota di eredità e che essa è dovuta in piena proprietà, perché questo già risulta dagli articoli precedenti» (Relazione al progetto preliminare, p. 18; L. MENGONI, Successioni per causa di morte, parte speciale, successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm. Diretto da Cicu e Messineo, XLIII, 2, Milano, 1992, p. 96).

Nel diritto tedesco vige l'opposta regola sancita per l'istituto della Pflichtteil (§§ 2303 e ss. BGB), in forza del quale la legittima non attribuisce al legittimario una quota di eredità, bensì un mero diritto di credito ad un valore, che pertanto ben può essere soddisfatto con beni non ereditari. Tale sistema è seguito dagli altri paesi che si ispirano alla tradizione giuridica germanica, quali l'Austria, la Finlandia e l'Ungheria.

[nota 4] C. CACCAVALE «Appunti per uno studio sul Patto di famiglia» - Notariato n.3/2006.

[nota 5] F. MAGLIULO, op. cit., p. 1412

[nota 6] Cfr. A. ZOPPINI, Profili sistematici della successione «anticipata» (note sul Patto di famiglia), scritto dedicato al prof. Giorgio Cian, che apparirà negli Studi in Suo onore, in corso di pubblicazione.

[nota 7] Nel senso che il Patto di famiglia possa essere stipulato anche senza l'intervento di tutti i legittimari esistenti al momento della stipulazione v. in vario senso C. CACCAVALE, «Appunti per…» cit. e G. PETRELLI, «La nuova disciplina del "Patto di famiglia"», convegno Paradigma, Milano 29 marzo 2006.

[nota 8] Del resto che tale fosse l'intenzione del legislatore è agevolmente desumibile dalla discussione parlamentare sui congiunta sui Ddl. 1353 Pastore e 3567 Buemi, nel corso della quale è stato respinto l'emendamento Fassone diretto a rendere vincolante il patto anche nei confronti del legittimario che non intenda sottoscrivere lo stesso, a condizione che si preveda un lascito alternativo nel rispetto della quota di legittima.

è indicativo che le motivazioni addotte dal relatore Semeraro per la reiezione di siffatto emendamento risiedano nella circostanza che «la previsione della vincolatività del patto nei confronti di un soggetto che ad esso non partecipa» si porrebbe «in contrasto con i principi generali in materia di formazione ed efficacia dei contratti».

[nota 9] V. in dottrina A. CICU, La divisione ereditaria, Milano, 1948, p. 45; ID. Successioni per causa di morte, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, XLII, Milano, 1961, p. 410 e ss.; L. MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 104; V. R. CASULLI voce Divisione (diritto civile), in Noviss. Dig. It., VI, Torino, 1960, p. 57; G. MIRABELLI, voce Divisione (diritto privato), in Enc. Dir., XIII, 1964, p. 422 e 425; P. FORCHIELLI, Della divisione, in Comm. Cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Libro II, Delle Successioni, artt. 713-768, Bologna-Roma, 1970, p. 208; A. BURDESE, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, XII, 5, Torino, 1980, p. 118; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2002, p. 706 e ss.

In giurisprudenza v. per tutte Cass. 10 gennaio 1952 n. 37, in Rep. Foro it., 1952, voce Divisione, n. 12; Cass. 1 agosto 1958 n. 2853, in Rep. Foro it., 1958, voce Divisione, n. 9; Cass. 27 maggio 1964 n. 1317, in Rep. Foro it., 1964, voce Divisione, n. 4; Cass. 11 maggio 1967 n. 980, in Foro it., 1967, I, p. 1475; Cass. 19 gennaio 1971 n. 104, in Foro Pad., 1971, I, p. 949, in Mon. Trib., 1971, p. 467, in Giust. Civ., 1971, I, 534, in Foro it., 1971, I, p. 1303; Cass. 17 gennaio 1975 n. 194, in Riv. dir. fin., 1979, II, p. 3.

[nota 10] Ci si riferisce in particolare ai c.d. «atti diversi dalla divisione» di cui all'art. 764 c.c. Orbene ampia parte della dottrina ritiene che tali atti, ad onta della qualificazione formale adoperata dalle parti, allorchè siano caratterizzati dallo scopo e dagli effetti divisori, abbiano in realtà natura di divisione in senso tecnico.

In particolare G. MIRABELLI, op. cit., p. 33 e ss.; A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 403 e ss. e p. 494 e ss.; P. FORCHIELLI, op. cit., p. 12 e ss.; A: BURDESE, op. cit., p. 86 ritengono che «rientrano nel concetto di divisione, accanto alla divisione "pura" o "naturale" - quella cioè in cui ciascuno dei condividenti riceve beni o diritti facenti parte dell'asse ereditario - anche la cosiddetta divisione "civile" e tutti quegli altri atti che, in un modo o nell'altro, assolvano non occasionalmente la funzione distributiva, propria della divisione» (P. FORCHIELLI, op. cit., p. 14).

Altra parte della dottrina qualifica la fattispecie come negozio indiretto, laddove la vendita o la permuta è il negozio mezzo e la divisione è il negozio fine (G. CAPOZZI, Successioni cit., 697; G. DE CESARE – T. GAETA, La divisione ereditaria, in Successioni e donazioni a cura di P. Rrescigno, II, Padova, 1994, 32).

[nota 11] A. ZOPPINI, Profili sistematici della successione «anticipata» cit.

[nota 12] La dottrina tradizionale, infatti, concorda nel ravvisare nella donazione il principio dell'irrevocabilità, desumendolo, oltre che dal carattere contrattuale della donazione, dall'eccezionalità delle cause di revocazione e da un presunto divieto della condizione risolutiva meramente potestativa (v. per tutti G. GIAMPICCOLO, op. cit., p. 56 nota 45; B. BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, XII, 4, Torino, 1961, p. 104 e ss.; U. CARNEVALI, Le donazioni, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 6, Torino, 1982, p. 490).

Per la verità la sopravvivenza del principio dell'irrevocabilità della donazione nel sistema vigente è da porsi seriamente in dubbio, atteso che il legislatore del '42, nel definire all'art. 769 il concetto di donazione, eliminò ogni cenno all'irrevocabilità dell'attribuzione, contrariamente a quanto era previsto dall'art. 1050 del codice del 1865.

I lavori preparatori dimostrano che tale innovazione fu introdotta con il preciso intento di liberarsi del retaggio di una tradizione ritenuta ormai priva di significato. Nella Relazione delle Commissione Reale sul progetto preliminare del libro secondo, infatti, si legge: «Si sono così abbandonati i requisiti di attualità e di irrevocabilità, relitti del diritto consuetudinario francese, che non rispondono ad alcuna esigenza pratica o dogmatica: ed in conseguenza si sono soppresse o modificate tutte quelle norme che costituiscono applicazione di tali requisiti. Così risulta abolito l'art. 1066 che dispone la nullità della donazione la cui esecuzione dipenda dalla sola volontà del donante; tale norma o costituisce una ripetizione dell'art. 1160 del codice del 1865 e sarebbe perciò superflua o, invece, (come forse da ritenersi più corretto sulla traccia dell'art 944 Codice Napoleone che ripete il divieto dell'ordinanza d'Aguessau del 1731 art. 16) costituisce una più rigorosa affermazione del principio di irrevocabilità, estendendo la sanzione di nullità non solo al caso della donazione sottoposta a condizione sospensiva meramente potestativa, ma anche al caso di condizione risolutiva dipendente dalla sola volontà del donante, … ed in questo caso non si spiegherebbe un tale maggior rigore in materia di donazioni rispetto alle obbligazioni».

Ciò posto appare evidente che la pretesa irrevocabilità non costitutive una caratteristica propria della donazione in quanto tale, ma l'ordinaria conseguenza del carattere contrattuale della donazione e può pertanto venir meno ogni qual volta il principio dell'irrevocabilità del contratto può essere derogato, come avviene per esempio con l'inserimento di una clausola di recesso ex art. 1373 c.c., come è appunto previsto in materia di Patto di famiglia.

Quanto al divieto della condizione meramente potestativa, va detto che, come si è già avuto modo di rilevare ad altro proposito (F. MAGLIULO, op. cit., p. 1420 e ss.), deve escludersi che detto divieto sia estensibile alla condizione risolutiva, come è invece sostenuto dalla dottrina tradizionale (F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989, p. 1999, secondo cui la condizione risolutiva meramente potestativa determinerebbe la nullità dell'intero negozio; P. RESCIGNO, voce Condizione (dir. vig.), in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, p. 795 e ss., secondo cui la condizione risolutiva meramente potestativa determinerebbe la nullità della sola clausola condizionale), in quanto quest'ultima non si risolve come quella sospensiva nella negazione di un serio intento negoziale, ma «si identifica, in gran parte, col recesso che, in molti contratti, risponde a necessità pratiche e giuridiche».

Nel corso dei lavori preparatori del codice del '42 l'obiezione fu sollevata dal TUMEDEI (Verbali della Commissione delle Assemblee Legislative relativi al progetto del libro delle obbligazioni, 96), al quale appartengono le parole da ultimo riportate, e condusse alla soppressione dell'inclusione della condizione risolutiva, prevista in un primo momento dal progetto preliminare, dal testo dell'art 1355 c.c. Sul punto v. anche C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, il contratto, Milano, 1984, p. 521 e ss.

[nota 13] L. FERRI, Dei legittimari, artt. 536-564, in Comm c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 189; L. MENGONI, Successioni per causa di morte cit., p. 195; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni cit., p. 303.

[nota 14] Per la qualificazione della donazione modale come una fattispecie di donazione indiretta per il beneficiario del modus v. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni cit., p. 810.

[nota 15] Lo stesso legislatore del '42 nell'introdurre la regola dell'art. 564, terzo comma, c.c. era ben conscio della sua particolare funzione rispetto all'imputazione ordinaria, come si desume da un passo dei lavori preparatori, ove si legge che «va ricordato al riguardo che il progetto preliminare, risolvendo un'annosa questione, aveva stabilito nell'art. 114 che la rappresentazione non dovesse aver luogo in caso di unicità di stirpe. Senonchè questa regola sembrò ingiusta e inopportuna, specialmente in relazione all'ampia portata data all'istituto della rappresentazione. Pertanto nel progetto definitivo fu ammessa la rappresentazione anche nel caso di unicità di stirpe (art. 11, ultimo comma). Tuttavia venne disposto che, pur avendo luogo il diritto di rappresentazione, il discendente non fosse tenuto all'imputazione delle donazioni fatte al suo ascendente. Ho considerato che in tal modo si sarebbe esclusa la conseguenza più importante della successione iure repraesentationis e si sarebbe anzi affermato un principio del tutto contrastante con il concetto stesso di rappresentazione, il quale, facendo subentrare il rappresentante al posto del rappresentato, intende tenere immutate, a salvaguardia dei terzi, le aspettative già consolidate. Per queste ragioni ho posto, nel terzo comma dell'art. 564, la regola dell'obbligo dell'imputazione delle donazioni e dei legati fatti all'ascendente» (Relazione alla Maestà del Re Imperatore n. 271). Nello stesso senso v. L. MENGONI, Successioni per causa di morte cit., p. 221.

[nota 16] Nella relazione Semeraro, resa nel corso della discussione parlamentare congiunta sui Ddl 1353 Pastore e 3567 Buemi, viene dato atto dei rilievi posti dal Notariato circa l'opportunità di chiarire che i beni attribuiti ai legittimari a fronte del trasferimento dell'azienda non cadono in regime di comunione legale. Ma l'osservazione viene liquidata con la considerazione che si tratta di questione risolvibile in sede interpretativa.

[nota 17] Cass. 14 dicembre 2000 n. 15778, in Vita Not., 2001, p. 1235, con nota di A. BUSANI, «Donazioni indirette e comunione legale tra i coniugi», Riv. Not., 2002, p. 1469, con nota di R. SCOTTI, «Il problema dell'acquisto di bene immobile con denaro altrui (anche alla luce della recente riforma fiscale)», Nuova Giur. Civ. Comm., 2001, p. 270, con nota di W. FINELLI, «Sul difficile rapporto tra donazione indiretta e comunione legale dei beni», Dir. Fam. e Pers., 2002, p. 33, con nota di B. CALABRESE, «Comunione legale tra coniugi e donazione indiretta», ivi, 2001, con nota di G. Curti, «Alloggi in cooperativa, donazioni indirette e comunione legale: fattispecie insolite tra principi consolidati ed eccezioni configurabili», Corr. Giur., 2001, p. 645, con nota di C. RIMINI, «L'acquisto di un bene immobile con denaro fornito da un terzo e l'ambito di applicazione dell'art. 179, lett. B, c.c.», Giust. Civ., 2001, p. 335, secondo cui «Nella ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l'acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest'ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il collegamento tra l'elargizione del danaro paterno e l'acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell'immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, è ricompreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell'art. 179, lettera b) c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo con l'arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che fosse ricompreso nel regime di comunione legale l'immobile acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi, in relazione al quale era stato documentalmente provato il diretto versamento di somme alla cooperativa, da parte del genitore di questo, all'atto dell'assegnazione dell'immobile stesso senza che potesse assumere rilievo la circostanza, risultante dall'atto pubblico di assegnazione, e ritenuta, invece, dai giudici di merito ostativa alla configurabilità di una donazione indiretta, che il restante maggior prezzo dovesse essere versato dall'intestatario del bene mediante accollo della quota di mutuo di pertinenza dell'immobile, avuto riguardo al comprovato versamento, da parte del genitore, delle relative rate)».

[nota 18] è ormai opinione prevalente che i legittimari preteriti sono considerati eredi solo in seguito all'esercizio vittorioso dell'azione di riduzione (v. per tutti L. MENGONI, op. cit., p. 238; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni cit., p. 265).

[nota 19] Cfr. L. MENGONI, Successioni per causa… cit., p. 157.

[nota 20] Resta da chiedersi se si possa giungere in via interpretativa ad equiparare, al fine di affermare l'insussistenza del fenomeno della rappresentazione, l'ipotesi del legittimario preterito a quella del legittimario leso, che consegua l'eredità per la quota lesiva e rinunci all'azione di riduzione, sulla base dell'inammissibilità di una disparità di trattamento tra le due fattispecie.

A sostegno di tale assunto potrebbe inoltre addursi la considerazione che il legittimario preterito deve considerarsi in ogni caso arbitro esclusivo della sorte dell'azione di riduzione a danno dei suoi discendenti poiché egli potrebbe lasciare prescrivere l'azione di riduzione senza che sia previsto dall'ordinamento a tutela di questi ultimi il rimedio dell'actio interrogatoria.

[nota 21] L. MENGONI, Successioni per causa… cit., p. 267 e ss.

[nota 22] V. retro nota 12.

[nota 23] Nel senso che alla base dell'introduzione del Patto di famiglia ci sia «la giusta esigenza di assicurare continuità all'impresa, in linea con il mutamento dei bisogni della società» v. la relazione Semeraro resa nel corso della discussione parlamentare congiunta sui Ddl 1353 Pastore e 3567 Buemi.

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