Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out
Il finanziamento dell'operazione: familiy buy out
di Marcello Claudio Lupetti
Notaio
La rilevanza socio-economica delle imprese a carattere familiare
Da una indagine svolta sui giornali di informazione è risultato che «il 58% delle aziende di casa nostra è ancora a carattere familiare. Il 26% della capitalizzazione di Piazza Affari fa capo ad azionisti che appartengono più o meno tutti allo stesso albero genealogico. E anche molti dei big non quotati da Barilla ai Ferrero fino a Riva (acciaio) sono ancora saldamente in mano ai fondatori o ai loro eredi» [nota 1].
Secondo altre stime, la presenza delle imprese a base familiare nella realtà imprenditoriale italiana raggiunge quasi il 99%, mentre in una realtà particolarmente importante come quella statunitense varia tra il 90% ed il 98% [nota 2].
Se così radicata nel tessuto economico è la presenza delle imprese a base familiare, risulta peraltro - da indagini condotte dalla Commissione europea - che le imprese familiari che sopravvivono alla terza generazione sono solo tra il 5% ed il 15% [nota 3]. Le ragioni principali per cui si hanno numeri così bassi sono dovute alla cattiva gestione del passaggio del testimone da una generazione ad un'altra.
Ed infatti, i momenti di maggior tensione nelle imprese a carattere familiare si verificano proprio al momento della morte del fondatore a causa dei litigi tra i suoi successori, che nella migliore delle ipotesi conducono alla vendita in blocco dell'azienda di famiglia, come è avvenuto in Francia con la Taittinger dove la famosa dinastia francese si vide costretta a cedere il suo impero dello chamapagne per i dissidi insorti tra i 38 eredi del fondatore.
Ma non è escluso che, in simili casi, si possa arrivare addirittura al fallimento dell'impresa di famiglia, con tutto ciò che esso comporta in ordine alla perdita di posti di lavoro, oltre alle conseguenze nei confronti di fornitori e di tutti coloro, più in generale, che gravitano intorno alla azienda.
E' indubbio pertanto come il passaggio generazionale di azienda nelle imprese a carattere familiare investa profili, non solo di carattere giuridico, ma anche (e forse potremmo dire, soprattutto) economico e sociale.
Le tecniche maggiormente utilizzate prima dell'introduzione dei Patti di famiglia
Prima dell'introduzione della normativa sui Patti di famiglia ci si poneva il problema di come garantire il passaggio generazionale dell'azienda a favore di uno dei figli (o, talvolta, dei discendenti) dell'imprenditore, in caso di accordo tra tutti i suoi possibili legittimari, evitando al contempo che l'attribuzione potesse essere messa in discussione in futuro.
Ora, nel caso in cui i figli ed il coniuge dell'imprenditore non assegnatari dell'azienda fossero stati d'accordo a che l'azienda venisse attribuita ad un determinato figlio ed avessero voluto rinunziare ai propri diritti di legittima sull'azienda, garantendone in tal modo la stabilità, il Notaio avrebbe dovuto rifiutare il suo ministero in quanto un tale patto (di rinunzia ai diritti di legittima sull'azienda ed all'esperimento dell'azione di riduzione) avrebbe concretato una palese violazione del disposto di cui all'art. 557, secondo comma, c.c., rientrante nell'ambito dei patti successori rinunziativi.
Una delle possibili soluzioni poteva allora essere quella di ricorrere alla stipulazione di un "fascio" di donazioni a favore di tutti i figli dell'imprenditore (e, meglio ancora, se fatta a favore anche del coniuge dell'imprenditore, essendo questi un legittimario), in modo da perequarli.
Una tale soluzione presentava però quale principale inconveniente - a parte il fatto che si sarebbe presentata "eccessiva" nel caso in cui i figli ed il coniuge non assegnatari dell'azienda non avessero voluto ricevere nulla, con l'ulteriore inconveniente di dover per forza reperire nel patrimonio dell'imprenditore beni di valore sufficiente a soddisfare i loro diritti di riserva - il fatto che comunque non si sarebbe potuta del tutto scongiurare la possibilità di esperimento di azioni di riduzione (ad opera magari dei nipoti ex filio dell'imprenditore, subentrati al loro genitore per rappresentazione) in quanto il valore dei beni donati non si sarebbe "cristallizzato" al momento della donazione ma si sarebbe dovuto calcolare al momento di apertura della successione.
Pertanto se l'azienda avesse nel frattempo assunto un valore maggiore rispetto a quello avuto al momento della donazione, tale incremento (dovuto, di regola, alle capacità imprenditoriali del figlio donatario dell'azienda) avrebbe potuto rappresentare una lesione dei diritti di riserva degli altri legittimari, con le relative conseguenze in termini di esperimento di azioni di riduzione.
Si preferiva allora per lo più ricorrere ad una donazione dell'azienda in quote indivise a favore di tutti i potenziali legittimari dell'imprenditore, in misura corrispondente alle loro quote di legittima.
Contestualmente si procedeva alla cessione a titolo oneroso delle quote dei donatari-legittimari a favore del figlio-donatario designato dall'imprenditore quale "continuatore" dell'impresa [nota 4].
Tali cessioni a titolo oneroso dissimulavano però, di regola, delle donazioni, con la conseguenza che potevano a loro volta essere assoggettate a riduzione.
Pertanto anche tale soluzione non si presentava del tutto appagante.
…(segue) il family buy out
Una tecnica spesso seguita – soprattutto nelle aziende di dimensioni medio-grandi – era poi quella di ricorrere all'operazione di family buy out.
Il family buy out è la variante "familiare" del leveraged buy out o del management buy out.
Si tratta di tecniche di acquisizione di aziende o di società mediante il ricorso all'indebitamento bancario.
Nel caso del family buy out, il familiare che intende acquistare le partecipazioni societarie degli altri familiari, ma che non abbia la necessaria capacità finanziaria, ricorre ad un mutuo bancario, garantito dalla consistenza del patrimonio della società di famiglia (detta "bersaglio" o "target").
Il familiare che intende acquisire il controllo della società di famiglia crea pertanto una nuova società (cosiddetta "newco"), la quale ottiene il finanziamento bancario che servirà per acquistare le quote di titolarità degli altri familiari nella società di famiglia ("target"). Le quote della "newco" vengono immediatamente girate in pegno alla banca a garanzia del finanziamento.
La "newco" procede quindi ad acquistare le quote della società di famiglia ("target"), utilizzando, quale prezzo, il ricavato dall'erogazione del finanziamento bancario.
Successivamente la "target" viene fusa per incorporazione nella "newco", che diviene così capace, con i propri flussi di cassa e i propri redditi (o anche con la cessione di alcuni asset) a rimborsare alla banca il finanziamento ottenuto per l'acquisizione.
Così facendo, il familiare che intende acquisire l'intero capitale sociale della società di famiglia ottiene le risorse finanziarie necessarie allo scopo.
Fino ad oggi, da quanto risulta dalle cronache dei giornali, il family buy out è stato sovente utilizzato per risolvere dissidi insorti tra i membri della famiglia ricoprenti funzioni e responsabilità imprenditoriali oppure per consentire a un ramo familiare di prendere il controllo dell'azienda in situazioni di azionariato frastagliato.
Si pensi, ad esempio, tra i casi più eclatanti, alla Riello la quale alla metà degli anni 90 faceva capo, dopo varie vicissitudini familiari, a due cugini, i quali avevano divergenze sullo sviluppo strategico del gruppo. Il divorzio tra i due coniugi venne segnato dall'acquisizione dell'azienda da parte di uno di essi, a seguito di un'asta familiare in busta chiusa. La somma versata al cugino "uscente" venne fornita da una banca d'affari, la quale acquisì il 50% della holding di controllo del gruppo Riello [nota 5].
Interessante anche l'operazione progettata per affrontare il passaggio generazionale nella proprietà della Ipa Sud Srl di Barletta, azienda di famiglia attiva nella grande distribuzione organizzata nel Sud Italia, aderente al consorzio Despar Italia. L'operazione venne pianificata e strutturata in tre fasi, al fine di consentire ad uno dei fratelli di acquisire le quote degli altri fratelli che avevano deciso di vendere l'azienda, visto che loro, per ragioni di età, presto non avrebbero più potuto occupare i rispettivi ruoli e visto che i loro figli avevano intrapreso percorsi professionali diversi.
In tal caso venne costituita una società (la NextGen), interamente partecipata dal ramo della famiglia facente capo al fratello che intendeva acquisire la società, in cui confluì la quota di quest'ultimo in Ipa Sud. Il secondo passo fu l'acquisizione da parte della NextGen delle quote degli altri soci. Infine, venne realizzata la fusione della Ipa Sud nella NextGen.
Le risorse finanziarie necessarie a concludere il family buy out vennero anche in tal caso rese disponibili da un finanziamento bancario, dietro presentazione di un business plan dettagliato e prudente [nota 6].
Ma, al di là dei casi sopra esposti, l'operazione di family buy out può in concreto presentarsi con diverse varianti.
Invece che di "accontentarsi" di ricevere in pegno le partecipazioni della "newco", la banca d'investimento potrebbe infatti pretendere di diventare azionista dell'impresa familiare mettendo a disposizione i capitali necessari per liquidare i parenti che non intendano essere più coinvolti nelle sorti dell'impresa.
Dopo un certo numero di anni di "affiancamento", la banca di regola preferisce uscire dal capitale dell'impresa finanziata in tre modi: o attraverso la quotazione in Borsa, o con la ricerca di un altro socio industriale o finanziario oppure con la vendita a un grande gruppo.
Come si può notare dai casi sopra riportati, si tratta spesso di operazioni che presentano in concreto difficoltà non solo di carattere tecnico (trattandosi di operazioni spesso assai complicate nella pratica), ma anche di carattere economico: occorre infatti "convincere" la banca della bontà dell'operazione e della capacità della società "target", una volta fusa in quella nuova ("newco"), di restituire il prestito ottenuto [nota 7].
Si noti, inoltre, come un simile strumento venga, di regola, adottato ogniqualvolta un familiare abbia di mira il controllo dell'impresa di famiglia, al pari, in sostanza, di quanto accade nel management buy out, utilizzato nel caso di scalate da parte dei manger.
Ne consegue che se è vero che questo strumento si presta a consentire scalate in società a carattere familiare, essendo finalizzato all'acquisizione delle quote di titolarità degli altri familiari, meno immediata sembra invece la sua applicazione nel caso in cui gli altri familiari non detengano quote dell'azienda o della società di famiglia.
Inoltre nel family buy out di regola l'iniziativa ad acquisire l'azienda o la società di famiglia parte direttamente dal familiare, mentre nel caso di passaggio generazionale di azienda, propriamente inteso (nel senso, in particolare, avuto di mira nella normativa sui Patti di famiglia), l'iniziativa parte dall'imprenditore, il quale intende selezionare tra i suoi discendenti quello più capace.
Il family buy out trova, infatti, spazio nei casi in cui all'interno di una società o azienda di famiglia alcuni familiari intendano acquisire il controllo maggioritario o totalitario, facendo in modo di escludere i familiari meno capaci o con visioni strategiche divergenti o non più interessati a partecipare all'attività di impresa.
Si consideri, ancora, che il fatto di avere quale socio una banca di investimento o il fatto di vedere le proprie quote gravate da diritti di pegno o i beni aziendali sottoposti a garanzie reali o il fatto di dover vendere dei cespiti aziendali o addirittura rami di azienda - oltre alla circostanza di dover far affidamento sul futuro cash flow prodotto dall'attività imprenditoriale, al fine di rimborsare il prestito alla banca, con tutti i rischi che ciò comporta soprattutto se nei primi anni il discendente stenti a decollare - possono rappresentare un deterrente al ricorso a tale tecnica finanziaria.
Di conseguenza il family buy out si presenta come uno strumento inadeguato o eccessivo ogni qual volta la volontà di attuare il passaggio generazionale di azienda sia riferibile all'imprenditore ed ogni qual volta questi abbia mezzi sufficienti a soddisfare le ragioni di tutti i soggetti coinvolti nell'operazione.
Come vedremo, è stato creato un strumento ad hoc dal legislatore (il Patto di famiglia) al fine di eliminare gli inconvenienti sopra visti e dotare di uno strumento più semplice e duttile gli imprenditori che intendano attuare il passaggio del testimone.
Le sollecitazioni dell'Unione europea
Già nel 1994 in sede comunitaria con la Raccomandazione 94/1069/Ce [nota 8] si evidenziava come ogni anno migliaia di imprese cessassero la loro attività per problemi inerenti la loro successione, a causa di insufficiente preparazione alla successone medesima e inadeguatezza delle singole legislazioni nazionali in materia successoria, fiscale e societaria.
Nel 1998 la Commissione europea con la Comunicazione n. 98/C 93/02 - pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C 93 del 28 marzo 1998 - sulla trasmissione delle piccole e medie imprese, rilevava che circa il 10% delle dichiarazioni di fallimento che si verificavano all'interno della Comunità europea era causato da successioni mal gestite e auspicava che gli Stati membri si adoperassero per rimuovere gli ostacoli dei propri diritti successori, come il divieto dei patti successori, nonché facilitassero la conversione della riserva in natura in riserva in valore [nota 9].
L'introduzione nel nostro ordinamento dei Patti di famiglia
Come detto, la recente normativa sui Patti di famiglia risulta orientata a risolvere i problemi sopra evidenziati, essendo tesa - su spinta dell'Unione europea - ad eliminare quegli inconvenienti che le tecniche di trasmissione dell'azienda fino ad allora utilizzate (tra cui, appunto, il family buy out) presentavano.
La legge 14 febbraio 2006 n. 55, se è tesa a perseguire tale obiettivo, si presenta però estremamente lacunosa, creando spesso dubbi interpretativi di non facile soluzione, soprattutto in ordine al problema del finanziamento dell'operazione e, più in particolare, alla possibilità di evitare il ricorso all'indebitamento bancario attraverso family buy out, mediante l'effettuazione di assegnazioni "ulteriori" da parte dell'imprenditore (o del titolare di partecipazioni sociali) a favore dei legittimari non assegnatari dell'azienda (o delle partecipazioni sociali).
A questo riguardo, si noti come lo stesso legislatore storico - avvertita come pressante l'esigenza di consentire, per le ragioni dell'economia (ed, in particolare, al fine di assicurare una continuità all'impresa), che le nuove norme entrassero subito in vigore - abbia esortato l'interprete a riempire le lacune attraverso «un'adeguata attività interpretativa in funzione suppletiva» [nota 10].
Vista la laconicità del dettato legislativo e quanto affermato nei lavori preparatori, si impone pertanto un'interpretazione con "funzione suppletiva" del testo di legge, che, prendendo le mosse dal dato letterale, abbia riguardo a quella che è stata l'intenzione del legislatore, salvaguardando al contempo la coerenza del sistema.
La successiva parte della presente trattazione sarà pertanto tutta orientata a vagliare l'ammissibilità di assegnazioni da parte dell'imprenditore ulteriori rispetto a quelle relative all'azienda o alle partecipazioni sociali. Si analizzeranno pertanto la ratio, la natura giuridica, la causa, l'oggetto (con specifico riferimento alla delimitazione del concetto di "partecipazioni sociali") nonché la struttura del Patto di famiglia al fine di giungere ad una interpretazione dell'art. 768-quater, terzo comma, c.c., che possa presentarsi il più possibile appagante e coerente al sistema.
Ratio
Come si afferma nella relazione alla proposta di legge n. 3870 dell'8 aprile 2003 - da cui ha preso le mosse la legge 14 febbraio 2006 n. 55 - con il Patto di famiglia il legislatore ha inteso «conciliare il diritto dei legittimari con l'esigenza dell'imprenditore che intende garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più dei propri discendenti, prevedendo da una parte la liceità di accordi in tal senso, dall'altra la predisposizione di strumenti di tutela dei legittimari che siano esclusi dalla proprietà dell'azienda stessa».
Più in particolare, si legge nella suddetta relazione che «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell'esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all'esercizio dell'autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all'attività d'impresa» [nota 11].
In sostanza, il legislatore ha perseguito l'obiettivo - già auspicato in sede comunitaria con la comunicazione n. 98/C 93/02, sopra citata - di garantire il passaggio generazionale di azienda, evitando che la sua stabilità potesse essere intaccata:
- dall'esperimento di azioni di riduzione;
- dall'assoggettabilità a collazione;
e tutelando al contempo le ragioni economiche dei legittimari attraverso la "liquidazione" dei loro diritti di legittima.
In tal modo il legislatore realizza anche uno scopo "sociale", che è quello di preservare i posti di lavoro altrimenti coinvolti dallo smembramento del complesso produttivo.
Non bisogna infatti dimenticare che l'azienda non è un comune bene mobile, attagliandosi meglio alla stessa la qualifica di bene "sociale" [nota 12].
Tale profilo emerge chiaramente dalla comunicazione n. 98/C 93/02 della Commissione europea, sopra citata - che ha costituito l'antecedente storico della legge n. 55 - ove si legge: «Dopo la creazione e la crescita, la trasmissione è la terza fase cruciale nel ciclo di vita di un'impresa. Nel momento in cui il fondatore si ritira e passe le consegne, in gioco ci sono i posti di lavoro. Studi recenti hanno dimostrato che, nel corso dei prossimi anni, oltre 5 milioni di imprese nell'Unione europea, pari al 30% circa di tutte le imprese europee, dovranno far fronte al problema della trasmissione. Il 30% circa di esse, cioè 1,5 milioni, spariranno per insufficiente preparazione alla loro trasmissione, compromettendo 6,3 milioni di posti di lavoro circa».
Gli interessi perseguiti dal legislatore
Da quanto sopra affermato - ed in particolare da quanto si desume dalla ratio della normativa sui Patti di famiglia, come sopra individuata - emerge che il legislatore, nel dettare la normativa in questione, ha avuto di mira la tutela di un triplice ordine di interessi.
Il primo interesse che ha voluto tutelare è quello dell'imprenditore (o del titolare di partecipazioni sociali) di selezionare tra i propri discendenti quello o quelli ritenuti più capaci e meritevoli, al fine di garantire una continuità nella gestione dell'impresa (e di riflesso la conservazione dei posti di lavoro).
Questa volontà del legislatore, espressa a chiare lettere nei lavori preparatori, emerge, tra l'altro, dall'art. 768-bis c.c. ove si consente all'imprenditore (o al titolare di partecipazioni sociali) di scegliere il proprio "successore" tra i propri discendenti.
Il secondo interesse avuto di mira dal legislatore è rappresentato dalla tutela dei legittimari.
Il legislatore non ha voluto che il passaggio generazionale di azienda avvenisse con sacrificio dei loro diritti di riserva, ma ha richiesto, come indispensabile, la loro "partecipazione" al patto al fine di ottenere la tacitazione dei loro diritti.
Tale intento - ben espresso anch'esso nella relazione accompagnatoria al disegno di legge - si è estrinsecato, a livello normativo, nell'art. 768-quater ove si prevede non solo la loro partecipazione al patto [nota 13] ma anche il diritto di ottenere la "liquidazione" della legittima, salvo rinunzia.
Trattandosi di un atto (la liquidazione) che va ad incidere fortemente sul patrimonio del legittimario non assegnatario di azienda o di partecipazioni sociali - precludendo a questi l'esperimento di azioni di riduzione ed escludendo l'assoggettamento delle attribuzioni a collazione - è inevitabile il consenso di quest'ultimo all'operazione, anche in termini di quantum debeatur.
La tutela dei legittimari è un passaggio obbligato per raggiungere poi il terzo interesse perseguito dal legislatore che è quello della stabilità del patto [nota 14]. La volontà di garantire tale stabilità è espressa dal legislatore nell'art. 768-quater, ultimo comma, ove si prevede la non assoggettabilità del patto ad azioni di riduzione e collazione; nell'art. 768-quinquies, ove si stabilisce un breve termine di prescrizione per l'impugnazione; nell'art. 768-sexies, ove si incide pesantemente sui diritti di coloro che non parteciparono al patto - in quanto legittimari "sopravvenuti" - stabilendo a loro favore soltanto un diritto di credito.
Considerato pertanto che il legislatore ha perseguito con la normativa in esame questo triplice ordine di interessi, ogni soluzione, per poter essere reputata corretta, dovrebbe, a mio avviso, soddisfare tutti e tre gli interessi suddetti, o quantomeno non porsi in contrasto con alcuno di essi [nota 15].
Natura giuridica
Come si afferma nella relazione al disegno di legge, si tratta di un "nuovo negozio giuridico".
Tale nuovo istituto è stato collocato tra le successioni e le donazioni, nell'ambito del titolo IV del libro II relativo alla divisione ereditaria, attraverso l'inserimento di un apposito capo (il V-bis).
Trattandosi di un negozio giuridico tipico non ha pertanto senso qualificarlo come donazione, divisione od altro.
è bene comunque sgombrare da subito il campo da possibili equivoci, precisando che si tratta di un negozio inter vivos.
L'art. 768-bis, nella sua stesura definitiva, precisa infatti che l'azienda (o la partecipazione societaria) si "trasferisce" (e non più si "assegna", come si prevedeva nell'originaria proposta di legge n. 3870) al beneficiario (o ai beneficiari), lasciando intendere che l'effetto traslativo avviene immediatamente [nota 16]. Non si dispone pertanto (relativamente all'azienda ed alle partecipazioni societarie) per il periodo successivo alla morte dell'imprenditore (o del titolare delle partecipazioni societarie), come invece avviene nei patti successori istitutivi.
Configura, invece, un vero e proprio patto successorio l'atto di disposizione dei diritti di legittima che può avvenire o tramite loro "liquidazione" (in tal caso avremmo un patto successorio dispositivo) o tramite rinunzia da parte degli aventi diritto (ed avremmo allora un patto successorio rinunziativo) [nota 17]. Si consideri, inoltre, che il legittimario che si determina a stipulare un Patto di famiglia è ben consapevole del fatto che le attribuzioni in esso contenute non saranno più soggette ad azione di riduzione e collazione. Il che comporta una implicita rinunzia da parte dello stesso all'esperimento di tali rimedi successori, come tale concretante anch'essa un patto successorio rinunziativo [nota 18].
Tali patti successori, un tempo vietati, sono ora leciti ai sensi del nuovo inciso iniziale dell'art. 458, introdotto dall'art. 1 della legge n. 55/2006.
Premesso pertanto che si tratta di un negozio tipico inter vivos risulta comunque utile analizzare gli effetti prodotti dal Patto di famiglia al fine di colmare la scarna disciplina posta dal legislatore.
Sotto questo profilo, si può per prima cosa precisare che si tratta di un atto di liberalità e non certamente di un negozio a titolo oneroso, nonostante l'art. 768-bis parli genericamente di "trasferimento" [nota 19].
Ed infatti tutta la normativa sui Patti di famiglia nasce per portare a soluzione il problema delle "provenienze donative" di azienda (o di partecipazioni sociali).
è un problema per certi versi analogo a quello delle provenienze donative di immobili.
Con la differenza che, mentre le provenienze donative di immobili pongono problemi in caso di successivo trasferimento inter vivos del bene (in specie nel caso in cui l'acquirente richieda un mutuo fondiario) a causa del potenziale esercizio di azioni di riduzione, le provenienze donative di azienda (o di partecipazioni sociali) pongono problemi in caso di successione mortis causa del donante, a causa dell'assoggettabilità a riduzione e collazione.
D'altra parte, se si trattasse di un negozio a titolo oneroso, non si comprenderebbe il senso dell'ultimo comma dell'art. 768-quater che esclude l'esperimento dell'azione di riduzione e l'assoggettabilità a collazione. Come è noto tali rimedi presuppongono che l'atto cui essi sono rivolti sia o una liberalità o una disposizione testamentaria.
Sotto un profilo eminentemente pratico non si capirebbe poi perché l'assegnatario di azienda (o di partecipazioni), in caso di esborso di denaro o di altri beni per l'acquisto, dovrebbe ricorrere a tale istituto (con tutto quello che comporta anche in termini di liquidazione dei diritti dei legittimari), anziché adottare il più piano e collaudato strumento della cessione (onerosa) di azienda.
Si può tutt'al più ammettere il negotium mixtum cum donatione, ma per il semplice motivo che si tratta di una liberalità indiretta, come tale soggetta anch'essa ad azione di riduzione e a collazione.
Ora, mentre il legislatore ha portato parzialmente a soluzione (in modo non del tutto appagante) il problema delle provenienze donative di immobili, attraverso la modifica degli artt. 561 e 563 c.c., più coraggio ha avuto - in quanto spinto anche dal legislatore comunitario - per le provenienze donative di azienda (o di partecipazioni sociali), prevedendo espressamente una deroga al divieto dei patti successori.
Alla luce di quanto sopra osservato si può pertanto trarre una prima conclusione e cioè che il principale effetto prodotto dai Patti di famiglia è quello liberale, tanto che esso potrebbe essere ascritto nell'ambito delle liberalità non donative [nota 20].
Ciò significa, ad esempio, in chiave applicativa, che quanto ricevuto dall'assegnatario di azienda sarà escluso dalla comunione legale dei beni, ai sensi dell'art. 179, primo comma, lett. b) c.c.
Per quanto riguarda poi gli ulteriori effetti che il Patto di famiglia può produrre risulta necessaria l'analisi della struttura del Patto di famiglia, di cui ai paragrafi successivi.
Causa
Nel negozio in esame sembra ravvisabile una causa che potremmo definire "mista" o "complessa", in quanto accanto alla causa di liberalità che contraddistingue il trasferimento dell'azienda (o di partecipazioni) a favore del (o dei) discendenti, è presente un'ulteriore funzione rappresentata dalla necessità di attribuzioni patrimoniali a favore dei legittimari con finalità liquidative e tacitative dei loro diritti di legittima (salvo rinunzia), attribuzioni che contribuiscono a definire e a qualificare la fattispecie come "Patto di famiglia" [nota 21].
Oggetto del Patto di famiglia: il problema delle "partecipazioni societarie"
Conformemente alla ratio della nuova disciplina, oggetto del Patto di famiglia devono essere beni (aziende o partecipazioni sociali) che consentano il passaggio generazionale nella gestione dell'impresa.
A questo riguardo i maggiori problemi sono offerti dall'interpretazione della terminologia "partecipazioni societarie" usata dal legislatore. Ci si chiede infatti se vi debba essere un limite quantitativo e/o qualitativo di tali partecipazioni.
Da un'interpretazione meramente letterale della norma si potrebbe ritenere che oggetto del Patto di famiglia possa essere una qualunque partecipazione anche del tutto minoritaria ed insignificante di società aventi qualunque oggetto sociale (quindi anche ad es., società di comodo o società tra avvocati).
E' evidente che così opinando verrebbe del tutto vanificata l'intenzione del legislatore, anch'essa importante canone ermeneutico ex art. 12 preleggi.
Ebbene, se la vistosa deroga al divieto dei patti successori si giustifica in considerazione della particolare natura del bene trasferito, qualificabile come "bene di impresa" e quindi come bene "produttivo", si avrebbe una disparità di trattamento nel caso in cui il bene oggetto del patto non rivesta una simile qualifica.
L'interpretazione letterale è quindi certamente da scartare in quanto conduce all'incostituzionalità della norma.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte si dovrebbe quindi concludere che la cessione dovrebbe avere ad oggetto una partecipazione che consenta (anche solo potenzialmente) al cessionario di continuare ad esercitare nell'azienda quel potere gestionale già presente in capo al cedente (a prescindere che si tratti di impresa individuale o collettiva, come si legge nei lavori parlamentari) o, quantomeno, di influire sulle scelte gestionali della società [nota 22].
Si dovrebbe poi trattare di partecipazioni in società che consentano quel passaggio generazionale di azienda (sia commerciale che agricola) avuto di mira dal legislatore, con esclusione quindi, ad es., delle società di comodo, tra avvocati, ecc.
Si consideri, altresì, che il Patto di famiglia - atteggiandosi come una sorta di "anticipata successione" (come si legge nei lavori preparatori) [nota 23] - deve essere teso ad evitare quelle conseguenze negative che al momento di apertura della successione si sarebbero verificate in assenza di esso.
Non si vede, allora, che senso avrebbe stipulare un Patto di famiglia se poi al momento di apertura della successione le redini dell'impresa (individuale o collettiva che sia) possano essere messe in discussione dagli altri legittimari.
Alla luce di tale criterio, si dovrebbe quindi escludere dalla nuova normativa la cessione della quota dell'accomandante di Sas (che non consente la gestione della società) [nota 24].
Si dovrebbe invece ricomprendere, ad esempio, la cessione della quota da parte di uno dei soci amministratori di una Snc, in quanto si può ritenere che anche la "cogestione" rientri nell'ambito della nuova figura giuridica. Stessa conclusione affermativa si dovrebbe dare non solo riguardo alla cessione del pacchetto di maggioranza di una società di capitali (ivi comprese le azioni di SpA, a nulla rilevando l'imprecisa dizione legislativa che fa riferimento alle "quote" [nota 25]) ma anche della partecipazione di riferimento.
A conclusione negativa dovrebbe invece giungersi nel caso in cui oggetto di cessione sia una parte delle partecipazioni societarie (di cui la rimanete resti in mano al cedente) che non consenta il passaggio generazionale ma semplicemente sia tesa ad "affiancare" al socio di maggioranza o di riferimento il discendente.
Nulla esclude peraltro che anche un partecipazione minoritaria possa essere fatta oggetto di Patto di famiglia allorquando ad essa siano connessi poteri tali che consentano una "influenza" sulle scelte gestionali della società.
Si pensi, ad es., ad una partecipazione inferiore al 50% in una società quotata che, data la polverizzazione del capitale, consenta comunque di avere un penetrante potere decisionale o ad una partecipazione anche esigua che consenta, grazie alla stipula di patti parasociali, di influire sulle scelte gestionali della società, fungendo talvolta da ago della bilancia o, infine, ad una partecipazione di minoranza in una Srl con previsione a favore del socio di un particolare diritto di amministrazione ai sensi dell'art. 2468, 3° comma, c.c., quale ad esempio il diritto di amministrare la società o il diritto di veto sulla nomina degli amministratori, nel caso in cui tale diritto permanga, a seguito della cessione, in capo al cessionario.
Attesa l'ampia casistica che si può presentare all'operatore, si può comprendere come mai il legislatore abbia preferito non fare riferimento a nozioni già presenti nel nostro ordinamento, quale, ad es., quella di "controllo" (di diritto, di fatto, diretto, indiretto, ecc.), che avrebbero "ingessato" la nuova figura giuridica.
Né deve spaventare l'operatore del diritto il fatto che non sia previsto un preciso criterio dal legislatore, in quanto si potrà desumere la qualificazione della partecipazione sociale come "bene di impresa" dall'entità della partecipazione, da quanto previsto nello statuto o nei patti parasociali, da altri elementi ovvero da altre informazioni o dichiarazioni ottenute dalle parti sotto la loro responsabilità [nota 26].
Si consideri d'altronde che seguire l'interpretazione meramente letterale della norma, a prima vista più tranquillizzante in quanto apparentemente senza limiti, significherebbe andare incontro al rischio della nullità dell'atto per contrasto con il divieto dei patti successori, nell'ipotesi in cui la giurisprudenza ritenga che l'ombrello offerto dal legislatore non copra tutte le ipotesi di cessione indiscriminata di partecipazioni sociali.
Né sembri criterio troppo vago e generico quello di affidarsi a dichiarazioni di parte – tra le quali tra l'altro rientrerebbe anche quella in ordine allo stato di famiglia del disponente, non essendo a questo riguardo richiesto dalla legge l'allegazione o la produzione di alcuna documentazione, né tantomeno il ricevimento di un atto notorio – in quanto non è infrequente che ciò accada negli atti notarili, dove spesso il Notaio riceve dichiarazioni dai comparenti non verificabili da parte dello stesso (si pensi ad esempio alle agevolazioni prima casa, ove in caso di dichiarazioni mendaci si avrà la decadenza dai benefici fiscali).
L'importante semmai è che il Notaio responsabilizzi le parti sulle conseguenze civilistiche di dichiarazioni non veritiere, nel senso che il Patto di famiglia in tal caso non produrrà i suoi effetti tipici.
La struttura del Patto di famiglia
Il legislatore ha strutturato il Patto di famiglia come comprendente un duplice ordine di attribuzioni: da una parte vi è una attribuzione (con funzione liberale) dall'imprenditore (o titolare di partecipazioni sociali) al discendente; dall'altra vi sono attribuzioni (con funzione tacitativa dei diritti di legittima; attribuzioni peraltro eventuali perché, ad es., i legittimari potrebbero rinunziare ai loro diritti di legittima) a favore di coloro che sarebbero legittimari ove al momento di stipulazione del patto si aprisse la successione dell'imprenditore (o del titolare di partecipazioni sociali).
La prima attribuzione è prevista nell'art. 768-bis c.c. Il secondo ordine di attribuzioni è previsto, invece, nei commi secondo e terzo dell'art. 768-quater c.c.
Dubbi interpretativi nascono in merito all'interpretazione dell'art. 768-quater, terzo comma, c.c.
Alcuni tra i primi commentatori hanno ritenuto di ravvisare il soggetto (di diritto) cui sono riferibili le assegnazioni di cui a tale comma nell'assegnatario di azienda (o di partecipazioni sociali).
In verità leggendo rapidamente il secondo e terzo comma dell'art. 768-quater sembrerebbe che entrambi siano retti, quale soggetto che effettua le assegnazioni, dall'assegnatario di azienda (o di partecipazioni sociali).
Ad una più attenta analisi si può notare però che il terzo comma è privo di soggetto (nel senso che il legislatore non ha precisato chi sia il disponente), utilizzando il legislatore l'espressione: «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda…sono imputati alle quote di legittima loro spettanti…». Occorre pertanto ricercare chi sia il soggetto che effettua tali assegnazioni di beni.
L'interpretazione letterale della norma non conduce ad un risultato univoco, non specificando espressamente il legislatore chi debba essere tale soggetto.
Occorre pertanto procedere in altro modo. Si possono al riguardo compiere le osservazioni che seguono.
…(segue) uso dei termini "assegnare" e "liquidare"
Un primo punto di partenza è offerto dalla terminologia usata dal legislatore.
Si può notare infatti come nell'impianto normativo il verbo "assegnare" sia riferito dal legislatore - dall'originario disegno di legge sino all'attuale normativa - all'imprenditore (o titolare di partecipazioni sociali), nel senso che è l'imprenditore che "assegna".
Quando invece è il discendente/assegnatario di azienda ad effettuare attribuzioni a favore dei legittimari, il legislatore usa il verbo "liquidare".
Si può altresì osservare, sotto un profilo eminentemente pratico, come il verbo "assegnare" sia di frequente usato negli atti di divisione (ove spesso si legge: "a Tizio, che accetta, si assegna quanto segue:…; a Caio, che accetta, si assegna quanto segue:…"), in quanto è congeniale a tale dizione il carattere distributivo-attributivo tipico della divisione.
Il verbo "liquidare" è invece di frequente utilizzato nella tecnica redazionale per indicare la tacitazione di un diritto.
Ora, si può notare come nel terzo comma in esame il verbo usato sia stato quello di "assegnare": ciò potrebbe rappresentare una precisa scelta del legislatore.
…(segue) l'interpretazione teleologica dell'art. 768-quater, terzo comma
L'art. 12 delle preleggi afferma che nell'interpretare la legge occorre avere riguardo, al fine di chiarire la portata di una norma, anche all'intenzione del legislatore.
Un utile spunto a questo riguardo può essere offerto dalla relazione al disegno di legge n. 3870 ove, con riferimento alla disposizione in commento, si precisava che essa «disciplina l'ipotesi in cui l'imprenditore effettui altre assegnazioni ai propri legittimari, nel qual caso i beni assegnati saranno imputati alle loro quote di legittima».
Con ciò non si vuole enfatizzare la portata della relazione alla legge, ma semplicemente capire le motivazioni che sono state alla base della redazione di una simile norma [nota 27].
Ora, come si ricorderà, l'intenzione del legislatore è, in generale, quella di consentire il passaggio generazionale di azienda dietro tacitazione dei diritti dei legittimari.
Ebbene, ritenere che l'esatta portata dell'art. 768-quater, terzo comma, sia quella di aver voluto prevedere "assegnazioni" (nel senso sopra detto) da parte dell'imprenditore a favore - oltre che del discendente - anche dei legittimari, al fine di perequarli, non sembra contrastare con i tre ordini di interessi sopra visti a p. 359.
Non certamente contro l'interesse dell'imprenditore a scegliere il proprio "successore" nella guida dell'impresa, che anzi diventa l'unica strada possibile nel caso in cui (non certo infrequente) il discendente non abbia i mezzi per soddisfare le pretese dei legittimari.
Non contro l'interesse di tacitazione dei diritti di legittima, in quanto tali ulteriori assegnazioni da parte dell'imprenditore sarebbero a ciò finalizzate.
Né, infine, si urterebbe contro l'interesse alla stabilità del patto, che anzi in questo modo verrebbe assicurata venendo tutti soddisfatti con beni dello stesso disponente.
…(segue) l'interpretazione storica
Si consideri, altresì, che nel disegno di legge originario, dal quale ha preso le mosse l'attuale normativa, non era prevista la disposizione contenuta nell'attuale terzo comma.
Ciò può essere un ulteriore indice che il legislatore abbia voluto aggiungere un'ulteriore fattispecie a quella unica originaria rappresentata dall'attuale secondo comma (in cui la tacitazione dei diritti di legittima avviene ad opera dell'assegnatario di azienda).
L'interpretazione sistematica
Un'ulteriore argomentazione può essere offerta poi dal fatto che la normativa in questione è inserita nel titolo relativo alla divisione.
Si può notare, al riguardo, come l'utilizzo, da una parte, del verbo "assegnare" e la previsione, dall'altra, della possibilità di ulteriori assegnazioni da parte dell'imprenditore - secondo l'interpretazione che si sta cercando di offrire dell'art. 768-quater, terzo comma, c.c. - sia coerente con tale collocazione sistematica, venendosi in tal caso ad atteggiare il Patto di famiglia come una sorta di "divisio inter liberos" [nota 28] (ci sia consentito tale accostamento, peraltro solo di carattere descrittivo).
In tal caso il Patto di famiglia avrebbe infatti un carattere distributivo-attributivo, analogo per certi versi a quanto avviene in materia successoria in caso di divisione del testatore (art. 734 c.c.; ed infatti nel disegno di legge originario la normativa in questione era stata posta nell'art. 734-bis) [nota 29] o, per meglio dire, nel caso in cui il testatore effettui un fascio di istituzioni ex certis rebus, non essendovi nel caso di specie una predeterminazione di quote (cosa che invece avviene nella divisione del testatore), con assenza quindi di ogni conguaglio e senza possibilità di ricorrere a rimedi quali la rescissione per lesione ultra quartum [nota 30].
Così come per la divisione del testatore o per il fascio di istituzioni ex certis rebus (che ha indubbiamente un effetto divisionale) la comunione rappresenta solo un momento logico e non cronologico, lo stesso si verificherebbe nel caso in esame in quanto l'atto con effetti divisionali in questione verrebbe a prevenire la possibilità che i beni oggetto del patto possano entrare in comunione ereditaria.
Non deve sconvolgere poi il fatto che le attribuzioni effettuate dall'imprenditore con finalità (anche) divisionali siano attratte nell'orbita delle liberalità - con previsione, peraltro, di loro esclusione da azione di riduzione e collazione - in quanto ciò è in linea con quanto accadeva nel c.c. del 1865 riguardo alla divisio inter liberos ove si prevedeva l'assoggettabilità a riduzione delle attribuzioni poste in essere dall'ascendente con atto inter vivos [nota 31].
…(segue) la legittima come pars bonorum
Ed ancora, si consideri che, secondo un principio del nostro ordinamento, la legittima costituisce pars bonorum [nota 32]. Ciò significa che il legittimario ha il diritto di ottenere che la sua quota di riserva sia composta (sotto il profilo quantitativo, ma non qualitativo) con beni provenienti dal patrimonio del de cuius. Ora, l'assunto secondo il quale la previsione contenuta nell'art. 768-quater, terzo comma, è riferibile unicamente all'ipotesi di "liquidazione" della quota di legittima con beni del patrimonio di un soggetto diverso dal futuro de cuius comporta certamente una vistosa deroga ad un principio generale del nostro ordinamento, diversamente da quanto accadrebbe ritenendo ammissibile che tale tacitazione della quota di legittima possa avvenire (anche) con beni provenienti dal patrimonio del de cuius.
…(segue) la non contraddittorietà al sistema
Ma il motivo forse più pregnante che induce, a mio avviso, a scartare la tesi che vede quale autore delle assegnazioni di cui al terzo comma dell'art. 768-quater c.c. l'assegnatario di azienda (o di partecipazioni sociali), è dato dalla previsione legislativa che tali attribuzioni devono essere «imputate alle quote di legittima» e non sono «soggette a collazione o a riduzione».
Ora, i primi commentatori, al fine di giustificare la tesi che vede come unici atti di tacitazione della legittima quelli compiuti dall'assegnatario di azienda, hanno liquidato la questione ritenendo che tali atti siano qualificabili come donazioni indirette effettuate dall'imprenditore [nota 33].
è chiaro infatti che dovendo essere tali attribuzioni «imputate alle quote di legittima» e non «»soggette a collazione o a riduzione» deve trattarsi o di liberalità o di disposizioni testamentarie.
Scartata, per ovvi motivi, la qualifica di disposizioni testamentarie, non rimane che qualificare tali atti come liberalità.
A questo punto ci si domanda chi debba essere il donante (sul presupposto che la tacitazione debba avvenire da parte dell'assegnatario di azienda).
è evidente che tale non può essere l'assegnatario di azienda, in quanto è assente nello stesso l'animus donandi.
Si giunge quindi alla conclusione (quasi obbligata) che donante (in via indiretta, per il tramite cioè del discendente) sia l'imprenditore.
Tale conclusione non convince. Ed infatti, per potersi parlare di donazione (sia diretta che indiretta) occorre la sussistenza di un animus donandi in capo all'imprenditore. Perché sussista l'animus donandi occorre poi che l'attribuzione patrimoniale avvenga nullo iure cogente, cioè spontaneamente [nota 34].
Nel nostro caso, invece, manca la spontaneità dell'attribuzione, in quanto la liquidazione dei legittimari è imposta direttamente dalla legge [nota 35].
Vi potrebbe pertanto essere l'ipotesi in cui né l'assegnatario di azienda né l'imprenditore abbiano la ben che minima intenzione di voler beneficare il legittimario. Essi sanno però che perché il patto possa stipularsi e produrre effetti occorre - per previsione inderogabile di legge - che, non solo vi partecipi il legittimario, ma anche che lo stesso venga liquidato.
Volenti o nolenti occorrerà pertanto procedere a tale liquidazione, dovendo altrimenti optarsi per una "semplice" donazione di azienda.
Dimostrato pertanto che non si tratta di una donazione, né diretta, né indiretta, né da parte dell'assegnatario di azienda, né da parte dell'imprenditore, altri autori hanno concluso nel senso della eccezionalità della norma - derogatrice dei principi generali - in quanto consente di imputare alla quota di legittima un'attribuzione patrimoniale che non proviene dal patrimonio del futuro de cuius [nota 36].
è certo che se così fosse alla eccezionalità di questa normativa se ne aggiungerebbe un'altra, così tranciante nei confronti dei principi generali tanto da prevedere che possano essere imputate alle quote di legittima attribuzioni effettuate da soggetti diversi dal de cuius.
Non solo ma non si capirebbe perché il legislatore avrebbe sentito l'esigenza di precisare che le "assegnazioni" (ad opera dell'assegnatario di azienda) di cui al terzo comma dell'art. 768-quater debbano essere imputate alla legittima, visto che già nel secondo comma dell'art. 768-quater si parla di "liquidazione" dei diritti di legittima, il che rende già chiaramente il concetto della tacitazione di tali diritti.
Altri invece, ravvisata la distonia del sistema che si verrebbe in tal modo a creare, hanno prospettato una lettura della disposizione nel senso di intendere l'espressione «sono imputati alle quote di legittima» come utilizzo improprio ed "atecnico" da parte del legislatore di termini che normalmente hanno un altro significato [nota 37]. Ma anche tale spiegazione non convince, considerato che tacciare il legislatore di atecnicismo - a parte l'imbarazzo che crea - non è un modo di risolvere il problema ma semmai di aggirarlo.
Al contrario, si può recuperare il significato "tecnico" della disposizione in commento proprio se riferita all'imprenditore, il quale potrebbe effettuare quindi altre liberalità.
In tal caso, così come la liberalità effettuata a favore del discendente ed avente ad oggetto l'azienda viene sottratta all'azione di riduzione e collazione (altrimenti applicabili), allo stesso modo vengono sottratte a tali azioni le ulteriori liberalità poste in essere dall'imprenditore a favore dei legittimari.
Acquista in tal modo un senso l'inciso «sono imputati alle quote di legittima loro spettanti» (oltre che la frase contenuta nell'ultimo comma dell'art. 768-quater). Col porre tale inciso il legislatore ha voluto che tali ulteriori attribuzioni avessero un carattere tacitativo delle quote di legittima. Ciò significa che se il disponete vuole fare un Patto di famiglia attraverso un fascio di liberalità, quelle a favore dei legittimari devono avere anche funzione tacitativa dei lori diritti di riserva, senza possibilità di dispensa.
Non è pensabile infatti che vi possa essere una dispensa da imputazione riguardo a tali attribuzioni, se non a costo di snaturare il patto. Questo sembrerebbe essere il senso, a mio avviso, della precisazione voluta dal legislatore.
…(segue) motivazioni di carattere logico e pratico
L'impostazione qui seguita sembra da preferire anche da un punto di vista logico e sotto un profilo eminentemente pratico.
E' innanzitutto alquanto strano che si qualifichi, da taluni, da una parte l'attribuzione effettuata a favore dei legittimari da parte dell'assegnatario di azienda come donazione indiretta dell'imprenditore e dall'altro si neghi la possibilità per quest'ultimo di effettuare donazioni (o, più in generale, liberalità) dirette.
Così opinando, d'altronde, si condannerebbe la nuova figura giuridica ad una esistenza marginale, in quanto ne risulterebbe esclusa proprio l'ipotesi più ricorrente nella pratica, considerato che spesso il discendente non ha sostanze sufficienti a tacitare tutti i legittimari.
A questo riguardo si può rilevare come gli stessi autori che ritengono che l'imprenditore non possa effettuare assegnazioni a favore dei legittimari non assegnatari di azienda, evidenzino al contempo come possa di fatto essere irrealizzabile la tacitazione dei diritti di legittima ad opera dell'assegnatario di azienda nel caso, abbastanza frequente, in cui l'assegnatario non disponga autonomamente di capitali tali da soddisfare l'obbligo (soprattutto quando sia di giovane età o l'azienda abbia un cospicuo valore).
Da taluno si è allora cercato di risolvere il problema, sotto il profilo pratico, postulando la possibilità di un adempimento da parte dell'imprenditore, che si atteggerebbe in sostanza come adempimento del terzo.
Ma così facendo l'imprenditore compierebbe – attraverso la rinuncia ad agire in rivalsa nei confronti del discendente – una donazione indiretta nei confronti di quest'ultimo, come tale soggetta a riduzione e collazione, a differenza di quanto accadrebbe in caso di attribuzione diretta contenuta nel Patto di famiglia.
Si potrebbe allora pensare di stipulare accanto al Patto di famiglia delle donazioni effettuate dall'imprenditore a favore degli altri legittimari, con il risultato peraltro che mentre la liberalità contenuta nel Patto di famiglia sarà sottratta a riduzione e collazione, lo stesso non accadrà, invece, per le donazioni stipulate con atto separato.
Altri allora suggeriscono di trasferire tutta l'azienda al discendente il quale procederà poi ad uno smembramento della stessa, liquidando quei rami di valore necessario a pagare le quote dei legittimari.
In tal modo però si frustrerebbe l'intenzione del legislatore di garantire la continuità dell'impresa (e di riflesso dei posti di lavoro) nella sua unitarietà [nota 38].
Altra strada potrebbe poi essere quella dell'indebitamento bancario (ad es., tramite family buy out), utilizzando cioè una tecnica già conosciuta prima dell'introduzione dei Patti di famiglia e sulla quale ci siamo in precedenza soffermati [nota 39].
Ma anche questa soluzione non è del tutto appagante per gli inconvenienti che essa presenta, sopra evidenziati, dovendo oggi relegarsi, a mio avviso, il family buy out a tecnica alternativa ai Patti di famiglia.
La pretesa incostituzionalità della interpretazione offerta
Una delle principali obiezioni alla ricostruzione appena proposta è che essa si presterebbe ad essere incostituzionale.
In tal modo, infatti, sarebbe possibile per chi è titolare di una azienda o di una partecipazione sociale distribuire tutto o parte del suo patrimonio tra i suoi discendenti e legittimari, mentre ciò non sarebbe possibile da parte di chi non avrebbe simile titolarità.
Di conseguenza tale ipotesi ricostruttiva sarebbe contraria all'art. 3 della Costituzione.
Per prima cosa occorre ricordare, in generale, che se è vero che la normativa in questione – che fa eccezione al divieto dei patti successori – pone un trattamento differenziato tra chi è imprenditore (diretto o indiretto) e chi non lo è, è pur vero che l'azienda per la sua particolare funzione economica – che trova tutela nell'art. 41 Cost. – si distingue rispetto agli altri beni, mobili e immobili, giustificandone un diverso trattamento [nota 40].
In secondo luogo occorre ricordare che la quota di legittima non è un valore costituzionalmente tutelato, come ha affermato di recente la Cassazione [nota 41].
In realtà il problema maggiore che desta la conclusione cui si è giunti in merito alla possibilità da parte dell'imprenditore di effettuare altre "assegnazioni" è dato dal possibile abuso cui si potrebbe prestare l'istituto.
Senza nasconderci dietro un dito, è evidente che se si ammettesse la possibilità di far entrare nel Patto di famiglia qualunque partecipazione sociale (anche, ad es., di società di comodo o comunque non operative) di qualunque entità (quindi anche esigue), si potrebbe allora pensare – aderendo alla teoria qui proposta – di ottenere la distribuzione di un ingente patrimonio (ad es., immobiliare) da parte di chi sia titolare, ad es., di una sola azione di una SpA.
Ma così ragionando si potrebbe allora pensare di costruire ad arte anche una partecipazione di maggioranza di una società formalmente operativa, per raggiungere gli stessi fini.
Ora, a parte il fatto che addurre inconvenienti non è certo un modo di risolvere i problemi, e considerato che perché possa parlarsi di Patto di famiglia occorre comunque che venga trasferito un bene qualificabile "di impresa" nel senso in precedenza specificato, si può osservare come qualunque negozio giuridico si possa prestare ad abusi e come il legislatore abbia previsto per tali eventualità una apposita disciplina, stabilendo che il negozio in frode alla legge è nullo.
In realtà nel Patto di famiglia, correttamente inteso, nel quale è l'imprenditore ad effettuare una serie di attribuzioni, avviene l'opposto di quanto paventato da parte della dottrina, in quanto non è l'azienda o la partecipazione sociale a costituire l'occasione per distribuire il proprio patrimonio, ma semmai sono le altre attribuzioni effettuate ai legittimari a porsi in modo strumentale al trasferimento dell'azienda o di partecipazioni sociali, in quanto si tratterrebbe di attribuzioni finalizzate a tacitare i diritti di legittima e quindi a consentire che il trasferimento di azienda possa attuarsi e rimanere stabile.
In via di estrema sintesi saremmo in presenza di liberalità, mi si passi l'espressione, "tacitative", in quanto motivate dall'esigenza di soddisfare le pretese dei legittimari non assegnatari di azienda [nota 42].
E' un po' quanto accade quando il genitore dona un immobile ad un figlio, ma per non pregiudicare le ragioni dell'altro dona a questi un altro immobile o una somma di denaro, al fine di bilanciare le attribuzioni ed evitare in futuro l'esperimento dell'azione di riduzione.
Insomma, le attribuzioni agli altri legittimari avrebbero carattere strumentale rispetto al trasferimento dell'azienda, al fine di consentirne la stabilità, e non viceversa.
Pretesa contrarietà al divieto dei patti successori
E' bene inoltre precisare che l'operazione ermeneutica appena compiuta non si basa su una pretesa interpretazione analogica della norma, né su una sua interpretazione estensiva.
Si è cercato, invece, di ravvisare l'esatta portata della norma (il terzo comma dell'art. 768-quater) attraverso la sua interpretazione letterale, teleologica e sistematica.
Non deve allora spaventare l'eccezionalità della normativa in questione né bisogna avere paura di travalicare nel divieto dei patti successori, in quanto è la norma stessa, nella lettura che se ne è data, a consentire una pluralità di attribuzioni da parte dell'imprenditore.
Conclusioni
Da quanto sopra esposto si può pertanto concludere che il Patto di famiglia è stato strutturato dal legislatore come avente una duplice struttura alternativa.
Si potrà avere, infatti, un Patto di famiglia nel quale l'imprenditore (o il titolare di partecipazioni sociali) "assegna" l'azienda (o le partecipazioni sociali) ad un discendente e questi "liquida" i legittimari.
Si potrà però anche avere un Patto di famiglia in cui l'imprenditore (o il titolare di partecipazioni sociali) "assegna" l'azienda (o le partecipazioni sociali) ad un discendente ed "assegna" altri beni ai legittimari [nota 43]. In tal caso tutti i beni oggetto del patto saranno esclusi da azione di riduzione e da collazione e sul loro valore complessivo andranno calcolate le quote di legittima di cui all'art. 768-quater, secondo comma.
Da un punto di vista meramente descrittivo si potrebbe dire che la prima fattispecie assomiglia per certi versi ad una donazione modale [nota 44].
Non si può però parlare tecnicamente di donazione modale sia perché non siamo in presenza di una donazione ma di un diverso negozio tipico denominato "Patto di famiglia", sia perché il modus è imposto direttamente dalla legge e non dal donante (per questo motivo, tra l'altro, non configura una donazione indiretta, come sopra detto) ed è un elemento necessario di questa prima fattispecie e non accidentale [nota 45].
Sarebbe ravvisabile in tale fattispecie una causa liberale per quanto concerne il trasferimento di azienda o di partecipazioni sociali al discendente e una causa solutoria per quanto riguarda l'attribuzione di beni ai legittimari da parte dell'assegnatario di azienda o di partecipazioni sociali, ponendosi la "liquidazione" dei diritti di legittima come atto solutorio in adempimento di un obbligo posto dalla legge [nota 46].
Riguardo invece alla seconda fattispecie, in essa sembra ravvisabile (anche) una funzione divisionale (senza predeterminazione di quote e, quindi, senza conguagli e senza la preesistenza di una situazione di comunione) [nota 47].
La ricostruzione dell'istituto così come sopra offerta credo possa essere utile anche al fine di ravvisare il regime fiscale applicabile alle due fattispecie, tenendo presente, quale linea guida, quanto precisato nella comunicazione n. 98/C 93/02, sopra citata, ove la Commissione europea, nell'esortare gli Stati membri ad adottare per la trasmissione delle aziende regimi fiscali favorevoli, così ammoniva: «Lo scopo è impedire che i sistemi fiscali ostacolino la trasmissione di impresa, costringendo alla sua vendita forzata per poter pagare i debiti d'imposta. Il chiaro obiettivo della politica fiscale, per quanto riguarda la trasmissione, deve essere la salvaguardia dei posti di lavoro. Tutti perdono, anche lo Stato, se, per una trasmissione non riuscita, si perdono dei posti di lavoro». Ed aggiungeva: «è possibile ridurre gli oneri fiscali riducendo il tasso massimo applicabile o introducendo esenzioni, sgravi e soglie di imposizione che, per agevolare la continuità dell'azienda, dovranno essere fissate ad un livello tale da interessare le PMI».
Speriamo che il nostro legislatore o, in sua vece, l'Agenzia delle Entrate se ne ricordino.
[nota 1] LIVINI, «Mai più liti sulle dinastie aziendali. Il provvedimento bipartisan facilita i passaggi generazionali nelle imprese italiane, consentendo in anticipo di designare il successore», La Repubblica, 18 febbraio 2006.
[nota 2] V. MONTANARI, Le aziende familiari, continuità e successione, Padova, 2003, p. 1 ss.
[nota 3] G. OBERTO, «Riflessioni sul Patto di famiglia», p. 5, testo della relazione presentata alla Giornata di studio sul tema "Patti di famiglia", organizzata dal Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo e dalla Scuola di Notariato "Franco Lobetti Bodoni" di Torino, Torino, 13 maggio 2006, in corso di pubblicazione su Fam. dir., 2006 e disponibile al sito web seguente: http//geocitas.com/CollegePark/Classroom/ 6218/pattodifamiglia/pattodifamiglia.htm.
[nota 4] Cfr. M. IEVA, «Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», Riv. not., 1997, p. 1373 e 1374.
[nota 5] F. VERGNANO, «Tra cambi generazionali, dissapori e divorzi, i Riello volano in alto», IlSole24Ore, 22 ottobre 2001.
[nota 6] Cfr. N. DI MOLFETTA, «Il futuro di Ipa Sud passa dal "family buy out"», IlSole24Ore, 25 marzo 2005; discorso analogo è avvenuto per i Petrini, si veda A. MASTRANTONIO, «Nella saga dei Petrini ha vinto il family buy out», IlSole24Ore, 9 febbraio 1995.
[nota 7] Così, E. SILVA, «Imprese e famiglia - il passaggio del testimone, un patto tra le generazioni», IlSole24Ore, 11 luglio 2005.
[nota 8] In G.U.C.E., 31 dicembre 1994, L 385.
[nota 9] V. P. MANES, «Prime considerazioni sul Patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», Contratto e impresa, 2006, p. 543. Interessanti riferimenti e considerazioni di diritto internazionale privato si ritrovano in E. CALò, «Le piccole e medie imprese: cavallo di Troia di un diritto comunitario delle successioni?», Nuova giur. civ. comm., 1997, II, p. 218 ss.; ID., Dal probate al family trust, Milano, 1996, p. 104 e ss. e, con specifico riferimento al Patto di famiglia, ID., Patto di famiglia e norma di conflitto, manoscritto in corso di pubblicazione, cortesemente fornitomi dall'Autore.
[nota 10] Così relazione al Senato nella seduta n. 552, 26 gennaio 2006. Mette in risalto la funzione suppletiva dell'interprete anche A. MASCHERONI, «Divieto dei Patti successori e attualità degli interessi tutelati», in questo volume.
[nota 11] Relazione alla Camera, 23 settembre 2003.
[nota 12] Così G. ATTANZIO, «L'Impresa di generazione in generazione», in questo volume; P. SCHLESINGER, La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 137.
[nota 13] C. CACCAVALE, «Appunti per uno studio sul Patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie» - in questo volume, ritiene invece non necessaria tale partecipazione e, più in particolare, che l'operatività del patto sia svincolata dall'adesione dei legittimari lasciati fuori dall'assegnazione.
[nota 14] V. G. PETRELLI «La nuova disciplina del Patto di famiglia» in Riv.Not., Volume LX, Marzo Aprile 2006, p. 402; A. DI SAPIO, «Osservazioni sul Patto di famiglia (Brogliaccio per una lettura disincantata)», in corso di pubblicazione; A. Mascheroni, op. cit..
[nota 15] G. PETRELLI, op. cit., p. 404, il quale evidenzia come la ricostruzione della ratio della legge sui Patti di famiglia assuma notevole importanza al fine di delimitare l'ambito di applicazione della nuova disciplina.
[nota 16] In tal senso anche G. RIZZI, «Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie», in questo volume; G. PETRELLI, op. cit., p. 402; G. OBERTO, op. cit., p. 25; C. CACCAVALE, op. cit.; G. FIETTA «Divieto dei Patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume; P. MANES, op. cit., p. 556; A. ZOPPINI, Profili sistematici della successione anticipata (note sul Patto di famiglia), in Studi in onore di Giogio Cian, in corso di pubblicazione.
[nota 17] In tal senso v. anche G. PETRELLI, op. cit., p. 408 e ss; A. MERLO «Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati» - in questo volume; contra C. CACCAVALE, op. cit., il quale sostiene che la deroga al divieto dei patti successori introdotta nell'art. 458 «è da ascriversi soprattutto ai timori del legislatore di poter tradire la coerenza del sistema o, forse, più plausibilmente, al suo scarso interesse per le ricostruzioni dottrinali» e M. IEVA, op. cit., p. 1373 e ss.
[nota 18] Cfr. sul punto A. MERLO, op. cit., il quale parla di rinunzia tacita e parziale, in quanto limitata ai soli beni del Patto di famiglia. Si veda anche G. BARALIS, «Attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni sociali», in questo volume; G. PETRELLI, op. cit., p. 405 e 406 evidenzia l'effetto legale dell'esclusione da riduzione e collazione.
[nota 19] V. anche G. PETRELLI, op. cit., p. 406.
[nota 20] Cfr., per tutti, G. RIZZI, op. cit.
[nota 21] Aderiscono a tale impostazione G. PETRELLI, op. cit., p. 407 e G. OBERTO, op. cit., p. 30; contra G. RIZZI, op. cit., che parla di causa unitaria.
[nota 22] In tal senso si vedano anche: G. BARALIS, op. cit.; G. PETRELLI, op. cit., p. 416; F. DELFINI, «Commento alla legge n. 55/2006», I Contratti, 2006, p. 512, il quale peraltro ritiene che le partecipazioni sociali debbano essere rappresentative del pacchetto di riferimento o di controllo; A. ZOPPINI, op. cit., p. 12; A. DI SAPIO, op. cit.; G. DE ROSA, «Il Patto di Famiglia per l'impresa: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali», in questo volume, il quale ritiene che non si debba escludere l'ammissibilità dei trasferimenti che, pur non comportando effetti immediatamente e direttamente rilevanti sul piano gestorio, possano determinarli; A. PISCHETOLA, «Il Patto di famiglia a confronto con gli strumenti negoziali alternativi al testamento» - in questo volume; contra G. OBERTO, op. cit., p. 52 e ss; G. FIETTA, op. cit.
[nota 23] A. ZOPPINI, op. cit.
[nota 24] Secondo G. PETRELLI, op. cit., p. 416 occorrerebbe aggiungere anche il «caso previsto dall'art. 2320, comma 2, c.c., in cui il contratto sociale consenta agli accomandanti di dare autorizzazioni o pareri per determinate operazioni».
[nota 25] In tal senso anche G. PETRELLI, op. cit., p. 417; contra G. RIZZI, op. cit.
[nota 26] Condivisibili sono, al riguardo, le osservazioni di G. PETRELLI, op. cit., p. 417, anche se ritengo che il Notaio possa fare qualcosa di più che ricevere mere dichiarazioni di parte, potendo desumere, il più delle volte, la natura imprenditoriale del bene ceduto dai documenti a sua disposizione. è da escludere, invece, che si possa ricorrere a dichiarazioni giurate ex D.P.R. n. 445/2000, in quanto non previste nel caso di specie. Si assisterebbe altrimenti ad una "gratuita" assunzione di responsabilità di carattere penale, quando invece l'unica sanzione ravvisabile in caso di dichiarazioni mendaci è quella della nullità dell'atto (salvo sua eventuale conversione ex art. 1424 c.c.).
[nota 27] In questo senso v. P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato, Padova, p. 83, il quale precisa che «i lavori preparatori, e specialmente i dibattiti parlamentari, sono preziosa testimonianza dei motivi che provocarono la norma»; P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1983, p. 12, evidenzia come i lavori preparatori diano all'interprete indicazioni sulle finalità della legge.
[nota 28] Anche A. MERLO, op. cit., ritiene che si tratti di istituto affine alla diviso inter liberos, che affonda le sue radici nel diritto romano.
[nota 29] A. ZOPPINI, op. cit., p. 8 e 9, il quale sottolinea come «sul piano causale, il Patto di famiglia realizza un trasferimento in funzione successoria avente struttura divisionale, ciò che giustifica la collocazione topografica nel codice, in linea peraltro con il progetto originario, che ne aveva suggerito l'inserimento dopo l'art. 734 c.c., intitolato alla "divisione del testatore"» e continua osservando come «la divisione si configura, in punto funzionale, non in ragione dell'effetto di sciogliere una comunione, quanto per l'idoneità a realizzare un apporzionamento proporzionale».
[nota 30] Contra A. ZOPPINI, op. cit., p. 12.
[nota 31] Considerazioni analoghe si ritrovano in B. BELOTTI, La divisione dell'ascendente, Padova, 1933, il quale sosteneva che la divisio inter liberos non era una «divisione pura e semplice, perché il momento "divisione", che pure è essenziale in essa, è inscindibilmente connesso col momento "disposizione". Essa è invece una donazione (…) perché è evidentemente animata da una causa liberalitatis, che si perfeziona con la divisione e distribuzione dei beni donati. Al tempo stesso però, essa non è una donazione ordinaria, perché la causa liberalitatis ora detta è successoria, ossia è la stessa causa che sorregge le disposizioni successorie. La divisione dell'ascendente è dunque una donazione-divisione, collettiva, avente una causa successoria»; v. anche L. BORSARI, Commentario del codice civile Italiano, vol. III, parte I, Roma - Napoli, 1874, p. 1329 e ss.
[nota 32] V. L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Successione necessaria, Milano, 2000, p. 103; G. AZZARITI, Successione dei legittimari e successione dei legittimi, Torino, 1997, p. 136 e ss.
[nota 33] Così C. CACCAVALE, op. cit.; G. BARALIS, op. cit.; G. FIETTA, op. cit.
[nota 34] Sulla necessità del requisito della spontaneità anche per le donazioni indirette si veda A. PALAZZO, voce "Donazione", in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, VII, Torino, 1991, p. 152 ed in giurisprudenza Cass., 16 ottobre 1976, n. 3526.
[nota 35] In questo senso v. anche G. PETRELLI, op. cit., p. 445 e 446, anche se in senso dubitativo. Più convinto è invece G. OBERTO, op. cit., p. 28 e ss., peraltro sulla considerazione che non si ha in tal caso un "puro" arricchimento dal momento che il vantaggio conseguito dai legittimari non assegnatari di azienda si compensa con il loro sacrificio consistente nella definitiva rinunzia a far valere pretese successorie sui beni trasferiti, in cambio di quanto ricevuto o, addirittura, in caso di rinunzia, in cambio di nulla.
[nota 36] Così G. PETRELLI, op. cit., p. 450 e 451.
[nota 37] Così G. OBERTO, op. cit., p. 63.
[nota 38] A. PALAZZO, «Il diritto delle successioni: fondamenti costituzionali, regole codicistiche ed istanze sociali», Vita not., 2004, p. 118.
[nota 39] Cfr. A. BUSANI, «L'intesa tra generazioni sceglie l'«erede», IlSole24Ore, 20 febbraio 2006.
[nota 40] Così l'osservazione del Senatore Pastore nella seduta della Commissione affari costituzionali del Senato, 31 gennaio 2006 n. 276.
[nota 41] Cass. 24 giugno 1996, n. 5832, in Nuova giur. civ. comm., 1997, p. 164 e ss., con nota di E. CALò, «L'etica dell'ordine pubblico internazionale e lo spirito della successione necessaria».
[nota 42] Sulle donazioni "motivate" v., per tutti, A. PALAZZO, voce "Donazione", cit., p. 152 e ss.
[nota 43] Ammettono tale possibilità, la quale esclude – ovviamente – che i legittimari non assegnatari possano pretendere, in aggiunta, anche la liquidazione diretta ad opera dell'assegnatario di azienda: G. PETRELLI, op. cit., p. 440; A. MASCHERONI, op. cit.; P. MANES, op. cit., p. 569; A. PISCHETOLA, op. cit.; U. FRIEDMANN, «Aspetti fiscali del Patto di famiglia», in questo volume; contra G. OBERTO, op. cit., p. 6; G. BARALIS, op. cit.; G. FIETTA, op. cit. Dubitativo G. DE ROSA, op. cit. Ritiene invece che l'apporzionamento debba operarsi solo sui beni imprenditoriali A. ZOPPINI, op. cit., p. 12.
[nota 44] Qualificano l'atto come donazione modale A. MERLO, op. cit.; C. CACCAVALE, op. cit.; contra G. PETRELLI, op. cit., p. 407.
Non è da escludere peraltro che anche nella fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 768-quater possa essere ravvisata una funzione divisionale, al pari di quanto avviene nell'ipotesi di cui all'art. 720 c.c.
[nota 45] Sul punto v. G. PETRELLI, op. cit., p. 407; G. OBERTO, op. cit., p. 27.
[nota 46] Per le conseguenze fiscali di tale impostazione si rinvia a G. PETRELLI, op. cit., p. 450.
[nota 47] Ravvisano (anche o solamente) una natura divisionale del Patto di famiglia: A. ZOPPINI, op. cit., p. 8; A. MERLO, op. cit.; G. RIZZI, op. cit.; M. IEVA, op. cit., p. 1375, il quale sottolinea come il Patto di famiglia abbia «in sé una funzione attributiva necessaria e una funzione divisoria eventuale nel caso in cui vi siano legittimari non assegnatari dell'azienda»; E. DEL PRATO, «Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: Patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori», Riv. not., 2001, p. 635.
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