Arbitrato e Conciliazione
Arbitrato e Conciliazione
di Cinzia Brunelli
Notaio in Forlì
Generalità
Il nuovo art. 768-octies del codice civile, introdotto con legge 14 febbraio 2006, n. 55, istitutiva, nel nostro ordinamento, del Patto di famiglia, riserva una disciplina specifica per le controversie in materia, prevedendo testualmente quanto segue:
«Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5».
Con tecnica legislativa sempre più ricorrente, per non dire ormai costante, il legislatore codifica ancora una volta il suo manifesto favore per la risoluzione stragiudiziale delle controversie, indicando la conciliazione come la strada maestra da seguire prima di fare ricorso ad un terzo decisore, quale può essere il giudice o un arbitro.
Dopo un inquadramento dell'istituto a livello giuridico, con cenni sulle sue caratteristiche e modalità operative ed un breve inquadramento dello stesso nella normativa italiana e nella realtà comunitaria, si tenterà una prima interpretazione dell'art. 768-octies c.c., esplorando le motivazioni della scelta, analizzando le sue diverse componenti, individuandone le modalità applicative ed infine riservando una breve analisi al rapporto tra conciliazione ed arbitrato nel Patto di famiglia.
Metodi di risoluzione delle controversie
Il fallimento del negoziato diretto in una relazione interpersonale, di qualunque natura essa sia, porta a dover affrontare una lite, con conseguente necessità di scegliere il metodo cui fare ricorso.
In linea generale, i metodi di risoluzione delle controversie possono distinguersi in sistemi vincolanti, a carattere decisionale, e sistemi non vincolanti, a carattere non decisionale, secondo la suddivisione di seguito indicata:
Sistemi vincolanti |
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Sistemi non vincolanti |
sentenze |
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procedure conciliative |
arbitrato |
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perizie non vincolanti |
arbitraggio |
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pareri pro veritate |
perizie vincolanti |
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Le differenze tra i due gruppi possono così sintetizzarsi.
Nei sistemi vincolanti, il terzo interviene sempre in qualità di decisore: è chiamato ad esprimersi sulla sola domanda che gli viene rivolta, è tenuto ad esaminare la fattispecie di conflitto, a darne una qualificazione ed indicarne la decisione.
La pronuncia sarà:
- fuori dal controllo delle parti stesse per quanto riguarda la procedura ed il risultato,
- una risposta alla sola domanda proposta,
- vincolante per tutte le parti.
Nei sistemi non vincolanti, invece, il terzo interviene in veste di facilitatore e non di decisore, con il preciso ed esclusivo compito di aiutare le parti nella ricerca di una soluzione.
L'intervento del terzo si svolge col pieno controllo delle parti, per quanto riguarda sia la procedura che il risultato, e sarà di ausilio potenzialmente determinante nella ricerca di una soluzione finalizzata non solo a dare risposta al petitum, ma a mettere in luce prospettive decisionali su elementi aggiuntivi spesso inconsapevolmente negletti dalle parti. Si pensi ad esempio alla ricerca delle vere ragioni del contendere, alla incapacità delle parti di comunicarsi le rispettive aspettative, alla convenienza di preservare una relazione futura tra le stesse parti.
Differenze tra i principali e più conosciuti metodi di risoluzione delle controversie.
- La sentenza è la decisione vincolante per le parti, assunta da un giudice.
In un sistema processualistico, improntato ad una stretta legalità, il decisore (giudice):
- è un organo istituzionale giudiziario;
- non può essere scelto liberamente dalle parti, essendo giudice naturale precostituito per legge;
- decide secondo diritto;
- la sua decisione consiste nella sola risposta al petitum (corrispondenza tra chiesto e pronunciato);
- la decisione è spesso insoddisfacente per entrambe le parti.
- L'arbitrato è un sistema vincolante di decisione di una controversia, con cui si attribuisce ad un privato (non appartenente all'ordine giudiziario) il potere di decidere.
L'arbitro non è individuato dalla legge, ma scelto dalle parti o da un terzo a seconda dei casi, e può decidere secondo diritto o secondo equità.
- Con l'arbitraggio, invece, le parti convengono che l'oggetto della prestazione di una di esse (es. il prezzo della cosa, l'oggetto della vendita) sia determinato da un terzo (arbitratore).
- Nella conciliazione, il terzo neutrale (conciliatore) è privo di potere decisionale, svolge il diverso compito di facilitatore, che aiuta le parti a comporre una controversia esplorando i rispettivi interessi, aiutando a meglio comprenderli e ponendo attenzione al solo problema e non più alla persona.
La conciliazione giudiziale e stragiudiziale [nota 1]
La conciliazione può ulteriormente essere suddivisa nelle due forme di conciliazione giudiziale e stragiudiziale. Si tratta di figure che, pur avendo come denominatore comune il termine "conciliazione", stanno ad indicare due realtà non sovrapponibili.
La conciliazione giudiziale si incardina nel sistema processualistico italiano improntato ad una rigorosa scelta di legalità e di tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, quali la possibilità universalmente riconosciuta di agire in giudizio, il diritto alla difesa, il principio del giudice naturale precostituito per legge, il principio del giusto processo, con i due corollari costituiti dalla esigenza di ragionevole durata dello stesso (purtroppo disattesa fino ad ora) e dal principio del contraddittorio.
La conciliazione giudiziale può pertanto definirsi un sistema chiuso, preciso, sistematico, completo, estremamente garantista, che trova fonte esclusiva nella legge e nel quale nulla è lasciato al caso.
Il terzo giudicante è un organo istituzionale giudiziario (il giudice); l'intero procedimento si svolge in un'aula giudiziaria, che di per sé comporta inevitabilmente un notevole condizionamento psicologico; la sua durata è imposta dalla legge e dal giudice; il costo è inevitabilmente rapportato, oltre al valore della causa, alla durata del processo, e non è preventivamente quantificabile; le parti non hanno alcun controllo sul procedimento né sul risultato, che sarà sempre e soltanto una risposta al petitum, confezionata necessariamente secondo diritto.
La conciliazione stragiudiziale (o meglio extragiudiziale, per utilizzare la terminologia utilizzata in ambito comunitario) è invece un procedimento strutturato, nel quale le parti tentano un componimento amichevole di una controversia, con l'assistenza del conciliatore scelto dalle parti, neutrale, indipendente ed imparziale, estraneo al sistema giudiziario e privo di potere decisionale.
Il conciliatore deve rispondere a precisi requisiti di professionalità e di idoneità, a garanzia dei quali è previsto un controllo a monte sulla sua formazione e sulla sua iscrizione agli organismi di conciliazione.
Il procedimento si svolge con garanzia e rispetto dei principi di neutralità del conciliatore, celerità, costo predeterminato, riservatezza e confidenzialità della procedura. Il risultato migliore è assicurato dal rapporto di piena fiducia che dovrebbe instaurarsi tra le parti ed il conciliatore.
La conciliazione stragiudiziale può trovare fonte nella volontà delle parti, in una richiesta proveniente dal giudice o nella legge (come ad esempio nel D.lgs. n. 5/2003).
La scelta del luogo di svolgimento dell'incontro è curata come elemento sensibile, nel senso di assicurare assenza di qualsiasi condizionamento psicologico negativo per le parti; i tempi di durata, sempre assai brevi, sono basati sulla reciproca disponibilità ed elasticità delle parti e del conciliatore; i costi sono preventivamente concordati e conosciuti; le parti mantengono sempre un assoluto controllo sulla procedura e sul risultato che può essere suggerito dal conciliatore anche con soluzioni originali, ed è comunque sempre rifiutabile dalle parti.
A proposito della differenza fra conciliazione giudiziale e stragiudiziale, viene spontaneo ricordare il celebre aforisma giuridico "summum ius, summa iniuria" [nota 2], che ben evidenzia come l'applicazione rigida della legge possa talvolta portare alle più gravi ingiustizie.
La conciliazione stragiudiziale [nota 3]
La conciliazione stragiudiziale si sta proponendo, anche in Italia, come primo strumento cui ricorrere per la risoluzione delle controversie.
Essa può essere definita come un procedimento informale, rapido ed economico con cui le parti stesse, con l'ausilio di un conciliatore professionale, esplorano la possibilità di una soluzione negoziata della controversia.
è lo stesso legislatore a indicare ormai sistematicamente e prioritariamente questa via per la soluzione di un conflitto, come meglio si vedrà di seguito e come avviene, per esempio, proprio nella recentissima normativa in tema di Patto di famiglia.
Il rinnovato ed attuale interesse per l'istituto della conciliazione discende, da un lato, dall'esigenza primaria di deflazione del contenzioso che assedia le aule di giustizia e, dall'altro lato, dalla conoscenza sempre più diffusa nel nostro Paese delle tecniche adr [nota 4] (alternative dispute resolution), sperimentate con tanto successo, a partire dagli anni 70 del secolo scorso, nei paesi di common law di matrice anglosassone e americana.
Definizione di conciliazione. Quando il legislatore indica la conciliazione come uno strumento per la risoluzione del contenzioso, intende fare riferimento a quel procedimento strutturato attraverso il quale le parti in lite tentano un autonomo componimento, con l'assistenza di un terzo neutrale (il conciliatore [nota 5]), privo di poteri decisionali.
Presupposti della conciliazione. Presupposti indispensabili ed imprescindibili della conciliazione sono la difficoltà o l'interruzione della comunicazione fra le parti in conflitto ed il conseguente fallimento del negoziato diretto. Questa situazione fa trovare le parti di fronte ad un bivio: scegliere l'intervento di un terzo che decida per esse (il giudice o un arbitro) o piuttosto tentare preliminarmente un componimento autonomo, con l'assistenza di un terzo, che le aiuti a trovare una soluzione di gradimento di tutte le parti in lite, ma non possa sostituirsi ad esse nella decisione.
In altri termini, la conciliazione si pone come uno step intermedio tra la constatazione del fallimento del negoziato diretto ed il ricorso all'intervento di un terzo giudicante, che avrà il preciso compito di trovare, ma nel contempo anche di imporre una soluzione, con la quale si darà per lo più inevitabilmente ragione alla pretesa di una parte e torto all'altra.
Nel senso sopra precisato, il termine "conciliazione", anche se costantemente utilizzato dal legislatore, è tuttavia improprio, essendo traduzione non certo letterale dell'istituto universalmente conosciuto come mediation [nota 6] al quale si ispira: si tratta di un compromesso linguistico certamente perfettibile, necessitato dall'esigenza di distinguere l'istituto dalla mediazione commerciale disciplinata nel codice civile italiano, il quale comporta tuttavia l'inconveniente di creare confusione rispetto alla figura della conciliazione giudiziale, con cui condivide il denominatore comune rappresentato dal nome, ma non la sovrapponibilità di procedure e risultati.
I vantaggi della conciliazione. Il conciliatore, a differenza di quanto avviene nel giudizio ordinario o nel processo arbitrale, non ha alcun potere decisionale, ma svolge il delicato e decisivo compito di aiutare le parti a considerare i loro reali interessi e non le semplici pretese che vengono espresse, ad elaborare possibili soluzioni del conflitto, anche creative ed innovative [nota 7] rispetto alle iniziali aspettative di ogni parte, che consentano ad entrambe le parti di "portare a casa" un risultato positivo voluto (soluzione cd. win-win [nota 8]) anziché subire passivamente l'imposizione di una decisione da parte di un terzo (quale il giudice o l'arbitro), con un vincitore ed un perdente (soluzione cd. win-lose) (se non addirittura due parti perdenti) e con una risposta alla sola domanda inizialmente avanzata dalle parti, senza tenere in alcun conto qualsiasi elemento non strettamente attinente.
Con l'intervento del conciliatore, la controversia è nella piena disponibilità delle parti, che rimangono uniche proprietarie della lite, hanno assoluto controllo sul procedimento di conciliazione, potendo interromperlo in qualsiasi momento, e pari controllo sul risultato, che sarà raggiunto solo se voluto e scelto dalle parti stesse.
A tutto ciò si devono aggiungere la rigorosa riservatezza che deve caratterizzare ogni procedura di conciliazione e l'intero suo svolgersi, sia perché quanto rivelato in quella sede non possa essere usato da una parte contro l'altra in sedi diverse (quale potrebbe essere una eventuale successiva sede giudiziaria), sia per evitare il clamore che determinate controversie potrebbero suscitare in un'aula di giustizia e l'eco inevitabile sui media.
Ulteriori vantaggi della conciliazione si possono agevolmente individuare nella rapidità del procedimento (da poche ore, ad un paio di giornate al massimo), che di per sé è già una vittoria per ogni parte, nei costi contenuti e prevedibili, certamente non paragonabili a quelli che comporta una procedura davanti ad un giudicante, nella possibilità concreta di preservare la relazione tra le parti, perché spesso la conciliazione ripristina quella comunicazione che si era interrotta ed offre spunti per ulteriori rapporti futuri, nel consentire materialmente ad una parte, se necessario, di chiedere scusa e di ottenere, con questo semplice gesto, risultati insperati che non si otterrebbero mai con una pronuncia giudiziale.
Non bisogna dimenticare, infatti, che molto spesso i veri motivi del contendere non sono propriamente quelli esplicitati nella domanda dell'attore, ma trovano origini pregresse di cui le parti stesse, nel tempo, perdono consapevolezza.
L'intervento del conciliatore serve proprio a comprendere e far comprendere cosa si vuole realmente, a cercare di ottenere soddisfacimento dei veri interessi di ciascuna parte, dando spazio e considerazione ad elementi spesso determinanti nel sorgere di una controversia, anche psicologici, quali il risentimento per uno sgarbo subito o il prendere coscienza della mancanza di colpa della controparte in relazione ad un evento dannoso patito.
Per sintetizzare, si può ben affermare che le procedure «adr non mirano soltanto a risolvere i conflitti, ma a trasformarli in opportunità, consentendo alle parti di ottimizzare le utilità che si possono trarre dall'accordo e soprattutto di padroneggiare meglio la realtà complessa in cui si opera». [nota 9]
Da ultimo, va sottolineato il fatto che il ricorso alla conciliazione non preclude e non pregiudica la possibilità di ricorrere ad una diversa soluzione del conflitto: se la procedura di conciliazione fallisce, le parti conservano inalterato il diritto di adire le vie ordinarie di risoluzione della controversia, facendo ricorso all'autorità giudiziaria o all'arbitrato.
In altri termini, se da un lato la conciliazione non limita in alcun modo i diritti anche costituzionalmente garantiti, quali il diritto di agire in giudizio e di difesa, dall'altro offre invece alle parti una opportunità di soluzione della lite potenzialmente molto interessante e vantaggiosa, della quale è davvero un peccato non avere conoscenza e non usufruire.
Funzionamento e ambito di applicazione della conciliazione. La conciliazione stragiudiziale non può e non deve essere vista come la panacea di tutti i mali: non tutte le controversie sono risolvibili con l'ausilio di un terzo facilitatore, ma indubbiamente il tentativo di conciliazione esperito secondo le tecniche adr consente di utilizzare le potenzialità di una soluzione negoziata voluta dalle parti e di lasciare come ultimo rimedio il ricorso al terzo decisore (sia esso arbitro o giudice) che imporrà la sua decisione, spesso insoddisfacente per gli interessi di ogni parte.
Lo strumento della conciliazione è potenzialmente utilizzabile in qualsiasi tipo di conflitto ed a qualsiasi livello.
Con i due esempi che seguono, tratti volutamente da contesti conflittuali estremi, si tenterà di meglio far comprendere l'efficacia e l'utilità dell'intervento di un terzo conciliatore nella risoluzione di un conflitto.
Il conflitto casalingo. L'arancia contesa. Chi ha avuto l'opportunità di seguire un corso di formazione per conciliatori stragiudiziali professionali ha incontrato l'esempio scolastico dell'arancia, di per sé sufficiente a dare la misura del valore aggiunto della conciliazione.
è notte, una sola luce illumina un grande condominio cittadino: corrisponde ad un appartamento nel quale vivono una madre di famiglia e le sue due gemelline di sette anni.
La quiete della famiglia è sconvolta da una lite tra le sorelline, senza esclusione di colpi: urli, pianti, tirate di capelli.
Il motivo del contendere è rappresentato dall'unica arancia rimasta nel frigorifero e dall'impossibilità oggettiva di reperirne un'altra in un negozio o da un vicino, in considerazione dell'ora tarda.
La madre, spazientita, dopo aver esperito tutti i tentativi a lei conosciuti per risolvere il problema, assume il ruolo di terzo decisore e fa quello che molte altre persone avrebbero istintivamente fatto al suo posto: prende in mano l'arancia, la taglia a metà e consegna ad ogni bimba l'esatta metà del frutto.
La decisione così imposta pone fine inevitabilmente alla lite, ma non ai pianti delle bimbe, che si sentono entrambe definitivamente private del bene cui aspiravano e non ottengono il risultato che corrisponde ad ogni singola aspettativa.
Se la mamma avesse assunto il ruolo di conciliatore stragiudiziale, anziché quello di decisore, ed avesse indagato i veri motivi del contendere con semplici domande aperte rivolte alle due bimbe, avrebbe scoperto, con estrema facilità, la chiave di volta del conflitto: esisteva, nel caso specifico, una soluzione negoziata che avrebbe consentito ad ogni bimba di ottenere il soddisfacimento del 100% del proprio interesse.
Una gemellina aspirava, infatti, a mangiare il frutto, mentre l'altra voleva solo la scorza, per farne canditi il giorno successivo a scuola.
Quell'unica arancia era potenzialmente idonea a soddisfare tutti gli interessi in gioco.
La difficoltà di trovare la soluzione negoziata ottimale, che nella fattispecie esisteva ed era anche agevolmente esperibile, è stata inficiata da:
- incapacità delle parti di comunicarsi le rispettive aspettative;
- iniziale difficoltà di comunicare;
- sopravvenuta interruzione della comunicazione con il sopravvento delle emozioni;
- aggravamento della situazione conflittuale con l'ingigantirsi del conflitto;
- intervento di un terzo che assume spontaneamente il ruolo più immediato di giudicante, abdicando inconsapevolmente a quello più difficile ma più prezioso di facilitatore.
Tutto ciò ha comportato un vero e proprio "disastro" negoziale, in quanto la soluzione decisoria imposta ha condotto:
- all'insoddisfazione di entrambe le parti per raggiungimento solo parziale (il 50%) del rispettivo interesse;
- spreco inutile e definitivo del 50% dell'unico bene in grado di soddisfare le esigenze dei contendenti;
- persistenza nella difficoltà di comunicazione tra le bimbe;
- persistenza tra le stesse della rivalità e della conflittualità;
- mancato ripristino di una buona relazione tra i contendenti, che continuerà ad essere conflittuale, uscendo entrambi dalla lite con l'animo del perdente e persistenti rivendicazioni.
Se, all'opposto, fosse stata svolta correttamente una procedura conciliativa, nella fattispecie facilmente perseguibile, il risultato ottenuto sarebbe stato caratterizzato da:
- pieno soddisfacimento di entrambi i contendenti;
- utilizzo al 100% del bene conteso;
- venir meno per soddisfacimento della rivalità e della conflittualità;
- miglioramento della relazione tra i contendenti, che verrebbe preservata se non addirittura migliorata.
Il conflitto politico internazionale. Un esempio questa volta non di scuola, ma tratto dalla storia recente, può essere significativo per trasferire l'esempio dell'arancia in un contesto di grave situazione di crisi politica internazionale.
Un famoso esempio storico di risultato positivo nascente dalla conciliazione si rinviene, infatti, negli accordi di Camp David [nota 10] del 17 settembre 1978, che risolvono positivamente uno dei grandi conflitti arabo-israeliani.
Il motivo della controversia, all'epoca, era il territorio del Sinai e trovava fonte nella guerra dei "sei giorni" del 1967, tra Egitto ed Israele, in cui l'Egitto perse la striscia di Gaza e la penisola del Sinai. Ne seguirono anni di acceso conflitto, sfociato anche in un perdente attacco armato sferrato dall'Egitto nel 1973 (guerra del Kippur).
La soluzione fu trovata grazie ad una mediation che si svolse a Camp David nel settembre 1978, allorché il Presidente degli Stati Uniti d'America Jimmy Carter, che svolse il delicato compito di facilitatore, riuscì a portare nel Maryland il Presidente egiziano Anwar Sadat ed il primo ministro israeliano Menachem Begin.
Accompagnati dai rispettivi team di abili negoziatori, l'incontro si svolse durante tredici giorni di intensa e drammatica negoziazione, nel corso dei quali spesso i leader di Egitto ed Israele furono sul punto di abbandonare l'incontro. La determinazione del Presidente Carter, nel perseguire la pace e la sua riluttanza a consentire alle due parti in lite di andarsene senza aver raggiunto un accordo, giocarono invece un ruolo decisivo sull'esito positivo dei colloqui.
Un ostacolo al negoziato era rappresentato anche dalla reciproca antipatia tra Begin e Sadat, tale da dover limitare i contatti diretti tra gli stessi.
Così il Presidente Carter svolse un ruolo di paziente ed incessante shuttle diplomacy [nota 11], attraverso meeting [nota 12] svolti separatamente con ognuna delle due parti, in quanto la situazione sconsigliava il ricorso ad incontri collettivi.
La pretesa identica e reciproca dei due contendenti (il possesso della penisola del Sinai) aveva impedito fino a quel momento una soluzione negoziata del conflitto.
La ricerca paziente degli interessi sottostanti svolta da un abile facilitatore consentì, invece, di accertare che l'Egitto era interessato a riconquistare la sua legale e simbolica sovranità sul territorio del Sinai, mentre Israele intendeva soltanto conservare quel territorio per garantirsi da un attacco a sorpresa dalle forze egiziane.
Si giunse così alla firma del trattato di pace di Camp David [nota 13], col quale, sul punto, la soluzione fu trovata con il soddisfacimento pieno degli interessi delle due parti: l'Egitto riconquistò la sovranità sul Sinai e la zona fu nel contempo demilitarizzata, onde garantire sicurezza al territorio Israeliano.
L'accordo di Camp David del 1978 pose fine così ad una guerra durata trentuno anni, ristabilì le relazioni diplomatiche tra i due firmatari e dissociò l'Egitto dal fronte arabo antisraeliano.
Si ricorda tuttavia che, purtroppo, due anni dopo, Sadat verrà assassinato da un estremista arabo contrario alla pace e in Medio Oriente il conflitto arabo-isareliano, sia pure collegato a cause ed eventi diversi, non conosce tregua neppure ai giorni nostri.
La procedura di conciliazione stragiudiziale [nota 14].«Non sono un arbitro, non sono un giudice, non ho nessun potere di emettere una decisione vincolante. Sono qui solo per aiutarvi a trovare una soluzione della controversia che risponda ai vostri interessi.»
Con questa frase, con cui si apre l'incontro di conciliazione, viene già definito il ruolo che il conciliatore è chiamato a svolgere quando l'invito di una parte in lite a sedersi ad un tavolo di conciliazione viene accolto positivamente dalla controparte.
La conciliazione stragiudiziale professionale secondo le tecniche adr, mutuate dai Paesi che con ottimi risultati vi fanno ricorso ormai da alcuni decenni, pur svolgendosi con libertà di forma e procedura, utilizza tecniche molto sofisticate affinatesi nel tempo.
In linea di massima l'incontro di conciliazione si svolge attraverso le seguenti fasi graduali e codificate nella prassi.
Preparazione. La fase preliminare è finalizzata ad accertare la volontà di tutte le parti ad incontrarsi per un tentativo di conciliazione, preparare parti e consulenti all'incontro, assicurarsi la presenza di tutti i partecipanti di rilievo, concordare gli aspetti logistici, temporali ed economici, spiegare il procedimento.
Si tratta di una fase delicata, prodromica alla buona riuscita della conciliazione stessa.
Il luogo scelto per l'incontro dovrà possibilmente essere neutrale, idoneo per ubicazione a soddisfare le normali esigenze quotidiane individuali, onde evitare qualsiasi tipo di condizionamento psicologico e/o disagio.
Si pensi ad esempio alla pressione psicologica che esercita invece un'aula di tribunale nel tentativo di conciliazione esperito davanti al giudice nella conciliazione giudiziale.
Pur nella libertà di stile loro attribuita, alcuni conciliatori preferiscono avere a disposizione un luogo che consenta l'utilizzo contemporaneo di stanze separate, non tutte fisicamente intercomunicanti tra loro, in numero tale da consentire incontri collettivi da alternare ad incontri individuali tra alcuni o più dei soggetti partecipanti.
è frequente vedere l'utilizzo di almeno tre stanze, di cui una centrale riservata agli incontri collettivi e le due laterali destinate ad ogni parte, con il conciliatore che si sposterà alternativamente da una all'altra (cd. shuttle diplomacy [nota 15]).
Il tempo da dedicare all'incontro, preventivamente concordato nel suo svolgersi tra il conciliatore e le parti, presuppone una reciproca disponibilità, sufficiente ad evitare negative pressioni psicologiche. Normalmente una conciliazione si svolge in un tempo che può variare in media da qualche ora ad un paio di giornate al massimo.
Fase di apertura. Il primo incontro collettivo nel luogo deputato presuppone la presenza congiunta del conciliatore, di tutte le parti e dei rispettivi consulenti.
Si tratta di un momento molto delicato in cui al conciliatore è affidato il difficile ruolo di fare da catalizzatore delle tensioni scatenate dall'incontro fisico delle parti litiganti e, nel contempo, costruire il rapporto di fiducia di tutti i partecipanti nei confronti suoi e della procedura. A questo scopo, la stessa disposizione della sala e dei posti a sedere è oggetto di particolare attenzione, dovendo confermare l'aspettativa delle parti di trovarsi di fronte ad un conciliatore neutrale ed equidistante.
In quest'ottica, il discorso di apertura del conciliatore rappresenta un momento cruciale del procedimento. Egli dovrà:
- definire in modo molto chiaro la sua posizione di soggetto neutrale, privo di potere decisionale;
- descrivere il ruolo di tutti i partecipanti nel corso della procedura;
- descrivere lo svolgimento sommario della procedura stessa (ad esempio susseguirsi di incontri individuali ad altri collettivi, libertà di forma, ecc.),
- puntualizzare la necessità imprescindibile di assoluta riservatezza del procedimento sia tra le parti stesse che nel loro rapporto col conciliatore, con espresso impegno di quest'ultimo a non rivelare mai a controparte le informazioni di cui venga a conoscenza, se non su espressa richiesta del dichiarante;
- instaurare il rapporto di fiducia nei confronti di ogni singolo partecipante, con utilizzo consapevole di tutti gli strumenti che consentano di instaurare una buona comunicazione (ad esempio, contatto visivo, linguaggio del corpo, mantenimento costante di posizione di neutralità);
- informare le parti del fatto che conservano sempre assoluto controllo sulla procedura e sul risultato, potendo, ad esempio, interrompere definitivamente in qualsiasi momento la seduta di conciliazione, potendo trovare ed accettare una soluzione negoziata solo se voluta e gradita, potendo chiedere addirittura la sostituzione del conciliatore;
- dare assicurazioni sul fatto che quanto verrà detto in sede di conciliazione non sarà mai utilizzato in una diversa successiva sede contenziosa, ove il terzo svolgerà il ruolo non più di facilitatore, ma di giudicante.
Seguiranno una presentazione succinta del caso da parte dei partecipanti, la definizione dei tempi e del programma della negoziazione.
è importante che il conciliatore conservi sempre l'assoluto controllo della procedura (tempi, andamento del procedimento, stato del negoziato), in tutte le sue fasi, nonché delle emozioni (sia proprie che dei partecipanti).
Esplorazione. è la fase nella quale la peculiarità del ruolo di facilitatore, proprio del conciliatore, viene esaltata.
Egli utilizzerà sperimentate tecniche psicologiche e di comunicazione per:
- acquisire il maggior numero possibile di informazioni, tutte rigorosamente confidenziali;
- separare le parti dal problema, ricercando i reali interessi delle stesse;
- individuare la cd. zopa [nota 16] (acronimo per "zone of possible agreement"), formandosi così una precisa opinione sul concreto margine di probabilità di condurre le parti ad una soluzione negoziata e/o sulla necessità di trovare soluzioni outside the box [nota 17];
- facilitare la comunicazione fra le parti, facendo superare blocchi emotivi, attirando l'attenzione su aspetti particolari, utili per una soluzione anche innovativa, condurre a considerare la priorità di un accordo amichevole, far ragionare le parti su problemi specifici, suggerire nuove ipotesi di soluzione, aiutare le parti a comprendere meglio il problema, a valutare realisticamente le loro rispettive posizioni di forza e di debolezza [nota 18], esplorare le possibilità di un accordo;
- procurarsi l'assenso per proposte di transazione;
- aiutare le parti nel negoziare un accordo accettabile per entrambe.
Il ruolo del conciliatore in tal senso è definito di conciliazione facilitativa.
Tendenzialmente il conciliatore dovrebbe limitarsi a tale ruolo, evitando di verificare, invece, la fondatezza delle pretese delle parti e di esprimere opinioni in tal senso: facendo così, si entra nel campo della diversa conciliazione valutativa, cui si fa ricorso nei soli ristrettissimi casi in cui sia espressamente richiesto dalle parti, ma che comporta il rischio di compromettere la neutralità dell'approccio del conciliatore e, quindi, la potenziale buona riuscita della procedura.
Fase di negoziato. Nel corso di questa fase, il compito del conciliatore consiste nel lasciar gestire alle parti i loro problemi, con i tempi necessari secondo le circostanze, evitare precoci prese di posizione, aiutare i partecipanti a superare inevitabili fasi di stallo [nota 19], enfatizzare la creatività delle possibili soluzioni.
In questa fase assumono ancora una volta rilievo determinante i ripetuti incontri individuali del conciliatore con ciascuna parte alternativamente, al fine di verificare le relative pretese ed identificare gli spazi di manovra per un accordo, sempre con la più assoluta confidenzialità e ferma rimanendo comunque la possibilità, a discrezione del conciliatore, di alternare caucus [nota 20] individuali a riunioni collettive, più o meno collegiali.
Il negoziato tra le parti si svolge con il prezioso ausilio del terzo neutrale, in grado di veicolare le informazioni delle parti stesse: il conciliatore trasmetterà come proprie le singole proposte che consentono di progredire nella trattativa e che verranno recepite dalla controparte con l'attenzione che meritano oggettivamente, anziché con l'inevitabile atteggiamento di chiusura che si avrebbe nel ricevere una proposta proveniente direttamente dalla controparte (cd. svalutazione reattiva).
Fase conclusiva. Se le fasi precedenti hanno portato ad individuare un possibile accordo di gradimento di entrambe le parti, saranno le stesse a volerlo ed accettarlo.
In questa fase il conciliatore, che ha assistito le parti nel negoziato, si adopererà perché l'accordo sia equo ed il migliore possibile per ogni interesse in gioco, sia potenzialmente idoneo a durare nel tempo, consenta di preservare la relazione, risolva le questioni controverse e non lasci adito a controversie future.
La forma dell'accordo è rimessa alla discrezionalità delle parti, a meno che la legge o il contenuto dell'accordo stesso non richiedano un formalismo specifico.
In caso di esito negativo, invece, l'incontro di conciliazione si chiude con la verbalizzazione del mancato raggiungimento dell'accordo. In tale evenienza, è preciso compito del conciliatore adoperarsi perché le parti siano poste in condizione, anche psicologica, di riprendere le trattative, magari utilizzando in un secondo momento l'esperienza della conciliazione come punto di partenza per una soluzione negoziata, oppure nel senso di aiutarle a gestire la controversia facendo ricorso ad una diversa procedura di soluzione, in cui l'intervento del terzo, che non dovrà mai coincidere con la persona del conciliatore, sia di tipo decisionale.
La conciliazione nella normativa italiana
La normativa italiana è caratterizzata, negli ultimi anni, da un rinnovato interesse per l'istituto della conciliazione, che ha visto, col decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5, l'introduzione di una disciplina organica della conciliazione stragiudiziale e l'incentivazione di quella giudiziale.
Se da un lato la normativa è stata salutata come una novità e costituisce ora il riferimento normativo sistematico in materia, dall'altro lato sarebbe più corretto parlare non di novità, ma piuttosto di rinnovato interesse per un istituto quasi caduto in desuetudine nei tempi moderni.
Già nel codice di procedura civile del Regno d'Italia, di cui al R.D. 25 giugno 1865, infatti, il libro primo, capo primo (Titolo preliminare "Della conciliazione e del compromesso") dedicava i primi sette articoli, di sorprendente attualità, alla disciplina analitica della conciliazione.
Successivamente l'istituto della conciliazione veniva rafforzato ed ampliato con la legge n. 261 del 1892.
Data l'oggettiva impossibilità di avere resoconti statistici sulla sua efficacia in quel periodo storico, si può solo prendere atto della sua evoluzione, che ha condotto, in tempi moderni, ad attribuire al Giudice di Pace (già denominato giudice conciliatore fino all'entrata in vigore della legge 26 novembre 1990, n. 353, modificata dalla legge 21 novembre 1991 n. 374, in vigore dal 1 maggio 1995) la funzione di svolgere una forma di conciliazione preventiva rispetto all'instaurarsi del processo civile. Esso può infatti essere investito di un ruolo atipico rispetto a quello istituzionale di emissione di una pronuncia di carattere giurisdizionale, potendo essere adito anche oltre le sue normali attribuzioni di competenza previste dalla legge, al solo e limitato scopo di effettuare un tentativo ufficiale di componimento (art. 322 c.p.c.) [nota 21].
Nonostante la conciliazione sia stata relegata in posizione complementare nel codice di procedura civile del 1940, non mancano numerose normative, fin dall'inizio del secolo scorso, che fanno rinvio all'istituto qui in esame.
Si segnalano così interventi legislativi ripetuti, che contengono una espressa previsione di risoluzione delle controversie attraverso un tentativo di conciliazione: ad esempio in tema di usi civici [nota 22], liti davanti ai tribunali delle acque pubbliche [nota 23], controversie agrarie [nota 24], controversie individuali di lavoro [nota 25], controversie in materia di locazione, comodato di immobili urbani e affitto di aziende [nota 26], contratto di subfornitura [nota 27], controversie tra utenti e soggetti esercenti un servizio di pubblica utilità [nota 28], nonché in materia di comunicazione per le controversie devolute all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni [nota 29].
Si segnala anche il ruolo storico determinante svolto dalle Camere di commercio in materia di conciliazione, ricordando, a titolo di indicazione sommaria:
- la legge 29 dicembre 1993, n. 580, che attribuisce alle medesime la possibilità di istituire commissioni conciliative ed arbitrali per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori;
- la legge 30 luglio 1998, n. 281, sulla disciplina dei diritti dei consumatori, che prevede una procedura di conciliazione dinanzi alle Camere di commercio, da definirsi entro 60 giorni, con un processo verbale di conciliazione che diverrà titolo esecutivo dopo l'omologazione del Tribunale;
- la legge 29 marzo 2001, n. 135, in materia di turismo, a norma della quale le Camere di commercio sono tenute a costituire le commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori ed utenti, inerenti la fornitura di servizi turistici (art. 4 ultimo comma);
- l'art. 3 della legge 22 febbraio 2006, n. 84, che attribuisce alle regioni il compito di promuovere, d'intesa con le camere di commercio, ai sensi dell'art. 2, comma 4, lettera a) della legge n. 580/1993, la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la definizione delle controversie tra imprese che svolgano l'attività professionale di tintolavanderia e consumatori.
La normativa che segna, invece, storicamente l'ingresso, nel nostro ordinamento, con la sua entrata in vigore risalente al 1° gennaio 2004, di una disciplina organica per la conciliazione stragiudiziale ed incentiva decisamente la conciliazione giudiziale, trova fonte nella delega governativa di cui alla legge 3 ottobre 2001, n. 366 ed esplicitazione nel decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 [nota 30], in materia societaria, di intermediazione mobiliare ed in materia bancaria, cui hanno fatto seguito i relativi regolamenti attuativi. [nota 31]
Si tratta di una normativa che si pone volutamente come speciale (anche se in un quadro giuridico purtroppo privo di una normativa generale) e si inserisce nel più vasto ambito della riforma organica del processo civile, ponendosi come obiettivo un effetto deflattivo del contenzioso ed una risposta alla crisi del processo civile, troppo lungo, lento, dispendioso.
I cardini principali della normativa introdotta con il D.lgs. n. 5/2003 sono così sintetizzabili:
- potenziamento dell'arbitrato;
- incentivo della conciliazione giudiziale;
- innovativa previsione di una disciplina della conciliazione stragiudiziale.
L'ambito di applicazione del D.lgs. n. 5/2003 è indice del profondo impatto della nuova normativa nel nostro sistema giuridico ed economico, indirizzandosi a:
- rapporti societari, compresi il trasferimento di partecipazioni sociali ed i patti parasociali;
- rapporti in materia di intermediazione mobiliare;
- materia bancaria.
In estrema sintesi, le novità di maggior rilievo riguardano in particolare:
- introduzione di una figura di arbitrato sui generis, con caratteristiche che lo differenziano da quello disciplinato dal codice di procedura civile;
- previsione della sanzione della nullità per alcune clausole compromissorie: in particolare quelle che rimettano a soggetto non estraneo alla società la nomina degli arbitri;
- apertura alla conciliazione e addirittura (per la prima volta nell'ordinamento giuridico italiano) previsione di una sua disciplina;
- maggioranza qualificata ed inderogabile (se non nel senso di elevarla) per l'introduzione e la soppressione di clausole compromissorie.
è infatti prevista, dalla nuova normativa, una maggioranza qualificata (2/3 del capitale sociale) per introduzione o soppressione di clausole compromissorie. Si tratta di una maggioranza più elevata di quanto normalmente non richiedano le modifiche statutarie, tranne per le società di persone dove le modifiche statutarie sono invece deliberate all'unanimità.
L'introduzione o soppressione di dette clausole comporta, poi, il diritto dei soci dissenzienti di recedere dalla società, qualunque essa sia.
Come meglio vedremo di seguito, proprio il D.lgs. n. 5/2003 costituisce la normativa cui fa rinvio la recente novella in tema di Patto di famiglia, all'art. 768-octies c.c.
Dall'entrata in vigore del D.lgs. n. 5/2003, infatti, si stanno susseguendo continui interventi legislativi che, facendo rinvio alla normativa appena richiamata, quasi a volerla far assurgere a testo unico di riferimento, lasciano chiaramente intendere il nuovo rinnovato interesse e ruolo che lo stesso legislatore vuole attribuire alla conciliazione come primo strumento di risoluzione delle controversie.
Si ricordano a questo proposito la nuova disciplina dell'affiliazione commerciale (franchising) [nota 32], il codice del consumo [nota 33], la normativa per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari [nota 34], il nuovo art. 768-octies del codice civile, introdotto con legge 14 febbraio 2006, n. 55, istitutivo, nel nostro ordinamento, del Patto di famiglia.
Si segnala, infine, il decreto ministeriale 1 luglio 2002, n. 743, che istituisce e disciplina la Camera arbitrale e lo Sportello di conciliazione per la risoluzione semplificata delle controversie di competenza dell'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) ed il recentissimo decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali 3 marzo 2006, che detta le relative procedure tecniche.
Il provvedimento è stato emanato nella dichiarata finalità di consentire il pieno utilizzo delle risorse assegnate all'Italia dall'Unione europea, nel rispetto dei termini previsti dai regolamenti comunitari per la rendicontazione, da parte dell'Agea, delle spese legittimamente sostenute nell'annualità di riferimento.
L'esigenza e l'urgenza di definire tutte le controversie eventualmente insorte entro i suddetti termini di rendicontazione, onde evitare un danno sia ai beneficiari che allo Stato, ha così indotto il legislatore a prevedere una semplificazione e l'accelerazione delle procedure di risoluzione delle controversie in cui l'Agea sia l'unica parte pubblica, col ricorso sistematico a "strumenti alternativi ai giudizi ordinari", ossia alla conciliazione ed all'arbitrato.
Il decreto 3 marzo 2006 detta così una disciplina analitica e completa delle procedure arbitrali e di conciliazione, strutturata nella logica di assicurare "trasparenza, imparzialità e correttezza", nel rispetto degli imprescindibili principi di:
- indipendenza delle strutture arbitrali e di conciliazione, rispetto ai soggetti interessati alle controversie;
- tempestività della risoluzione delle controversie entro termini compatibili con le esigenze Ue;
- trasparenza ed economicità delle procedure rispetto alle procedure ordinarie;
- definizione di un codice deontologico che sottolinei "l'alta qualificazione tecnica, professionale e morale degli arbitri";
- strutturazione del procedimento in modo analitico e completo, onde eliminare ogni profilo discrezionale nella gestione delle strutture arbitrali e di conciliazione.
Per quanto riguarda, in particolare, la conciliazione, è previsto sia il ricorso obbligatorio alla stessa per tutte le controversie il cui valore non superi 20.000 euro, sia il tentativo obbligatorio di conciliazione nella prima udienza del collegio arbitrale (ove consentito dalla natura della controversia), con possibilità di rinnovo in ogni successiva fase istruttoria.
Per quanto riguarda, infine, la conciliazione giudiziale [nota 35], non essendo questa la sede per una trattazione esauriente, ci si limiterà a ricordare che, nel testo novellato del codice di procedura civile, in vigore dal 1° marzo 2006, il tentativo di conciliazione trova la sua autonoma disciplina nell'art. 185 c.p.c.: non è più previsto come normale iter processuale nel corso della prima udienza di trattazione [nota 36], ma è subordinato alla richiesta congiunta delle parti, in seguito alla quale il giudice istruttore fisserà una nuova udienza ad hoc per la comparizione personale delle parti, o alla facoltà riconosciuta allo stesso giudice di fissare, ex art. 117 c.p.c., la predetta udienza, in entrambi i casi finalizzata all'interrogatorio libero delle parti ed alla provocazione della conciliazione.
è comunque riconosciuta al giudice la facoltà di ordinare, in qualunque stato e grado del giudizio, la comparizione personale delle parti per procedere all'interrogatorio libero delle stesse ed espletare il tentativo di conciliazione, con facoltà delle parti di farsi rappresentare, analogamente a quanto previsto in materia di processo del lavoro, da un procuratore generale o speciale, che deve essere a conoscenza dei fatti di causa e deve essere nominato con atto pubblico o scrittura privata autenticata, contenente l'espresso conferimento dei poteri di conciliare o transigere la controversia (art. 185 c.p.c.).
Sempre in materia di conciliazione giudiziale, si segnala il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto nei procedimenti di separazione personale dei coniugi (art. 708 c.p.c. [nota 37]) e di divorzio (legge 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, che disciplina i casi di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio).
Vi è infine da ricordare l'importanza che assume, anche in sede di conciliazione giudiziale, la normativa prevista dal D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, il quale, a partire dal 1° marzo 2006, in virtù del nuovo art. 70-ter disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, [nota 38] può costituire il rito di riferimento per qualsiasi processo civile, su espressa e concorde scelta delle parti, da esplicitarsi nel contenuto della citazione per l'attore e nel rispetto di precise formalità di notifica della comparsa di risposta per il convenuto.
L'art. 12, terzo comma, del D.lgs. n. 5/2003 attribuisce, infatti, al giudice il potere di operare un tentativo preliminare di conciliazione, nel processo di cognizione di primo grado, sia davanti al tribunale in composizione collegiale, sia davanti al tribunale in composizione monocratica (in virtù del rinvio contenuto nell'art. 18 del D.lgs. n. 5/2003).
Si segnalano, infine, la pluralità di iniziative parlamentari degli ultimi anni, con numerosi progetti di legge sul tema della conciliazione [nota 39], a testimonianza della sua attualità e dell'importanza che la stessa va assumendo nel nostro ordinamento.
La conciliazione nella normativa comunitaria
Al sempre più ricorrente ricorso del legislatore a sistemi di risoluzione delle controversie "alternativi" o meglio diversi e preventivi rispetto al processo civile ordinario, non sono certamente estranee le istanze dell'Unione europea, che creano all'Italia non poche problematiche, in ordine al recupero dell'arretrato nel campo della giustizia.
Sono stati adottati strumenti mirati ad affrontare la questione, quali la legge Pinto del 24 marzo 2001, n. 89 o il ricorso alla magistratura onoraria, che ha visto tra l'altro impegnato in prima fila lo stesso notariato già con la legge 22 luglio 1997, n. 276 (disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di giudici onorari aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari).
Purtroppo il problema dell'arretrato della giustizia è un malato grave, le cui condizioni peggiorano con le numerose sentenze di condanna dell'Italia da parte della Corte europea.
Si tenta ora una nuova terapia "sperimentale", potenzialmente molto efficace, incentivando il ricorso a strumenti di risoluzione delle controversie che assicurino tempi celeri, unitamente a spese più contenute, sulla scia dello stesso progetto dell'Unione europea tendente a realizzare uno spazio comune di giustizia europeo, con il preciso obiettivo di migliorare la composizione delle controversie e l'accesso alla giustizia.
A livello comunitario, tale progetto, già in avanzato stadio di realizzazione, prese concreto avvio con la raccomandazione del 30 marzo 1998 e la raccomandazione del 4 aprile 2001, relativamente ai principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo, per giungere poi al Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, redatto dalla Commissione delle Comunità europee, presentato a Bruxelles il 19 aprile 2002 e contenente un vero e proprio mandato politico.
Col Libro verde, viene esplicitata la priorità politica attribuita all'adr per le istituzioni dell'Unione europea, viene avviata un'ampia consultazione fra vari paesi europei su un certo numero di questioni di ordine giuridico nel campo della risoluzione alternativa delle controversie in settori diversi da quelli della tutela dei consumatori e, precisamente, in materia civile e commerciale, con l'obiettivo di sensibilizzare il più vasto pubblico possibile e promuovere le conseguenti concrete iniziative legislative ed operative da adottare, onde migliorare l'accesso alla giustizia.
Successivamente, la Commissione europea, nell'intento di incentivare il ricorso a forme alternative di risoluzione delle controversie e nel rispetto di un ben preciso programma operativo, giunse alla presentazione, il 2 luglio 2004, del codice europeo di condotta per conciliatori e, il 22 ottobre 2004, della collegata e complementare proposta di direttiva su alcuni aspetti della conciliazione in materia civile e commerciale [nota 40], attualmente in discussione al Parlamento europeo ed al Consiglio dell'Ue.
Detta direttiva, nel dichiarato intento di facilitare l'accesso alla risoluzione delle controversie, promuovendo il ricorso alla conciliazione, prevede, tra l'altro, che gli Stati membri adottino, entro un termine da definirsi, tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi ai suoi dettami.
In ordine alla suddetta direttiva, ed in attesa di conoscere il rapporto del Parlamento europeo previsto per il mese di giugno 2006, si segnala l'audizione pubblica organizzata dalla Commissione parlamentare "Juri - Affari giuridici" presso il Parlamento europeo lo scorso 20 aprile 2006, dove si sono dibattuti i termini più rilevanti della questione e da cui emergono due elementi significativi: da un lato gli ottimi risultati della conciliazione nei Paesi in cui la stessa è praticata e ben sviluppata (Regno Uniti e Paesi Bassi per quanto riguarda l'Europa) e dall'altro lato l'ancora pressoché inesistente ricorso alla conciliazione in tutti gli altri paesi in cui è poco conosciuta.
Il messaggio chiaro, che proviene dagli esperti riunitisi presso il Parlamento europeo, è nel senso di ribadire ancora una volta l'intrinseco successo della conciliazione nella risoluzione delle controversie e la necessità di diffonderne la conoscenza, onde incentivarne l'utilizzo laddove sia ancora "mal" conosciuta.
Il nostro Paese rientra purtroppo in quest'ultima casistica, ma ha buone possibilità, grazie ai continui interventi legislativi di favore, di far entrare in tempi brevi, nel patrimonio di conoscenze comuni di ciascun cittadino, i vantaggi del ricorso alla conciliazione come primo strumento per affrontare efficacemente una controversia.
La conciliazione nel Patto di famiglia
La stabilità del rapporto derivante dai Patti di famiglia è la maggiore preoccupazione dei primi interpreti della nuova normativa.
La motivazione trova origine nel fatto che ci si muove in un campo minato da elevatissime potenzialità di conflitto: siamo nella delicata materia dei patti successori con un'eccezionale deroga al loro divieto e dei diritti dei legittimari, fra i quali preoccupano coloro che siano pretermessi o sopravvenuti.
A ciò vi è da aggiungere la natura degli interessi in gioco, tutti estremamente sensibili, quali, da un lato, l'interesse dell'impresa, col suo valore sociale e con la centralità che assume e, dall'altro lato, i rapporti di famiglia.
Nel predisporre e redigere un Patto di famiglia, il Notaio è quindi tenuto non solo alla normale indagine sulla volontà delle parti ed a perseguire la redazione di un contratto giuridicamente valido ed idoneo allo scopo, ma che dia le maggiori garanzie possibili di stabilità nel tempo, disinnescando tutti gli "ordigni minati" che in quel momento siano individuabili.
In quest'ottica si pone anche la valutazione di inserire nel Patto di famiglia una clausola di conciliazione, che integri la previsione legislativa di cui all'art. 768-octies c.c. ed eviti qualsiasi contenzioso sull'operatività automatica ed immediata della conciliazione.
In altri termini, l'intervento del Notaio nella redazione dell'atto dovrebbe essere finalizzato a fare in modo che, quel salvagente che il legislatore si è preoccupato di prevedere in caso di controversia, sia immediatamente disponibile al bisogno, proprio perché un conflitto potrebbe essere devastante per la delicatezza degli interessi in gioco.
Il primo esame letterale del nuovo art. 768-octies c.c. porta ad individuare nella conciliazione, cui il legislatore fa rinvio in materia di Patto di famiglia, le seguenti caratteristiche:
a) si tratta di una forma di conciliazione obbligatoria;
b) si tratta di una conciliazione stragiudiziale;
c) si tratta di una conciliazione devoluta ad un soggetto predeterminato: gli organismi di conciliazione indicati nella norma.
Conciliazione obbligatoria. Il legislatore indica molto chiaramente l'intenzione di sottrarre alle parti in lite per un Patto di famiglia la possibilità di adire in via immediata ed in prima battuta l'autorità giudiziaria.
Il tenore letterale della norma è infatti nel senso di stabilire che «le controversie…» relative ad un Patto di famiglia «sono devolute preliminarmente a…».
Il verbo utilizzato è il verbo essere. La prima osservazione scaturisce da una lettura in negativo, nel senso che non è stata utilizzata una diversa possibile opzione quale poteva essere la scelta del verbo dovere, ma neppure quella del verbo di ben diverso significato potere. A questo proposito, si nota che la tecnica legislativa utilizzata è letteralmente diversa da quella che si rinviene nella recente normativa sull'affiliazione commerciale, ove si legge invece: «per le controversie relative ai contratti di affiliazione commerciale, le parti possono convenire che, prima di adire l'autorità giudiziaria o ricorrere all'arbitrato, dovrà essere fatto un tentativo di conciliazione…» (art. 7 legge 6 maggio 2004, n. 129).
Escludendo, quindi, che possa essere frutto del caso la scelta della terminologia nel Patto di famiglia, la precisa intenzione del legislatore pare proprio essere quella di escludere l'autonomia privata, per quanto riguarda la scelta del primo modo con cui affrontare una controversia.
Alla disposizione qui in commento non può quindi attribuirsi altro significato che quello di indicare una precisa ed esplicitata intenzione del legislatore di rendere obbligatorio il tentativo di conciliazione, sostituendosi all'autonomia privata nella libertà di scelta dello strumento con cui affrontare in prima battuta una controversia, anzi addirittura operando già una precisa scelta al posto delle parti ed imponendola alle stesse.
Qualora le parti in lite si trovino al bivio cui sopra si faceva riferimento ed al quale le conduce il fallimento del negoziato diretto, il legislatore indica la strada da seguire, anzi l'autostrada da imboccare, quasi si trattasse di un senso unico, spostando la possibilità di una eventuale scelta più avanti, ossia al punto in cui anche il tentativo di conciliazione sia fallito e le parti si trovino a decidere quale organo giudicante scegliere: un organo giurisdizionale (il giudice) o un giudice privato (l'arbitro).
Sanzione per inosservanza del precetto legislativo. Ci si interroga sulle conseguenze dipendenti dal mancato esperimento del tentativo di conciliazione disposto dall'art. 768-octies c.c.
Se le parti disattendono l'indicazione del legislatore, omettendo di effettuare il preventivo tentativo di conciliazione e ricorrendo all'autorità giudiziaria ordinaria o ad un arbitro, pur nel silenzio del legislatore, la conseguenza sarà quella della improcedibilità della domanda.
La relativa eccezione può essere sollevata da una delle parti o anche dal giudice d'ufficio.
A sostegno di questa interpretazione depongono sia la lettera della legge, che prevede la devoluzione preliminare della controversia ad un organismo di conciliazione, sia l'espressa previsione legislativa in tal senso in fattispecie simili [nota 41], sia infine la giurisprudenza da sempre conforme sul punto [nota 42].
Conciliazione stragiudiziale. La precisa scelta del legislatore nell'art. 768-octies c.c. è nel senso di attribuire la competenza per l'effettuazione del tentativo di conciliazione in tema di Patto di famiglia a soggetto diverso da un terzo giudicante (giudice o arbitro).
In altri termini, il legislatore indica la strada della conciliazione stragiudiziale, scelta e preferita rispetto alla conciliazione giudiziale, come si desume dal fatto che gli organismi di conciliazione indicati nell'art. 38 del D.lgs. n. 5/2003 possono essere esclusivamente enti pubblici o privati e, quindi, non certamente organi incardinati nel sistema giudiziario.
Sottraendo il tentativo di conciliazione alla competenza del giudice, si è senz'altro privilegiata la potenzialità risolutiva della conciliazione stragiudiziale.
Competenza per la conciliazione. Come già precisato, il soggetto cui è legislativamente attribuita la competenza all'espletamento del tentativo di conciliazione previsto dal nuovo art. 768-octies c.c. è predeterminato ed indicato in «uno degli organismi di conciliazione previsti dall'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5» [nota 43].
Si tratta di una competenza che può definirsi tassativa, esclusiva ed inderogabile, ma sulla quale è necessaria qualche riflessione.
Preliminarmente si può affermare che una tale previsione legislativa esclude certamente la competenza del giudice ad effettuare il tentativo di conciliazione.
è legittimo, tuttavia, chiedersi se le parti possano volontariamente, sulla base di un comune accordo, scegliere un organismo di conciliazione che non corrisponda ai requisiti indicati dal D.lgs. n. 5/2003 e se, su questa scelta, nel caso in cui il tentativo fallisca, possa intervenire il giudice, sia nel senso di ritenere non effettuato il preliminare tentativo di conciliazione nel modo indicato dal legislatore, sia invitando, o meglio costringendo le parti ad un nuovo tentativo innanzi a soggetto abilitato.
Sul punto, le precise indicazioni del legislatore sembrano lasciare poco spazio all'autonomia privata e alla libertà di scelta, essendo dovute alle imprescindibili esigenze di assicurare che, in un settore delicato come quello dei rapporti familiari, siano sfruttate tutte le possibilità per trovare un componimento amichevole di una eventuale lite.
Elementi costitutivi della fattispecie. Gli elementi costitutivi della fattispecie qui in esame possono scindersi in elementi oggettivi ed elementi soggettivi.
Elementi oggettivi. Quanto agli elementi oggettivi, si premette che la conciliazione può riguardare soltanto diritti disponibili, ragione per cui, in tema di Patto di famiglia, in considerazione dei delicati profili che una controversia può coinvolgere, assumono particolare rilevanza tutti i divieti stabiliti in materia di successioni a causa di morte, a tutela, ad esempio, dei diritti su una successione non ancora aperta o di rinuncia ai medesimi. Si pensi, ad esempio, al divieto dei patti successori, che permane nonostante l'eccezione introdotta col Patto di famiglia (art. 468 c.c.), o ai diritti spettanti ai legittimari (artt. 553 ss. c.c.).
Non sarà pertanto possibile, in sede di conciliazione stragiudiziale, così come non è possibile in sede negoziale, rinunciare ad esempio ad una successione futura o disporre di una successione futura, né sarà possibile per un legittimario rinunciare all'azione di riduzione di una donazione finché vive il donante (art. 557 c.c.).
Elementi soggettivi. La conciliazione stragiudiziale disciplinata dall'art. 768-octies c.c. può coinvolgere in primis gli stessi soggetti contraenti intervenuti nel Patto di famiglia, ma certamente anche quei soggetti che il legislatore ha indicato come partecipanti al contratto anche se non assegnatari: così il coniuge dell'imprenditore che ha trasferito l'azienda o le partecipazioni sociali, nonché coloro che sarebbero i legittimari del disponente, ove in quel momento si aprisse la successione.
Sull'individuazione soggettiva di questi ultimi, è ovvio che incide la mutevolezza collegata a tale qualifica, definibile in modo assoluto soltanto all'apertura della successione.
è infatti possibile che, all'apertura della successione dell'imprenditore disponente, colui che era legittimario al momento della conclusione del Patto di famiglia sia premorto, oppure che il numero dei legittimari sia aumentato/cambiato per sopravvenienza di figli o di un matrimonio del disponente.
Non si può nemmeno escludere che siano coinvolti, nella lite collegata ad un Patto di famiglia, legittimari che non abbiano partecipato al contratto, legittimari pretermessi, loro eredi o aventi causa, ecc.
In generale, si può quindi osservare che la controversia collegata ad un Patto di famiglia non può e non deve necessariamente coinvolgere le stesse parti contrattuali dello stesso o i soggetti intervenuti nel relativo contratto, ma può riguardare anche soggetti non intervenuti o originariamente estranei allo stesso.
La formulazione generica dell'art. 768-octies c.c. («controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo») consente senz'altro di affermare che la previsione normativa si riferisce a tutte le controversie (disponibili) che siano collegate o collegabili alla conclusione di un Patto di famiglia, nonché a tutti i soggetti coinvolti.
Si potrà trattare, pertanto, di controversie che trovino origine nella conclusione, modifica o scioglimento del contratto qualificabile come Patto di famiglia e riguardino, pertanto, i diritti del disponente, degli assegnatari, degli intervenuti non assegnatari, di tutti gli altri soggetti cui la legge attribuisce un potere di intervento o un diritto da tutelare nella materia di in commento.
Il tipo di rinvio effettuato dal legislatore. La tecnica legislativa. L'art. 768-octies c.c., prevedendo che «le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo» siano «devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5», utilizza una tecnica legislativa che, dal punto di vista letterale, comporta un rinvio soltanto agli organismi di conciliazione indicati, ma non all'intero titolo VI del D.lgs. n. 5/2003 e quindi, non necessariamente, all'intera disciplina dettata per la conciliazione stragiudiziale.
Le possibili opzioni che il legislatore aveva a priori a disposizione possono così elencarsi:
- rinvio generico alla conciliazione come strumento di risoluzione della controversia, senza nulla precisare sulla disciplina;
- richiamo all'intera disciplina della conciliazione stragiudiziale contenuta nel D.lgs. n. 5/2003;
- richiamo parziale alla disciplina del D.lgs. n. 5/2003, come è avvenuto in realtà;
- indicazione dell'organismo di conciliazione specifico cui affidare il tentativo di conciliazione, come avviene, per esempio, per l'affiliazione commerciale, ove i soggetti deputati sono le camere di commercio.
Ci si interroga, pertanto, sull'effettivo significato del tipo di rinvio utilizzato, onde chiarire se trattasi di rinvio al solo soggetto indicato dall'art. 38 del D.lgs. 5/2003 oppure all'intera procedura disciplinata anche dai successivi artt. 39 e 40 del medesimo provvedimento in tema di conciliazione stragiudiziale.
Se la lettera della legge sembra già far propendere per la prima delle ipotesi prospettate, un esame comparato di normative analoghe può senz'altro fornire ulteriori elementi di valutazione.
Dopo l'entrata in vigore del D.lgs. n. 5/2003, il legislatore ha sistematicamente e ripetutamente incoraggiato l'utilizzo della conciliazione stragiudiziale.
Si rinviene un preciso e chiaro rinvio generico all'intera disciplina dettata per la conciliazione stragiudiziale nell'art. 27 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che, dettando disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, prescrive l'adozione di un decreto delegato con cui il Governo istituisca, tra l'altro, procedure di conciliazione e di arbitrato in favore degli investitori e dei risparmiatori, da svolgere in contraddittorio, tenuto conto di quanto disposto dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Con tecnica legislativa similare, si rinviene un altro analogo rinvio generico in tema di franchising, nell'art. 7 della legge 6 maggio 2004, n. 129, che detta norme per la disciplina dell'affiliazione commerciale, prevedendo infatti che, «per le controversie relative ai contratti di affiliazione commerciale le parti possono convenire che, prima di adire l'autorità giudiziaria o ricorrere all'arbitrato, dovrà essere fatto un tentativo di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede l'affiliato. Al procedimento di conciliazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 38, 39 e 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni».
La diversa formulazione letterale delle normative appena citate, succedutesi in un limitato arco temporale e in un periodo in cui l'attenzione sull'istituto della conciliazione è particolarmente elevata, non sembra proprio possa dipendere da una mera imprecisione o da una svista, ma appare piuttosto come frutto di una scelta voluta, scelta che trova una sua precisa ratio nel contesto in cui si colloca.
La conciliazione stragiudiziale disciplinata nel D.lgs. n. 5/2003, pur col grandissimo pregio di costituire la prima disciplina organica dell'istituto e quindi il "portone" di accesso dello stesso nel nostro ordinamento (come lasciano intendere gli stessi rinvii costanti cui il legislatore fa ampio ricorso), incontra tuttavia un implicito e non indifferente limite operativo in tutte quelle norme che, nell'ottica di conciliare un istituto insofferente a regole codificate e inderogabili, con il rigido principio di legalità che contraddistingue il nostro ordinamento [nota 44], pongono freni al miglior utilizzo delle tecniche della mediation in termini di efficacia, soprattutto per le pesanti ricadute che i comportamenti delle parti, in occasione dell'espletamento del tentativo di conciliazione, possono avere su un eventuale successivo ricorso al giudizio ordinario [nota 45].
Laddove il legislatore avesse inteso effettuare un rinvio all'intera normativa di cui al D.lgs. n. 5/2003, l'avrebbe detto espressamente (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), come ha fatto nei provvedimenti sopra citati di poco anteriori alla novella in commento.
Se è giusta questa prospettazione, ne consegue che il tentativo di conciliazione dovrà svolgersi con l'ausilio di uno degli organismi di conciliazione disciplinati dal D.lgs. n. 5/2003, ma potrà svolgersi in totale libertà di forme e di procedura, in ossequio ai più puri principi della mediation secondo le tecniche adr.
Questa interpretazione trova una propria precisa ratio direttamente collegata all'istituto cui si riferisce.
La ragione di questa scelta è facilmente individuabile nella duplice esigenza di assicurare, da un lato, che il tentativo di conciliazione si svolga sotto l'egida di un conciliatore "doc", la cui idoneità, professionalità e formazione siano verificati dallo stesso organismo di conciliazione al momento dell'iscrizione [nota 46] e di consentire, dall'altro lato, alle parti di sfruttare al meglio le potenzialità della conciliazione stragiudiziale, senza quelle ricadute negative sull'eventuale processo che possa successivamente instaurarsi tra le medesime parti, così nocive ad un proficuo svolgimento della conciliazione stragiudiziale.
In altri termini, le scelte di un legislatore illuminato, con le sfumature di non poco conto sopra evidenziate, indicano un indirizzo ben preciso, in una materia delicata come i Patti di famiglia, dove un contenzioso comporta conseguenze pesanti non solo sul piano economico delle parti interessate, ma anche e soprattutto nella sfera di rapporti interpersonali tra soggetti legati da stretti vincoli di parentela.
In questa nuova figura del Patto di famiglia, lo stesso legislatore ha voluto offrire, anzi imporre alle parti, la possibilità di "tamponare" un'eventuale controversia fin dal suo sorgere, senza inasprirne i toni in sede contenziosa, con la ricerca della soluzione che possa meglio soddisfare le esigenze di ogni parte, nel preciso intento di preservare il più possibile la relazione tra le stesse ed anche evitare, all'esterno, qualsiasi forma di pubblicità della lite, che sarebbe inevitabile col ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria ed avrebbe ulteriori ripercussioni negative nei rapporti fra le parti in causa.
In estrema sintesi, è come se dal legislatore provenisse un chiaro invito alla famiglia, coinvolta da una lite dipendente da un Patto di famiglia, di "lavare", per quanto possibile, i "panni sporchi in casa", usando il detergente speciale che solo un conciliatore può fornire: l'aiuto a comprendere le vere ragioni del contendere, separando le problematiche dalle persone e percorrendo tutte le possibili strade che possono portare ad una soluzione negoziata del contenzioso.
L'attenzione del tutto particolare che il legislatore ha riservato alle controversie della famiglia trova un precedente significativo nella conciliazione giudiziale disciplinata per i procedimenti di separazione personale dei coniugi (art. 708 c.p.c.) e di divorzio (legge 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, che disciplina i casi di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio).
Oltre alla previsione espressa di un tentativo obbligatorio di conciliazione, ad opera del giudice, in entrambi i casi è lo stesso legislatore ad indicare, con modalità inconsuete rispetto agli interventi legislativi in materia di conciliazione giudiziale, la procedura da seguire, prevedendo in particolare l'audizione separata dei coniugi, prima separatamente, poi congiuntamente. In questa procedura, del tutto inconsueta davanti ad un organo giudiziario, è evidente la considerazione del legislatore nei confronti dell'interesse superiore della famiglia alla risoluzione di una controversia, potenzialmente devastante per la stessa, ritenuto meritevole di tutela anche a scapito di un rigoroso formale rispetto del principio del contraddittorio.
La clausola di conciliazione nei Patti di famiglia. Se da un lato la previsione legislativa contenuta nell'art. 768-octies c.c. rende obbligatorio ex lege il tentativo di conciliazione nella gestione di una controversia riferita ad un Patto di famiglia e, quindi, consentirebbe in teoria di considerare superflua, o meglio non necessaria una clausola contrattuale finalizzata all'ottenimento di tale risultato, dall'altro lato una clausola di conciliazione ad hoc si appalesa oltremodo utile, oltre che opportuna [nota 47], nell'ottica del puro contenimento del contenzioso.
Non bisogna neppure dimenticare l'elevata potenzialità di conflitto che la conclusione di un Patto di famiglia porta con sé, per i delicati interessi in gioco cui sopra si è fatto riferimento, che vanno a interferire con i diritti dei legittimari e con una futura successione.
La conclusione di un Patto di famiglia ha come ovvio presupposto il raggiungimento di un accordo di tutte le parti interessate.
Ben diversa è invece la situazione se il rapporto che discende dal contratto entra in crisi e si verificano i presupposti per attivare la procedura di conciliazione. In tale contingenza, venendo a mancare la comunicazione ottimale tra le parti, ogni evenienza può essere fonte di ulteriore contenzioso. Orbene, onde evitare il sorgere di un contenzioso sul contenzioso, una clausola di conciliazione contrattuale può raggiungere l'obiettivo, non certo disprezzabile, di evitare che le parti si trovino a discutere anche sulle scelte che la sola previsione legislativa dell'art. 768-octies c.c. comporterebbe: scelta dell'organismo di conciliazione in primis, scelta della procedura da seguire in seconda battuta.
In entrambi i casi, si tratta di opzioni che ben più tranquillamente possono essere gestite in sede contrattuale, quando le parti sono normalmente ben disposte l'una verso l'altra e collaborano per un risultato comune soddisfacente.
Con riferimento all'organismo di conciliazione cui devolvere la gestione della controversia [nota 48], il legislatore limita la scelta ai soggetti iscritti nell'apposito registro ministeriale. Se in teoria questa potrebbe sembrare un'indicazione semplicemente rimessa alla concorde volontà delle parti, nella realtà operativa non è esattamente così.
Il primo ostacolo consiste nel fatto oggettivo che i registri ministeriali, al momento in cui si scrive, non sono ancora stati istituiti, nonostante siano già in vigore da parecchi i mesi i regolamenti attuativi che ne costituivano il presupposto [nota 49].
In secondo luogo, l'iscrizione di un organismo al registro ministeriale non è di per sé garanzia sufficiente, soprattutto laddove si tratti di organismi di conciliazione privati, sulla sua durata nel tempo ed anche sulla persistenza della sua iscrizione nel registro. Non bisogna infatti dimenticare che qualsiasi ente pubblico o privato può sempre sciogliersi o cessare la sua esistenza, ma anche che, se non svolge il numero minimo di conciliazioni previste dalla legge [nota 50], può essere cancellato dal registro ministeriale, con la conseguenza di non essere più idoneo a soddisfare i requisiti soggettivi richiesti dal nuovo art. 768-octies c.c. per l'espletamento del tentativo di conciliazione in materia di Patti di famiglia.
Per tutti questi motivi, sarebbe consigliabile strutturare la clausola di conciliazione nel senso di garantire il più possibile, in assoluto, la sua immediata operatività, rimettendo, ad esempio, la scelta dell'organismo di conciliazione ad un soggetto esterno alla lite, che dia garanzie di terzietà ed imparzialità.
Sempre nell'ottica di evitare il più possibile il contenzioso sul contenzioso, potrebbe essere opportuno anche strutturare una clausola di conciliazione che predetermini i tempi per la nomina dell'organismo di conciliazione e per l'espletamento del tentativo di conciliazione e magari faccia rinvio, quanto alla procedura da seguire, a quella propria indicata dal regolamento dell'organismo prescelto, facendo sempre salve, naturalmente, diverse disposizioni normative cogenti.
In tal modo, se la prassi o successive interpretazioni giurisprudenziali confermeranno la lettura sopra esposta, tendente ad escludere che il legislatore abbia inteso rendere cogente anche la procedura dettata dal D.lgs. n. 5/2003 per la conciliazione stragiudiziale, sarebbe legittimo e certamente auspicabile, per quanto detto, il ricorso alle pure tecniche di mediation.
L'arbitrato nei Patti di famiglia
La scelta del legislatore, nel nuovo art. 768-octies c.c., è nel senso di incentivare il ricorso alla conciliazione stragiudiziale in caso di controversia, lasciando alla piena autonomia decisionale delle parti la scelta dell'eventuale step successivo e decisionale, nel caso in cui la lite non trovi un componimento negoziato.
D'altra parte l'intervento del legislatore sul modo di affrontare le eventuali controversie non poteva spingersi oltre, in quanto un ricorso obbligatorio all'arbitrato, imposto per legge, sarebbe stato del tutto illegittimo. Il diritto di ricorrere all'autorità giudiziaria ordinaria è, infatti, intangibile ed universalmente riconosciuto, ai sensi dell'art. 24 Cost., e, conseguentemente, l'eventuale scelta della strada alternativa arbitrale è legittima solo se fondata sulla concorde volontà delle parti [nota 51].
A questo punto è rimesso alla sensibilità dell'operatore di diritto - nella fattispecie il Notaio incaricato di redigere l'atto pubblico costitutivo del Patto di famiglia e/o i consulenti delle parti - valutare con le stesse l'opportunità di predeterminare la sorte dell'eventuale contenzioso dopo l'insuccesso dell'esperimento del tentativo di conciliazione.
Una possibile scelta è il ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria, in virtù del diritto costituzionalmente ed universalmente riconosciuto di agire in giudizio (art. 24 Cost.).
Un'opzione alternativa è costituita, invece, dal ricorso all'arbitrato [nota 52], rimettendo la decisione della lite ad un soggetto privato, cui venga affidato l'incarico di decidere la controversia.
Non è questa la sede per approfondire il tema dell'arbitrato, che da solo richiederebbe un trattato, soprattutto ora con l'entrata in vigore, il 1° marzo 2006, della mini-riforma del processo civile che ha modificato in modo sostanziale, tra l'altro, proprio la disciplina dell'arbitrato (decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40).
La logica complessiva della riforma, in linee molto generali, è nel senso di incentivare il ricorso alla c.d. giustizia privata, sia dando ampio spazio all'autonomia delle parti, sia consentendo nel contempo di ottenere un risultato del tutto omologo a quello con cui si chiude un processo.
L'autonomia privata trova già un primo significativo ed espresso riconoscimento nel nuovo capo I, titolo VII, libro IV c.p.c., sull'arbitrato, che parla di "convenzione d'arbitrato" (e non più di "compromesso e clausola compromissoria"), ed esplicitazione, ad esempio, nella possibilità di devolvere ad arbitri tutte le controversie che non abbiano per oggetto diritti indisponibili (art. 806 c.p.c.) [nota 53], comprese quelle in materia non contrattuale (art. 808-bis c.p.c.), e nella possibilità riconosciuta alle parti di stabilire, nella convenzione d'arbitrato, o con atto scritto separato, la lingua dell'arbitrato e le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento (art. 816-bis c.c.), ivi compresa la possibilità di disporre [nota 54] che la decisione sia pronunciata secondo equità (art. 822 c.p.c.). [nota 55]
Sotto il profilo invece del risultato, il legislatore privilegia espressamente il raggiungimento di un risultato tale da dar luogo ai medesimi effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria ed incentiva, conseguentemente, il ricorso all'arbitrato rituale, con espressa presunzione legislativa in tal senso formalizzata nel primo comma del nuovo art. 808-ter c.p.c.:, in mancanza di diversa espressa disposizione scritta.
Il lodo emesso in sede di arbitrato rituale, infatti, a termini del nuovo art. 824-bis c.p.c., ha di per sé gli stessi effetti della sentenza, anche senza omologa, ed è inoltre titolo idoneo ad ottenere efficacia esecutiva, subordinatamente al deposito in cancelleria ed al conseguente decreto del tribunale, tenuto ad accertarne la regolarità formale (art. 825 c.p.c.).
All'arbitrato irrituale, invece, è dedicato il nuovo art. 808-ter c.p.c., che subordina la sua scelta ad una "disposizione espressa per iscritto" dalle parti. Il lodo emesso in sede di arbitrato irrituale ha natura negoziale [nota 56], anzi costituisce "determinazione contrattuale" (come viene definita dal codice), annullabile dal giudice competente qualora sia pronunciato in violazione delle domande e delle regole stabilite dalle parti. Conseguentemente un suddetto lodo non ha gli effetti della sentenza, né è di per sé titolo idoneo ad ottenere efficacia esecutiva con l'omologa del tribunale.
Disciplina applicabile. Se, in linea di massima, l'arbitrato collegato ad un Patto di famiglia trova la sua disciplina nell'arbitrato ordinario disciplinato dal codice di procedura civile, non bisogna tuttavia dimenticare i possibili diversi beni oggetto di trasferimento col Patto di famiglia: azienda e partecipazioni societarie.
Nel primo caso, il Patto di famiglia avente per oggetto il trasferimento di un'azienda comporta l'applicazione della disciplina dell'arbitrato ordinario.
Nel diverso caso, invece, in cui oggetto del Patto di famiglia sia il trasferimento di partecipazioni societarie, non bisogna dimenticare che quest'ultimo elemento potrebbe innescare l'applicazione della disciplina dell'arbitrato societario.
L'art. 1 del D.lgs. n. 5/2003, che individua l'ambito di applicazione del provvedimento, indica, al primo comma, lettera b), il «trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti».
L'arbitrato societario disciplinato dal D.lgs. n. 5/2003 costituisce una figura di arbitrato sui generis, con caratteristiche che lo distinguono dall'arbitrato disciplinato dal codice di procedura civile. Non essendo questa la sede idonea per esaminare in modo approfondito le differenze tra le due figure di arbitrato [nota 57], ci si limiterà a sottolineare quelle che qui più rilevano:
- è comminata la sanzione della nullità per le clausole compromissorie statutarie che non conferiscano il potere di nomina degli arbitri a soggetto estraneo alla società;
- l'arbitrato trova fonte esclusiva nella clausola compromissoria e non nel compromesso.
Da qui l'esigenza di comprendere, ai fini di una corretta redazione della clausola compromissoria, se e quando la disciplina dell'arbitrato societario possa trovare applicazione anche per le controversie derivanti dal Patto di famiglia.
L'arbitrato disciplinato dal D.lgs. n. 5/2003, proprio come deriva dall'aggettivo che lo qualifica, trova fonte in clausole compromissorie statutarie ed è diretto a controversie «insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società, che abbiano per oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale» (art. 34, primo comma, del D.lgs n. 5/2003).
Il terzo comma del medesimo art. 34 stabilisce, poi, che «la clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia».
Appare molto chiaramente, dal tenore letterale delle norme appena citate, che l'arbitrato societario, la cui disciplina è qualificata come inderogabile dallo stesso titolo dell'art. 35, ha, come esclusivo ambito di applicazione, quello dei rapporti societari e trova fonte nello statuto della società.
Nel Patto di famiglia, invece, un'eventuale controversia avrebbe ad oggetto il patto stesso, a prescindere dalla natura del bene oggetto di trasferimento [nota 58] ed a prescindere dagli eventuali rapporti sociali che possono eventualmente sovrapporsi, ma molto difficilmente esaurire i rapporti intersoggettivi coinvolti. La controversia coinvolgerebbe non esclusivamente interessi societari, ma anche, contestualmente, interessi familiari, con tutti i connessi delicati profili successori.
L'arbitrato, nel Patto di famiglia, troverebbe inoltre fonte in una clausola contrattuale collocata in ambito diverso dallo statuto societario, la cui efficacia vincolante riguarderebbe tutti i soggetti sottoscrittori, anche se privi della qualità di socio relativamente alla partecipazione sociale oggetto del patto.
Per tutti questi motivi, si potrebbe escludere l'applicazione tout court della disciplina dell'arbitrato societario al Patto di famiglia, facendo rientrare l'istituto nella casistica propria dell'arbitrato comune.
A supporto di questa opinione, vi è anche l'interpretazione, sia pure non maggioritaria, secondo la quale, con la riforma del diritto societario, il nuovo modello di arbitrato non costituisce l'unica inderogabile disciplina in materia di diritto societario, ma si aggiunge, senza sostituirlo, all'arbitrato di diritto comune, il che consente una scelta fra le due diverse figure e salva la validità delle clausole compromissorie societarie che devolvono le controversie ad un arbitrato di diritto comune [nota 59] o che non rimettono ad estranei la nomina degli arbitri.
In contrario, tuttavia, vi è la lettera della legge: l'art. 1, comma primo, lettera b), del D.lgs n. 5/2003, indica, nel suo ambito di applicazione, anche il «trasferimento di partecipazioni sociali», aggiungendovi «ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti». Inutile precisare che nell'ultima locuzione può ben rientrare anche il Patto di famiglia, qualora comporti il trasferimento di partecipazioni societarie.
Poiché la questione teorica relativa al tipo di disciplina arbitrale applicabile al Patto di famiglia si prospetta di non facile soluzione e trascina con sé il contenuto della clausola arbitrale, l'operatore del diritto deve preoccuparsi di evitare, per quanto possibile, la nullità della clausola arbitrale, al fine di non vanificare la scelta di rinunciare al diritto di difesa in giudizio.
In conclusione, pertanto, in questo primo momento di applicazione della normativa, mere ragioni tuzioristiche inducono a considerare l'opportunità di rimettere la nomina degli arbitri ad un terzo tutte le volte in cui il Patto di famiglia comporti il trasferimento di partecipazioni societarie.
Opportunità dell'inserimento della clausola. Premesse queste necessariamente brevi osservazioni sul nuovo arbitrato, è invece opportuno soffermarsi, in materia di trattazione di Patto di famiglia e di controversie ad esso collegate, sulle valutazioni di opportunità circa l'inserimento di una clausola compromissoria arbitrale nel relativo contratto.
Non bisogna infatti dimenticare che un contenzioso su un Patto di famiglia può riguardare la sorte di un'azienda o di partecipazioni sociali, in entrambi i casi oggetti "sensibili" per i quali una lite può significare paralisi dell'attività economica, con tutto ciò che ne consegue.
è quindi verosimile valutare, in termini di opportunità e di convenienza, il ricorso all'arbitrato in caso di contenzioso, soprattutto se si ritiene che il fattore tempo di soluzione della lite costituisca, nel contesto concreto cui si riferisce, un obiettivo meritevole di tutela.
Si potrebbe così pensare all'inserimento, nel Patto di famiglia, di una clausola multistep [nota 60], che preveda il ricorso alla conciliazione e successivamente, in caso di suo esperimento infruttuoso, all'arbitrato.
Il ricorso all'arbitrato è comunque per le parti sempre possibile, anche in mancanza di una espressa previsione contrattuale, utilizzando l'istituto denominato compromesso arbitrale, che trova disciplina nell'art. 807 c.p.c.
Come nel caso della conciliazione, anche per l'arbitrato la struttura di una clausola compromissoria o il contenuto del compromesso sono elementi di delicata gestione, essendo diretti a risolvere un contenzioso e possibilmente ad evitare il sorgere di un ulteriore contenzioso sul contenzioso, a causa di una formulazione tale da dare origine a problematiche interpretative.
Struttura delle clausole di conciliazione e convenzioni d'arbitrato [nota 61]
Premettendo ancora una volta che la previsione di clausole di conciliazione e di convenzioni arbitrali trova fondamento nell'autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) e limite nei divieti di legge, ivi compresi i diritti indisponibili, si può osservare quanto segue.
Redazione delle clausole [nota 62]. In ordine all'adozione e redazione delle eventuali clausole da inserire nei Patti di famiglia, è doveroso sottolineare come le stesse possano incidere pesantemente sull'interesse delle parti contrattuali, ragione per cui le valutazioni sulla loro adozione andrebbero sempre concordate con i clienti.
Nell'ipotesi tuttavia, purtroppo frequente, in cui i clienti non siano in grado di effettuare la necessaria valutazione, magari perché privi delle conoscenze necessarie per giungere ad una scelta consapevole, il ruolo di influenzatore, svolto dal Notaio o dai consulenti di parte, diventa determinante e delicato.
In linea di massima si può distinguere tra conciliazione ed arbitrato [nota 63].
Per quanto riguarda la conciliazione, se non esiste margine per l'autonomia privata sulla scelta di fondo, già fatta dal legislatore per le controversie dipendenti dal Patto di famiglia, vi è invece possibilità di intervento nella scelta della procedura, ferma restando sempre e comunque la possibilità conseguente di adire la via decisionale preferita nel caso di permanenza del conflitto.
La scelta preventiva dell'arbitrato è invece molto più impegnativa, in quanto presuppone la volontà precisa e consapevole delle parti di rinunciare ad un loro preciso diritto, ossia al ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria.
La capacità necessaria per la conclusione di una valida clausola compromissoria è pertanto la stessa richiesta per gli atti di straordinaria amministrazione.
Con queste premesse ed allo stato della normativa attuale, occorre soffermarsi sull'analisi della possibile struttura delle singole clausole, individuando gli elementi necessari, i dati variabili e quelli precari, gli elementi che possono turbare o addirittura minare l'efficacia e l'operatività della clausola e le eventuali implicanze processuali. Tutto ciò diventa estremamente delicato ove sia rapportato ad un momento patologico nella vicenda contrattuale, se solo si considera che le clausole compromissorie diventeranno operative soltanto in presenza di una situazione di conflitto.
Le osservazioni che seguono sono il frutto delle prime riflessioni in tema di Patto di famiglia e si propongono come primo passo verso la redazione di un formulario che subirà inevitabilmente aggiustamenti sulla base delle risultanze di una adeguata sperimentazione temporale e del monitoraggio della tenuta delle clausole stesse.
è considerata efficace la clausola che produce conseguenze obbligatorie per le parti, è chiara nel suo contenuto [nota 64], esclude l'intervento del tribunale ordinario, conferisce all'arbitro il potere di comporre la lite imponendosi sulle parti, consente il ricorso ad una procedura il più possibile rapida ed efficiente.
Sono considerate invece patologiche le clausole non chiare, ambigue, confliggenti, che possono causare ritardi e spese ulteriori proprio per il sorgere di controversie sulla loro interpretazione. La patologia di tali clausole consiste non nel fatto che possano essere invalidate per essere troppo vaghe ed ambigue, ma nel fatto che possano rendere necessario l'intervento della giustizia ordinaria per dare interpretazione alla volontà delle parti esplicitata nella clausola.
Forma delle clausole. Sia le clausole di conciliazione che le clausole compromissorie possono essere contenute indifferentemente nello stesso contratto cui si riferiscono o anche in un atto separato, che sarà necessariamente collegato al primo.
Se in tema d'arbitrato è lo stesso codice di procedura civile a prevedere testualmente entrambe le possibilità (art. 808 c.p.c.), in linea generale si può comunque osservare che la validità ed efficacia di tali clausole prescinde dal contesto nel quale viene collocata.
Si ricorda comunque che, in materia di Patto di famiglia, la stipulazione di un successivo contratto, collegato al primo, è espressamente prevista dall'art. 768-quater, terzo comma, c.c., per l'assegnazione di beni ai partecipanti non assegnatari.
La forma minimale richiesta per la convenzione separata rispetto al contratto cui la clausola si riferisce è senz'altro la forma scritta, come si ricava dall'art. 807 c.p.c. sul compromesso, dall'art. 808 c.p.c. che parla di "atto separato" per la clausola compromissoria e rinvia per la forma al precedente art. 807 c.p.c., dall'art. 808-ter c.p.c. che richiede una «disposizione espressa per iscritto» per la valida scelta dell'arbitrato irrituale, dall'art. 816-bis c.p.c., che parla di «convenzione d'arbitrato o atto scritto separato» per indicazioni delle parti sullo svolgimento del procedimento.
La necessità della forma scritta, d'altronde, è da un lato implicita perché la volontà delle parti sia manifestata in modo espresso e vincolante, dall'altro lato necessaria per la validità della clausola, stante la presunzione di vessatorietà che si ricollega alla stessa [nota 65].
L'art. 808, ultimo comma, c.p.c, prevede anche espressamente che la validità della clausola compromissoria debba essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto cui si riferisce e precisa che il potere di stipulare il contratto comprende anche il potere di convenire la clausola.
Le stesse osservazioni valgono anche per la clausola di conciliazione, in merito alla quale, tuttavia, ci si potrebbe chiedere se la forma della stessa, qualora sia contenuta in un atto separato, sia vincolata a sua volta al rispetto della forma dell'atto pubblico richiesta ad substantiam dall'art. 768-ter c.c. per il contratto contenente il Patto di famiglia.
Se da un lato l'esigenza del rispetto del principio di simmetria e una scelta tuzioristica sulla validità della clausola farebbero propendere per la risposta positiva, come avviene ad esempio in materia di procura (art. 1392 c.c.) [nota 66], dall'altro lato, tuttavia, si osserva che il principio della forma vincolata costituisce sempre un'eccezione nel nostro ordinamento e che è lo stesso legislatore a limitare la prescrizione della forma dell'atto pubblico a pena di nullità al contratto Patto di famiglia, non disponendo nulla, invece, per il contratto successivo di assegnazione ad un partecipante al Patto di famiglia non assegnatario (art. 768-quater, terzo comma, c.c.).
è implicito il fatto che la clausola contenuta in un accordo separato dovrà provenire dalle stesse parti legittimate ad intervenire nel Patto di famiglia e/o titolari di diritti che la legislazione di riferimento intende tutelare.
Efficacia delle clausole. La conclusione di una clausola di conciliazione o di arbitrato ha efficacia obbligatoria per le parti contraenti. Essa è pertanto giuridicamente vincolante.
Struttura delle clausole. Sulla struttura della clausola di conciliazione, la normativa di riferimento (D.lgs. n. 5/2003) non detta disposizioni particolari.
Essendo il suo inserimento nel Patto di famiglia del tutto discrezionale, per i motivi sopra esposti, il suo contenuto dovrà essere integrativo di quanto non disposto dalla legge e di quanto voluto dalle parti. Ci si riferisce, in particolare, alla specifica scelta dell'organismo di conciliazione e della procedura che lo stesso dovrà seguire.
Se per il secondo profilo può essere sufficiente un generico rinvio al regolamento adottato dall'organismo prescelto, la scelta del primo profilo, invece, soprattutto al momento attuale, è abbastanza problematica.
è infatti prematuro conoscere, a parte le Camere di commercio [nota 67], quali saranno gli organismi di conciliazione iscritti nel pubblico registro, per il semplice fatto che tale registro ancora non è stato istituito, senza contare il rischio di una successiva possibile cancellazione [nota 68]. Onde evitare, pertanto, che la scelta cada su un organismo che, al momento in cui serve, non sia idoneo, si potrebbe strutturare la clausola nel senso di rimettere ad un terzo la scelta dell'organismo di conciliazione, consentendo così, a posteriori, una scelta più mirata e consapevole, anche in considerazione del tipo di controversia da trattare.
Molto più complesso ed articolato è invece il discorso sulle convenzioni d'arbitrato, in quanto la disciplina dettata dal legislatore per l'arbitrato ordinario interferisce sul loro contenuto.
Il contenuto di tali convenzioni può così sintetizzarsi:
- indicazione delle controversie interessate [nota 69], col limite dei diritti disponibili (art. 806, 807, 808 e 809 c.p.c.);
- la nomina degli arbitri, oppure il numero di essi ed il modo di nominarli [nota 70], salvo l'integrazione ex lege prevista dall'art. 809 c.p.c. (art. 809 e 810 c.p.c.);
- la sede dell'arbitrato (art. 816 c.p.c.);
- la lingua dell'arbitrato (art. 817 c.p.c.);
- le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento (art. 816-bis c.p.c.) ed il metodo di decisione [nota 71] se si opta per l'equità (art. 822 c.p.c.);
- eventuale scelta dell'arbitrato irrituale (art. 808-ter c.p.c.) [nota 72];
Con riferimento al compromesso, l'art. 807 c.p.c. prescrive ovviamente che il relativo accordo scritto debba contenere l'espressa determinazione dell'oggetto della controversia.
Le clausole possono indicare un'unica via di risoluzione delle controversie (ad esempio conciliazione o arbitrato), oppure prevedere rimedi diversi in progressione crescente (cosiddette clausole multistep) come ad esempio prevedere la conciliazione come prima opzione e l'arbitrato successivamente nel caso di fallimento o mancato esperimento del tentativo di conciliazione, sempre tuttavia con affidamento delle due procedure a soggetti tra loro diversi.
L'inserimento di una clausola arbitrale va valutato attentamente, proprio perché preclude il ricorso alla giustizia ordinaria; militano tuttavia in suo favore osservazioni legate alla brevità del tempo richiesto per giungere al lodo, soprattutto se comparato al tempo necessario per ottenere una sentenza in un processo civile anche solo in primo grado.
Si potrebbero utilizzare clausole multistep del tipo med-arb, con attribuzione delle funzioni rispettivamente di conciliatore ed arbitro a soggetti ben distinti, in tutti i contratti in cui la rapidità della soluzione di eventuali controversie può essere determinante nella proficua gestione di un'attività produttiva e può addirittura evitarne la paralisi e disastrose conseguenze economiche.
Le clausole che seguono sono strutturate, volutamente in modo minimale, sulla base di valutazioni effettuate in questo primo momento di applicazione. è certo che subiranno modifiche ed aggiustamenti nel tempo in seguito al monitoraggio che si renderà necessario per verificarne l'efficacia.
Esempi di clausole
Clausola di conciliazione. Con esclusivo riferimento ai diritti disponibili, tutte le controversie, che dovessero sorgere in dipendenza del presente contratto, dovranno essere oggetto di un tentativo preliminare di composizione tramite conciliazione, in base alla procedura di conciliazione dell'organismo di conciliazione che verrà scelto dal presidente del…(es. Ordine professionale, Tribunale, Cciaa), competente territorialmente con riferimento a…, su istanza della parte interessata, entro …(es. venti) giorni dalla richiesta.
Clausola di arbitrato - arbitro unico. Con esclusivo riferimento ai diritti disponibili, tutte le controversie, che dovessero sorgere in dipendenza del presente contratto, saranno decise da un arbitro nominato da [nota 73]…,
L'arbitrato sarà rituale secondo diritto, avrà sede in …e si svolgerà in lingua italiana.
L'arbitro deciderà anche delle controversie relative alla clausola compromissoria e provvederà sulle spese del processo arbitrale.
Clausola di arbitrato con due parti - collegio arbitrale. Con esclusivo riferimento ai diritti disponibili, tutte le controversie, che dovessero sorgere in dipendenza del presente contratto, saranno decise da un Collegio Arbitrale, composto di tre membri, due dei quali nominati da ciascuna parte ed il terzo, con funzioni di presidente, di comune accordo dai due arbitri già nominati [nota 74] o, in mancanza di accordo, da…
L'arbitrato avrà sede in…, sarà rituale secondo diritto e si svolgerà in lingua italiana.
Il collegio arbitrale deciderà anche delle controversie relative alla clausola compromissoria e provvederà sulle spese del processo arbitrale.
Clausola di arbitrato con più di due parti- collegio arbitrale. Con esclusivo riferimento ai diritti disponibili, tutte le controversie, che dovessero sorgere in dipendenza del presente contratto, saranno decise da un Collegio Arbitrale, composto, indipendentemente dal numero delle parti, da tre membri nominati da…
L'arbitrato sarà rituale secondo diritto.
L'arbitro deciderà anche delle controversie relative alla clausola compromissoria e provvederà sulle spese del processo arbitrale.
Clausola multistep med-arb Con esclusivo riferimento ai diritti disponibili, tutte le controversie, che dovessero sorgere in dipendenza del presente contratto, dovranno essere oggetto di un tentativo preliminare di composizione tramite conciliazione, in base alla procedura di conciliazione dell'organismo di conciliazione che verrà scelto dal presidente del …(es. Ordine professionale, Tribunale, Cciaa), competente territorialmente con riferimento a…, su istanza della parte interessata, entro …(es. venti) giorni dalla richiesta.
Ogni controversia non risolta tramite conciliazione, entro sessanta giorni dall'inizio di questa procedura, o nel diverso periodo che le parti concordino per iscritto, sarà decisa da un arbitro/collegio arbitrale nominato da …(inserire una delle clausole sopra indicate per l'arbitrato).
[nota 1] Per un'analisi delle differenze tra conciliazione giudiziale e stragiudiziale, cfr. BRUNELLI, «La conciliazione giudiziale e stragiudiziale delle controversie: due esperienze a confronto», relazione tenuta al convegno "La conciliazione nel diritto civile e commerciale - Clausole contrattuali e modalità operative per le imprese" organizzato da Cnn, adr Notariato Srl, Università degli Studi di Milano, Abi, Camera Arbitrale Nazionale ed Internazionale di Milano - Milano 17 marzo 2006, in corso di pubblicazione.
[nota 2] CICERONE, De Officiis, I, p. 10.
[nota 3] Per i profili più strettamente notarili collegati alla conciliazione stragiudiziale, cfr: BORTOLUZZI, «Il Notaio e la risoluzione alternativa delle controversie», in Vita Not., 2001, 3, p. 1551 e ss.; BRUNELLI, Clausole compromissorie, dell'arbitrato e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, in BORTOLUZZI, La riforma delle società. Aspetti applicativi. Utet, 2004, p. 421 e ss.; BRUNELLI, «Arbitrato e conciliazione: le novità di interesse notarile nella riforma societaria», Federnotizie n. 4/2004, p. 157 e ss.; BRUNELLI, «Conciliazione e notariato: una sfida appena iniziata», Notariato, 2005, 2, p. 195; FUSARO, «Prospettive di intervento notarile nelle adr», Vita Notarile, 2002, 2, p. 107 e ss.; RAMONDELLI, «Considerazioni a margine del convegno nazionale sull'arbitrato in relazione alla figura del Notaio», Riv. Not., 1974, 1, p. 74 e ss.; TATARANO, «Il Notaio tra arbitrato e conciliazione», in Notariato, 1996, 6, p. 506 e ss.
[nota 4] Con l'acronimo adr (alternative dispute resolution) ci si riferisce a protocolli operativi, applicabili, con le dovute differenziazioni, a diversi tipi di conflitto, finalizzati ad una soluzione della controversia diversa rispetto al ricorso al sistema giudiziario ordinario, nei confronti del quale si pongono come alternativa. Di qui la definizione di "soluzione alternativa delle controversie", con la tendenza attuale a tradurre la lettera "a" dell'acronimo con il termine di soluzione "appropriata" o "amichevole" della controversia, per sottolineare il fatto che le tecniche adr costituiscono non tanto una alternativa al processo civile, ma tendono piuttosto ad individuare, per ogni controversia, la soluzione più appropriata, offrendo soluzioni di intervento graduali e progressive (ad esempio, nell'ordine, mediation e arbitrato).
[nota 5] Il conciliatore può essere definito come un terzo facilitatore, che appunto aiuta le parti in lite, secondo procedure flessibili, a comporre la controversia esplorando i rispettivi interessi.
[nota 6] Il termine inglese mediation è universalmente utilizzato per indicare l'istituto della conciliazione stragiudiziale. In Italia il termine non è traducibile in senso letterale, per la confusione che ne deriverebbe con la "mediazione" commerciale disciplinata dall'art. 1754 codice civile, a norma del quale mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare.
[nota 7] In gergo tecnico, si usa l'espressione outside the box per indicare la soluzione della controversia diversa rispetto a quella che le parti inizialmente potevano prospettare, ossia una soluzione creativa che solo l'intervento di un terzo neutrale e facilitatore può aiutare ad individuare.
[nota 8] Col termine win-win ci si riferisce ad una soluzione della controversia, che consenta ad entrambe le parti di raggiungere un risultato vittorioso, positivo, con soddisfacimento dei rispettivi interessi.
è esattamente il contrario di una soluzione in cui entrambe le parti siano perdenti, come può accadere talvolta, quando la decisione è affidata ad un terzo giudicante (c.d. soluzione cd. lose-lose).
[nota 9] CABRAS, «Tecniche di conciliazione nell'ambito privatistico», Atti del convegno "Le pratiche di conciliazione nel sistema federale italiano", organizzato a Roma il 18 gennaio 2005 dal ministro per gli Affari regionali per la ricerca di nuove soluzioni al contenzioso Stato-Regioni (http://www.affariregionali.it /fileservices/files/pratiche_conciliazione.pdf).
[nota 10] Camp David è la residenza di vacanza del presidente degli Stati Uniti. Vi si svolsero tre eventi storici, uno dei quali è quello sopra descritto.
Nel settembre 1959, vi fu il primo incontro dopo la fine della seconda guerra mondiale tra un presidente Usa, Eisenhower, e un segretario generale del Pcus, Nikita Chruscëv, che diede avvio alla distensione.
Nel 1993 vi fu inoltre raggiunto il primo storico accordo tra Israele, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, e l'Olp di Yasser Arafat, che prevedeva la concessione ai palestinesi dell'autonomia a Gerico e nella striscia di Gaza.
[nota 11] Col termine "shuttle diplomacy" si indica la spola che il conciliatore fa tra le diverse stanze nelle quali avvengono gli incontri individuali.
[nota 12] In gergo tecnico, sono definiti "caucus" gli incontri individuali tra il conciliatore e ogni singola parte, da alternare ad eventuali incontri collettivi con tutti i partecipanti alla seduta di conciliazione.
[nota 13] Cfr., tra gli altri, i seguenti indirizzi internet: http://www.ibiblio.org/sullivan/docs/CampDavidAccords.html; http://www.tesionline.it/news/cronologia. jsp?evid=2478; http://www.yale.edu/lawweb/avalon /mideast/campdav.htm; http://en.wikipedia.org/??wiki /Camp_David.
[nota 14] Per la conciliazione in generale ed i profili specifici delle procedure e tecniche relative, cfr. DE PALO, D'URSO, GOLANN, Manuale del conciliatore professionista, Milano, 2004, nonché l'amplia bibliografia ivi citata.
[nota 15] Cfr. nota numero 11 per la definizione.
[nota 16] Una volta individuate le rispettive zone di contrattazione dell'attore e del convenuto, la zopa identifica la zona comune nella quale sono da ricercare le chiavi di composizione della lite. Si colloca normalmente a metà strada tra la zona di contrattazione dell'attore e quella del convenuto, ma può anche non esistere laddove le zone di contrattazione rimangano distanti tra loro.
Ad esempio, se l'attore manifesta al conciliatore una pretesa massima di 100, ma si dichiara disposto ad accontentarsi di 60, mentre il convenuto è disposto ad offrire una cifra che varia tra 40 e 70, la zopa si colloca tra 60 e 70. La soluzione andrà ricercata tra questi due valori, conosciuti dal solo conciliatore e vincolati da totale riservatezza.
Se manca la zopa, la soluzione si profila estremamente difficile, a meno che non si faccia ricorso a soluzioni creative.
[nota 17] Cfr. definizione alla nota numero 7.
[nota 18] Nel corso della seduta di conciliazione il conciliatore può ritenere opportuno e/o necessario stimolare le parti, soprattutto nel corso degli incontri individuali, richiamando la loro attenzione sulle rispettive migliori o peggiori alternative possibili ad un accordo negoziato. I due estremi sopra menzionati vengono definiti, in gergo tecnico, con gli acronimi batna e watna, che indicano letteralmente e rispettivamente "best alternative to a negotiated agreement" e "worst alternative to a negotiated agreement".
[nota 19] Nel corso di una seduta di conciliazione, è possibile avere momenti in cui la soluzione della controversia pare irraggiungibile e le trattative sembrano approdare ad un punto morto, privo di ritorno. In questi casi, spesso fisiologici, il conciliatore può trovare la chiave di volta per proseguire l'incontro, adottando una tecnica c.d. di brain-storming, che consenta alle parti di distogliere l'attenzione dal punto morto raggiunto e ricominciare a negoziare.
A titolo esemplificativo, il conciliatore può prospettare una pausa, cambiare il ritmo, riassumere la situazione, fissare una scadenza, affrontare i problemi in modo diverso, fissare i risultati parziali, ricominciare a lavorare.
[nota 20] Cfr. nota numero 12 per la definizione.
[nota 21] Al riguardo si è osservato che, «pure rientrando tra le competenze del suddetto Giudice anche quella di esprimere obbligatoriamente un tentativo di conciliazione come condizione di ammissibilità per il procedimento giudiziario, tuttavia esso non ebbe gli stessi effetti del sistema precedente.
Infatti la conciliazione risultava essere un mero adempimento propedeutico al giudizio vero e proprio e quindi perse la sua connotazione di strumento alternativo al sistema originario.
Con questo cambiamento, che allora sembrò essere migliorativo, in realtà venne chiusa una delle Porte verso la giustizia. Questa figura delle Porte, elaborata in occasione di una conferenza sulla conciliazione tenutasi negli Stati Uniti, è particolarmente suggestiva perché in modo molto sintetico lumeggia ai contendenti i vari percorsi che possono essere fatti per arrivare alla "giustizia."» In tal senso USAI, «Percorsi di conciliazione tra Stato e Regioni», Atti del convegno "Le pratiche di conciliazione…", cit.
[nota 22] Legge 16 giugno 1927, n. 1766.
[nota 23] Il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 172, prevede la possibilità per il giudice di interporre i suoi uffici per transigere o conciliare le liti davanti ai tribunali delle acque pubbliche, qualora dall'esame delle parti si manifesti tale possibilità.
[nota 24] Il tentativo obbligatorio di conciliazione è previsto nell'udienza di prima trattazione delle controversie agrarie (legge 2 marzo 1963, n. 320, art. 7).
[nota 25] Nelle controversie individuali di lavoro, l'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione assurge tecnicamente, per espressa disposizione legislativa, a condizione di procedibilità della domanda giudiziale (art. 5 legge 11 maggio 1990, n. 108; art. 65 D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; art. 410 c.p.c.).
In materia di processo del lavoro, poi, l'art. 420 c.p.c. prevede l'assunzione dell'interrogatorio libero delle parti e l'espletamento di un tentativo obbligatorio di conciliazione nell'udienza fissata per la discussione della causa, sanzionando pesantemente la mancata comparizione delle parti, senza giustificato motivo, con l'espressa previsione che questo costituisca comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione.
[nota 26] In virtù del combinato disposto degli artt. 447-bis e 420 c.p.c., il legislatore prevede che, nell'udienza di discussione, il giudice tenti la conciliazione della lite.
[nota 27] L'art. 10 della legge 18 giugno 1998, n. 192, prevede un tentativo obbligatorio di conciliazione, peraltro spesso disatteso per mancanza di espressa disposizione sanzionatoria in caso di inosservanza.
[nota 28] La legge 14 novembre 1995, n. 481, sulla concorrenza e regolazione dei servizi di pubblica utilità, prevede procedure di conciliazione e di arbitrato per la risoluzione delle controversie insorte tra utenti e soggetti esercenti il servizio.
[nota 29] è infatti previsto, in materia di comunicazione, per le controversie devolute all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, un tentativo obbligatorio di conciliazione, la cui mancanza costituisce causa di improcedibilità per il processo (legge 31 luglio 1997, n. 249 e, in materia di telecomunicazioni, i regolamenti n. 148/2001 e n. 182/2002).
[nota 30] Per un commento analitico del D.lgs. n. 5/2003, cfr. BRUNELLI, Clausole compromissorie, dell'arbitrato…, cit. e la bibliografia ivi indicata.
[nota 31] Si tratta dei due regolamenti attuativi, entrati in vigore il 24 agosto 2004, e, precisamente, il decreto del Ministero della giustizia 23 luglio 2004, n. 222, recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all'art. 38 del decreto legislativo n. 5/2003, ed il decreto del Ministero della giustizia 23 luglio 2004, n. 223, recante approvazione delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione a norma dell'art. 39 del decreto legislativo n. 5/2003.
[nota 32] Si tratta della legge 6 maggio 2004, n. 129, il cui art. 7 recita: «Per le controversie relative ai contratti di affiliazione commerciale le parti possono convenire che, prima di adire l'autorità giudiziaria o ricorrere all'arbitrato, dovrà essere fatto un tentativo di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede l'affiliato. Al procedimento di conciliazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 38, 39 e 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni».
[nota 33] L'art. 141 del D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), in tema di composizione extragiudiziale delle controversie, così recita:
«1. Nei rapporti tra consumatore e professionista, le parti possono avviare procedure di composizione extragiudiziale per la risoluzione delle controversie in materia di consumo, anche in via telematica.
2. Il Ministero delle attività produttive, d'intesa con il Ministero della giustizia, comunica alla Commissione europea l'elenco degli organi di composizione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo che si conformano ai principi della raccomandazione 98/257/Ce della Commissione, del 30 marzo 1998, riguardante i principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo e della raccomandazione 2001/310/Ce della Commissione, del 4 aprile 2001, concernente i principi applicabili agli organi extragiudiziali che partecipano alla risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo. Il Ministero delle attività produttive, d'intesa con il Ministero della giustizia, assicura, altresì, gli ulteriori adempimenti connessi all'attuazione della risoluzione del Consiglio dell'Unione europea del 25 maggio 2000, 2000/C 155/01, relativa ad una rete comunitaria di organi nazionali per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo.
3. In ogni caso, si considerano organi di composizione extragiudiziale delle controversie ai sensi del comma 2 quelli costituiti ai sensi dell'articolo 4 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.
4. Non sono vessatorie le clausole inserite nei contratti dei consumatori aventi ad oggetto il ricorso ad organi che si conformano alle disposizioni di cui al presente articolo.
5. Il consumatore non può essere privato in nessun caso del diritto di adire il giudice competente qualunque sia l'esito della procedura di composizione extragiudiziale.»
[nota 34] L'art. 27 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 "Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari" delega il Governo ad adottare, entro diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, un decreto legislativo per l'istituzione di servizi di investimento, di procedure di conciliazione e di arbitrato e di un sistema di indennizzo in favore degli investitori e dei risparmiatori, secondo i seguenti principi e criteri direttivi:
«a) previsione di procedure di conciliazione e di arbitrato da svolgere in contraddittorio, tenuto conto di quanto disposto dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, secondo criteri di efficienza, rapidità ed economicità, dinanzi alla Consob per la decisione di controversie insorte fra i risparmiatori o gli investitori, esclusi gli investitori professionali, e le banche o gli altri intermediari finanziari circa l'adempimento degli obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con la clientela;
b) previsione dell'indennizzo in favore dei risparmiatori e degli investitori, esclusi gli investitori professionali, da parte delle banche o degli intermediari finanziari responsabili, nei casi in cui, mediante le procedure di cui alla lettera a), la Consob abbia accertato l'inadempimento degli obblighi ivi indicati, ferma restando l'applicazione delle sanzioni previste per la violazione dei medesimi obblighi;
c) salvaguardia dell'esercizio del diritto di azione dinanzi agli organi della giurisdizione ordinaria, anche per il risarcimento del danno in misura maggiore rispetto all'indennizzo riconosciuto ai sensi della lettera b);
d) salvaguardia in ogni caso del diritto ad agire dinanzi agli organi della giurisdizione ordinaria per le azioni di cui all'articolo 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281, e successive modificazioni;
e) attribuzione alla Consob, sentita la Banca d'Italia, del potere di emanare disposizioni regolamentari per l'attuazione delle disposizioni di cui al presente comma.»
Il successivo art. 29 introduce il nuovo art. 128-bis del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, in tema di risoluzione delle controversie:
«1. I soggetti di cui all'articolo 115 aderiscono a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie con i consumatori.
2. Con deliberazione del Cicr, su proposta della Banca d'Italia, sono determinati i criteri di svolgimento delle procedure di risoluzione delle controversie e di composizione dell'organo decidente, in modo che risulti assicurata l'imparzialità dello stesso e la rappresentatività dei soggetti interessati. Le procedure devono in ogni caso assicurare la rapidità, l'economicità della soluzione delle controversie e l'effettività della tutela.
3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non pregiudicano per il cliente il ricorso, in qualunque momento, a ogni altro mezzo di tutela previsto dall'ordinamento.»
[nota 35] Per l'analisi delle differenze tra conciliazione giudiziale e stragiudiziale, accennate al paragrafo 3, cfr. BRUNELLI, La conciliazione giudiziale… cit.
[nota 36] Come nel previgente testo dell'art. 183 c.p.c.
[nota 37] Si tratta del testo in vigore dal 1° marzo 2006, come modificato dal D.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella legge 14 maggio 2005, n. 80, coordinato con il D.l. 30 giugno 2005, n. 115, convertito con modificazioni nella legge 17 agosto 2005, n. 168, con la legge 28 dicembre 2005, n. 263, con il D.l. 30 dicembre 2005, n. 271.
[nota 38] L'art. 70-ter disposizioni di attuazione del codice di procedura civile è stato aggiunto, con effetti dal 1° marzo 2006, in virtù dell'art. 2, comma 3-ter, D.l. 14 marzo 2005 n. 35, convertito in legge, con modificazioni, con legge 14 maggio 2005, n. 80 e dalle disposizioni successive citate nella nota che precede.
[nota 39] I progetti di legge di iniziativa parlamentare della XIV Legislatura, presentati in materia, il cui iter parlamentare è tuttora in corso, per quanto è dato conoscere, sono i seguenti:
- proposta di legge Bonito n. 541, presentata alla Camera dei Deputati il 6 giugno 2001 "Norme concernenti la conciliazione e l'arbitrato";
- disegno di legge Costa n. 1551 comunicato alla presidenza del Senato il 27 giugno 2002 "Norme per la promozione della conciliazione stragiudiziale professionale";
- proposta di legge Vitali n. 1559, presentata alla Camera dei Deputati il 12 settembre 2001 "Istituzione di una sezione arbitrale presso ciascuna camera penale";
- disegno di legge Demasi n. 1775 comunicato alla presidenza del Senato il 14 ottobre 2002 "Revisione dell'attuale sistema della conciliazione delle controversie di lavoro";
- proposta di legge Ballaman n. 1827, presentata alla Camera dei Deputati il 23 ottobre 2001 "Modifica all'articolo 17 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, recante disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale";
- proposta di legge Cola n. 2463, presentata alla Camera dei Deputati il 5 marzo 2002 "Norme per la promozione della conciliazione stragiudiziale professionale";
- proposta di legge Fragalà n. 2538, presentata alla Camera dei Deputati il 19 marzo 2002 "Disposizioni per l'istituzione e il funzionamento della Camere di conciliazione";
- proposta di legge Mazzoni n. 2877, presentata alla Camera dei Deputati il 19 giugno 2002 "Disciplina della risoluzione consensuale e negoziale delle controversie civili";
- proposta di legge Finocchiaro n. 3559, presentata alla Camera dei Deputati il 21 gennaio 2003 "Disposizioni per l'istituzione di camere di conciliazione e per la promozione della risoluzione consensuale delle controversie";
- proposta di legge Migliori n. 5096, presentata alla Camera dei Deputati il 30 giugno 2004 "Disposizioni per l'istituzione e la regolamentazione del Servizio nazionale integrato di composizione consensuale professionale dei conflitti e delle controversie";
- proposta di legge Cola n. 5492, presentata alla Camera dei Deputati il 15 dicembre 2004 "Disposizioni per la promozione della conciliazione stragiudiziale".
[nota 40] Cfr. Cnn, Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio su alcuni aspetti della conciliazione in materia civile e commerciale, (estensore BRUNELLI), in Studi e materiali, 2005, 2, p. 1461 e ss., Milano.
[nota 41] Cfr. ad esempio l'art. 5 legge 11 maggio 1990, n. 108, in tema di controversie individuali di lavoro, la legge 31 luglio 1997, n. 249 in materia di comunicazione, per le controversie devolute all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l'art. 40, sesto comma, del D.lgs. n. 5/2003.
[nota 42] Cfr., ex pluribus, Cass. civ., sez. lavoro, 16 agosto 2004, n. 15956; Cass. civ., sez. lavoro, 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. civ., sez. lavoro, 22 giugno 2004, n. 11629; Cass. civ., sez. lavoro, 30 marzo 2004, n. 6326; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2003, n. 19056; Cass. civ., sez. lavoro, 27 febbraio 2003, n. 3022; Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2002, n. 16576; Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2002, n. 11374; Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2000. n. 4803; Cass. civ., sez. III, 12 aprile 2000, n. 4658; Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 1998, n. 1350; Cass. civ., sez. III, 30 marzo 1988. n. 2687; Cass. civ., sez. lavoro, 12 giugno 1986, n. 5392; Cass. S.U. 28 novembre 1994, n. 10123.
[nota 43] Per un commento sugli organismi di conciliazione cfr. BRUNELLI, «Gli organismi di conciliazione extragiudiziale in materia societaria», Vita Not., 2004, 3, p. 1734 ss.; Cnn, Competenza per materia degli organismi di conciliazione istituiti dall'art. 38 D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 (est. PERA).
[nota 44] Cfr. BRUNELLI, «La conciliazione giudiziale…» cit.
[nota 45] Cfr. BRUNELLI, Clausole compromissorie…cit.
[nota 46] Cfr. Decreto Ministero della giustizia 23 luglio 2004, n. 222, recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all'art. 38 del decreto legislativo n. 5/2003.
[nota 47] Cfr. PETRELLI, «La nuova disciplina del Patto di famiglia», Riv. Not., 2, 2006, p. 401 e ss.
[nota 48] Si ricorda che lo stesso Consiglio Nazionale del Notariato, nell'anno 2005, ha promosso la formazione come conciliatori dei propri iscritti ed ha costituito la società adr Notariato Srl finalizzata alla gestione dei servizi di conciliazione.
[nota 49] Cfr. decreto Ministero della giustizia 23 luglio 2004, n. 222, recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all'art. 38 del decreto legislativo n. 5/2003.
[nota 50] A norma dell'art. 10 del D.M. 23 luglio 2004, n. 222, recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all'art. 38 del decreto legislativo n. 5/2003, è disposta la cancellazione degli enti ed organismi che non abbiano svolto almeno cinque procedimenti di conciliazione nel corso di un biennio.
[nota 51] A questo proposito si ricorda la recente sentenza della Corte costituzionale (8 giugno 2005, n. 221), che dichiara costituzionalmente illegittimo l'art. 13 del regio decreto-legge 28 agosto 1930, n. 1345 (Norme per la costruzione e l'esercizio dell'acquedotto del Monferrato), convertito nella legge 6 gennaio 1931, n. 80, il quale prevede un arbitrato obbligatorio per la risoluzione delle controversie relative alla costruzione o all'esercizio del suddetto acquedotto. La Corte osserva, conformemente ai suoi precedenti orientamenti, che, «poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti, perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma primo, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell'art. 102, comma primo, Cost.».
Per un commento cfr. VERDE, «La Corte costituzionale fa il punto su Costituzione e arbitrato», Rivista dell'arbitrato, 2005, 3, p. 515.
[nota 52] Per la problematica relativa al fatto se si tratti di arbitrato ordinario, disciplinato dal codice di procedura civile o di arbitrato societario, che trova la sua disciplina autonoma nel D.lgs. n. 5/2003, cfr. paragrafo successivo.
[nota 53] Ai sensi del nuovo art. 819 c.p.c. ed a differenza dal testo previgente, che imponeva la sospensione del procedimento arbitrale, agli arbitri è ora attribuita la competenza di risolvere anche le questioni pregiudiziali di merito rilevanti per la decisione della controversia, anche se relative a materie che non possono formare oggetto di arbitrato.
[nota 54] Il nuovo testo dell'art. 822 c.p.c. ha sostituito la precedente espressione «gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti li abbiano autorizzati con qualsiasi espressione a pronunciare secondo equità» con il nuovo tenore letterale «gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità». La novità legislativa sta nel fatto che è rimessa alla sola autonomia privata la possibilità di scegliere, anzi di imporre che la decisione sia pronunciata secondo equità, sottraendo agli arbitri qualsiasi diversa autonoma interpretazione.
[nota 55] Il legislatore privilegia non solo l'arbitrato rituale, come in precedenza precisato, ma anche la decisione secondo le norme di diritto, prevedendo espressamente che la decisione secondo equità sia subordinata ad una disposizione in tal senso proveniente dalle parti (art. 822 c.p.c.).
[nota 56] Per una analitica distinzione delle due forme di arbitrato, cfr. CRISI, «Considerazioni sull'arbitrato in materia societaria tra ritualità e irritualità nel quadro della riforma del processo societario di cui al D.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003», Riv. dir. comm., 2005, 1-2-3, p. 151 e ss.
[nota 57] Si ricordano sinteticamente le principali caratteristiche del nuovo arbitrato disciplinato dal D.lgs. n. 5/2003: la relativa disciplina è inderogabile per legge; il lodo è efficace ultra partes anche nei confronti della totalità dei soci, inclusi coloro la cui qualità di socio sia oggetto di controversia; sono previste forme di pubblicità, presso il registro delle imprese, per la domanda di arbitrato, per i dispositivi dell'ordinanza di sospensione ed anche per il lodo che decide sull'impugnazione; è ammesso l'intervento di terzi nel procedimento arbitrale; è eccezionalmente attribuito agli arbitri il potere di conoscere incidenter tantum di questioni che per legge non possono costituire oggetto di giudizio arbitrale (sia pur col limite di decidere in questi casi secondo diritto e di riconoscere impugnabile il lodo); è ammesso il ricorso alla tutela cautelare, riconoscendo all'arbitro il potere di sospendere l'efficacia della delibera assembleare oggetto di controversia; è previsto un arbitrato cd. economico per contrasti sulla gestione della società di persone e delle società a responsabilità limitata.
Per un commento cfr. BOVE, L'arbitrato nelle controversie societarie, in http://www.judicium.it/news/ins_13_07_03/bove.html; LUISO, Appunti sull'arbitrato societario, in http://www.judicium.it/news/ins_28_03_03/luiso%20arbitrato%20soc.HTM; MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione nella riforma del processo societario, in http://www.judicium.it/news/ins_28_03_03/miccolis%20proc.%20soc..HTM; RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in http://www.judicium.it/news/ins_04_06_03/ricci_pro.HTM.
[nota 58] La controversia, in altri termini, ha come oggetto diretto il Patto di famiglia e come oggetto mediato o indiretto il bene con lo stesso trasferito.
[nota 59] Trib. Genova 7 marzo 2005, in Il Corriere del merito, 2005, 7, p. 759. Contra Trib. Latina, 22 giugno 2004, in Riv. Not., 2005, 3, p. 603 e ss.
Riconosce l'esistenza di ipotesi di arbitrato societario disciplinato dal solo diritto comune, a fianco di ipotesi di applicazione del solo arbitrato disciplinato dal d. lgs. n. 5/2003 BRIGUGLIO, Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie, in http://www.judicium.it/news/ANTONIO%20BRIGUGLIO13_01_03.html.
[nota 60] è definita clausola multistep la clausola contrattuale con cui le parti convengono di affrontare la risoluzione di una eventuale futura controversia attraverso il ricorso a metodi di risoluzione già predeterminati e graduati: ad esempio il ricorso alla conciliazione come primo step ed all'arbitrato in caso di insuccesso della prima.
Quest'ultimo caso specifico è ulteriormente qualificabile come clausola multistep del tipo med-arb, prevedendo appunto, nell'ordine, il ricorso prima alla conciliazione, poi all'arbitrato.
è buona regola evitare che conciliatore ed arbitro possano coincidere nella stessa persona, altrimenti verrebbe inficiata la fiducia nel primo, che costituisce il vero elemento di forza della conciliazione.
[nota 61] Col termine convenzioni d'arbitrato vengono ora genericamente definite, nel nuovo codice di procedura civile, il compromesso e la clausola compromissoria. Cfr. capo I. titolo VII, libro IV c.p.c.
[nota 62] Cfr. Cnn, «Clausola compromissoria e nomina degli arbitri» (estensore RUOTOLO), risposta a quesito n. 5792/I; Cnn, «Le clausole arbitrali e l'attività notarile» (estensore RUOTOLO), studio n. 5856/I/2005; CAPASSO, Le clausole di conciliazione, e PERNA, «Clausole contrattuali e modalità operative per le imprese», relazioni in corso di pubblicazione tenute al convegno "La conciliazione nel diritto civile e commerciale…", cit.
[nota 63] «La clausola di conciliazione è assimilabile al pactum de non petendo, cioè ad un'obbligazione comportante la temporanea rinuncia ad agire in giudizio per tutelare le pretese derivanti dal contratto. In questo senso la clausola di conciliazione si differenzia dalla clausola compromissoria, con la quale le parti affidano al terzo (arbitro) il compito di risolvere la controversia in deroga all'autorità giudiziaria». In tal senso Circolare n. 22 del 27 settembre 2004 Fondazione Luca Pacioli.
[nota 64] è essenziale che il contenuto della clausola sia il più chiaro e preciso possibile, tale da escludere o almeno ridurre al minimo i dubbi interpretativi.
Si ricorda che, per giurisprudenza costante, poiché il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri comporta una deroga alla giurisdizione ordinaria, in caso di dubbio in ordine all'interpretazione della portata della clausola compromissoria, deve preferirsi un'interpretazione restrittiva di essa e affermativa della giurisdizione statuale (cfr., ex pluribis, Cass. civ., sez III, 23 luglio 2004, n. 13830; Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2005, n. 8575).
[nota 65] Cfr. D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) e art. 1341 c.c.
[nota 66] L'esigenza del rispetto della simmetria di forma tra procura e contratto cui si riferisce trova la sua ragion d'essere nel fatto che, se una forma vincolata richiesta ad substantiam per il contratto è necessitata dall'esigenza di richiamare l'attenzione e sollecitare la riflessione dei singoli contraenti sull'importanza del documento che si accingono a sottoscrivere, eguale esigenza esiste per la sottoscrizione della procura, che costituisce atto prodromico al contratto e rappresenta, qualora si faccia ricorso ad essa, l'unico momento in cui l'impegno contrattuale del procuratore viene formalizzato.
[nota 67] Le Camere di commercio, che abbiano costituito organismi di conciliazione ai sensi dell'art. 2 della legge n. 580/1993, hanno diritto di ottenere l'iscrizione nel registro ministeriale, ai sensi dell'art. 40, secondo comma, del D.lgs. n. 5/2003.
[nota 68] Cfr. quanto esposto alla nota numero 50.
[nota 69] In mancanza di chiara indicazione, è lo stesso legislatore a stabilire che, nel dubbio, la convenzione d'arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce (art. 808-quater c.p.c.). Rientra nell'autonomia contrattuale delle parti limitare l'efficacia delle clausole ad alcune controversie oppure estenderla a tutte.
è pertanto necessario specificare l'ambito di applicazione della clausola, con l'avvertenza che, per definizione, una clausola non può mai essere omnicomprensiva, rimanendo sempre esclusa, per ironia della materia stessa, proprio un'eventuale controversia sull'esistenza o sulla validità della clausola stessa.
[nota 70] Sulla nomina degli arbitri si richiama quanto precisato al paragrafo "disciplina applicabile" p. 340: se nell'arbitrato ordinario la nomina degli arbitri non subisce vincoli particolari, nell'arbitrato societario, invece, il potere di nomina di tutti gli arbitri deve essere conferito a soggetto estraneo, a pena di nullità della clausola (art. 34 del D.lgs. n. 5/2003). Sarà il contenuto del Patto di famiglia a far propendere per l'una o l'altra soluzione, considerando che il trasferimento di partecipazioni societarie può rientrare nell'ambito di applicazione dell'arbitrato societario.
[nota 71] Gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo espressa contraria disposizione delle parti.
[nota 72] In mancanza di scelta di arbitrato irrituale, l'arbitrato si presume rituale, con conseguente applicazione della relativa disciplina (art. 808-ter, primo comma, c.p.c.).
Si ricorda, a questo proposito, una recente sentenza di merito in linea con la giurisprudenza costante, secondo cui «per distinguere l'arbitrato rituale da quello irrituale occorre ricercare, al di là delle espressioni letterali usate dai compromittenti, se essi abbiano inteso affidare agli arbitri un mandato a definire la controversia sul piano contrattuale, con una decisione riconducibile alla volontà dei mandati (v. in proposito, tra le altre, Cass. 18 novembre 1982, n. 12346 e Cass. 17 giugno 1993, n. 6757)» (Trib. Imperia 27 giugno 2005, in Le Società, 2006, 2, p. 235 ss.). Sullo stesso punto cfr. Corte di Appello Firenze, sez. I civile, 3 dicembre 2002, in Rivista dell'arbitrato, 2004, 2, p. 327; Cass. civ. sez. lavoro, 24 gennaio 2005, n. 1398.
[nota 73] Vedi nota seguente.
[nota 74] Cfr. tuttavia "disciplina applicabile" p. 340 e nota 70 in merito all'opportunità di rimettere ad un terzo la nomina di tutti gli arbitri quando il Patto di famiglia abbia per oggetto il trasferimento di partecipazioni societarie.
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