La posizione dei legittimari sopravvenuti
La posizione dei legittimari sopravvenuti
di Ubaldo La Porta
Notaio in Milano
Il tema assegnatomi non può essere affrontato se non in esito ad un, ancorché sommario data la brevità dei tempi dell'intervento, tentativo di ricostruzione del nuovo istituto del Patto di famiglia. Quanto letto finora sull'argomento, devo dire un po' con rammarico, mi ha fatto tornare alla mente le parole di Raffaele Cicala, con il quale ebbi la fortuna di sostenere l'esame di diritto civile, il quale, dopo aver letto, con la consueta e dovuta attenzione, il manuale di un noto ed oggi anziano luminoso esponente della civilistica italiana, sospirò: «è bravo ma deve ancora studiare un po' le obbligazioni».
è proprio questo ricordo che spiega la genesi del mio intervento, sollecitato dal tentativo (umile) di riordinare sistematicamente una serie di affermazioni, gettate sulla carta dai "primi commentatori", che destano preoccupate perplessità.
Dalla lettura dei primi interventi in commento, che ho cercato di evitare il più possibile proprio per non essere influenzato dall'autorevolezza dei colleghi che mi hanno preceduto, ho notato, sotto il profilo del metodo, un diffuso scarso riguardo per il legislatore: è quasi "di moda", ormai, dire che "le norme sono scritte male", che "le norme non sono sistematiche", che "le norme sono eccezionali", che "le norme stravolgono tutto il sistema successorio"; ed è probabilmente più semplice dire questo che sforzarsi, attraverso la ricerca, lo studio e la riflessione, di collocare il "nuovo" entro il sistema dato, leggendolo alla luce di quanto disposto dall'ordinamento, anche perché tale opera ricostruttiva richiede tempo e va, forse, a discapito della immediatezza del commento, che ormai genera ansia.
Ho intrapreso una sfida con le norme del Patto di famiglia, che alla fine mi hanno convinto della loro quasi perfetta sistematicità.
Cercherò di dimostrare che le nuove norme, pur frutto di una precisa scelta politica, costituiscono una monade, un microsistema che, dall'inizio alla fine, ha notevole coerenza.
L'esperienza giuridica si compone di una parte "essenziale" che è il diritto e di una parte "accidentale", che è la legge, ossia la dimensione politica dell'esperienza giuridica, frutto di scelte legislative, come tali a-sistematiche. A mio giudizio sono a-sistematiche le norme di tutela dei legittimari, fuori dalla logica e frutto di una scelta tutta politica di tutela di interessi ancora legata all'idea vetusta della comune concorrenza dei più stretti familiari alla formazione del patrimonio.
Quelle "politiche" sono norme destinate, col tempo, ad essere "rivisitate", magari modificate o addirittura abrogate. Nessuno avrebbe mai pensato ad una norma giuridica a protezione del matrimonio omosessuale nel 1940; nel 2006 i costumi sono diversi e la disposizione di legge c'è, sebbene, per ora, in altri ordinamenti. Probabilmente la tutela dei legittimari oggi non ha alcun senso. Si è detto, a proposito del Patto di famiglia che la norma sconvolge il sistema dei patti successori; ma i patti successori appartengono alle norme della politica non a quelle del diritto. L'art. 458 c.c. non è norma di sistema ma frutto di una scelta precisa che altri ordinamenti non seguono e che la storia giuridica non ha sempre seguito.
Vediamo cosa accade nel caso del Patto di famiglia per cercare di capire, venendo subito alla materia assegnatami, innanzitutto, chi sono i terzi cui si riferisce la rubrica dell'art. 768-sexies c.c.
La legge parla, infatti, di terzi, non di "legittimari sopravvenuti": i terzi sono soggetti che non hanno partecipato al patto, ai quali spetta un credito e sembra spettare una stranissima azione di annullamento per l'inadempimento dell'obbligazione pecuniaria.
All'apertura della successione dell'imprenditore il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai discendenti assegnatari il pagamento della somma prevista dal comma 2 del 768-quater c.c., aumentata degli interessi legali. Viene attribuito a questi soggetti, terzi rispetto al patto, un diritto di credito pecuniario. Il secondo comma recita: «l'inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell'articolo 768»; e allora sembra che, in caso di inosservanza delle disposizioni che impongono la liquidazione della quota aumentata degli interessi legali, ossia in caso di inadempimento dell'obbligazione pecuniaria, ci sia l'azione di annullamento a tutelare le ragioni del creditore insoddisfatto.
La norma, letta così, come dai primi commentatori si propone, sarebbe effettivamente quanto di meno sistematico si possa rinvenire nel codice civile. Occorrerebbe spiegare che senso ha riconoscere al creditore, che non è stato pagato, che può fare affidamento su tutto il patrimonio del suo debitore, secondo le regole generali degli articoli 1218 e 2740 c.c., dover annullare il patto, per far valere quel diritto di credito, in relazione al quale ha chiesto il pagamento, manifestando evidentemente la volontà di far valere il patto, in una schizofrenica ricostruzione dottrinale secondo la quale il rimedio di tutela consisterebbe nell'annientamento giudiziario della fonte da cui deriva la pretesa creditoria che si vuole vedere attuata.
Ho letto in una relazione autorevole tenutasi in altra sede, che il professor Sacco avrebbe detto - almeno tanto era riferito dall'Autore, che narrava di un colloquio verbale, per la verità - che l'azione de qua andrebbe ricostruita in termini di azione di risoluzione, mascherata da annullamento perchè in un'ipotesi come questa sarebbe estremamente difficile giudicare della gravità dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1455. E leggendo il breve resoconto del colloquio mi è tornato in mente Raffaele Cicala «sono bravi ma non conoscono le obbligazioni», perché il rimedio risolutorio è per definizione codicistica (art. 1453 c.c.), un rimedio sinallagmatico. L'inadempimento di un credito non innestato in un contratto a prestazioni corrispettive non può mai giustificare l'esercizio dell'azione di risoluzione, perchè accanto ad esso non c'è una corrispondente ragione creditoria dell'inadempiente come accanto alla pretesa creditoria rimasta insoddisfatta non c'è un corrispondente debito dal quale ci si voglia liberare.; quindi, direi per definizione, l'azione di risoluzione non può riguardare questo caso.
La reazione del creditore insoddisfatto, quando il suo credito non si innesta in un rapporto sinallagmatico, non può essere l'azione di risoluzione, e questo dice il codice civile non un orientamento dottrinale più o meno diffuso. Se la specifica azione di annullamento fosse un rimedio di tutela apprestato contro l'inadempimento dell'obbligato, avremmo come conseguenza che il non assegnatario (creditore pecuniario), che si appropria degli effetti che il patto ha prodotto in suo favore, in quanto terzo, facendo valere il suo diritto di credito, nel caso di inadempimento del debitore, invece di procedere in via esecutiva, deve ottenere l'annullamento giudiziale del Patto di famiglia, perdendo proprio il diritto di credito di cui chiede soddisfazione!
Si utilizza lo strumento di caducazione di tutti gli effetti del contratto, e tra gli effetti del contratto c'è il proprio il credito pecuniario che viene cancellato nel momento stesso in cui se ne chiede l'attuazione.
I vostri sorrisi o irridono alla mia follia o esprimono condivisione.
L'annullamento non può funzionare così, non può essere un'azione di risoluzione e non può essere il rimedio concesso al creditore per far valere il suo diritto di credito, perché tutelando il suo credito l'annienterebbe, ottenuto l'annullamento del contratto. La lettera dell'articolo in commento, nella parte in cui fa riferimento alla «inosservanza delle disposizioni del primo comma» non può, a mio avviso, imporre di ritenere che l'azione di annullamento costituisca rimedio per l'inadempimento dell'obbligazione pecuniaria; essa ben potrebbe essere interpretata, in maniera sistematicamente più soddisfacente, nel senso di riconoscere al legittimario-terzo (non assegnatario) l'azione di annullamento per l'ipotesi in cui lo stesso, non intendendo aderire al patto stipulato anche in suo favore, voglia rimuoverlo del tutto, giudicandolo, evidentemente, per lui non conveniente.
D'altra parte è assolutamente da dimostrare che il legittimario non partecipante, cui l'art. 768-sexies c.c. si riferisce, sia soltanto "quello sopravvenuto" e non pure, più genericamente e più rispettosamente verso la rubrica dell'articolo, quello che, ancorché esistente non abbia partecipato alla stipula del patto, restando, rispetto ad esso, appunto "terzo", ossia estraneo.
L'art. 768-sexies c.c., dunque, pare posto a presidio delle ragioni del legittimario terzo rispetto al patto, o perché non esistente a quella data o perché non aderente, il quale non potendo esercitare l'azione di riduzione, rimarrebbe sprovvisto di tutela per il caso in cui non intenda chiedere l'adempimento della obbligazione pecuniaria, per far valere, nella pienezza della sua integrità, la tutela "ordinaria" delle sue ragioni.
Qualcuno ha scritto che la norma che sancisce la non soggezione delle attribuzioni derivanti dal patto a riduzione e collazione costituisce deroga al divieto dei patti successori rinunziativi, in quanto l'esclusione della disciplina di legge sarebbe conseguenza di una specifica rinunzia del legittimario; anche in questo caso reputo leggera l'affermazione, anche soltanto con riguardo alla lettera della norma, che dice: «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione»; l'esclusione di tale disciplina è effetto legale del patto, non già effetto di una manifestazione di volontà rinunziativa espressa dal partecipante. Essa attribuisce alle attribuzioni patrimoniali una qualità oggettiva, identica a quella che l'articolo 742 c.c. attribuisce alle spese non soggette a collazione o riduzione, indipendentemente dal fatto che il legittimario esprima una volontà in tal senso. Questa esclusione della collazione e riduzione, se guardiamo la norma che mi sembra chiara, non è effetto della manifestazione della volontà della parte che rinuncia all'azione di riduzione ma è effetto legale del contratto. E anche su questo credo non si possa dire diversamente, se non alterando il testo normativo.
Le attribuzioni patrimoniali derivanti dal patto, ancorché liberali nella sostanza, non sono soggette a riduzione, dunque, per tutti, indipendentemente dal fatto che il legittimario non assegnatario abbia o no partecipato al patto, in quanto oggettivamente qualificate come tali.
Che cosa accade, allora, al legittimario che non "si appropria" del credito chiedendone la liquidazione (che è poi l'adempimento) perché non condivide la quantificazione operata da altri o, meglio ancora, perché vuole conservare la tutela della legittima nella sua integrità, diretta ad assicurargli una quota da soddisfare con "beni ereditari"?
Il legittimario esercita l'azione di riduzione ma, quando investe le attribuzioni derivanti dal Patto di famiglia si vede eccepire, insuperabilmente, la qualità oggettiva assegnata a tali attribuzioni dalla nuova disposizione di legge: esse non sono oggettivamente riducibili. Non gli resta, a questo punto, salvo a voler ritenere che la nuova disciplina mortifichi assolutamente i suoi diritti negandogli qualunque strumento di reazione, che eliminare il patto, che è l'ostacolo per ottenere la soddisfazione delle sue pretese di legittimario secondo le regole generali.
A mio giudizio, il secondo comma dell'articolo 768-septies c.c., in piena coerenza sistematica, costituisce per il terzo, legittimario non partecipante al contratto - anche soltanto perché "sopravvenuto" -, la forma di tutela dei suoi diritti di legittima. Il patto ha determinato - e pensate a quel diritto di commutazione che c'è in favore dei figli legittimi verso i naturali - un mutamento, per così dire, qualitativo della tutela della legittima che non può essere, evidentemente, imposto senza offrire rimedi di protezione.
Cerchiamo ora di capire chi sono i legittimari che, mi avete detto per assegnazione del titolo della relazione, essere solo i sopravvenuti, sebbene la norma si riferisca a coloro che non abbiano partecipato al contratto. Il problema è quello di coordinare questa norma - che, almeno letteralmente, sembra riconoscere la possibilità e la legittimità di una non partecipazione del legittimario al patto, indipendentemente dalla sua esistenza o no o dall'esistenza, o no, del rapporto di filiazione già riconosciuto - con quella dettata dall'art. 768-quater c.c., che dice che al contratto "devono partecipare" il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari. Quindi sembra che debbano partecipare per la perfezione stessa del patto, per la sua validità.
E allora come fanno ad essere non partecipanti?
L'interpretazione più diffusa è che la doverosità di cui si discute imponga la partecipazione di tutti a pena di nullità, in una ottica ricostruttiva che avvicina causalmente il patto alla divisione.
La mia opinione è che il "devono" non è assolutamente decisivo. è ovvio, non perché gli argomenti letterali non siano determinanti, ma perché, proprio in questo caso e proprio sotto il profilo della lettera della legge, abbiamo almeno due utilizzazioni codicistiche del "devono" in sensi assolutamente differenti: il "devono" della divisione del testatore e il "devono" dell'art. 1113 c.c., in cui i soggetti ivi indicati devono essere chiamati ad intervenire alla divisione ma soltanto perché questa abbia effetti nei loro confronti.
Tante volte la doverosità di un "intervento" negoziale non si giustifica con la necessità della partecipazione volitiva alla perfezione ed alla validità dell'atto, e, allora, il semplice riferimento letterale non convince, anche soltanto, si ripete, per l'uso, diversificato quanto al significato, dello stesso verbo fatto dal legislatore in differenti ipotesi: la necessità della partecipazione volitiva alla validità dell'atto, se c'è, dobbiamo trarla da altre considerazioni.
Una ipotesi potrebbe essere quella di riconoscere natura divisoria al Patto di famiglia e di mutuare, come si fa per la divisione, dal codice di procedura civile, la necessità che tutti debbano partecipare al patto a pena di nullità.
Personalmente ho forti dubbi che il Patto di famiglia sia un atto avente natura divisoria. Innanzitutto perché se divisione fosse l'unica divisione alla quale potrebbe essere accomunata è la divisione d'ascendente francese o quella già disciplinata dal codice civile del 1865 unitamente alla divisione del testatore (rimasta "sola" nel codice del 1942), cioè una divisione non finalizzata a sciogliere uno stato di comunione, che non esiste, ma a prevenirlo. E per una divisione del genere l'unico istituto al quale non serviva far riferimento è proprio quello della collazione, perché la collazione non trova mai applicazione nella divisione del testatore.
Quindi è inutile dire che non sono soggette a collazione le attribuzioni patrimoniali derivanti dal patto se il patto è una divisione di ascendente; la preoccupazione legislativa sarebbe assolutamente ingiustificata.
La collazione è un istituto strumentale alla divisione nella sola ipotesi in cui la divisione operi lo scioglimento di una comunione preesistente. Quando la divisione assume la funzione di apporzionamento, distributiva, non producendo lo scioglimento della comunione, l'unico istituto di cui può fare a meno la disciplina del negozio divisorio è proprio la collazione.
Ma tale considerazione obbliga, in questa sede, al rinvio ad un mio prossimo scritto, in corso di pubblicazione.
Le altre prospettazioni avanzate riguardano due ipotesi classiche: una assolutamente irricevibile per me, la donazione, probabilmente conveniente sotto il profilo fiscale, ma assolutamente infondata visto che alla donazione - per chi ritiene il contratto dotato di causa - è essenziale "lo spirito di liberalità", del quale nel nostro istituto non vi è traccia.
La donazione è, per altri, l'unico atto privo di causa, la cui nullità è evitata dalla forma dell'atto pubblico con l'assistenza dei testimoni, la quale supplisce alla deficienza dell'elemento causale.
Ma quale animus donandi c'è nel nostro caso?
Facciamo questo esempio: io ho tre figli e faccio una vendita della mia azienda a uno dei miei tre figli, stipulando, quale venditore, in favore di terzo e, dunque, disponendo che il credito al prezzo che a me dovrebbe restare attribuito, vada diviso tra gli altri due, non acquirenti l'azienda.
Ho fatto una donazione o sto sistemando i miei affari personali fra tutti i miei figli? Con effetti giuridici diversi dall'ipotesi già prima nota, la nuova norma prevede l'esenzione dalla riduzione e dalla collazione di questo stesso schema causale.
Che cosa sta facendo questo padre? Sta regalando qualcosa? Il padre sta scegliendo tra i suoi tre figli, di cui uno è un donnaiolo, uno è un giocatore di cavalli e l'ultimo fa l'imprenditore con lui, quello più adatto a proseguire l'esercizio dell'impresa, quindi elegge uno dei tre suo successore. Che sta facendo? Sta donando? Sta sistemando il suo patrimonio aziendale nei limiti dell'azienda e/o delle partecipazioni (a mio parere, tra l'altro, il disponente non può disporre di altri beni perché altrimenti si tratta di una divisione d'ascendente destinata esclusivamente all'imprenditore e non so come ciò possa conciliarsi con l'articolo 3 della Costituzione).
Quindi, il disponente può disporre delle partecipazioni e/o dell'azienda in favore di uno e lo fa; ma vuole, mentre fa ciò rispettare, nei limiti della quantità, la legittima degli altri sui parenti; il disponente vuole dare ad uno dei tre figli i beni di impresa ma non vuole recare nocumento ai legittimari non assegnatari.
Ciò che devono avere gli altri lo prendano, ma in denaro, dal momento che i beni aziendali andranno ad un unico figlio. In questo caso stiamo facendo una donazione? Stiamo facendo una donazione modale? E allora se faccio una donazione modale, giuridicamente, cosa succede? Giuridicamente accade che il beneficiario del modus è avente causa dall'obbligato, cioè dal donatario. Facciamo un esempio: faccio una donazione modale in cui dono a Tizio il mio immobile con l'onere di dare 1000 a Caio. Caio è avente causa da Tizio, non da me. Mi spiegate come fa Caio ad imputare alla sua legittima quello che prende dal fratello? Non è una donazione indiretta da me, se costruisco il negozio come donazione modale. Il beneficiario del modus è avente causa dall'obbligato modale, quindi acquista dall'obbligato modale, non in dipendenza causale dall'atto del disponente. Parte della dottrina crede che la donazione modale sia un contratto a favore di terzi; io non sono d'accordo.
La donazione modale è tutto tranne che un contratto contenente una stipulazione a favore di terzi. Se proviamo a leggere le pagine del manuale di Giorgianni sulle obbligazioni, ci accorgiamo che la donazione modale non può essere un contratto a favore di terzi, per una serie di considerazioni che troverete in uno scritto prossimo sulla donazione modale e che non possono qui essere analiticamente svolte.
Per rendere Caio avente causa da me, che sono il papà disponente, verso Caio deve prodursi una liberalità, ancorché indiretta, che mi veda quale dante causa. Caio deve essere avente causa mio, ossia del disponente, per poter imputare alla sua legittima quanto riceve "per mezzo" del fratello ma evidentemente casualmente soltanto da me disponente. E come fa ad essere avente causa mio, Caio? In un solo modo: con il contratto a favore di terzi. Il papà, disponente-stipulante, assegna al figlio Tizio l'azienda e gli chiede in cambio - perché il contratto a favore di terzo resiste, per una serie di considerazioni, soltanto alla struttura causale del contratto a prestazioni corrispettive -, di "liquidare" il fratello non assegnatario; per questa corrispettività, sebbene parzialmente "deviata" verso il terzo, la donazione modale non può essere un contratto a favore di terzi. Se io concludo un contratto che contiene una stipulazione a favore di terzo, la clausola produce l'effetto di deviare al terzo di un effetto del contratto che dovrebbe pervenire nel patrimonio dello stipulante. Io do una cosa a te, tu la dai a me ma io la devio al terzo prima che arrivi nel mio patrimonio, evitando la doppia disposizione.
Nella donazione modale, invece, io do una cosa a te, poi ti dico di darne altra al beneficiario ma non di darla a me, perché se la dovessi dare a me non si tratterebbe più di una donazione modale ma di un contratto sinallagmatico.
Volete la riprova? Cosa succede nel contratto a favore di terzo se il terzo non accetta il beneficio? Accade che quella prestazione va allo stipulante, dice il codice. Nella donazione modale, invece, se il terzo non accetta il beneficio, si arricchisce il donatario, non il donante (presunto stipulante)!
I due istituti, perciò, sono completamente diversi. Intuisce bene Caccavale quando dice che: «è una donazione modale perché è un contratto a favore di terzo». Io dissento da questa opinione perché personalmente ritengo che la donazione modale non può essere un contratto a favore di terzi ma colgo l'intuizione che ravvisa soltanto nel 1411 lo strumento per giustificare il nuovo istituto.
Si tratta di una stipulazione a favore di terzi contenuta in un contratto a prestazioni corrispettive. Il Patto di famiglia è un contratto a prestazioni corrispettive attraverso il quale il disponente assegna ad uno dei legittimari l'azienda e chiede all'assegnatario, in cambio, quale corrispettivo appunto, di liquidare i non assegnatari che sono terzi rispetto a questo patto.
Ma in questo caso "devono partecipare", dice la legge. E infatti questo, è quel contratto a favore di terzi che conosceva il codice del 1865, il cosiddetto contratto a favore di terzo con adesione di cui conserva traccia il codice vigente nell'articolo 1689 c.c. in materia di trasporto e nell'art. 1273 c.c. in materia di accollo, il quale non cessa di essere riconducibile allo schema di cui all'art. 1411 c.c. soltanto perché l'effetto verso il terzo vede concorrere, per la sua produzione, l'adesione del terzo quale coelemento di efficacia, semplice modalità di acquisto, diversa da quella automatica, di un diritto casualmente attribuito dallo stipulante e perciò conseguito "per effetto della stipulazione".
Nel caso di specie, infatti, lo stipulante devia verso il terzo un effetto che non è un c.d. beneficio netto e quindi, per non essere un beneficio netto, non può entrare direttamente nella sua sfera giuridica ma ha bisogno della sua partecipazione volitiva, perché insieme al beneficio c'è anche "un pezzo di maleficio" (il veder mutata in parte la tutela ordinaria della legittima); tale partecipazione volitiva, tuttavia, non è posta ad integrazione e perfezione del contratto ma rappresenta soltanto lo strumento di protezione dell'integrità della sfera giuridica del terzo, nel caso particolare.
Il contratto contenente una stipulazione a favore di terzi produce l'acquisto del diritto nel patrimonio del terzo "per effetto della stipulazione". Il terzo diventa avente causa del disponente. Perciò, per tornare all'esempio precedente, Caio soltanto per questo può imputare alla sua legittima quello che ha ricevuto dal disponente-stipulante, attraverso Tizio, assegnatario dell'azienda-promittente. Non è avente causa da Tizio, ma è avente causa dal disponente, dal papà. Questo è possibile soltanto con la stipulazione a favore di terzo, non con la donazione modale. E il contratto a favore di terzo richiede la corrispettività, che è cosa diversa dall'onerosità o dalla gratuità. La dottrina, da almeno 30 anni, ha sottolineato che altro è la corrispettività altro è l'onerosità. Il giudizio di onerosità-gratuita riguarda la prestazione nella sua sostanza; quello di corrispettività-liberalità riguarda l'intreccio tra le prestazioni, quindi la causa del contratto. La vendita a prezzo vile non è una donazione simulata, non è quello che noi siamo abituati a chiamare "negozio misto con donazione". Cos'è? è una vendita gratuita, è una vendita la cui attribuzione è gratuita. La donazione modale nell'ipotesi, per esempio, in cui il modus assorba interamente il valore del donato, è sempre donazione, non diventa certo una vendita! Però è una donazione totalmente onerosa. Ad esempio: ho ricevuto un milione in donazione con l'onere di costruire una statua al donante, in oro massiccio, e ho dovuto spendere l'intera somma per realizzare l'opera; sempre di donazione si tratta, sebbene onerosa per il donatario. Sotto l'aspetto della revocatoria fallimentare e/o ordinaria un negozio simile sarà trattato come atto oneroso pur essendo causalmente una donazione. Non ci spaventi, dunque, il fatto che da un contratto a prestazioni corrispettive, come il Patto di famiglia, derivino delle attribuzioni liberali, che giustificano il richiamo alle norme sulla riduzione e sulla collazione.
Quindi, alla fine? Alla fine, secondo me, il Patto di famiglia riguarda essenzialmente il disponente e l'assegnatario, perché sono loro a determinare il regolamento negoziale, ma sanno anche che la tenuta di questo patto vede la necessaria partecipazione degli altri; necessaria affinché gli altri legittimari non assegnatari, appropriandosi degli effetti della stipulazione conclusa in loro favore, rendano definitivamente stabili le cose e non più soggette a contestazioni successive. La loro partecipazione volitiva a questo contratto non è altro che l'adesione del terzo ad una stipulazione conclusa tra stipulante e promittente, che ha determinato la deviazione verso di loro di un beneficio che per non essere un beneficio netto ha bisogno della loro adesione.
Da ciò tutte le vostre deduzioni sulla struttura, sulle cose che il Notaio può fare o non può fare. Primo: atto pubblico, non servono i testimoni. Qual è la forma? Quella dell'atto pubblico senza i testimoni. C'è una "causa sufficiente" per escludere l'atto di donazione, c'è una "causa giusta e ragionevole" per valutare la rilevanza giuridica dell'impegno. La causa sufficiente è in quell'interesse diverso dalla liberalità che rende il negozio causalmente diverso dalla donazione. Quindi un atto pubblico che non richiede la presenza di testimoni perché non c'è alcun profilo causale donativo ma che produce delle attribuzioni liberali, parzialmente liberali, che vengono imputate alla quota di legittima dell'assegnatario dell'azienda, per la parte che eccede in valore ciò che lui riceve e ciò che è tenuto a liquidare ai terzi non assegnatari; per i non assegnatari interamente per tutto quello che ricevono.
Queste attribuzioni non sono soggette a riduzione né a collazione. A questo punto, ad esempio, io posso pure essere in vita quando viene fatto il patto tra mio padre, mio fratello assegnatario e gli altri due fratelli che aderiscono. E decido di non aderire. Qual è la mia posizione? Il legislatore mi scoraggia dicendomi che fino all'apertura della successione non posso fare niente: o aderisci al patto subito, mi dice, o aspetti quando sarà il momento (apertura della successione del disponente) e avrai la tutela. Quindi il legislatore scoraggia la mancanza di partecipazione. All'apertura della successione, se non ho aderito al patto, ho un diritto di credito immediato o un'azione di annullamento del patto finalizzata a vedere riaffermata l'ordinaria forma di tutela della legittima. Ho bisogno di far cadere il patto perché ho bisogno di far cadere l'effetto del 768-quater, ultimo comma, c.c., che è un effetto legale, che non dipende dalla volontà di nessuno. Devo poter rimuovere il patto ed è lì che entra in gioco la trattativa. Quindi alla fine il patto è molto più solido di quello che sembra, anche negando la necessaria partecipazione di tutti i legittimari a pena di nullità. Cercherò, quanto prima, di scrivere meglio queste cose, per sistemarle e darvene conto compiutamente, nei limiti delle mie scarse capacità. Ovviamente l'opinione resterà, come sempre, "dottrina minoritaria"; però spero che, tra quindici anni, come accadde per i negozi di destinazione, qualcuno si accorga che, forse, non erano tutte sciocchezze!!!
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