Gli interessi meritevoli di tutela: "autonomia privata delle opportunità" o "autonomia privata della solidarietà"
Gli interessi meritevoli di tutela: "autonomia privata delle opportunità" o "autonomia privata della solidarietà"
di Vincenzo Scaduto
Notaio in Verona

Quale accoglienza per l'art. 2645-ter c.c.?

L'apparizione dell'art. 2645-ter c.c. nell'ordinamento civile ha suscitato in modo particolarmente intenso l'attenzione dei giuristi.

Chi ha rivolto lo sguardo verso i potenziali esiti della prassi ha subito segnalato, con viva preoccupazione, il vulnus che l'atto di destinazione può infliggere al principio della responsabilità patrimoniale del debitore. Le potenzialità di fisiologico impiego del nuovo strumento sono rimaste in penombra a fronte del rischio di utilizzazioni simulatorie e frodatorie.

Le perplessità sono alimentate anche dall'attribuzione all'autonomia privata del compito di individuare gli interessi meritevoli di tutela, vera architrave del negozio, e dal fatto che il legislatore ha dettato regole che non delineano una figura caratterizzata e completa, ma si pongono come una nube amorfa di frammenti di disciplina.

Chi si è posto nella prospettiva del teorico - ove il negozio di destinazione era già oggetto di indagine, sia in relazione ad una vagheggiata figura generale, sia in relazione a speciali fattispecie ritenute manifestazioni di quella, - sarà stato probabilmente incline a vedere nell'art. 2645-ter il frutto del parto a lungo atteso; salvo ad incorrere in grande delusione alla prima lettura della neonata disposizione.

Non è il caso di compilare un catalogo delle critiche mosse alla novella con toni che hanno talvolta abbandonato la cadenza dell'argomentazione per lasciare posto allo sconcerto o al rifiuto tout court del dato positivo.

Altra tendenza che si è manifestata è stata quella di verificare come la nuova figura si collochi nell'ambito del sistema del codice civile: quivi, più che i segni di un armonico inserimento, si sono colti sinistri cigolii che denuncerebbero nell'edificio una qual certa anomala tensione.

In siffatta prospettiva, l'atto di destinazione sembra comunque essere considerato come fonte di risposte a vecchie domande; non pare molto frequentata la visuale opposta, di ricavare dalla nuova figura problemi nuovi e nuove direzioni di indagine.

Non sembra che alcuno, magari con realistica rassegnazione, si sia chiesto se la novella sia espressione di uno "stile" legislativo che - in tempi di tramonto delle grandi ideologie olistiche e pervasive, di trasmutazione e permutazione dei valori, se non di nichilismo, perfino giuridico - non trova di meglio che limitarsi a produrre segmenti di regolamentazione, per il resto lasciando che i privati interessi si acconcino come loro meglio pare, e trovino essi stessi la "legge" (nel senso dell'art. 1372 c.c.) loro più confacente.

Peraltro, occorre immediatamente osservare che l'art. 2645-ter non segna un totale abbandono dell'atto di destinazione alle volontà e voluttà private. La nuova disposizione contempla una tecnica di regolamentazione degli spazi dell'autonomia privata, l'atto pubblico notarile, che offre la tentazione di un'eterogenesi dei fini. [nota 1]

Sul piano dell'analisi giuridica v'è un'altra tentazione, alla quale occorrerebbe, invece, resistere: considerare l'art. 2645-ter come la barca di Caronte ove si affollano causa e atto di destinazione, così come vagheggiati dalla precedente dottrina, trust, magari diritti reali "in sovrannumero" e una congerie di chiavi ermeneutiche per rivisitare aree problematiche del diritto civile italiano, dalla fiducia alle servitù irregolari; [nota 2] magari alla ricerca di una coerenza sistematica, o perfino di un'armonia, che talvolta (e probabilmente stavolta) sembrano conseguibili solo sovrapponendo al duro e inevitabile dato positivo le aspettative, le inclinazioni e le predilezioni dell'interprete.

Un approccio simile sembra presupporre che l'ordinamento debba evolversi secondo un itinerario di progressiva e ineluttabile razionalità, collocando ogni nuovo elemento entro il progetto preesistente, poiché ogni elemento è sintesi dialettica di ciò che lo ha preceduto. Ivi non sono ammessi salti, discontinuità, rotture delle simmetrie.

è del tutto comprensibile che una disposizione-contenitore, ove alla rinfusa si rinvengano, poniamo, norme sulla fattispecie (o su un tentativo di fattispecie) e norme sulla pubblicità, provochi la giustificata irritazione di studiosi di settore. Ma non si può neppure evitare l'ovvia considerazione che nessuna regola, neanche di pura logica formale, può imporre ad un legislatore di conservare fino alla fine dei tempi la sistematica di un codice. E, abbandonando la dimensione dell'argomentazione astratta, non si può dimenticare che l'età della decodificazione in Italia è iniziata da un pezzo, e che non dovrebbe sorprendere che ad essa segua un'età della destrutturazione delle fattispecie, ove l'ordine e la tecnica del sistema giuridico si incrinano perché esso non ha più altri sistemi, altri disegni, altri progetti - di sedicente superiore rango - dei quali possa presentarsi come strumento o attuazione.

Può forse valere la pena, quindi, di porsi davanti all'atto di destinazione con buona volontà, cercando di coglierne la natura e le potenzialità con occhio scevro da condizionamenti passati e da irritazioni presenti, coltivando il sospetto che, se codesto sgraziato ircocervo giuridico risultasse intrattabile con i nostri strumenti ermeneutici e irriducibile alle nostre classificazioni, ebbene, poiché lui fa parte dell'ordinamento positivo e il nostro armamentario teorico no, sarà questo a doversi adattare a quello.

Atipicità ed interessi meritevoli di tutela

Individuare e delimitare gli spazi che l'atto di destinazione offre all'autonomia privata non è operazione semplice, che si possa condurre per un verso identificando i fatti, le esigenze, gli interessi che trovano "riconoscimento" e specie giuridica nella nuova figura; e per altro verso indagando sulle aree di derogabilità e sulle possibilità di integrazione volontaria dei dettami del nuovo art. 2645-ter.

Siamo in presenza di una disposizione dalla collocazione ambigua nella topografia codicistica, dai contorni incerti, portatrice di brani di disciplina che neppure consentono all'interprete una scelta precisa: se avviarsi verso l'analisi di un nuovo modello negoziale, caratterizzato sul piano sostanziale, ovvero verso la ricostruzione di sparsi profili che attengono al piano degli effetti.

Pressoché tutti i primi commentatori hanno considerato l'atto di destinazione come negozio atipico ed hanno dato rilievo particolare alla presenza, nel tessuto normativo, degli «interessi meritevoli di tutela». Atipicità e meritevolezza degli interessi, insieme all'espresso richiamo che si rinviene nell'art. 2645-ter, dispiegano un potente effetto evocativo del dibattito che attorno all'art. 1322, secondo comma, c.c. si è andato nel tempo svolgendo.

Quivi l'apertura all'autonomia privata degli spazi, potenzialmente sconfinati, dell'atipico, trova contrappeso nella necessità che i negozi siano «diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico»: la configurazione di un negozio atipico si congiunge ineluttabilmente con la sussistenza di interessi meritevoli.

Ne scaturisce l'esigenza di indagare cosa sia la meritevolezza «secondo l'ordinamento giuridico».

Prima di avviarsi lungo questa direttrice di ricerca, occorre chiedersi, tuttavia, se le conclusioni dottrinali e giurisprudenziali maturate in relazione all'art. 1322, secondo comma, siano senz'altro utilizzabili nel caso che ci occupa. Sembra più prudente, infatti, tentare una prima messa a fuoco senza farsi condizionare da assonanze e ricorrenze (appunto, gli interessi meritevoli) che potrebbero rivelarsi fallaci.

L'atto di destinazione è veramente un negozio atipico? Se con questo termine si intende indicare la figura negoziale non contemplata in alcun luogo dell'ordinamento, la risposta non può che essere negativa. L'atto di destinazione è un negozio espressamente considerato, dotato di alcuni segmenti di disciplina, che tuttavia non delineano una figura interamente strutturata, idonea a regolare compiutamente i fenomeni che sottende. [nota 3]

Se invece per atipicità si intende la carenza di un apparato di disciplina compiuto, idoneo ad essere adottato da chi voglia perfezionare un negozio giuridico, senza necessità di integrazioni volontarie al tessuto legale, allora l'atto di destinazione è atipico.

Si può decidere di adoperare l'espressione "atipico ma non innominato" per indicare quel negozio, espressamente contemplato in qualche luogo legale dell'ordinamento e dotato di alcuni segmenti (o frammenti) di nomos.

La questione della qualificazione dell'atto di destinazione come tipico o atipico non è di mera nomenclatura, nè si svolge su un piano di classificazione fine a se stesso, ma si riflette in modo significativo sulla delineazione degli spazi dell'autonomia privata.

Il negozio tipico, dotato di un compiuto apparato di regole, negli ambiti occupati da norme derogabili può essere piegato, mediante l'adozione di apposite clausole, al perseguimento di peculiari interessi, che non trovino adeguata espressione nella disciplina legale.

Il negozio atipico, nella sua astratta configurazione, è intessuto in clausole specificamente coniate e volontariamente adottate, che ne delineano struttura e regime, salva l'esigenza che sussistano interessi meritevoli secondo l'ordinamento giuridico. E salva l'importazione, in sede di "costruzione" del negozio, o l'applicazione, in sede di interpretazione, di brani di disciplina di figure tipiche.

Il negozio atipico ma non innominato si colloca in una posizione intermedia: può essere caratterizzato da segmenti di disciplina inderogabile, ma, per assumere completa configurazione e dispiegare effetti, deve essere necessariamente integrato dalla volontà dell'autore.

Nell'atto di destinazione la dimensione degli spazi non regolati appare, al primo sguardo dell'interprete, vastissima; e se una più approfondita visione dovesse indurre a ritenere che tutto ciò che non è regolato è lasciato al libero dispiegarsi dell'autonomia privata, allora il lavoro di "costruzione" di un atto di destinazione dotato di compiuta disciplina negoziale si preannuncia delicato. [nota 4]

Non v'è dubbio, tuttavia, che il più cospicuo problema che si pone all'attenzione dell'interprete riguardi proprio l'individuazione degli interessi meritevoli di tutela e la determinazione dei parametri di verifica della meritevolezza.

In ordine a questo tema si deve proporre un'osservazione preliminare: l'espresso richiamo dell'art. 1322, secondo comma, operato nel 2645-ter subito dopo la previsione degli interessi meritevoli, non è un'inutile ripetizione; esso ha l'effetto di ricondurre la meritevolezza nell'ambito «dell'ordinamento giuridico», secondo la formulazione un po' enfatica del c.c. Se il richiamo non fosse stato effettuato, nulla avrebbe impedito di collocare nell'atto di destinazione interessi meritevoli e canoni di meritevolezza tratti dalle etiche, dalle religioni, dalle filosofie e da ogni altra confacente regione del pensiero e/o dell'esperienza, purché idonea a produrre valori e finalità. L'espresso richiamo dell'art. 1322, secondo comma, impedisce l'irrompere nell'atto di destinazione di istanze indecidibili o irrilevanti secondo l'ordinamento giuridico.

Meritevolezza degli interessi e disciplina applicabile nel negozio atipico

Tenendo presente la cautela sopra dichiarata in ordine alla trasposizione di profili problematici dell'atto di destinazione in altri luoghi dell'ordinamento, e viceversa, non si può fare a meno di dedicare qualche brevissimo cenno al dibattito sulla meritevolezza degli interessi scaturito dall'art. 1322, secondo comma.

La meritevolezza degli interessi alla cui realizzazione è diretto un contratto atipico è stata considerata o come mera liceità o come particolare utilità sociale, ulteriore rispetto alla liceità.

Il dibattito dottrinale non ha avuto un grande seguito pratico e giurisprudenziale.

Per quanto consta, una sola sentenza di merito, peraltro cassata, [nota 5] ha giudicato un contratto atipico lecito ma non meritevole di tutela.

Le manifestazioni dell'atipico nella realtà dei traffici giuridici hanno dato luogo ad un percorso problematico diverso da quello sulla natura degli interessi meritevoli.

La questione centrale si è rivelata l'individuazione della disciplina in concreto applicabile e ciò, in linea di massima, ha provocato la deriva dei negozi atipici verso figure tipiche, lungo diversi itinerari.

Talora, negozi dei quali si assumeva l'atipicità sono stati invece collocati nell'ambito di tipi legali, rispetto ai quali sarebbero stati caratterizzati da deroghe più o meno significative della disciplina; sicchè la questione della meritevolezza non si è posta e il campo è stato occupato dal tema della derogabilità o inderogabilità.

Talaltra, al negozio in ipotesi atipico si sono applicati, per via analogica o estensiva, brani di disciplina legale di figure tipiche. Anche qui, il problema degli interessi meritevoli è stato soppiantato dalla questione dell'applicazione analogica o estensiva di norme.

In un terzo percorso, l'atipico viene risolto nell'ambito del negozio misto o della sequenza di negozi causalmente collegati.

Dal quadro emerge chiaramente per quali motivi il dibattito sulla meritevolezza è rimasto confinato in ambito teorico: decisa l'applicazione di una disciplina tipica, la questione del "riconoscimento" dell'atipico è per ciò stesso superata, e con essa la rilevanza della meritevolezza.

V'è probabilmente una ragione precisa che spiega come mai il problema della disciplina applicabile abbia occupato tutti gli spazi giurisprudenziali dell'atipico.

Un negozio che si presenti come atipico, perché assume interessi che altrove non trovino obiettivazione causale, non può non essere dotato di una compiuta disciplina posta dai suoi autori; se la disciplina non è "costruita", occorre cercarla altrove; e poiché non si può che cercarla in ambiti tipici, per ciò stesso la questione degli interessi meritevoli collassa, perché gli interessi declinati dal negozio diventano quelli innervati nella causa del negozio tipico di cui si preleva la disciplina, interessi meritevoli per "riconoscimento" legale.

Un negozio atipico non può consistere in una mera enunciazione di interessi, scevra da ogni programma, regola, modalità di realizzazione: occorre una disciplina che gli autori del negozio, esercitando l'autonomia loro concessa, devono darsi come "legge". [nota 6]

Le considerazioni che precedono si attagliano anche al negozio atipico ma non innominato, nel quale i segmenti di disciplina legale devono essere necessariamente integrati dalla volontà privata.

In conclusione, la questione degli interessi meritevoli può abbandonare le regioni dell'astratta speculazione giuridica soltanto quando essa sia posta in relazione ad un negozio in concreto dotato, per espressa volontà delle parti, di una compiuta disciplina applicabile.

Ciò vale anche per gli interessi meritevoli dell'art. 2645-ter, ancorchè essi abbiano struttura diversa da quelli dell'art. 1322, secondo comma, come in prosieguo si tenterà di evidenziare.

Struttura degli interessi meritevoli di tutela

La meritevolezza degli interessi di cui all'art. 2645-ter non può essere ricondotta alla mera liceità: l'atto di destinazione, pur non essendo compiutamente regolato, è contemplato dalla legge.

Se il negozio è tipico, l'interesse non può che essere lecito [nota 7].

Lo stesso è da dire di un negozio atipico ma non innominato: la previsione legale, di per sé, esaurisce il giudizio di liceità. Se l'interesse fosse illecito si verterebbe in un caso di patologia della causa, non di astratta ammissibilità della figura. Per colpire l'illiceità degli interessi raccolti in un atto di destinazione non era affatto necessario prevedere espressamente il canone della meritevolezza secondo l'ordinamento giuridico.

Quindi la meritevolezza, non potendo essere un orpello ornamentale, deve celare in sé qualcosa in più della mera liceità.

Si è sostenuto che l'utilizzazione del vincolo di destinazione dovrebbe essere limitata «alla sola ipotesi di autonomia della solidarietà e non per tutelare ogni interesse lecito del disponente». [nota 8]

Altri, con evidente intento provocatorio, espressione del disagio indotto nell'interprete dall'approssimazione del lessico legislativo, ha sostenuto che «la finalità destinatoria deve poter essere ricompresa in quel concetto di pubblica utilità, che un tempo era alla base del riconoscimento delle fondazioni.

Il conferente, dunque, potrebbe vincolare il bene alle stesse condizioni alle quali avrebbe potuto un tempo destinarlo a patrimonio di una fondazione.». [nota 9]

Alla stessa corrente è ascrivibile il pensiero di chi ritiene che «la menzione dei disabili permea di sé l'intera norma e ne costituisce la chiave di lettura» e che occorra «agganciare la grammatura dell'interesse ad ipotesi già selezionate dall'ordinamento per sostenere un vincolo di destinazione opponibile». [nota 10]

Sul fronte opposto si discorre di «interpretazione antiletterale (particolarmente impervia)» con riferimento a chi ritenesse «operante la limitazione di responsabilità solo in presenza di interessi meritevoli di privilegio morale o sociale». [nota 11]

Invero, non pare di scorgere nell'art. 2645-ter alcun indizio che imponga o suggerisca una concezione della meritevolezza degli interessi necessariamente orientata nel senso della solidarietà, della pubblica utilità, o di altro particolare valore sociale o etico, interno ai canoni dell'ordinamento o ad essi del tutto estraneo.

La sensazione è che l'irruzione scomposta dell'atto di destinazione nel nostro ordinamento, l'ambigua collocazione della disposizione, la discutibile riconducibilità della nuova figura alle pregresse aspettative della dottrina, la tensione del dibattito sul trust interno, il timore di uno scardinamento irrimediabile dei princìpi in tema di responsabilità patrimoniale e, quindi, l'evidente rischio che il vincolo di destinazione possa essere impiegato per fini di sottrazione dei beni alla garanzia dei creditori, sotto simulate spoglie di fini di destinazione, tutto ciò ha indotto a pretendere una colorazione degli interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento che non si riesce a rinvenire nell'art. 2645-ter.

L'atto di destinazione, con i suoi brani di disciplina slegati, la sfuggente meritevolezza degli interessi e la rigida forma - che a taluno può sembrare imposta a guardia di un assetto causale particolarmente esposto a voluttà simulatorie e frodatorie della legge - può ispirare un autentico horror vacui, cui si tende a reagire coprendo il nuovo arrivato di vesti, da tempo intessute, acconce a ciò che l'atto di destinazione avrebbe dovuto essere, ma che testualmente non è.

Vi è un punto su cui, tuttavia, le opinioni sembrano convergere: gli interessi meritevoli dell'art. 2645-ter hanno natura relazionale, ossia vanno posti in relazione ad uno specifico interesse contrapposto, quello dei creditori del conferente. [nota 12]

La notazione è rilevantissima: gli interessi meritevoli, alla cui realizzazione sono diretti i negozi atipici ai sensi dell'art. 1322, secondo comma, si presentano come monadi che si muovono nell'ordinamento giuridico e possono certamente entrare in collisione con altri interessi, tipizzati o non. Ma, in sé considerati, essi non ritraggono la loro meritevolezza che da se stessi, mediante un giudizio dato secondo i canoni dell'ordinamento; può anche darsi che, in uno specifico caso, il giudizio di meritevolezza imponga una comparazione fra gli interessi in giuoco, ma ciò non è la regola.

L'interesse-monade può ben essere concepito astrattamente, indipendentemente dal negozio che deve realizzarlo; il giudizio di meritevolezza è possibile senza che in alcun modo rilevino gli altri interessi comunque coinvolti nella vicenda negoziale.

Ben diversa la natura dell'interesse meritevole dell'art. 2645-ter, che fin dal momento in cui è concepito appare prendere forma in connessione e comparazione con gli altri interessi che si muovono attorno al vincolo di destinazione; essenzialmente, ma non esclusivamente, quelli dei creditori del conferente. [nota 13]

La struttura relazionale e comparatistica dell'interesse meritevole dell'art. 2645-ter denuncia definitivamente la difficoltà e l'inopportunità di traslare nell'ambito dell'atto di destinazione le problematiche coltivate attorno all'art. 1322, secondo comma. Quivi l'interesse-monade impone di formulare le domande "che cos'è la meritevolezza? Quali sono i parametri di qualificazione di ciò che è meritevole rispetto a ciò che non lo è?"

Nell'atto di destinazione la presenza di altri interessi rende rilevante non soltanto "quale" sia l'interesse meritevole riferibile al beneficiario, ma anche "come" siffatto interesse sia coordinato con gli altri elementi del negozio, nei quali gli altri interessi trovano espressione e disciplina: quest'opera di coordinamento reagisce con il giudizio di meritevolezza, vi si insinua, lo orienta e lo piega: la meritevolezza può essere valutata quando essa sia calata nel negozio e posta in concreta connessione con gli altri elementi di esso.

Non è certo un argomento decisivo, ma si può anche osservare che secondo l'espressione letterale dell'art. 1322, secondo comma, gli interessi meritevoli di tutela sono realizzati "per mezzo" dei contratti atipici (« …contratti … diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela …»), come se gli interessi fossero "esterni" ai contratti; nell'art. 2645-ter gli interessi meritevoli di tutela sono realizzati "per mezzo" di beni (« … beni … destinati … alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela …»); qui gli interessi meritevoli appaiono "interni" alla struttura negoziale, in relazione immediata con i beni, oltre che in comparazione con gli altri interessi in giuoco.

L'argomento, si ripete, non va sopravvalutato (al più vale a mostrare un certo irsutismo semantico della disposizione), ma in qualche modo ripresenta gli interessi meritevoli di tutela come elemento di una struttura negoziale organizzata.

La funzione dell'atto pubblico nell'art. 2645-ter c.c.

Sulla scorta delle considerazioni sopra accennate, ci si può domandare quale sia la funzione della forma dell'atto pubblico prevista dall'art. 2645-ter. [nota 14]

Non si può negare che colpisca lo strano connubio fra l'atto di destinazione e la forma massimamente solenne, che ordinariamente si rinviene nel regime di figure tipiche ad intensa strutturazione tipologica.

Quale ragione ha la scelta dell'atto pubblico? Una risposta potrebbe risiedere proprio nella esigenza di coordinamento fra gli interessi coinvolti nella vicenda del vincolo di destinazione e nel conseguente portato di tale esigenza, ossia la strutturazione dell'atto di destinazione, strutturazione non delineata dal legislatore ed affidata all'autonomia privata.

Quest'ultima, però, non può liberamente farsi volontà negoziale: quando si dispiegano strumenti giuridici in grado di incidere significativamente su diritti di terzi, quando il sistema delle garanzie rischia di essere scardinato e con esso l'equilibrio complessivo del sistema, allora non può essere dato all'autonomia privata di percorrere gli spazi dell'ordinamento giuridico come mandria di "spiriti animali"; neppure all'inseguimento di magnifici e progressivi interessi, che, in sé considerati, come monadi avulse da tutto ciò che le circonda, siano meritevolissimi. Né si può aspettare che l'equilibrio sia stabilito dal cozzare, magari giudiziario, degli interessi, l'un contro l'altro.

Quando si tratti di atto di destinazione, l'autonomia privata raccoglie le opportunità che le sono offerte e si fa volontà negoziale attraverso un processo segnato da regole.

Questo processo è l'atto pubblico notarile.

Le tradizionali funzioni della forma solenne non possono esplicarsi nel caso dell'atto di destinazione.

Non può essere assicurata la corrispondenza della volontà delle parti ad un compiuto schema negoziale legale, perché qui lo schema non è delineato.

Non sembrano sussistere particolari esigenze di imporre al disponente-"conferente", speciali momenti e metodi di consapevolezza circa l'atto che sta per compiere.

S'è già detto della pubblicità. [nota 15]

L'ipotesi che sembra restare sul campo è che l'onere di forma attenga alla separazione patrimoniale.

Qui si propone immediatamente l'idea che l'atto pubblico sia preordinato al vaglio "qualitativo" dell'interesse meritevole, considerato che è in funzione di questo che la separazione viene concessa; al vaglio inteso come giudizio circa la meritevolezza "in sé" dell'interesse-monade, per riprendere la terminologia prima adoperata.

Se così fosse dovremmo registrare una grave incongruenza nell'assetto del nostro ordinamento. Se l'atto pubblico è preordinato al giudizio di meritevolezza, ogni volta che occorresse esercitare quest'ultimo, dovrebbe essere coerentemente prevista la forma pubblica: ogni negozio atipico (ancorchè non innominato) dovrebbe essere concluso per atto pubblico.

Ovviamente non è così.

Sembra più utile sviluppare l'ipotesi che l'onere di forma sia sì connesso con la separazione patrimoniale, ma non in ragione della "qualità" dell'interesse, sebbene per via della struttura organizzata del programma di realizzazione dell'interesse stesso; [nota 16] se un programma siffatto non esistesse e non fosse possibile concepirlo, il sacrificio del contrapposto interesse dei creditori del conferente, determinato dalla separazione patrimoniale, non avrebbe alcuna giustificazione.

L'atto pubblico è un modo eccellente per evitare che destinazione e interesse meritevole permangano immersi in una totale vaghezza, così come accadrebbe se il negozio potesse consistere in una mera enunciazione di elementi che non si connettono, che non si fanno "organo", nel senso etimologico del termine.

L'atto pubblico dispiega la promessa che precede non quando si propone come contenitore formale, ma quando si rivela come speciale procedimento di formazione del negozio; riprendendo l'espressione poco sopra adoperata, come processo segnato da regole.

è facile cogliere che qui si intende dare particolare risalto al farsi del negozio per mezzo del dialogo fra i soggetti che ne sono parte, la legge e il Notaio.

Ci si domandi, allora, se è valido, dispiega effetti fra le parti, può essere trascritto e determina separazione patrimoniale l'atto di destinazione che consista esclusivamente nell'individuazione di conferente e beneficiario, di un interesse meritevole e dei beni destinati alla realizzazione di quest'ultimo.

"Tizio destina il fondo agricolo Tusculano, ricco di meli, alla realizzazione dell'interesse del fisico Isacco - per tutta la vita di costui - di studiare le quattro forze fondamentali di natura, di unificarle in un'unica teoria e di sfruttare le nuove conoscenze per produrre energia non inquinante".

Fine.

Le poche parole che precedono sono un atto di destinazione? Un atto di destinazione trascrivibile?

Cosa significa la proposizione «I beni conferiti e i loro frutti posso essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione … » che si legge nell'ultimo periodo dell'art. 2645-ter ? Che il fisico Isacco può andare a riposare sotto un melo, in attesa che qualche grave frutto gli cada sulla testa, poi inducendo dal causato bernoccolo leggi universali di gravitazione?

Oppure che qualcuno (il conferente, il beneficiario, un gestore) coltiverà il fondo, venderà le mele, consegnerà il ricavato ad Isacco, sicchè costui potrà finalmente partire per il Tibet allo scopo di costruire colà, nel sottosuolo di locali catene montuose, il più grande acceleratore di particelle subatomiche, da lui medesimo progettato, dell'intero globo terracqueo? Pazienza se il denaro accumulato con le mele è palesemente insufficiente: l'interesse è meritevole e il fine è alto.

Fuor di ironia: si può sostenere che un atto di destinazione possa consistere soltanto dei bruti elementi minimi contemplati nel 2645-ter?

Oppure nelle pieghe della disposizione va ricercato dell'altro?

Per esempio, è congruo enfatizzare la realizzazione dell'interesse, che non soltanto appare in apertura della disposizione (di realizzazione dell'interesse discorre anche l'art. 1322, secondo comma), ma poi torna più avanti, ove si prevede che per la realizzazione suddetta possa "agire", oltre al conferente, qualsiasi interessato… Chi può essere questo "interessato"? Quisque de populo? O magari un soggetto cui, nell'ambito di un programma della realizzazione, esplicitato in atto, siano affidati determinati compiti?

Più avanti ancora, nel passo dell'ultimo periodo dell'art. 2645-ter, poco sopra citato, la realizzazione torna ad incombere in connessione all'impiego dei beni e frutti conferiti. Ciò significa che - ex post - si possa esercitare un controllo sugli atti di impiego compiuti? A quali effetti? Chi controlla? Oppure significa che l'impiego deve essere disciplinato, regolato in vista del fine: in una parola, organizzato?

A proposito di "fine": questa parola e l'altra, che chiude l'art. 2645-ter, "scopo" - in un contesto di approssimazione terminologica per cui si deve ribadire il conio di irsutismo semantico - devono essere considerati sinonimi di interesse? Oppure in qualche modo segnano l'esigenza che sia delineato un percorso per la realizzazione dell'interesse, o almeno l'esigenza che sia definita una situazione in cui l'interesse è realizzato, il fine è raggiunto, il vincolo cessa e gli effetti di separazione patrimoniale si dissolvono?

Sono tutte domande alle quali non si può, allo stato dell'indagine, dare risposta.

Tuttavia, tornando alla storiella di Isacco, ossia all'atto di destinazione di tre righi che è pur concepibile, è da dire senza indugio che non si può accogliere l'idea che all'autonomia privata sia concesso di sterilizzare la regola della responsabilità patrimoniale provvedendo soltanto ad un informe accostamento di beni ad un interesse in sé meritevole (sia pure secondo i canoni dell'ordinamento).

Poco importa la qualità degli interessi meritevoli, degli interessi-monadi: alta vocazione solidaristica o bieca inclinazione affaristica, ciò che segna la sorte delle vicende giuridiche, che attorno all'atto di destinazione si possono svolgere, è, lo si ribadisce ancora, il carattere relazionale e comparatistico dell'interesse, carattere che deve essere espresso e modulato nell'atto pubblico di destinazione.

Ne discende:

che la meritevolezza di un interesse non può mai essere considerata astrattamente, come valore assoluto, ma deve essere soppesata nell'ambito del congegno negoziale;

che l'atto di destinazione non può consistere in un dispiegamento di pura volontà destinatoria, privo di un apparato negoziale che mostri come l'interesse meritevole sarà perseguito e realizzato;

che la meritevolezza - intesa non come mera qualità dell'interesse, avulsa da tutto il resto, ma come risultato di un giudizio di comparazione e di un'opera di "costruzione" della struttura negoziale - deve risultare dall'atto.

Di più: l'atto di destinazione, per espressa previsione della norma, può avere durata strabiliante. Si provi ad immaginare, per mero esperimento mentale, un atto di destinazione di 90 anni fa; si sopporti l'asincronia dell'art. 2645-ter calato nel c.c. del 1865 (e/o nel codice di commercio?).

Misuratosi con due diversi codici, attraversata l'età della codificazione, della Costituzione, della decodificazione, delle varie riforme, dall'agraria alla societaria, esso sarebbe giunto fino a noi nella sua originaria caratterizzazione?

Prevedere una durata di 90 anni è un gesto di hybris legislativa.

Ma qui non si tratta di criticare una soluzione. Si tratta di porsi un problema di immediata e rilevante concretezza.

Non può esservi dubbio alcuno sul fatto che la meritevolezza degli interessi debba sussistere ed essere verificata fin dal momento in cui l'atto di destinazione viene in esistenza per essere trascritto.

E dopo? Il vincolo resta rigidamente stabilito per 90 anni o per tutta la vita del beneficiario?

Una meritevolezza fissata in un solo punto del tempo imprimerebbe all'atto di destinazione un crisma destinato a durare per intere ere giuridiche ?

Non può essere così. L'interesse può essere meritevole in un dato tempo e in quel tempo il sacrificio dell'interesse dei creditori del conferente è giustificato. Ma successivamente l'interesse può non essere più meritevole e allora il sacrificio dei creditori del conferente non può più trovare spazio nell'ordinamento.

L'interesse, quindi, deve essere meritevole al momento della confezione dell'atto di destinazione e deve restare tale per tutta la durata del vincolo. [nota 17]

L'esigenza che l'interesse risulti dall'atto attiene anche alla possibilità che chiunque possa interrogarsi sulla meritevolezza in qualsiasi momento, e possa interrogarsi sulla base degli elementi di valutazione che l'atto offre.

Alcune considerazioni sul giudizio di meritevolezza

Non v'è alcun dubbio che il giudizio di meritevolezza spetti, in sede di stipula e fino alla trascrizione dell'atto di destinazione, al Notaio.

Eseguita la trascrizione, spetterà al giudice.

Ciò implica che il giudizio affidato al Notaio sia lo stesso affidato al giudice?

Un'ipotesi siffatta non può essere facilmente ed immediatamente accolta. Né può essere, in questo scritto, oggetto di adeguata indagine.

Si è già insistito sul concetto di atto pubblico come processo, come sequenza di azioni retta da regole, guidata da un custode delle regole - il Notaio - ed indirizzata ad un fine, la confezione di un atto giuridico.

è un dato acquisito nella cultura giuridica italiana che la funzione notarile sia antagonista di quella giudiziaria, che l'atto notarile miri a comporre conflitti, dopo averli portati alla luce durante il suo processo di formazione, dando forma - ossia esistenza semanticamente ostensibile e riconoscibile - a negozi, strumenti giuridici condivisi dalle parti e dotati di uno speciale crisma di coerenza con l'ordinamento.

In questo quadro, come si colloca il giudizio sulla meritevolezza di cui all'art. 2645-ter?

Quale deve essere il metodo di valutazione della meritevolezza da parte del Notaio?

è del tutto evidente che la risposta dipende dalla nozione di meritevolezza che si è accolta.

Chi ritenga che l'atto di destinazione debba essere colorato da interessi aventi natura solidaristica o di pubblica utilità, dovrà necessariamente rifarsi o a luoghi normativi in cui siffatti interessi siano positivamente enunciati; [nota 18] oppure ad un corpus di precedenti, di elaborazione dottrinaria, giurisprudenziale, o notarile. [nota 19]

Individuato l'interesse meritevole secondo parametri di qualità esterni all'atto di destinazione, la faccenda si chiude.

Ben diverso il caso di chi ritenga che la meritevolezza abbia a che fare con l'equilibrio degli interessi in giuoco e con le modalità di realizzazione dell'interesse.

Qui non si tratta di dotarsi di un registro di interessi meritevoli, da consultare davanti a un caso concreto, sicchè il giudizio di meritevolezza si risolva in una visura, o, al più, in una stesura (di un brano dell'atto che inequivocabilmente riconduca l'interesse ad un precedente, dotato di crisma di qualità).

Si tratta, invece, di costruire un apparato negoziale nel quale:

1. sia individuato un interesse lecito riferibile a un beneficiario … qualsiasi (purchè diverso dal conferente);

2. siano determinati i beni destinati alla realizzazione di tale interesse;

3. siano stabilite le modalità di godimento dei beni destinati e dei frutti di essi, a servizio della realizzazione dell'interesse lecito, prevedendone l'utilizzazione diretta e/o lo sfruttamento economico e la fruizione dei proventi;

4. sia evidenziato: in caso di utilizzazione diretta dei beni, come essa sia pertinente alla realizzazione dell'interesse; in caso di utilizzazione mediata, attraverso la percezione dei proventi dello sfruttamento economico, un rapporto di proporzionalità fra tali proventi ed i presumibili costi di realizzazione dell'interesse;

5. sia delineato ed esposto, in conclusione, il carattere organizzato della destinazione dei beni e l'adeguatezza patrimoniale e funzionale di siffatta organizzazione rispetto all'interesse che si intende realizzare.

Si può da ciò trarre una (provvisoria) definizione della meritevolezza, come adeguatezza dell'organizzazione della destinazione, in vista della realizzazione di un interesse lecito. [nota 20] - [nota 21]

Il giudizio di meritevolezza si svolgerebbe in due fasi.

Nella prima l'interesse deve essere qualificato in primo luogo come non futile e suscettibile di essere trattato nella dimensione del diritto; in secondo luogo come lecito: l'interesse di un melancolico a ristorarsi passando le serate appoggiato alla balaustra di marmo di una villa posta in un luogo frequentato da brezze, non giustifica né la destinazione della villa, né quella di una cava di marmo. Non è che l'interesse sia illecito; è semplicemente pre-giuridico.

Nella seconda fase si valuta l'adeguatezza dello strumento al fine, ossia l'adeguatezza della organizzazione della destinazione.

In tal modo il carattere relazionale e comparatistico dell'interesse trova concreta evidenza.

L'esercizio del giudizio di meritevolezza viene così a coincidere con la "costruzione" dell'atto di destinazione e ciò spiega perfettamente perché mai il giudizio sia stato affidato al Notaio, per la via della previsione della forma pubblica .

Per altro verso, non si può nascondere che nel giudizio notarile di meritevolezza siano inevitabilmente presenti elementi di una decisione … "di merito".

Ordinariamente il Notaio raccoglie volontà e le intesse in negozi che egli giudica conformi all'ordinamento. Oppure «verifica l'adempimento delle condizioni stabilite dalla legge» ai fini dell'iscrizione di taluni atti societari nel Registro delle Imprese.

Il Notaio, quindi, esercita normalmente un giudizio di congruenza o di non incongruenza di un insieme di proposizioni che costituiscono un apparato semantico (l'atto) rispetto ad un insieme di regole (l'ordinamento giuridico) assunto come apparato semantico.

Nel giudizio di meritevolezza ex art. 2645-ter il Notaio opera in tal modo quando valuta la liceità; ma è costretto a calcare territori alieni quando è chiamato ad effettuare il vaglio dell'adeguatezza dell'organizzazione della destinazione. Quivi il giudizio di meritevolezza si fa giudizio su "cose" ed implica valutazioni che non sono di congruenza delle clausole negoziali all'ordinamento, ma di comparazione fra interessi, che si contrappongono non in atto ma "fuori" di esso.

Si tratta, in ultima analisi, di prognosi sugli effetti del negozio nei confronti di terzi estranei (i creditori del conferente).

Non si può nascondere l'evidenza: la meritevolezza-adeguatezza chiama il Notaio a compiti che non fanno parte del bagaglio della sua arte, anche se valorizzano la sua funzione di prevenzione dei conflitti. Qui si profila un'autentica intrusione nel merito; e ciò che lascia massimamente perplessi è l'assenza di qualsivoglia rimedio al giudizio del Notaio che neghi la sussistenza della meritevolezza: a chi si vedesse rifiutato un atto di destinazione non resterebbe che … ritentare con un altro Notaio. Cosicché l'impossibilità di adire ad un sovraordinato grado di decisione sarebbe compensata dalla possibilità di chiedere più volte la stessa cosa. Esasperando la comparazione in termini processualistici, bis in idem.

Solo il tempo svelerà se ciò che sembra frutto di una ben modesta scienza della legislazione si evolverà verso una tecnica non giurisdizionale, ma non privatistica, di composizione dei conflitti, di stabilimento dell'equilibrio del sistema e, in ultima istanza, di protezione dell'ordine pubblico economico. E poiché le eterogenesi dei fini non si verificano senza che qualcuno, palesemente o no, le provochi e le sospinga, la questione ermeneutica circa la definizione e il controllo di meritevolezza nell'art. 2645-ter può essere trasmutata in altra questione, non di sola ermeneutica giuridica: quale ruolo per il Notaio, chiamato ad una funzione di garanzia che richiede non applicazione di regole, ma giudizi che integrino un tessuto normativo che rinuncia a porsi come sistema?


[nota 1] Di ciò, cautamente, si traccia qualche segno in fine del presente scritto.

[nota 2] Una formidabile perlustrazione dei punti di incidenza del nuovo art. 2645-ter, che ha condotto l'Autore attraverso cospicua parte dei territori dell'ordinamento civile, è lo scritto di G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 161 e ss.

[nota 3] F. GAZZONI, «Osservazioni sull'art. 2645-ter», www.judicium.it, par. 2, con riferimento all'atto di destinazione afferma che «senza dubbio la fattispecie delineata dal legislatore ha una propria tipicità, sia pure affatto particolare»; e, più avanti, «Nel nostro caso, viceversa, si assisterebbe ad un ben strano fenomeno, per cui la tipicità riguarderebbe il modello, ma non il contenuto, nel senso cioè di tipizzare lo schema, rinviando però poi all'autonomia privata il compito di riempire lo schema stesso di qualsivoglia regolamento disciplinare».

[nota 4] Il tenore del 2645-ter non impedisce di pensare che la struttura del negozio possa essere unilaterale o bilaterale, con l'intervento del beneficiario o di un gestore o attuatore del vincolo; e perfino trilaterale, qualora all'atto partecipino, oltre al "conferente" e al beneficiario, anche il gestore o attuatore e non si siano regolati i compiti di costoro con un mandato collegato; i primi commentatori inclinano per la natura gratuita, ma non sembra che possa escludersi un atto di destinazione costituito a titolo oneroso, dietro corrispettivo, ovvero collocato in un contesto di negozi onerosi, collegati e caratterizzati da un certo equilibrio del sinallagma (si pensi, ad esempio, all'inserimento di un atto di destinazione nell'ambito del project financing relativo ad un'opera pubblica o privata); la causa dovrebbe essere definita in relazione all'interesse meritevole di tutela e, qualora si voglia discorrere di causa di destinazione, comunque occorre che in essa si innervi l'interesse stesso, la cui individuazione, in ogni caso, è demandata all'autonomia privata; per non dire del regime dell'impiego dei beni, degli effetti dell'inadempimento alle regole dettate in ordine all'impiego, dell'estinzione del vincolo per realizzazione del fine, per impossibilità della realizzazione del fine, della revoca e altro ancora.

[nota 5] Così osserva F. GAZZONI, op. cit., par. 3, con riferimento ad App. Milano, 29 dicembre 1970, e a Cass. 2 luglio 1975, n. 2578.

[nota 6] La formula dell'art. 1372 c.c. appare assai meno enfatica di quanto non sia stata considerata, se si ha riguardo alla necessità che il negozio sia uno strumento idoneo a trattare conflitti, prevenendoli o componendoli, mediante dispiegamento di effetti, piuttosto che un catalogo di mere volontà o mere finalità.

[nota 7] Le ipotesi di patologia della causa nulla hanno a che fare con il "riconoscimento" che il tipo legale necessariamente implica.

[nota 8] è l'opinione espressa da P. SPADA nel convegno "La trascrizione dell'atto negoziale di destinazione. L'art. 2645-ter del codice civile" tenutosi a Roma il 17 marzo 2006, secondo quanto riferisce R. FRANCO, «Il nuovo art. 2645-ter c.c.» , Notariato n. 3/2006, 25, p. 320.

Opinione di recente ribadita da P. SPADA, «Il vincolo di destinazione e la struttura del fatto costitutivo», p. 4 (intervento al Convegno "Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645-ter c.c." tenutosi a Milano il 19 giugno 2006): « … io sono convinto che debba prendersi atto che il riferimento ai "disabili" ed alle pubbliche amministrazioni orienti a sanzionare la separazione da destinazione solo se manifestazione dell'autonomia della solidarietà; in forza di questo addentellato testuale resistendo così alla deriva a fare della destinazione un deforme succedaneo del trust, a servizio di qualsiasi finalità, con sostanziale abrogazione dell'art. 2740 c.c. e sabotaggio di un sistema che esibisce destinazioni nominate e variamente vincolate negli scopi»; e che culmina nell'indicazione della recente legge sulla impresa sociale come fonte di orientamento «nella selezione di interessi sufficienti alla separazione innominata … ».

[nota 9] è la tesi di F. GAZZONI, op. cit., par. 4. Tesi peraltro fondata, "approfittando del lapsus", sulla «freudiana … qualifica di conferente attribuita erroneamente dal legislatore all'autore della destinazione, il quale rimane proprietario e titolare del bene, che non confluisce in altro patrimonio di altro soggetto».

Sull'ammissibilità dell'argomento "psicoanalitico" non si può allo stato decidere (ma non si può affatto escludere, a fronte di recenti confezioni legislative, che il futuro dia spazio ad un'ermeneutica "giuspsicoanalitica" che proceda per lapsus, tic, e similia; più difficile raccogliere il significato profondo dei sogni del legislatore, mentre non dovrebbe essere impossibile sorprenderne le pulsioni).

In una prospettiva più domestica, non è forse fuor di luogo osservare che nel nostro ordinamento civile il vocabolo "conferimento" non indica soltanto il trasferimento di un bene ad un ente al quale il conferente partecipi, ma connota anche il diverso fenomeno della collazione, ove chi "conferisce" un immobile può anche imputarne il valore alla propria porzione, senza renderlo in natura (cfr. art. 746 c.c). Il bene permane nella titolarità del "conferente" che effettua la collazione, ma viene immesso in una particolare situazione giuridica, quella ove si svolge la determinazione della massa divisionale, funzionale alla realizzazione dell'interesse di ciascun condividente a ricevere quanto gli spetta.

Nell'atto di destinazione il bene parimenti permane nella titolarità del "conferente" che lo immette in una particolare situazione giuridica, quella destinatoria, funzionale alla realizzazione dell'interesse meritevole riferibile al beneficiario. Si può anche rilevare, del tutto incidentalmente, che l'eventuale trasferimento effettuato dal "conferente" attiene ad una diversa vicenda e non è un elemento caratterizzante della destinazione; l'eventuale collegamento causale scaturisce dalla configurazione negoziale in concreto adottata.

[nota 10] A. DE DONATO, «Elementi dell'atto di destinazione», p. 3 (intervento al Convegno tenutosi a Milano il 19 giugno 2006, sopra menzionato); ivi, nelle pagine seguenti, un ricchissimo elenco di ipotesi di interessi meritevoli, estratte o ispirate da norme positive, produce l'effetto di far assurgere la problematica dell'individuazione e valutazione degli interessi ad una dimensione tipologica, che non pare suffragata dall'art. 2645-ter; e l'effetto di ricondurre la meritevolezza in un'area contigua (o sovrapponibile) alla previsione legale, ossia alla liceità.

[nota 11] è l'opinione di P. SCHLESINGER, «Atti istitutivi di vincoli di destinazione. Riflessioni introduttive», p. 4 (intervento al convegno "Trust, atto di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e altri strumenti di separazione del patrimonio" tenutosi a Milano il 22 maggio 2006).

[nota 12] V. M. NUZZO, «Atto di destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del Notaio», p. 5 (scritto presentato al Convegno tenutosi a Milano il 19 giugno 2006 sopra menzionato).

[nota 13] L'art. 2645-ter prevede interessi riferibili a quattro categorie di soggetti:

a) gli interessi meritevoli di tutela dei beneficiari (persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, altri enti o persone fisiche);

b) gli interessi dei creditori del conferente;

c) gli interessi del conferente;

d) infine, gli interessi di … qualsiasi interessato;

i soggetti delle ultime due specie possono agire per la realizzazione degli interessi del beneficiario e si deve quindi ritenere che siano titolari di un interesse proprio alla realizzazione suddetta.

[nota 14] Non è sostenibile che la forma sia da mettere in relazione con la pubblicità immobiliare: per questo scopo sarebbe stato sufficiente prescrivere o - come è stato fatto - consentire la trascrizione, per rendere applicabile l'art. 2657 c.c.

Né convince la tesi di F. GAZZONI, op. cit., par 5: « … per quanto riguarda la ratio legislativa insisto nell'idea che l'atto pubblico di destinazione sia da avvicinare, sul piano funzionale, all'atto di fondazione, il quale pretende la forma dell'atto pubblico, per lo stesso motivo per il quale la pretende il contratto di donazione, onde si conferma, anche sotto questo aspetto, l'impossibilità di una destinazione onerosa, secondo quanto dirò. Lo scambio infatti, ai sensi dell'art. 1350 c.c., è incompatibile con la forma notarile necessaria. Non a caso, del resto, l'atto pubblico è previsto per la costituzione del fondo patrimoniale. Ove fossi Notaio, non solo, dunque, eviterei di stipulare contratti di destinazione onerosi, ma vi farei presenziare due testimoni».

L'idea è certamente suggestiva ma - trascurato il rilievo che pretendere la presenza dei testimoni discenderebbe da un'applicazione analogica di norma sulla forma - non riesce chiaro come la ratio legis, allo stato dell'indagine, possa indurre ad assimilare l'atto di destinazione al negozio di fondazione: un legislatore che fosse stato mosso da una simile ratio non avrebbe affidato all'autonomia privata l'individuazione degli interessi meritevoli di tutela, ma avrebbe dato alla nuova figura una precisa connotazione causale o almeno una compiuta configurazione tipica. è ben vero che argomentare a contrario da ipotetiche omissioni del legislatore è tecnica ermeneutica discutibilissima e fuorviante; non pare, tuttavia, che maggior conforto all'analisi possa essere arrecato dall'evocazione di rationes legis prive di qualsivoglia espressione semantica o segno purchessia.

[nota 15] V. nota precedente.

[nota 16] Vedi M. BIANCA, «L'atto di destinazione: problemi applicativi», p. 7 (intervento al Convegno di Milano del 19 giugno 2006, menzionato): « … il conferente dovrebbe, in sede di redazione dell'atto, non solo indicare la finalità ma determinare le modalità del programma destinatorio. Per esempio, non è sufficiente indicare la finalità della cura di un dato soggetto disabile, ma occorre altresì riempire di contenuto lo schema attraverso il quale regolare la previsione della corresponsione di una rendita periodica per la cura e l'assistenza del soggetto».

[nota 17] La questione è evidentemente diversa da quella della permanente effettività della destinazione.

[nota 18] V. sopra, nota 10.

[nota 19] Avremo un massimario o un catalogo di interessi meritevoli?

[nota 20] Nella stessa direzione, sembra, l'affermazione di G. DE NOVA, «Esegesi dell'art. 2645-ter c.c.», p. 2 (intervento al Convegno tenutosi a Milano il 19 giugno 2006, sopra menzionato): «Credo inoltre che il giudizio di meritevolezza debba avere riguardo alla congruità rispetto allo scopo, sia quanto alla durata, sia quanto al valore dei beni destinati».

[nota 21] L'adeguatezza del patrimonio rispetto alla realizzazione dello scopo è uno dei requisiti richiesti dall'art. 1, comma 3, del D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, "ai fini del riconoscimento" delle associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato.

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