Il Patto di famiglia a raffronto con gli strumenti negoziali alternativi al testamento o comunque con funzione successoria.
Il Patto di famiglia a raffronto con gli strumenti negoziali alternativi al testamento o comunque con funzione successoria.
di Adriano Pischetola
Notaio in Perugia
Premessa
La novella introdotta con legge n. 55/2006 pone la problematica dell'esistenza o meno di possibili punti di contatto del 'Patto di famiglia' con quegli istituti negoziali definiti come 'alternativi al testamento' [nota 1], strumenti cioè idonei a porre in essere un ben definito assetto di interessi di natura patrimoniale in tempi anticipati rispetto all'evento dell'apertura della successione, prescindendo dal ricorso al tipico strumento di trasmissione della ricchezza, rappresentato dall'opzione testamentaria. In particolare è legittimo domandarsi se sia possibile parlare effettivamente in relazione al nuovo istituto in parola di negozio 'transmorte' in grado di attuare una cd. successione anomala.
Se è evidente infatti che in senso lato e proprio in funzione della futura successione del disponente, il Patto di famiglia assolve ad una funzione preventiva e pregiudiziale rispetto all'assetto degli interessi e degli equilibri che - in mancanza del patto - verrebbe a delinearsi al momento del suo decesso, è altresì vero che va sottoposta a verifica l'intuizione di un possibile collegamento se non proprio di un'eventuale coincidenza, anche sul piano concettuale oltre che effettuale, del patto familiare da un lato e degli istituti alternativi all'opzione testamentaria dall'altro.
Il negozio mortis causa e il negozio con effetti post mortem o 'transmorte'
Come è noto in dottrina [nota 2], si ritiene la validità di un negozio con effetti post mortem [nota 3] o 'transmorte', che si configura ogni qual volta il cespite fuoriesca dal patrimonio del disponente prima della sua morte, anche se il trasferimento a favore del beneficiario avvenga con carattere di definitività solo post mortem (pur anticipandosi alcuni effetti durante la vita del disponente), e resti intatto il potere di revoca nel disponente stesso usque ad mortem: di regola si suole far rientrare in questa categoria il contratto a favore del terzo con prestazione da eseguire a suo favore dopo la morte dello stipulante, ai sensi dell'art. 1412 c.c. [nota 4]
Nel negozio 'transmorte' (con tipica struttura di atto inter vivos), l'elemento 'morte' attiene al profilo della sola efficacia (sotto forma di condizione o di termine) o comunque al profilo 'accidentale' della fattispecie (afferendo la sfera dei motivi); soprattutto in esso la individuazione sia dell'oggetto dell'attribuzione patrimoniale sia del soggetto beneficiario è esattamente predeterminata già al momento di formazione della fattispecie, salva, come si diceva, la successiva produzione in tutto o in parte degli effetti negoziali.
Tale figura concettuale va poi distinta dal negozio mortis causa, ove invece l'evento morte assurge ad elemento causale e qualificante della fattispecie, e fonda, in caso di attribuzione patrimoniale, la ragione (in senso economico-giuridico) dell'attribuzione stessa. Soprattutto in tale ultimo negozio (che il legislatore considera valido solo se assunto nelle forme della opzione testamentaria) la esatta individuazione oggettiva è riferita al 'quod superest', e pertanto l'attribuzione patrimoniale attiene solo a quanto risulti residuare nella titolarità del disponente al momento dell'apertura della sua successione; [nota 5] inoltre anche sotto il profilo soggettivo è solo a quel momento che si ha riguardo, per verificare la sopravvivenza del beneficiario al disponente e quindi la sua idoneità a concorrere alla sua successione o meno.
Orbene, nel Patto di famiglia – nella sistemazione datane dal legislatore – non pare che si possano riscontrare i caratteri distintivi di alcuna delle figure concettuali sopra evocate. Se infatti è intuitivo che il patto familiare è negozio inter vivos con una sua peculiarità causale per nulla assimilabile al negozio mortis causa, è altrettanto incontestabile che esso non possa nemmeno essere ascritto acriticamente alla categoria dei 'negozi transmorte' alternativi al testamento.
Il patto infatti è un contratto sottoposto alla regola della irrevocabilità ex art. 1372 c.c. e soprattutto il trasferimento del bene produttivo o delle partecipazioni è immediato e, tendenzialmente, definitivo. Non deve trarre in inganno la previsione che facoltizza i contraenti, laddove recepita nell'accordo familiare, ad esercitare la facoltà di recesso, in quanto essa non è un elemento naturale dalla fattispecie pattizia e non può avere efficacia reale nei confronti dei terzi eventuali subacquirenti, ai quali non può essere utilmente opposta. L'incidenza del patto sulla sistemazione dei futuri rapporti successori è un effetto sì importante della fattispecie, ma solo indotto dalla economia del patto stesso. In esso l'evento del decesso del disponente non assume certo rilievo causale in senso tecnico, e anche se esso è posto sempre sullo sfondo o, se si vuole, si atteggia a mò di punto di riferimento esterno rispetto alla vicenda pattizia, non ha alcuna rilevanza in ordine alla entità oggettiva dell'attribuzione (già definita al momento di stipula del patto) o in ordine alla individuazione del soggetto beneficiario, la cui sopravvivenza al disponente al momento dell'apertura della sua successione non è elemento costitutivo della fattispecie, laddove al contrario in ogni negozio mortis causa sia l'una (l'entità oggettiva) che l'altra (l'individuazione soggettiva) vengono definite proprio al momento e a causa del decesso. [nota 6]
Analisi di singole fattispecie
Riesce agevole a questo punto svolgere un raffronto più ravvicinato tra l'istituto della novella ed altre figure negoziali riconducibili all'ambito degli istituti alternativi al testamento, verificando se in tale comparazione emergano proprio quei tratti distintivi e diversificanti cui si accennava.
a) La donazione modale e la donazione "si o cum praemoriar"
il disponente potrebbe ricorrere alla donazione modale dell'azienda o delle partecipazioni di cui è titolare, per esercitare una sorta di controllo e/o di vigilanza sulla rispondenza della condotta del beneficiario alle prospettive e agli scopi perseguiti dal disponente stesso in forza dell'attribuzione gratuita, e ciò grazie alla possibilità riconosciutagli dall'ordinamento (come ai suoi eredi) di invocare la risoluzione dell'attribuzione in caso di inadempimento dell'onere da parte dell'onerato (cfr. art. 793 terzo comma c.c.); attuando qualcosa di simile a quanto sarebbe possibile nell'economia del patto grazie alla facoltà di recesso riservata convenzionalmente al disponente.
Ma in realtà si tratta di un'ipotesi solo affine al 'Patto di famiglia' in quanto nella donazione modale l'onorato non è parte del contratto, resta fuori dal perimetro strutturale e causale, mentre come è noto nel patto la struttura plurilaterale della fattispecie e la sua idoneità a realizzare una causa economico-sociale riferibile a più soggetti (beneficiario diretto e altri legittimari non assegnatari del bene produttivo) ne sono tratti essenziali e caratterizzanti.
Del resto si dubita che la donazione modale possa configurarsi essa stessa come valido strumento negoziale alternativo al testamento in considerazione della limitata operatività della revoca (solo per ingratitudine o sopravvenienza di figli ex art. 800 c.c.), laddove al contrario la potenziale alternatività si basa proprio sulla concreta possibilità di serbare al disponente la facoltà di rimodulare un già convenuto assetto di interessi usque ad mortem.
Ancora più evidenti sono poi i tratti distintivi con la donazione si o cum praemoriar (e ciò a prescindere dai dubbi di validità che soprattutto la donazione si praemoriar ha suscitato nella giurisprudenza della Suprema Corte sia pure in una isolata occasione [nota 7]), in quanto in tale forma di donazione la deduzione in condizione dell'evento morte o la sua assunzione quale termine iniziale al verificarsi del quale si producono gli effetti negoziali contrastano con la normale attualità dello spoglio dei diritti cui è soggetto il disponente, tipica del Patto di famiglia. Certo, niente esclude che anche al patto familiare siano apposti elementi accidentali influenti sul piano della produzione degli effetti (come potrebbe essere appunto l'attribuzione dell'azienda condizionata alla premorienza del disponente o sottoposta al termine iniziale del suo decesso), ma con ciò sarebbero frustrate le finalità più pregnanti dell'istituto che - come si legge nella relazione al disegno di legge n. 1353 a firma dell'On. Pastore e altri presentato già il 23 aprile 2002 [nota 8]- sono quelle di garantire «la massima stabilità all'acquisto dell'azienda» (stabilità che sarebbe compromessa se l'acquisto fosse sottoposto ad un evento incerto e futuro, quale è la premorienza del disponente) nonché di garantire al disponente una successione "non aleatoria" a favore di uno o più discendenti cristallizzando al momento di stipula del patto tutti i meccanismi di quantificazione delle quote di riserva di spettanza dei legittimari non beneficiari del bene produttivo. Nel Patto di famiglia, di regola il disponente ha interesse a dare da subito una sistemazione definitiva e quanto più completa e stabile degli interessi connessi con l'azienda o con le partecipazioni societarie di cui è titolare, senza rinviarla al momento in cui si verifichino e se si verifichino fatti futuri e magari incerti. Inoltre nel Patto di famiglia è senz'altro presente un profilo per così dire 'divisorio-distributivo', consistente nella liquidazione degli altri legittimari non assegnatari da parte del beneficiario diretto che certamente non è rinvenibile nell'economia del contratto di donazione.
Neanche potrebbe realizzare gli scopi peculiari del Patto di famiglia una donazione della sola azienda o delle sole partecipazioni societarie a vantaggio di tutti i discendenti (magari con riserva d'usufrutto a favore del disponente per assicurargli in vita la libera gestione del bene produttivo) con successiva cessione dei diritti da parte degli altri discendenti comproprietari o contitolari del bene produttivo a favore di quello ritenuto più meritevole dal disponente: è evidente infatti che in tale ipotesi - a parte la maggiore onerosità fiscale di una siffatta operazione - non sarebbero elusi i meccanismi della collazione e della riduzione, non si conseguirebbe lo scopo principale di assicurare stabilità all'acquisto fatto dal discendente, designato dall'imprenditore-disponente a preservare l'unità e continuità dell'attività imprenditoriale, non si attuerebbe alcuna forma di successione 'anomala'.
b) Il contratto a favore del terzo
Si potrebbe pensare che il contratto a favore del terzo sia idoneo a perseguire almeno talune delle finalità del Patto di famiglia; esso - secondo la dottrina - configura il classico strumento negoziale alternativo al testamento, soprattutto se si ha riguardo alla possibilità della esecuzione della prestazione a favore del terzo dopo la morte dello stipulante, e alla ordinaria intangibilità del potere di revoca a questi spettante usque ad mortem, salva l'ipotesi in cui il terzo abbia dichiarato di volerne profittare e lo stipulante abbia rinunciato per iscritto al potere di revoca, ex art. 1412 c.c. [nota 9] Inoltre, come è noto, nel contratto a favore del terzo - pur in detta ultima ipotesi - emerge l'attualità dello spoglio del diritto stipulato a favore del terzo, stante l'obbligo di eseguire la prestazione a profitto degli eredi, in caso di sua premorienza rispetto allo stipulante.
Eppure anche in questa fattispecie non sono né pochi né irrilevanti i profili distintivi rispetto al Patto di famiglia: in questo manca la terzietà del beneficiario, anzi questi è parte integrante del novero soggettivo dei contraenti e riceve la prestazione (rectius, acquista la titolarità del bene produttivo trasferito) direttamente dal disponente (mentre nel contratto a favore del terzo la prestazione è eseguita dal promittente, solo contro il quale il terzo acquisisce il diritto alla prestazione). Ma soprattutto manca un promittente: infatti l'azienda e/o le partecipazioni sono già nella disponibilità del titolare che ne intende disporre direttamente e subito a favore di uno o più discendenti. Potrebbe certo verificarsi l'ipotesi in cui l'imprenditore acquisti l'azienda (e/o le partecipazioni societarie) convenendo contestualmente all'acquisto con l'attuale titolare (promittente) che l'effetto acquisitivo sia indirizzato a profitto del terzo discendente e ponendo a carico di questi l'onere di corrispondere la somma compensativa ai legittimari non assegnatari. Ma - a parte la particolarità di una siffatta ricostruzione della fattispecie ove dal contratto discenderebbe un discutibile impegno a carico del terzo, peraltro dal medesimo non espressamente assunto - comunque si tratterebbe di ipotesi diversa da quella tipica legale disciplinata dal legislatore della novella agli artt. 768 -bis e ss. c.c., per i quali al Patto di famiglia devono concorrere e partecipare il beneficiario dell'azienda e/o delle partecipazioni e tutti i legittimari non beneficiari in qualità di contraenti diretti, e non semplicemente come destinatari degli effetti negoziali [nota 10]. Inoltre nel patto familiare non v'è scollamento temporale tra la stipula del contratto e il beneficio della prestazione, anzi esso si perfeziona in unico contesto con lo scambio dei consensi tra disponente ed assegnatario da un lato e con la liquidazione dei diritti di spettanza dei legittimari non assegnatari dall'altro, mentre nel contratto a favore del terzo sono sempre possibili sia il rifiuto da parte del terzo quanto la revoca della stipulazione, e ciò anche se il terzo abbia dichiarato di volerne profittare, ma lo stipulante non abbia rinunciato per iscritto al potere di revoca. Non si attaglia bene al patto familiare nemmeno la previsione della eseguibilità della prestazione dopo la morte dello stipulante, ché anzi ragion d'essere del patto è proprio l'anticipazione di taluni effetti successori in vita del disponente.
c) Concentrazione dell'impresa familiare
Fanno riflettere poi - nell'ottica che qui interessa - anche talune vicende connesse all'impresa familiare. L'art. 230-bis c.c. al quarto comma prevede - oltre l'intrasferibilità del diritto del partecipante all'impresa familiare, salvo che consti il consenso degli altri partecipi ed il trasferimento avvenga a favore di uno dei familiari di cui è menzione nel citato articolo (il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo del titolare dell'impresa) anche - la possibilità di liquidare il diritto del partecipante in caso di cessazione 'per qualsiasi causa' della prestazione di lavoro. Il che significa che in caso di decesso di uno dei partecipanti scatterà l'obbligo alla liquidazione della sua quota a favore degli eredi e potrà essere preservata la composizione originaria della struttura soggettiva dell'impresa, senza ingerenze o subingressi ostativi alla conservazione di quella struttura stessa nel tempo.
è intuitivo che tale fenomeno - diciamo - di 'concentrazione' dell'impresa familiare (che resta un'impresa individuale sia pure a struttura interna plurisoggettiva, come è stato detto [nota 11]) assume solo la valenza di strumento per l'esclusione dalla compagine originaria dei partecipanti di soggetti ad essa estranei, ma non risolve il problema del trapasso generazionale, in quanto, scomparso l'imprenditore, cessa anche l'azienda dal medesimo esercitata; esso quindi non ha alcun punto di contatto né tanto meno di coincidenza con il 'Patto di famiglia', ove invece la dismissione del bene produttivo avviene con immediatezza ed a favore di un discendente ben individuato, e proprio in funzione della continuità operativa e funzionale dell'azienda in capo ad un soggetto diverso dal disponente.
d) Clausole di predisposizione successoria
Si potrebbe altresì pensare che il ricorso a talune clausole societarie di predisposizione successoria (e cioè in particolare sia a clausole di consolidazione a favore di altri soci, per ipotesi discendenti del disponente, sia a clausole di continuazione facoltativa, o obbligatoria o automatica della società in caso di decesso del socio disponente, con i suoi eredi o con alcuni di essi [nota 12]) possa ottenere i medesimi effetti perseguibili con il Patto di famiglia, almeno per quanto concerne il trasferimento di partecipazioni societarie.
Ma anche qui notevoli sono i tratti distintivi di tali clausole (non sempre e non tutte ritenute valide in dottrina e dalla giurisprudenza, seppure con maggiori temperamenti riguardo alle società di capitali dopo l'entrata in vigore della riforma del diritto societario) con il Patto di famiglia.
In particolare è da notare che l'operatività stessa di dette clausole è subordinata all'ipotesi della premorienza del socio disponente; inoltre - almeno per effetto delle clausole di consolidazione - il trapasso generazionale sarebbe condizionato al fatto che i soci beneficiari dell'accrescimento siano proprio i discendenti ai quali il disponente intenda trasferire le proprie partecipazioni (il che in realtà potrebbe non verificarsi) e in ogni caso (sia per effetto delle clausole di continuazione che di consolidazione) tale trapasso non potrebbe attuarsi compiutamente prima della scomparsa del socio titolare delle partecipazioni.
Ma soprattutto non si potrebbe procedere ad alcuna compensazione delle ragioni successorie di spettanza dei legittimari esclusi dal meccanismo della consolidazione o della continuazione e rimarrebbero in ogni caso pienamente attivabili le procedure di eventuale collazione e riduzione.
In ogni caso rispetto alla consolidazione societaria (certamente da regolamentare a livello statutario in modo da non impingere comunque nel divieto dei patti successori, soprattutto prevedendo eque modalità di ristoro economico a favore degli eredi), è evidente nel Patto di famiglia l'assenza di qualsiasi profilo di illiceità in riferimento al disposto dell'art. 458 c.c. per espresso dettato legislativo.
e) Figure negoziali residuali (mandato post mortem exequendum, rendita vitalizia a favore di terzi, 'fondazioni di famiglia')
Non meno inidonee al perseguimento delle finalità peculiari del Patto di famiglia si configurano altre fattispecie negoziali, pure di regola qualificate come strumenti alternativi al testamento.
Così dicasi del mandato post mortem o - meglio - del mandato post mortem exequendum, [nota 13] l'unico ritenuto sicuramente valido dalla giurisprudenza [nota 14], e cioè del mandato che facoltizzi ed impegni il mandatario ad eseguire atti di mera esecuzione materiale di un'«attribuzione patrimoniale già perfezionata in vita dal mandante». In tale fattispecie il bene o il diritto deve essere già uscito fuori dal patrimonio del disponente e il veicolo contrattuale consegue solo il limitato effetto di dare esecuzione ad un'attività giuridica già perfezionata, non potendo concepirsi la validità di un mandato che sia finalizzato al trasferimento di beni e diritti del mandante da attuarsi dopo il suo decesso.
Ma, al di là di ciò, all'evidenza siffatta fattispecie non potrebbe di certo conseguire lo scopo dell'immediato trasferimento dell'azienda e/o delle partecipazioni societarie di spettanza dell'imprenditore-beneficiante, nè tanto meno quello della compensazione, in vita del disponente, dei legittimari non assegnatari: questi effetti dovrebbero comunque essere ottenuti ricorrendo ad altre figure negoziali, in quanto, per dare esecuzione al mandato, sarebbe necessario attendere l'evento del decesso del mandante-disponente; il che ne manifesta, come si diceva, la sua inidoneità allo scopo.
Altrettanto è a dirsi per la rendita vitalizia costituita a favore del terzo ai sensi dell'art. 1875 c.c. [nota 15], ipotesi nella quale si potrebbe verificare che a fronte della cessione di un capitale (nel nostro caso tale cessione dovrebbe integrare il trasferimento del bene produttivo) il vitaliziato indirizzi a favore dei terzi la prestazione periodica del beneficiario-vitaliziante. Ma anche in tale fattispecie è evidente che, a parte la difficoltà teorica di concepire una discutibile assimilazione tra il concetto di 'capitale' e quello di valore dell'azienda o delle partecipazioni a trasferirsi a favore del vitaliziante e dell'ulteriore difficoltà di ritenere riscattabile la prestazione vitalizia a rendersi da parte del vitaliziante per commutarla nella somma di danaro compensativa delle ragioni spettanti ai legittimari non assegnatari del bene produttivo, i terzi beneficiari non assegnatari del capitale non entrerebbero mai nel perimetro strutturale e nel percorso causale della fattispecie, in aperto contrasto con la rilevanza che ad essi il legislatore della novella ha voluto riconoscere ai fini del perfezionamento stesso del patto familiare.
Senza voler trattare qui delle cd. "fondazioni di famiglia", che, pur espressamente previste dall'art. 28 c.c. come quelle «destinate a vantaggio di una o più famiglie determinate», sembrano non aver attecchito nell'ambito della sistemazione anticipata dei rapporti successori privati, soprattutto se relativi a realtà produttive. E ciò forse per la difficoltà - rilevata da dottrina autorevole - di non potersi prestare agevolmente ad assicurare la continuità della titolarità dell'impresa [nota 16] avendo vocazione più netta e precisa volta al perseguimento di scopi di pubblica utilità. Nè va ignorato il divieto dei fedecommessi che rende illecito ogni negozio finalizzato a conservare e restituire alla propria morte un bene a soggetti determinati. [nota 17] Il che intuitivamente evidenzia l'inidoneità di un siffatto strumento ad incidere nella sfera dei rapporti economico-familiari cui invece attiene l'istituto del Patto di famiglia, particolarmente riguardo al profilo della liquidazione dei diritti di riserva a vantaggio dei legittimari non assegnatari.
Patto di famiglia e trust
In modo diverso rispetto al Patto di famiglia, si atteggia anche il trust (definito all'art. 2 della Convenzione dell'Aja adottata il 1° luglio 1985 [nota 18] come il rapporto giuridico istituito da una persona – disponente – con atto tra vivi o mortis causa, allorquando i beni siano posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine specifico), e ciò in quanto il patto familiare è un contratto che si perfeziona in forza di un preciso accordo negoziale, mentre l'atto istitutivo del trust è atto unilaterale avente un contenuto programmatico. [nota 19] Al riguardo non va sottaciuto che si reputa talora opportuno il ricorso a questo strumento (specie nella forma del family trust o in forme similari di trusts, come ad esempio i cd. trusts "liberali" [nota 20]), proprio per provvedere alla sistemazione in funzione successoria di situazioni patrimoniali già facenti capo al disponente, al fine di conservare l'unità del patrimonio familiare [nota 21] o singole entità o attività in esso rientranti, ed evitare così la loro dispersione o frammentazione tra una pletora di successibili, non tutti sempre in grado di serbare ed accrescere il 'valore aggiunto' conseguito dal titolare-disponente in vita e materializzato in uno specifico bene produttivo o in partecipazioni a specifiche società . [nota 22]
Certamente, il trust in ambito familiare e segnatamente successorio è destinato ad occupare uno spazio sempre più importante nell'ambito della pianificazione della ricchezza familiare, soprattutto dopo i consensi espressi dalla giurisprudenza di merito [nota 23] nei confronti dei cd. trusts interni (nei quali l'unico elemento di estraneità è rappresentato dalla legge straniera scelta dal costituente o settlor, ma con soggetti, beneficiari, scopi e beni tutti siti in Italia). A ciò si aggiunga che di recente il D.l. 273/2005 convertito in legge 23 febbraio 2006 n. 51 ha introdotto nel nostro codice civile il nuovo art. 2645-ter per il quale è ora possibile provvedere alla trascrizione (ai fini della opponibilità ai terzi) di atti in forma pubblica con i quali venga impresso uno specifico vincolo di destinazione a beni immobili e beni mobili registrati, per un periodo non superiore a 90 anni o per la durata della vita di una persona fisica beneficiaria, allo scopo di realizzare interessi meritevoli di tutela in riferimento (non solo a disabili, pubbliche amministrazioni o ad altri enti, ma anche) a qualunque persona fisica, ricorrendo i requisiti di meritevolezza ex art. 1322 c.c.
Il che denota indubbiamente un atteggiamento di favore da parte del nostro ordinamento verso soluzioni negoziali affini, se non coincidenti, con quelle già contenute nella richiamata Convenzione dell'Aja.
Eppure come si diceva, i profili distintivi tra trust in funzione successoria e Patto di famiglia ( a parte la veste formale dell'atto istitutivo, unilaterale per il primo e plurilaterale per il secondo) sono evidenti: nel primo i beneficiari finali non coincidono con il trustee, mentre nel Patto di famiglia l'assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni è proprio il soggetto che beneficia del trasferimento di ricchezza disposto dal titolare e al quale il disponente vuole indirizzare tale trasferimento; nel trust, qualora venga evidenziata in tempi successivi all'apertura della successione una lesione della quota di riserva spettante ai legittimari che non risultino essere i beneficiari finali, essi potranno fare ricorso agli ordinari mezzi di tutela apprestati dall'ordinamento, in special modo all'azione di riduzione (salvo poi a verificare correttamente chi debba esserne il soggetto passivo [nota 24]), mentre nel patto familiare il disinnesco del meccanismo finalizzato all'esercizio dell'azione di riduzione (oltre che delle procedure in cui si articola la collazione) è elemento qualificante della fattispecie; nel trust, anche attraverso istituti o soggetti terzi (pensiamo al cd. "protector" o guardiano) - che più di rado può coincidere anche con il medesimo disponente [nota 25]- può essere sempre svolta un'attività di controllo sull'operato del trustee nell'interesse dei beneficiari, nel patto invece l'assegnazione del bene produttivo è fatta in considerazione delle specifiche capacità gestionali rinvenibili nel beneficiario, il quale è libero di assumere le decisioni ritenute più opportune per la gestione dell'azienda o delle quote assegnate; nel trust si verifica un effetto segregativo in relazione ai beni che ne formano oggetto con conseguente indifferenza rispetto alle vicende dei soggetti, mentre nel Patto di famiglia non si attua alcuna 'insensibilità' dei beni trasferiti rispetto alle ragioni vantate dai creditori sia del disponente che del beneficiario diretto.
Si deve peraltro notare che - a differenza del trust - il Patto di famiglia non risolve il problema del passaggio generazionale del bene produttivo laddove non si riesca a formare l'accordo, l'intesa pattizia con quei legittimari non beneficiari del bene produttivo, la cui partecipazione al patto è concepita dal legislatore della novella come necessaria e vincolante (e sempreché si acceda alla opinione espressa in dottrina in ordine alla essenzialità di siffatta partecipazione), oppure laddove il soggetto meritevole di assumere la gestione e la titolarità dell'azienda, in considerazione delle idonee capacità allo scopo dimostrate, sia diverso dai discendenti del disponente o - magari - non vi sia affatto alcun discendente cui trasferire il bene produttivo. In tutti tali casi è evidente - a differenza del trust - l'inidoneità del Patto di famiglia alla trasmissione generazionale.
Patto di famiglia e divisione fatta dal testatore
Qualche considerazione a parte va invece svolta per quanto attiene ai profili comparativi tra Patto di famiglia e divisione fatta dal testatore (anche se questa, come è evidente, non può essere qualificata quale strumento negoziale alternativo al testamento, attuandosi al contrario proprio attraverso l'opzione testamentaria).
Comè noto l'istituto, disciplinato all' art. 734 c.c. [nota 26], consente la divisione dei beni del testatore tra gli eredi (ricomprendendovi anche la parte non disponibile) con efficacia reale immediata (in dottrina si definisce l'attribuzione da essa dipendente come 'assegno divisionale qualificato', per distinguerlo da quello 'semplice' previsto e disciplinato dall'art. 733 c.c., di portata ed efficacia meramente obbligatoria [nota 27], ove il testatore si limita a dettare norme particolari per la formazioni delle porzioni, vincolanti per gli eredi nei limiti di un'effettiva corrispondenza tra valore dei beni da assegnare ed entità delle quote stabilite dal testatore). Tale particolare tipo di divisione prescinde - secondo la più recente dottrina [nota 28] - dalla necessaria preesistenza di uno stato di comunione, dovendosi ritenere qualificante (e nel contempo costitutiva della particolarità della fattispecie al vaglio) la mera funzione distributivo-attributiva: sarebbe questa, e non la preesistenza dello stato di comunione, a consentire di ascrivere la fattispecie al più ampio genus della divisione; anzi l'unica differenza con la divisione ordinaria risiederebbe nel profilo soggettivo: in questa la volontà di addivenire allo scioglimento della comunione è imputabile ai compartecipi, nella prima la volontà giuridicamente rilevante è solo quella del testatore.
Sarebbe pure ammissibile una divisione del testatore solo soggettivamente parziale (come avverrebbe qualora le porzioni formate dal testatore non si riferiscano per avventura a tutti i beneficiari), così come una divisione solo oggettivamente parziale, riferita solo ad una 'pars bonorum' e non a tutti i cespiti rientranti nel (futuro) asse ereditario, il che sembra potersi ricavare agevolmente da quanto dispone l'art. 734 secondo comma c.c. in ordine alla destinazione degli ulteriori beni lasciati al tempo della morte del testatore, non ricompresi nella divisione da lui fatta in vita, secondo le norme della successione legittima, se non risulti una diversa volontà del testatore stesso.
Ciò che invece non è consentito nella divisione fatta dal testatore è il soddisfacimento dei diritti dei legittimari con beni o danaro non provenienti dal patrimonio relitto dal 'de cuius', come accadrebbe se questi disponesse che le ragioni di riserva di taluno di essi dovessero essere soddisfatte dagli eredi (tra cui viene ripartito l'asse) con denaro proprio di questi, non ricompreso nell'asse stesso [nota 29]: ciò infatti si porrebbe in insanabile contrasto con il principio di intangibilità, sia pure solo quantitativa, della legittima. E infatti l'art. 735 primo comma c.c. statuisce la nullità della divisione fatta dal testatore che non abbia ricompreso qualcuno dei legittimari.
Il che peraltro non inibisce nell'ambito della detta divisione il ricorso allo strumento dei conguagli - secondo quanto la stessa Cassazione ha avuto modo di sostenere [nota 30] - disposti magari dal testatore per condurre ad equità sostanziale i valori dei beni apporzionati tra i vari beneficiari: essi assumerebbero natura di legati con funzione divisoria, il cui adempimento pertanto potrebbe avvenire anche grazie ad utilità economiche di provenienza non dal patrimonio relitto dal de cuius ma da quello di uno o più beneficiari, gravati del relativo onere, a favore di altro o di altri, in tal modo indirettamente 'equiparati' ai primi.
A ben vedere anche nel Patto di famiglia si rinvengono alcuni dei tratti distintivi della divisione fatta dal testatore, così come ricostruita dalla dottrina più recente: il disponente trasferisce la titolarità del bene produttivo ad uno o più discendenti, e ciò prima ancora ed a prescindere dallo scioglimento di un (sia pure ipotetico) stato di preesistente comunione; a carico del o dei beneficiari del bene produttivo viene posto dalla legge un onere di liquidazione da eseguire a favore dei legittimari non assegnatari, una sorta di conguaglio con funzione perequativa.
Eppure, come è intuitivo, non pare legittima un'assimilazione totale tra gli istituti in questione, e ciò non solo per la evidente disparità funzionale che rispetto a ciascuno di essi assume l'evento 'morte' in riferimento al profilo causale e per la conseguente incidenza di tale disparità sul piano strutturale (atto tra vivi/atto mortis causa), ma anche e soprattutto per la inesistenza nell'ambito del patto familiare dell'obbligo (sussistente invece nella divisione fatta dal testatore, come s'è visto) di provvedere comunque "all'apporzionamento" in via diretta e principale di tutti i legittimari (sia pure attribuendo valori e beni da 'conguagliare' nei rapporti interni tra i beneficiari). Né paiono in concreto ottenibili nell'ambito della divisione testamentaria gli stessi specifici effetti concreti attuabili mercé l'istituto disciplinato dalla novella in commento. La tendenziale definitività della destinazione del bene produttivo a favore di un beneficiario piuttosto che di una altro (tipica del Patto di famiglia) nella divisione testamentaria è solo possibile, ma non sicuramente attuata, in considerazione della possibile mutazione di tale destinazione per volontà del testatore nell'esercizio del potere di revoca al medesimo spettante usque ad mortem; così come la stabilità dell'acquisto a suo favore è anch'essa circostanza solo possibile ed attuabile sempreché non sia perpetrata una lesione della quota di riserva ed esercitata l'azione di riduzione da parte di un legittimario leso, come consente di fare il secondo comma dell'art. 735 c.c. Nè infine risulta applicabile al Patto di famiglia lo speciale rimedio della rescissione per lesione previsto dall'art. 763 c.c. quando il valore dei beni assegnati sia inferiore di oltre un quarto rispetto all'entità della quota spettante all'assegnatario, rimedio la cui applicazione peraltro richiederebbe una previa istituzione in quota dei vari assegnatari (rispetto alla quale calcolare la possibile lesione) assolutamente non prevista nè possibile nell'ambito del patto.
Conclusioni
Quanto enunciato nelle considerazioni che precedono induce a ritenere che non vi siano aree di effettiva interferenza né tanto meno profili coincidenti o sovrapponibili tra 'Patto di famiglia' da un lato e figure negoziali alternative al testamento o con funzione successoria in generale dall'altro.
Ciò che caratterizza e connota il 'Patto di famiglia' differenziandolo dalle seconde non è tanto la sua idoneità a precostituire con certezza futuri assetti ereditari (assetti che potrebbero trovare una sistemazione anticipata in parte ricorrendo anche a taluni strumenti alternativi) o a svolgere un'efficace funzione di controllo da parte del disponente sulla meritevolezza del beneficiario e sulla rispondenza nel tempo del medesimo all'identikit del manager ideale (come potrebbe verificarsi ricorrendo anche ad altre figure contrattuali, soprattutto la donazione modale): se il recesso, infatti, nell'ambito del Patto di famiglia non è stato previsto contrattualmente o è stato previsto per cause diverse da quella della permanenza della capacità imprenditoriale in capo al beneficiario, tale controllo verrà comunque sottratto al disponente, il quale ben poco potrà di fronte alla inettitudine postuma dell'assegnatario. Il dato qualificante della fattispecie al vaglio a ben vedere è allora la disattivazione dei meccanismi di collazione e di riduzione che, in assenza di un'espressa volizione legislativa, sarebbero pienamente operativi; disattivazione invece che non è normativamente prevista in riferimento alle soluzioni negoziali alternative al testamento in presenza di una eventuale connotazione donativa, sia pure indiretta, magari dissimulata ad arte; disattivazione che consente essa di attuare finalità finora non perseguibili nell'ambito delle sistemazione dei rapporti collegati ad una futura successione, stante il perdurante divieto dei patti successori, quali l'interesse del beneficiario alla irrevocabilità dell'attribuzione (fatta salva l'ipotesi di recesso di cui si diceva) e l'interesse del disponente ad attribuire certezza all'assetto programmato.
Questa costituisce pertanto ragione ulteriore e decisiva per differenziare l'istituto in parola rispetto a quelle soluzioni alternative; essa al contempo consente di cogliere la peculiarità della novella e di apprezzarne le indubbie valenze giuridico-operative.
[nota 1] Sul tema degli istituti negoziali alternativi al testamento è d'obbligo richiamare i preziosi contributi del prof. PALAZZO: Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983; «Testamento e istituti alternativi nel laboratorio giurisprudenziale», in Riv.crit.dir.priv. 1983 p. 435 ss.; Attribuzioni patrimoniali fra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza familiare, A.A.V.V., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 17 ss.; «Declino dei patti successori, alternative testamentarie e centralità del testamento», Jus, 1997, p. 289; da ultimo Istituti alternativi al testamento, Trattato di diritto civile, vol. VIII, 1 Napoli 2003.
Cfr. anche MARELLA, «Il divieto dei patti successori e le alternative convenzionali al testamento», Nuova Giur. Civ., 1991, II, p. 91; nonchè delle medesima A. «Il divieto dei patti successori e le alternative convenzionali al testamento. Riflessioni sul dibattito più recente», leggibile all'indirizzo http://www.jus.unitn.it/cardozo/Review/Persons/Marella-1997/marella.htm; in argomento altresì CALò, Dal probate al family trust, Milano 1996, p. 101 e ss.; DEL PRATO, «Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma», Riv. not., 2001, 3, p. 625; DE NOVA, «Autonomia privata e successioni mortis causa», Jus, 1997, p. 273; ZOPPINI, Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie "in forma indiretta", in Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Milano, 1998, p. 919; SANTORO, «Le alternative al testamento», in Contratto e impresa, 2003, 3, p. 1187; MERZ, La trasmissione familiare e fiduciaria della ricchezza, Padova, 1998; RUSCELLO, «Successione mortis causa e fenomeni "parasuccessori"», Vita Not., 1998, 1, p. 70.
[nota 2] Cfr. IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, I, Padova, 1994, p. 65 ; PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, cit., p. 8 e ss.; ma anche LEPRI, «Patto successorio», Nuova Giur.Civ., 1985, I, p. 95; PADOVINI, Rapporto contrattuale e successione a causa di morte, Milano, 1990; COSTANZA, «Negozio mortis causa o post mortem», Giust.Civ., 1991, I, p. 956; PUTORTì, «Promesse post mortem e patti successori», Rass.Dir.Civ., 1991, p. 789; CACCAVALE, Il divieto dei patti successori, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, op. cit., 25; CACCAVALE, «Patti successori: il sottile confine tra nullità e validità negoziale», Notariato, 1995, p. 554;
[nota 3] Tale espressione si lascia preferire all'altra meno corretta di 'atti post mortem', con cui la migliore dottrina (CAPOZZI, Successioni e donazioni, t.I., Milano, 1983, p. 420, 421 e 428) si riferisce a quelle disposizioni di carattere non patrimoniale contenute nella scheda testamentaria ai sensi dell'art. 587 cpv. c.c.
[nota 4] Cfr. PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, cit. p. 47;
[nota 5] Anzi secondo la dottrina (CALò, Dal probate al family trust, cit., p. 111) sarebbe proprio questo elemento del riferimento o meno alla residualità oggettiva a costituire fatto dirimente della validità della fattispecie, nel senso che il negozio concluso dai soggetti dell'ordinamento sia pure con riguardo all'evento futuro della morte di uno di essi e però con preventiva determinazione del suo oggetto si deve ritenere valido per la meritevolezza degli interessi con esso perseguiti, mentre laddove l'oggetto sia determinato con criterio di residualità ('ciò che esiste al momento del decesso del disponente') si verifica una contrarietà al sistema e si infrange il divieto dei patti successori ex art. 458 c.c.
[nota 6] Il che è quanto già aveva affermato autorevole dottrina (GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento - Contributo ad una teoria dell'atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 42): «l'attribuzione mortis causa non può, in quanto tale, avere ad oggetto che un quod superest, né può, per restar tale, che essere soggetta alla condizione della sopravvivenza del beneficiario: dove l'una delle due condizioni manchi, non può…qualificarsi un'attribuzione a causa di morte)».
[nota 7] Secondo Cass. 24 aprile 1987 n. 4053 in Giust. Civ. 1987, fasc. 4 «Cade...sotto la sanzione della nullità…l'atto di disposizione che, per fini di liberalità, istituisca altro soggetto erede o legatario relativamente ad un bene o ad un diritto facente parte del patrimonio del disponente, anche se il fatto istitutivo venga posto in essere mediante contratto sottoposto alla condizione sospensiva della premorienza del dichiarante ("si praemoriar"), in quanto tale negozio, attribuendo al beneficiario, subito, prima dell'apertura della successione un diritto ereditario, vincola in modo irrevocabile, contrattualmente il dichiarante in favore del beneficiario, in contrasto con il principio che vieta gli atti, dispositivo della propria successione dai quali possano derivare diritti o aspettative per il beneficiario da epoca anteriore alla morte del disponente». (In commento alla ricordata sentenza, CHIANALE, «Osservazioni sulla donazione mortis causa», Riv.Dir.Civ., 1990, II, p. 91, svolge di fatto un'analisi comparata con la disciplina di questa donazione in altri ordinamenti).
Sembra orientarsi nello stesso senso anche il Tribunale di Catania (sent. 25 marzo 1993 in Foro it. 1995, I, p. 696) secondo cui «Non sottostà al divieto sancito per le c.d. donazioni "mortis causa", ossia sospensivamente subordinate alla morte del donante, quella che, attribuendo immediatamente un vantaggio al beneficiario, non risulta in alcun modo collegata al decesso del donante». Conchè lasciando intendere che qualora l'effetto traslativo sia appunto sospensivamente condizionato (come nella donazione si praemoriar) il negozio sarebbe colpito da nullità.
[nota 8] Che ulteriormente a sua volta riproponeva con alcune semplificazioni il disegno di legge n. 2799 presentato dall'On. Pastore medesimo il 2 ottobre 1997 durante la XIII legislatura e che poi è stato assorbito in n. 3567, definitivamente approvato dal Senato in data 31 gennaio 2006.
[nota 9] Cfr. PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, cit. p. 47 e ss.; cfr. anche DI MAURO, «Patti successori, donazioni mortis causa e contratto a favore di terzo con prestazioni da eseguire dopo la morte dello stipulante», Giust. Civ., 1991, I, p. 1791.
[nota 10] Anzi l'estraneità del terzo rispetto al novero dei contraenti assume - nell'ipotesi di prestazione da eseguire a suo favore dopo la morte dello stipulante - valore assorbente per escludere che ricorra un patto successorio vietato, secondo quanto la Cassazione (sent. 17 agosto 1990 n. 8335 in Riv.Not. 1991, p. 517) ha avuto modo di affermare in una specifica ipotesi: «Il contratto, con cui una parte deposita presso un'altra una determinata somma ed attribuisce ad un terzo, che prende parte all'atto, il diritto a pretenderne la restituzione dopo la propria morte, non configura un contratto a favore di terzi, con esecuzione dopo la morte dello stipulante, a norma dell'art. 1412 c.c., avendo il terzo assunto la qualità di parte dell'atto e lo stipulante obbligandosi in suo diretto confronto a mantenere ferma la disposizione in suo favore, bensì rientra nell'ambito di applicazione del divieto dei patti successori sancito dall'art. 458 c.c., ed è perciò nulla, giacché dà luogo ad una complessa convenzione costituita da un deposito irregolare e da una vietata donazione mortis causa».
[nota 11] Cfr. PANUCCIO, L'impresa familiare, Milano, 1981, p. 34, 45 e ss.
[nota 12] Sulle clausole di continuazione cfr. FERRI, Delle società, in Comm.Scialoja-Branca, sub. artt. 2247 - 2324, Bologna-Roma, 1981; in particolare per la validità della clausola di continuazione obbligatoria, GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 515; circa le clausole di consolidazione cfr. la efficace sintesi di dottrina e giurisprudenza fatta da QUATRARO, Statuti sociali e volontaria giurisdizione societaria, Milano, Tomo I, 1996, p. 538 e ss.; RIVOLTA, Clausole societarie e predisposizione successoria, in La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995, p. 153 ss. (spec. p. 163 ss. ove ampie riflessioni sulla liceità di clausole di intrasmissibilità e limitative della trasmissione mortis causa della quota nei diversi tipi societari); in giurisprudenza cfr. App. Milano 30 marzo 1993, in Giur.it., 1994, I, 2, p. 352; App. Bologna 23 ottobre 1996, in Società, 1997, p. 414; Cassaz. 16 aprile 1994 n. 3609 in Riv. notariato 1994, p. 1491;
[nota 13] Cfr. PENE VIDARI, Contratti post mortem, in Digesto disc.priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, p. 418; GRADASSI, «Mandato post mortem», Contratto e Impresa, 1990, p. 827;
[nota 14] Cfr. Cassaz. 4 ottobre 1962 n. 2804, in Giust. civ. 1962, p. 2069, dovendo sicuramente argomentarsi per la invalidità del cd. mandato post mortem e per la nullità del 'mandato mortis causa', laddove la fattispecie nel primo caso neanche si perfeziona, in quanto contenuta in un atto unilaterale (il testamento) - mentre il mandato è un contratto - e nel secondo caso viene piegata al perseguimento di finalità vietate dall'ordinamento, e cioè della trasmissione di beni e di diritti del mandante-disponente da perfezionarsi in tempi successivi alla sua morte attraverso lo strumento contrattuale, in contrasto con il divieto dei patti successori ex art. 458 c.c. e del principio della unicità della fonte (testamentaria) della delazione ereditaria.
[nota 15] Cui si possono affiancare le fattispecie del vitalizio alimentare e del contratto atipico di mantenimento, anch'esse stipulate a favore del terzo; in particolare nel cd. contratto di mantenimento potrebbe essere prevista che la esecuzione di specifiche prestazioni avvenga anche dopo il decesso di uno dei contraenti, trasferendosi l'obbligo di provvedere a carico degli eredi subentranti e sempreché intuitivamente il corrispettivo per l'esecuzione delle prestazioni stesse sia immediatamente corrisposto e non sia rappresentato dalla promessa di una futura attribuzione successoria, stante il divieto dei patti successori.
[nota 16] Così GALGANO, Fondazione (diritto civile), in Enc. Giur., Treccani, Roma, 1989, T. XIV.
[nota 17] Cfr. in dottrina IUDICA, Fondazioni, fedecommesserie, trusts, e trasmissione della ricchezza, in AA.VV., La trasmissione della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 97.
[nota 18] Ratificata con legge 16 ottobre 1989 n.364, pubblicata in G.U. 8 novembre 1989 n. 261 Suppl. ordinario.
[nota 19] In argomento si rimanda a MURITANO, «Strumenti alternativi per la trasmissione della ricchezza familiare, trust e ruolo del Notaio», (relazione tenuta nell'ambito del XLI Congresso Nazionale del Notariato di Pesaro 18/21 settembre 2005, leggibile sul web all'indirizzo http://www.notariato.it/cnn/ News/Relazioni_Pesaro/Muritano/OKMuritano.pdf.
Cfr. anche Studio approvato dal Cnn il 10 febbraio 2006 (estensori RISSO, MURITANO) in Cnn Notizie n. 37 del 22 febbraio 2006, « Il trust: diritto interno e Convenzione de L'Aja. Ruolo e responsabilità dei Notai».
[nota 20] Di trust 'liberali' parla il Prof. LUPOI, Trust, Milano 2001, p. 622 e ss. precisando che i trusts collegati ad assetti familiari sono appunto uno fra i tanti tipi di trusts liberali (ove il concetto di liberalità non è utilizzato in senso tecnico) per distinguerli dai trusts commerciali.
[nota 21] Cfr. PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, cit. p. 78
[nota 22] Nota ZOPPINI, «Il Patto di famiglia non risolve le liti», IlSole24ore, 3 febbraio 2006 come nel diritto successorio americano il trust si sia rivelato spesso strumento risolutivo dei conflitti familiari più di quanto non siano stati in grado di farlo i c.d. contratti ereditari.
[nota 23] Cfr. decreto del Tribunale di Bologna, Giudice del Registro del 16 giugno 2003, in Rivista T&AF, 580, e in RN, 2004, p. 556, in cui il Tribunale ha ordinato al Conservatore del Registro delle Imprese di procedere alla iscrizione del trasferimento di quote sociali di Srl a favore del trustee, ritenendo infondato il rifiuto opposto dal Conservatore a non dare seguito alla richiesta originaria di iscrizione (il Conservatore aveva obiettato che la Convenzione dell'Aja consente l'ingresso nel nostro ordinamento solo dei trusts connotati da effettivi elementi di internazionalità, che il riconoscimento di tale istituto si pone in contrasto con la norma dell'art. 2740 c.c., che in ogni caso il trust interno contrasta con il principio del numerus clausus dei diritti reali; argomentazioni tutte rigettate dal Tribunale in considerazione dei limitati poteri di controllo spettanti al Conservatore, e soprattutto della non contrarietà al nostro ordinamento del c.d. effetto segregativo, in quanto, per effetto della ratifica con legge dello Stato, si deve ritenere ormai ivi recepito).
Così pure nell'anno 2004 è stato ritenuto valido «il trust sottoposto alla legge inglese, nel quale due disponenti trasferiscono al trustee le loro quote di partecipazione di una Srl ed una somma di danaro al fine di garantire la professionalità nella gestione della società» (così MURITANO, «Trust e diritto italiano: uno sguardo d'insieme (tra teoria e prassi)», Vita Notarile, n.1, Gennaio-aprile 2005, p. 470).
[nota 24] Secondo MOSCATI, «Trust e tutela dei legittimari», in Trusts, 2000, p. 13 e ss. il soggetto passivo dell'azione di riduzione è il trust stesso, in persona del trustee; secondo de DONATO A., «Le vicende successorie», Quaderni di Federnotizie n.12, Milano 16 dicembre 2000 - 20 gennaio 2001, p. 26 la legittimazione passiva sarebbe del trust «in persona del trustee, o come ente impersonale…prima dell'assegnazione al beneficiario»; mentre successivamente tale legittimazione spetterebbe al beneficiario stesso.
[nota 25] Così LUPOI, L'atto istitutivo di trust, Milano, 2005, p. 83.
[nota 26] In argomento cfr. in dottrina GAZZARA, voce Divisione ereditaria, in Enc. dir., XIII, Milano 1964; FORCHIELLI, Della divisione, in Comm. c.c. diretto da Scialoja e Branca, art. 713-768, Bologna-Roma, 1970; BURDESE, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, XII, 5, Torino, 1980; MENGONI, Successioni per causa di morte, parte speciale, successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, XLIII, 2, Milano, 1992; AMADIO, La divisione del Testatore, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, II, Padova 1994.
[nota 27] Cfr. Tribunale Verona, 26 luglio 2001 in Giur. merito 2002, p. 973 «L'assegno divisorio c.d. "semplice" (art. 733 c.c.), avente efficacia meramente obbligatoria, è legato alla circostanza per cui il testatore abbia dettato esclusivamente norme per la formazione delle porzioni ereditarie; diversamente, nel caso dell'assegno divisorio "qualificato" (art. 734 c.c.), ad efficacia reale, allorché il testatore abbia provveduto direttamente alla divisione, per cui i beni passano immediatamente e direttamente agli assegnatari, senza che venga a determinarsi la comunione ereditaria».
[nota 28] Cfr. per tutti CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit. p. 764.
[nota 29] Cfr. Cassazione civile n.3559 del 23 marzo 1992 in Rass.Dir.Civ. anno 1994, fasc. 04, p. 819 con nota di Vincenzo Tavassi ; già Cassaz. 2 ottobre 1974 n. 2560 in Giust. Civ. 1975, I, p. 67, aveva statuito che il diritto reale del legittimario alla quota di riserva non si può trasformare in un diritto di credito verso altro coerede beneficiario senza la sua volontà, sicché la divisione fatta dal testatore - in forza della quale al legittimario sia assegnata come una quota ereditaria una somma di danaro non facente parte del 'relictum' e posta a carico di altro coerede beneficiario e assegnatario dei beni relitti - può essere impugnata per nullità ai sensi del primo comma dell'art. 735 c.c.
[nota 30] Cfr. Cassazione civile, sez. II, 22 novembre 1996, n. 10306 in Giust. civ. Mass. 1996, p. 1570 secondo cui «Il testatore che proceda direttamente alla divisione ai sensi dell'art. 734 c.c., può fare ricorso allo strumento del conguaglio in danaro sia per correggere le ineguaglianze in natura delle quote ereditarie che già si presentino all'atto della formazione del piano di ripartizione, sia per assicurare alle quote il loro valore originario rispetto agli eventuali squilibri dovuti alla fluttuazione dei prezzi di mercato o ad altri non prevedibili eventi. Tali conguagli non possono ritenersi assegni divisionali in senso tecnico, ma hanno natura di legati "divisionis causa"».
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