Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta
Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta [*]
di Paolo Spada
Ordinario di diritto commerciale, Università "La Sapienza" di Roma

Una disciplina in cerca della fattispecie

Di fronte a nuovi testi normativi, ricordare che la naturale (benché non essenziale) struttura della norma è quella di un giudizio ipotetico ("se A, allora deve essere B") e studiarsi, nel tentativo di proporre un significato precettivo plausibile del testo, di isolare la protasi (A) dall'apodosi (B) è una strategia conoscitiva intuitivamente utile e probabilmente innocua, incapace di provocare fraintesi gravi. Nomogenesi, vincoli testuali, ponderazione degli interessi mobilitati, plausibilità del risultato, integrazione nel sistema e così via sono registri tutti dei quali avvalersi nell'impresa ma è, comunque, per me imperativo - almeno in termini di utilità del lavoro degli addetti - non dimenticare mai che lo specifico dell'analisi giuridica è sempre lo stesso; e sta nel cogliere (a) quali regole si applicano, (b) a chi le si applica ed (c) in presenza di quali presupposti.

Un gergo giuridico ormai semanticamente stabilizzato viene in aiuto: scelta una disciplina (le regole da applicarsi), è la fattispecie (il modello di fatto) che ne funge da presupposto che merita di essere descritta; e, nel farlo, non mancherà l'occasione per chiarire- magari parlando di imputazione- a chi le regole condizionate si applichino.

Persuaso della validità di quanto or ora ho concisamente dichiarato, fin da quando il codice civile italiano si è arricchito di un testo come quello che si legge nell'art. 2645-ter, passata la breve stagione delle denunce rabbiose dell'ipocrisia [nota 1] e delle denunce rassegnate del malgoverno del linguaggio giuridico [nota 2]; passata- dicevo- questa stagione, mi è sembrato doveroso inventariare le norme compatibili con il testo e caldeggiare quelle meno eversive del sistema e più convincenti nell'amministrare gli interessi coinvolti. Compito nell'assolvere il quale mi è parso e mi pare necessario ragionare, appunto, in termini di disciplina e di fattispecie.

Permettendomi una tonalità un po' assiomatica (ma quanto sto per dire è piuttosto dell'ordine dell'evidenza che del demonstrandum), direi:

- che la disciplina ricavabile dal testo in esame si lascia scomporre in due precetti: (1) separazione patrimoniale e cioè: insensibilità di uno o più beni inclusi nel patrimonio di un soggetto dato all'azione esecutiva di tutti i (di lui) creditori che non abbiano un titolo funzionale o correlato allo scopo al quale il soggetto ha destinato il bene o i beni; (2) legittimazione di chi ha destinato il bene o i beni (la legge lo chiama "conferente") e di "qualsiasi interessato durante la [di lui] vita" ad agire "per la realizzazione" dello scopo [nota 3];

- che "insensibilità" e "legittimazione" sono indifferenti alla circolazione del bene o dei beni destinati, alla dissociazione soggettiva, concomitante o sopravvenuta, tra destinante e proprietario, l'insensibilità giovando al proprietario debitore (destinante originario o non che sia) e la legittimazione profilandosi contro chi ha titolo a disporre del bene per realizzare lo scopo (almeno questo deve significare l'enunciato che la formalità è preordinata a «rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione»);

- che può restare impregiudicato l'interrogativo se, oltre l'insensibilità, possa prospettarsi una regola, non testuale ma ordinamentale, di localizzazione della garanzia patrimoniale. Localizzazzione, direi, al più imperfetta, con conseguente garanzia sussidiaria del residuo patrimonio attivo del debitore a beneficio dei creditori che abbiano un titolo funzionale o correlato allo scopo al quale il bene o i beni sono stati destinati- e aggiungerei che, per rispettare il ruolo almeno residuale della responsabilità patrimoniale, illimitata e paritetica (artt. 2740 e 2741 c.c.), e prendendo atto del deficit di indici testuali, l'onere di provare una od altra misura di localizzazione graverebbe chi la allega;

- che altrettanto impregiudicata intendo lasciare la questione, peraltro inevitabile, del referente della legittimazione ad agire, dei rimedi - voglio dire - all'infedeltà rispetto allo scopo della destinazione (rimedi personali, come condanne ad essere fedeli ed a risarcire i danni dell'infedeltà? rimedi reali, come impugnative degli atti di disposizione incompatibili?).

Questa essendo la disciplina, la fattispecie appare composita. Le componenti della fattispecie, stando al testo in esame, sono:

a. un "atto pubblico";

b. "trascritto".

Dell'atto pubblico l'art. 2645-ter c.c. dice che con esso «beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri sono destinati» «alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela». Se l'atto pubblico è trascritto, i beni destinati non sono suscettibili di espropriazione da parte dei creditori per debiti non contratti per la realizzazione dello scopo della destinazione.

Disposizione, attribuzione e destinazione

Prima di procedere oltre nell'esame della fattispecie sembra doveroso stipulare un lessico con il lettore onde evitare fraintesi e, al contempo, guadagnare qualche ulteriore fattore argomentativo.

a. Dell'uso della separazione patrimoniale come locuzione inclusiva di insensibilità e localizzazione ho già detto. Voglio aggiungere che essa genera (anche quando si atteggia solo come insensibilità) separazione di ceti di creditori, nella prospettiva della garanzia patrimoniale. Non diversamente da come una separazione di ceti provocano le cause di prelazione e, segnatamente, l'ipoteca: questa rende insensibile il bene ipotecato all'azione esecutiva dei creditori chirografari ed a beneficio del creditore ipotecario; laddove la separazione che qui interessa rende insensibile il/i bene/i separato/i a beneficio di una serie aperta di creditori, da selezionarsi in ragione del titolo del rispettivo diritto.

b. è banale ma non inutile rilevare, per contiguità, che ogni circolazione di beni (che sia sanzionata o per la presenza di una giusta causa dell'attribuzione, o della forma omnibus della donazione o altrimenti) provoca una separazione: separa, quanto ai beni attribuiti, i creditori dell'attribuente da quelli dell'attributario;

c. l'utilità del rilievo si coglie se ci si sofferma sullo scarto tra significato in uso di destinazione e modalità giuridiche della destinazione.

(1) la lessicografia insegna che "destinare" è lemma che significa «adibire, riservare qualcosa a un uso, a una funzione» [nota 4] e che, etimologicamente, risulta dal rafforzamento, tramite il prefisso "de", di una voce verbale "stanare" da avvicinarsi [nota 5] a "stare", nel senso di "fermare". Ai fini dell'analisi giuridica suggerirei di ricorrere al lemma ed ai suoi derivati in presenza di (a) un comportamento riconoscibile (dichiarativo, performativo e comunque oggettivamente significativo) (b) che seleziona le utilità d'uso e/o di scambio di una cosa che appartiene a chi si comporta (c) in funzione di un risultato programmato - o scopo.

(2) La destinazione- lo ha chiarito nella seconda metà del secolo XIX Bekker [nota 6]– è da pensarsi come una delle due varianti della disposizione. Anche qui la lessicografia dà un contributo: "disporre" è lemma composto dal prefisso di origine latina "dis", che indica separazione, e "ponere" e il calco etimologico suggerisce l'idea di "porre altrove", di distaccare dal compendio delle cose che appartengono. Ora il distacco può atteggiarsi sia come "attribuzione" (assegnazione di un vantaggio, reale o personale, ad altri), sia come, appunto, "destinazione" (Zwecksatzung, diceva Bekker, in contrapposizione a Zuwendung).

(3) Accade, tuttavia, che la destinazione sia, per legge, atteggiata come attribuzione, postulandosi un "ente allo scopo" (la locuzione è consapevolmente tautologica) al quale la cosa destinata è attribuita. è il caso del conferimento in società: il conferimento, pur essendo, come comportamento empiricamente osservato, una destinazione di beni a servizio di un'iniziativa collettiva - ma oggi anche individuale - è trattato come una attribuzione (per esempio ai fini della trascrizione immobiliare). Lo stesso può dirsi per certe trasformazioni eterogenee (da e in comunione d'azienda) che, a differenza delle altre, comportano che una destinazione sia impressa o soppressa [nota 7]. Nonché per associazioni e fondazioni. Quando la destinazione si atteggia come attribuzione ad un "ente allo scopo", da un lato, la destinazione persiste finché persiste l'ente, dall'altro viene meno quando l'ente dismetta il bene destinato (il bene conferito in società circola "libero" quando la società lo aliena a terzi). In questa prospettiva, la qualifica di "conferente" che l'art. 2645-ter assegna al destinante è certamente "freudiana"- come dice, con intenti scopertamente e giustamente polemici verso il redattore del testo, Francesco Gazzoni [nota 8]– ma è molto meno errata di quanto non sembri a chi, come appunto Francesco Gazzoni, è refrattario a ravvisare nella persona giuridica null'altro che una tecnica di presentazione di regole anche sulla garanzia patrimoniale.

d. La destinazione in sé - decisa o anche dichiarata o attuata o, perfino, conclamata - è del tutto irrilevante sul terreno della classificazione del patrimonio di un soggetto dato nella prospettiva della garanzia generica [nota 9], e lo è quand'anche sia destinazione ad uno scopo produttivo: essa non articola il patrimonio del destinante [nota 10], non lo vincola nei confronti di chicchessia [nota 11]: può, questo sì, generare approvazione o disapprovazione nella cerchia sociale (che io destini un lascito ereditario a costituirmi una biblioteca ovvero a dissiparlo in "donne e champagne" ha socio-culturalmente valori opposti; ma, giuridicamente è, in sé, indifferente). E solo in termini di valore socio-culturale è apprezzabile la rimozione di una destinazione o il rimpiazzo dell'una con l'altra [nota 12].

e. La destinazione diventa rilevante nei rapporti funzionali: l'azione per conto altrui - che è manifestazione di autonomia funzionale, di autonomia, cioè, a servizio di un interesse altrui o, comunque, prefissato [nota 13]- implica la destinazione a servizio di un interesse precostituito (altrui, ma non necessariamente) delle utilità d'uso e di scambio della cosa sulla quale si esercita: in questa prospettiva la destinazione si impone perfino ai creditori, come si ricava già da quell'art. 1707 c.c. che separa dal patrimonio del mandatario i beni acquistati «in esecuzione del mandato» purché il «mandato risulti da scrittura avente data certa» o, per gli immobili ed i mobili registrati, la trascrizione del pignoramento sia successiva alla trascrizione dell'atto di trasferimento causa solvendi (dal mandatario al mandante) o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo. Norma ricca di significato [nota 14] ma che è azzardato generalizzare. La funzione - comunque - sanziona giuridicamente la destinazione. La libertà no.

f. La destinazione a servizio di un interesse precostituito (quindi di un comportamento funzionale proprio od altrui) non era fino a ieri rilevante come antecedente di una separazione che nei casi nominati: fondo patrimoniale, società- massimamente unilaterali- destinazione di patrimoni ad uno specifico affare (art. 2447-bis c.c.), almeno la variante della cartolarizzazione detta subparticipation (art. 7 L. 130/1999) e qualche caso ancora. Affermare- come si è affermato in un contesto argomentativo certamente suggestivo [nota 15]- che non fosse corretto muovere dalla tassatività « … stante la neutralità degli strumenti tecnici, che sul piano formale tale separazione consentono, e la conseguente idoneità degli stessi al perseguimento di tutte le finalità, in sé degne di tutela, che l'autonomia privata abbia configurare nel suo naturale processo evolutivo» era, a mio parere, un auspicio piuttosto che una conclusione di diritto.

g. Altro, tutt'altro, dalla destinazione è l'uso promesso, pattuito o imposto per legge della cosa propria (come può dirsi dell'uso dedotto in una promessa al pubblico, dell'uso locativo, del particolare commodum utentis datum, dell'impegno a non alienare, del modus ecc.): qui l'asservimento delle utilità d'uso o di disposizione ad uno scopo è una modalità di determinazione di una prestazione dovuta, di determinazione dell'oggetto d'un vincolo obbligatorio del comportamento alla stregua del quale si misura la liceità del comportamento dell'obbligato.

è mia impressione che quando si rivendica alla destinazione in sé un valore negoziale finale, un effetto inter partes- obbligatorio, spesso si aggiunge [nota 16]- e si afferma che è questo il valore che l'art. 2645-ter consentirebbe, per via di trascrizione, di rendere opponibile ai terzi si dica una cosa il senso della quale mi è quasi inaccessibile. La destinazione in sé non produce vincoli per il destinante (che è libero di imprimerla e di sopprimerla) né pretese per chicchessia; sicché un problema di liceità della destinazione (liceità che l'art. 2645-ter avrebbe definitivamente concesso) neppure si pone, ché la destinazione di ciò di cui si può disporre è una manifestazione di libertà, nei limiti del titolo dell'appartenenza del bene disposto. Un vincolo obbligatorio e una pretesa azionabile si profileranno solo se, e soltanto se, legge o promessa dotata di una cause suffisante (e la destinazione, al pari dell'attribuzione, non è causa sui ipsius, non si autogiustifica) o altrimenti (penso, per esempio, alla promessa al pubblico o ad una promessa rivestita delle solennità della donazione) produttiva di un'obbligazione renderanno dovuta una destinazione del bene e/o dei suoi frutti.

D'altronde le destinazioni di beni a servizio di un'attività funzionale (atteggiate o non che fossero come attribuzioni- per intenderci: conferimento in società, da un lato, e destinazione di un compendio patrimoniale ad uno specifico affare da parte di una società per azioni, dall'altro), destinazioni già dotate di rilievo sul piano dell'articolazione del patrimonio, in quanto idonee a separare il patrimonio asservito alla funzione dal patrimonio residuo del destinante e del funzionario (se soggettivamente altro dal primo) erano tassative quanto agli interessi precostituiti (capaci di rendere l'attività funzione) ed alle tecniche necessarie per generare l'articolazione: basti comparare interessi e tecniche nei casi della costituzione di un fondo patrimoniale, della erezione di una fondazione, della costituzione di una società, della "dedica" di un patrimonio ad uno specifico affare e via dicendo. Sicché auspicare che «nel suo processo evolutivo» l'autonomia privata possa destinare con conseguenze equivalenti «a tutte le finalità in sé degne di tutela» [nota 17] mi sembrava apodittico ieri e mi sembra falsificato oggi proprio dall'art. 2645-ter c.c., almeno se vincolo funzionale a carico del destinante e separazione del cespite destinato si pensano come effetti negoziali della destinazione, cioè risposte legali immediate e coerenti a regole fissate dai privati.

Perché vincolo e separazione si generino ci vuol ben altro di una manifestazione di volontà: che la destinazione si iscriva in un'iniziativa collettiva lucrativa o non (società ed altre formazioni associative); che accetti di svilupparsi, se iscritta in un'iniziativa individuale, avvalendosi di un codice organizzativo prefissato (quella della società per azioni o a responsabilità limitata) e si sottoponga alla formalità dell'iscrizione nel Registro delle Imprese; che promani da una società per azioni, nel rispetto di regole procedurali e sostanziali, e sia poi sottoposta alla formalità da ultimo citata; che subisca lo scrutinio dell'Autorità pubblica ecc. Ed oggi che la destinazione, documentata in forma pubblica e preordinata ad interessi di meritevolezza da verificare, sia trascritta, sempre se relativa a beni immobili o mobili registrati.

A mio parere, la novità introdotta dall'art. 2645-ter è in sostanza questa: oggi, diversamente, da ieri una destinazione a servizio di un'attività funzionale può provocare una separazione patrimoniale non condizionata da scopi preselezionati, bensì da selezionarsi a stregua di un interesse da giudicarsi meritevole in base all'ambigua formula dell'art. 2645-ter (che - come già si è accennato - prima sembra orientare la meritevolezza ai sommi valori della solidarietà e poi "svenderla" richiamando la norma dell'art. 1322 c.c. che, nel diritto "vissuto" fa della meritevolezza una condizione equivalente alla liceità). Si è, insomma, introdotta una destinazione funzionale omnibus capace di provocare separazione di quanto destinato, di sottrarlo all'azione esecutiva di una classe di creditori del debitore proprietario e funzionario.

Che la destinazione suscettibile di provocare separazione sia solo quella a servizio di un'attività funzionale e non già a servizio di un'attività libera è imposto da un condizionamento testuale che non saprei eludere: che la legittimazione ad agire per la realizzazione dello scopo è attribuita al c.d. conferente, oltre che a qualsiasi interessato: il che significa che l'interesse a servizio del quale è fatta la destinazione non può essere - ai fini della separazione - del (solo) destinante (come sarebbe, per esempio, in caso di destinazione di un proprio fabbricato a sede della propria impresa), non avendo senso che il destinante abbia azione contro sé stesso né che vi siano interessati ad agire per la realizzazione di un interesse del destinante. Se qualcuno pensasse di far passare attraverso il nuovo varco il c.d. trust autodestinato si sbaglierebbe per me di grosso.

Atto, forma e formalità nel ciclo formativo di una "limitazione della responsabilità" del debitore e dei suoi aventi causa

Mi provo adesso a ragionare sulle componenti della fattispecie (della separazione), disaggregando il sintagma "atto pubblico" e tentando di precisare il valore della formalità che la legge chiama trascrizione.

Nell'atto pubblico isolerei come questioni:

a. una dichiarazione di destinazione di un bene immobile;

b. in forma pubblica;

c. a servizio di un interesse meritevole (non del destinante).

Della formalità intendo domandarmi se renda opponibile un effetto reale al pari di quanto fa la trascrizione di un'attribuzione, secondo quanto suggerisce il lessico legislativo.

L'atto

La dichiarazione. Il testo legislativo parla di "atti"; e il lessico è- credo fortunosamente- appropriato agli occhi di chi crede, come me, che vincolo e separazione non siano effetti negoziali della dichiarazione. è ormai il momento di dirlo chiaro e tondo: la dichiarazione di destinazione, documentata in forma pubblica, non genera, come negozio, né vincolo né separazione; essa, se negozio è, ha conseguenze solo procedimentali, scandisce un procedimento che si conclude con la formalità nei registri immobiliari; non diversamente, direi, da come fa la dichiarazione di concessione di un'ipoteca.

In questa prospettiva l'atto di destinazione è sempre unilaterale e non recettizio (e, dunque, nulla impedisce che il documento dal quale risulta sia mortis causa). L'art. 1987 c.c.- che si invoca per rifiutare l'unilateralità in nome della tassatività delle promesse unilaterali- e propugnare la necessaria bilateralità dell'atto di destinazione [nota 18] non c'entra nulla, sia perché la destinazione non è un'attribuzione obbligatoria (è tutt'altro dalla promessa), sia, e soprattutto, perché la destinazione non produce di per sé alcun effetto finale.

Non solo non c'è contratto con il beneficiario (che può anche non essere identificato) - contratto che, ove provocasse una attribuzione obbligatoria o reale diretta al destinante, porrebbe le premesse per guardare alla c.d. destinazione come un contratto di scambio o una donazione modale -; ma neppure c'è contratto di destinazione con il gestore; figura eventuale, questa del gestore, la cui compatibilità con la fattispecie si ricava con sicurezza dal dato testuale che identifica nel "conferente" uno dei legittimati alla realizzazione dell'interesse che funzionalizza la destinazione. Con il gestore, infatti, intercorre, nel caso in esame, un mandato ad amministrare che- come è stato ben detto- non esige « … né la facoltà di godimento del diritto né la facoltà di disposizione: non è necessario, in altre parole, avere quella somma di facoltà che costituiscono il contenuto del diritto soggettivo e che spettano al suo titolare» [nota 19].

Ciò non toglie affatto che la dichiarazione di destinazione possa esser collegata ad un'attribuzione, che, se contrattuale (e non rivestita della forma omnibus della donazione), è da causarsi; e non voglio neppure escludere che l'attribuzione possa essere retta da una causa fiduciae - anche se sento valide, forti e generalizzabili le ragioni sviluppate, anni or sono, da Carraro a proposito del mandato ad alienare [nota 20] - restituendo così all'osservatore un simulacro della struttura tipicamente traidica del trust (settlor, trustee, beneficiary) [nota 21]. Quel che proprio non riesco ad accettare è che si ragioni di un negozio di destinazione dicendo che « … è … un negozio attributivo di un diritto, casualmente giustificato dalla destinazione del diritto attribuito ad uno scopo preciso, produttivo di uno spostamento patrimoniale che certamente può concretarsi in un trasferimento» [nota 22].

Destinazione è altro dall'attribuzione, anche se la legge può atteggiarla come attribuzione grazie alla mediazione di un "ente allo scopo"; la destinazione non giustifica sé stessa, non è causa sui ipsius (come l'attribuzione non giustifica sé stessa); la destinazione non produce spostamenti patrimoniali (cioè attribuzioni) ma tende, da un lato, ad imprimere vincoli funzionali nella percezione delle utilità d'uso e di scambio dei beni destinati e, dall'altro, alla separazione dei beni destinati dal patrimonio residuo del destinante e del funzionario (se quest'ultimo è altro rispetto al primo).

Che la questione dibattuta (destinazione come negozio o come atto procedimentale) non sia un divertissement ozioso per studiosi nullafacenti lo dimostra, mi pare, la riflessione che segue sulla forma pubblica.

La forma

Nella mia prospettiva, la forma pubblica non condiziona la validità dell'atto nel senso che non condiziona la produzione di nessuna conseguenza finale (la destinazione in sé non produce né arricchimenti né impoverimenti e neppure penalizza il ceto dei creditori): se la dichiarazione di destinazione è, infatti, in sé solo un frammento di un procedimento, è una componente della fattispecie del vincolo e della separazione, ciò sdrammatizza non poco la giusta preoccupazione del ceto notarile per l'applicazione dell'art. 28 della legge professionale. Una preoccupazione che scaturisce, fondamentalmente, dal sindacato che una visione negoziale della destinazione imporrebbe sull'interesse meritevole di tutela. La questione essendo di efficacia procedimentale della dichiarazione in forma pubblica, mi sembra che il Notaio debba soltanto astenersi dal ricevere una dichiarazione di destinazione ad uno scopo che sia manifestamente vietato dalla legge [nota 23], non certo farsi carico di apprezzare se lo scopo sia meritevole- dato e, come fra un attimo dirò, dubitativamente concesso, che la meritevolezza dello scopo che giustifica la separazione sia altro dalla liceità.

L'interesse meritevole di tutela

L'interesse meritevole. Si dice, innanzi tutto, che l'interesse da scrutinare sia quello del destinante; laddove mi sembra che testo e buon senso impongano, invece, di vagliare l'interesse a servizio del quale la destinazione è fatta, lo scopo insomma da correlarsi- se lo si può- il portatore dell'interesse (che, non può essere- come già dicevo- lo stesso destinante).

Pensando l'atto di destinazione come negozio produttivo di effetti finali, ai quali poi si tratti di guadagnare l'opponibilità ai creditori (come fanno i più per ossequio al lessico della legge), si crea l'ambiente psicologico favorevole a concludere che ogni interesse lecito è sufficiente. Il richiamo all'art. 1322 c.c.- per come applicato dopo la caduta dell'ordinamento corporativo (meritevole equivalendo a lecito)- rende debolissimo lo scrutinio. A me pare che prima di sottrarre beni alla pretesa esecutiva dei creditori - che, si badi, sono i creditori anteriori alla destinazione trascritta, salvi essendo solo i creditori anteriori pignoranti - un po' di ponderazione tra fronti di interessi potenzialmente antagonistici sia inevitabile. Potrebbe, per esempio, l'interesse di una società controllata a ridurre le spese generali giustificare la destinazione ad uffici di questa di un fabbricato della società controllante, "scippandolo" ai propri creditori? Tutto lecito, ma poco accettabile.

è mia opinione che faccia un uso scorretto del registro interpretativo funzionale chi, in presenza di un testo che àncora la meritevolezza, in un decrescendo di intensità etica, prima ai bisogni dei disabili, poi a quello delle amministrazioni pubbliche (da pensarsi come esponenziali del bene della collettività, per falso che questo possa spesso risultare) ed infine di qualsiasi persona od ente, adotti il parametro più debole e così, adeguando lo scrutinio di meritevolezza a quello di liceità, come raccomanda l'uso giurisprudenziale del richiamato art. 1322 c.c., "svenda" la separazione patrimoniale. Ma, vivaddio!, se tra le direttive di una interpretazione retoricamente corretta c'è quello della non ridondanza del linguaggio legislativo (il legislatore, si postula, non parla "a vanvera"), è possibile sopprimere il riferimento eticamente più forte nel testo in esame, quello all'interesse dei disabili, nel ricavarne una norma plausibile ed onesta? Tanto più che la cronaca dei lavori parlamentari sta lì ad attestare che proprio a scopi eticamente forti si pensava da chi ha progettato la legge e che il prodotto legislativo finale è stato consapevolmente diluito per non impedirne usi più dell'ordine dell'opportunismo che della morale sociale.

Naturalmente lo scrutinio, accettando di cercare una cause suffisante della separazione da destinazione oltre la liceità, può essere più o meno severo: lo si può adeguare alla "pubblica utilità", come ha proposto Gazzoni, rivitalizzando l'antica missione delle fondazioni [nota 24]; alla solidarietà, come sembrerebbe a me raccomandabile fare, anche avvalendosi, per tracciare il confine ultimo di usi imprenditoriali della destinazione (usi che rendono la solidarietà sempre un po' sospetta di opportunismo), del collegamento sistematico con le finalità che rendono, per legge, sociale un'impresa (D.lgs. 155/2006).

Ma una cosa mi sembra da evitare con fermezza: di ricorrere alla separazione da destinazione omnibus ogni qual volta la destinazione nominata "resista" all'uso che, in concreto, se ne vuol fare. Certo, tutti griderebbero alla frode alla legge se la destinazione ad uno specifico affare formalmente altrui (per esempio, di una società controllata) di immobili che eccedano il 10% del patrimonio netto della società per azioni destinante si avvalesse del 2654-ter c.c., non potendosi legittimamente ricorrere all'art. 2447-bis. Ma ho già sentito dire che l'art. 2645-ter potrebbe servire a destinare a specifici affari immobili da parte di società a responsabilità limitata o di società di persone.

Ebbene, il mio no a queste operazioni è davvero convinto: dove la separazione è già stata concessa solo in funzione di interessi dalla legge identificati e nel rispetto di procedure dalla legge articolate, un interesse equivalente non deve giustificare una separazione attraverso la tecnica omnibus "atto pubblico + formalità" [nota 25].

In una parola: la separazione da destinazione omnibus non serva a "circuitare" le destinazioni nominate. La società civile, d'altronde, è talmente complessa e il disagio individuale e collettivo è talmente capillare che l'autonomia della solidarietà non faticherebbe affatto ad esercitarsi proficuamente avvalendosi di questa nuova tecnica che di peculiare ha proprio ciò di essere compatibile con una serie aperta di interessi (meritevoli- ricordiamolo!- come sono quelli delle persone disabili a ridurre la loro dose di sofferenza).

Le cose non andranno- ci scommetterei- come auspico in ristretta compagnia. Ma le predizioni sconfortanti non facciano tacere gli auspici né le proteste anticipate. Qualcosa, sul lungo periodo, potrebbe restare.

La formalità

La formalità è coelemento necessario della separazione. La legge la chiama trascrizione; ma a mio avviso è funzionalmente assai più simile ad un'iscrizione, come quella dell'ipoteca.

In quest'ottica l'uso legislativo del termine "opponibilità"- che è appropriato alla trascrizione- è generatore di equivoci. Opponibilità è parola che allude alla possibilità di invocare, a certe condizioni fissate dalla legge, un fatto già dotato di rilevanza favorevole a chi l'invoca quando la rilevanza di un diverso fatto incompatibile col primo sia da altri invocata. Ho sempre pensato che l'opponibilità sia da concepirsi come misura di una rilevanza giuridica da darsi per presupposta. Una rilevanza giuridica che, invece, qui manca: sicché opponibilità del vincolo può soltanto significare che il vincolo inerisce al bene nella circolazione.

In questa prospettiva, Gazzoni ha ragione quando scrive che «la trascrizione è formalità che non ammette equipollenti: la trascrizione c.d. dichiarativa di cui all'art. 2644 c.c. non può essere sostituita, ai fini della risoluzione dei conflitti, dalla mala fede»; ma ha ragione solo se si riferisce alla trascrizione di un atto di attribuzione coinvolto in un conflitto tra aventi causa uno dei quali non inerte (uno dei quali trascriva). Se entrambi sono inerti la priorità nel tempo risolve il conflitto proprio perché l'atto è in sé dotato di rilevanza reale.

Per converso, nel nostro caso, come in quello dell'iscrizione dell'ipoteca, non c'è alternativa succedanea alla trascrizione. Altro è equipollenza, altro è succedaneità. L'immagine concettuale evocata dal termine "opponibilità" scaturisce dal falso convincimento che la destinazione non trascritta abbia un valore negoziale finale.

Se, quindi, «costitutiva la trascrizione è solo quando essa perfezioni la fattispecie cui si riferisce» (così sempre Gazzoni [nota 26]), la nostra è costitutiva. è costitutiva della insensibilità del bene destinato e della inerenza del vincolo e della insensibilità al bene nella circolazione. E, del resto, lo ammette lo scrittore con il quale sto dialogando quando conclude che «l'effetto di separazione, rilevando solo nei rapporti con i terzi creditori, non può quindi prescindere dalla trascrizione, si voglia poi parlare, a questo proposito, di efficacia costitutiva assoluta o relativa, riferita, cioè, all'opponibilità di un effetto bensì già nato, ma inoperante o piuttosto inutile nei rapporti inter partes».

In questa prospettiva, l'unica formalità da effettuarsi è quella contro il destinante; la trascrizione a favore del gestore è ridondante, come lo è quella del vincolo contro il gestore [nota 27]; altro, tutt'altro, essendo la trascrizione del contratto attributivo eventualmente collegato, sempre che la validità di questo riposi sulla causa o sulla forma. Tutto si semplifica.

Infine, posto che la destinazione (dichiarazione in forma pubblica) è solo un frammento della fattispecie della separazione, non ha senso immaginare una prevalenza della destinazione non trascritta su acquisti trascritti. La destinazione non trascritta in sé non ha che un valore procedimentale [nota 28].

Separazione e vincolo funzionale da destinazione

La legittimazione di "qualsiasi interessato" alla realizzazione dell'interesse a servizio del quale la destinazione del bene è stata iscritta e, così, il bene reso insensibile alle pretese esecutive dei creditori che non hanno titoli correlabili alla funzione, sembra profilare una sorta di azione "popolare". Questa, per me (ma al momento è solo un'intuizione), è solo un prezzo legale della separazione: la separazione rende ex lege il comportamento funzionale di qualunque proprietario del bene (il vincolo circola come un onere reale) e genera una specie di class action. Si spiega, così, anche la legittimazione del "conferente" che non avrebbe senso alcuno prevedere se il funzionario fosse un gestore nominato dal "conferente" medesimo (come ammette Gazzoni, il conferente sarebbe dotato di un'actio mandati directa contro il gestore [nota 29]).

L'idea di un creditore della destinazione (e, per di più, nella persona del beneficiario- come suggerisce Gazzoni) non mi persuade affatto. Quando leggo che « … non si può dimenticare che la destinazione incide bensì positivamente nei confronti del beneficiario, sul piano del vincolo, onde, da questo punto di vista, la tipicità potrebbe assolvere la propria funzione, ma incide anche, sul piano della separazione patrimoniale, nei confronti di altri terzi, cioè i creditori … » [nota 30], sono incline a ritenere che così si invertono i termini della realtà normativa: la destinazione non vincola in sé (se mai vincola se pattuita ed allora è solo un modo per descrivere il contenuto di una attribuzione personale) né incide, in sé, sulla garanzia dei creditori.

D'altronde, quando la destinazione incide sui creditori (perché si somma alla iscrizione), essa vincola ex lege nei confronti di chiunque abbia interesse alla realizzazione dello scopo; ed allora vincola non solo il destinante ma chi abbia causa da costui. Il vincolo e la correlata pretesa azionabile- che ho escluso possano scaturire dalla destinazione come variante della disposizione- sono strumenti legali preordinati a fare della destinazione "una cosa seria" ed a giustificare così l'onere imposto ai creditori del destinante e di qualsiasi suo avente causa.

Se qualcuno pensava di introdurre surrettiziamente un trust interno ha fatto qualcosa di radicalmente diverso. Non necessariamente di perverso, soprattutto se non si abdicherà allo scrutinio sulla meritevolezza dell'interesse.


[*] Questo scritto costituisce lo sviluppo di una relazione tenuta a Milano il 19 giugno scorso in un convegno organizzato dalla locale Scuola del Notariato.

[nota 1] Ma come?! Si interviene su una formalità - detta trascrizione - per dar spazio a tutt'altra scelta normativa, che sistematicamente gravita sul terreno della responsabilità patrimoniale ed erode il principio o, almeno, il regime residuale della tassatività delle limitazioni della responsabilità! E, poi, si presenta - fin dalla rubrica - l'erosione come funzionale alla protezione di interessi dei deboli, addirittura di "disabili", per poi, in una progressione rossiniana all'inverso, dare spazio a interessi di figure soggettive pubbliche e private, individui ed enti quali che siano.

[nota 2] "Conferente" per destinante ed altre amenità.

[nota 3] Lo dice, con altre parole, anche BARALIS, «Prime riflessioni in tema di art. 2645-ter c.c.», in questo volume.

[nota 4] DE MAURO, Grande Dizionario dell'Italiano in uso, UTET, 2000.

[nota 5] CORTELLAZZO e ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, 1979.

[nota 6] Zur Lehre vom Rechtsubjekt, in Jehrings Jahrb, 12, p. 60 e ss.

[nota 7] SPADA, Dalla Trasformazione delle società alle trasformazioni degli enti ed oltre, in Studi in onore di V. Buonocore, III, Giuffrè 2005, p. 3879 e ss., ivi alle p. 3893-3895.

[nota 8] GAZZONI, «Osservazioni sull'art. 2645-ter», in www.jiudicium.it/news/insGazzoni,%20saggi.html e in Giust. Civ., 2006, p. 165 e ss. ivi alla p. 166.

[nota 9] Concesso, naturalmente, che ad altri fini talune destinazioni, se attuate, comportino conseguenze: per esempio, modificazioni nel regime di circolazione dei beni, come accade in caso di vincolo pertinenziale impresso o di destinazione aziendale.

[nota 10] Al più decide dell'appropriazione esclusiva o non del bene acquistato (art. 179 ult. comma c.c.).

[nota 11] Anche se, forse, può contribuire a generare un affidamento e preludere ad una responsabilità delittuale in caso di delusione.

[nota 12] In questa prospettiva il predicato della illiceità sembra non riferibile alla destinazione (in sé considerata, lo ripeto e lo sottolineo). L'esempio portato da BARALIS, op. cit., della destinazione di un terreno a discarica non prospetta un'illicietà rilevante per il diritto in termini di nullità della destinazione: illecito non è destinare ma raccogliere illegalmente rifiuti o istigare a raccogliere rifiuti (magari conclamando la destinazione).

[nota 13] Sulla coppia autonomia privata libera–autonomia privata funzionale ho cercato di chiarire il mio pensiero in «Persona giuridica e articolazione del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito», in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 837 e ss., ivi alla p. 847 e ss.

[nota 14] SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Cedam, 2001.

[nota 15] PALERMO, «Sulla riconducibilità del 'trust interno' alle categorie civilistiche», in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 133 e ss. ivi alle p. 153-154.

[nota 16] Da ultimo, con particolare chiarezza, BARALIS, op. cit., passim.

[nota 17] V. PALERMO, op. cit. a nota 11.

[nota 18] GAZZONI, op. cit. p. 173.

[nota 19] CARRARO, Il mandato ad alienare, Cedam, 1947, p. 88. E lo ammette anche Gazzoni - pur partendo dalla impropria visuale della destinazione come effetto di un contratto da opporre a terzi - quando scrive che «è però possibile che il conferente concluda un autonomo contratto di gestione con un terzo, assumendo i costi e attribuendo i poteri. Si stipulerebbe allora, parallelamente al contratto di destinazione, un contratto di mandato, onde l'azione che l'art. 2645-ter c.c. attribuisce al conferente per la realizzazione dell'interesse, sarebbe appunto l'actio mandati» (op. cit., p. 175).

[nota 20] CARRARO - op. cit. p. 89 - aggiunge che «altro discorso è da fare quando il mandato abbia per oggetto non l'amministrazione ma l'alienazione di un diritto» … «qui si può realmente dire che la causa di mandato vale a giustificare l'effetto di trasferimento perché la funzione economico-sociale del negozio non potrebbe svolgersi altrimenti che mediante la produzione di quell'effetto» … (p. 90). «Ma la ragione che giustifica l'efficacia traslativa del mandato segna anche i limiti dell'efficacia stessa. Sarebbe infatti esuberante rispetto al fine da conseguire un trasferimento al mandatario che si avverasse al momento dell'assunzione dell'incarico, cioè della conclusione del mandato … per alienare un diritto non occorre esserne stati titolari, ma basta esserlo al momento in cui si aliena».

[nota 21] Su rapporto con trust, scrive GAZZONI (op. cit., p. 175): «questa vicenda non potrebbe però essere accostata al trust, se non, a tutto concedere, sul piano latamente descrittivo. Il vincolo di destinazione sarebbe infatti costituito, in via fiduciaria, dall'acquirente, che potrebbe bensì, in teoria, assumere la veste di trustee, tuttavia il vincolo stesso non potrebbe avere di per sé ad oggetto il ritrasferimento della proprietà al beneficiario, visto che il c.d. conferente non la perde e solo la destina non indefinitamente, come è possibile per il trust, ma per un dato periodo alla realizzazione immediata dell'interesse non proprio, ma di un terzo, onde, da un lato, si è al di fuori del c.d. trust autodestinato e, dall'altro, il ritrasferimento potrebbe essere solo l'esito di un eventuale obbligo assunto con l'iniziale patto, sotto forma di mandato fiduciario a favore di terzo».

[nota 22] Così, estremizzando - mi pare - la posizione di PALERMO, LA PORTA, Causa del negozio di destinazione e neutralità dell'effetto traslativo, in AA.VV. Destinazione di beni allo scopo (studi raccolti dal Consiglio Nazionale del Notariato), Giuffrè, 2003, p. 295 e ss., ivi alla p. 267.

[nota 23] L'atto di destinazione - direi con la Cassazione 7 novembre 2005 n. 21493 - può essere (procedimentalmente) inefficace, non già affetto da nullità assoluta.

[nota 24] Op. cit., p. 170.

[nota 25] Nel dirlo mi avvedo che un uso del 2645-ter che, come uomo e come cittadino, considero virtuoso, l'uso a servizio degli interessi della famiglia di fatto sarebbe seriamente opinabile. Ma qui il vizio che, come uomo e come cittadino, percepisco, è in una scelta costituzionale che limita il "riconoscimento" alla famiglia fondata sul matrimonio, accontentando il pensiero confessionale e quello statalista, comunque un pensiero insofferente della libertà individuale (non era Napoleone che decretò: «si les concubins se passent de l'Etat, l'Etat se désinteresse des concubins»?).

[nota 26] Op. cit., p. 182.

[nota 27] Diversamente sembra orientata l'opinione di primari esponenti del notariato che, a voce o per iscritto, si sono espressi sul tema (Petrelli, D'Errico, Baralis).

[nota 28] Dice invece GAZZONI (op. cit. p. 178): «Dunque non deve sorprendere se una rigorosa applicazione dei principi, sul presupposto della inapplicabilità dell'art. 2644² c.c., conduce alla conclusione che l'avente causa, il quale acquisti prima che sia concluso il contratto di destinazione, ma non trascriva o trascriva dopo, egualmente prevale ove l'atto sia di data certa. è infatti ovvio, secondo i principi generali, che chi ha alienato, non essendo più, in virtù dell'art. 1376 c.c., proprietario, non può assumere vincoli obbligatori con riguardo al bene. Pertanto, in virtù del generico rinvio alla trascrizione operato dall'art. 2645-ter c.c., l'avente causa soccombe solo se acquisti successivamente alla conclusione del contratto di destinazione e trascriva dopo la trascrizione del contratto stesso».

A me pare, tuttavia, che non ci sia nessuna diversità di problema tra la separazione a danno dell'acquirente e la separazione a danno dei creditori. Per GAZZONI, invece, i problemi sono, anche nel nostri caso, da tener distinti: «quanto fin qui osservato vale peraltro quando l'acquisto dell'avente causa dal conferente confligge con il vincolo in favore del beneficiario, mentre se il conflitto si pone con il creditore del conferente stesso, varrà l'art. 2915¹ c.c., onde, sotto questo aspetto, l'avente causa dovrà curare tempestivamente il proprio acquisto, pur se precedente alla conclusione del contratto di destinazione, ad evitare di essere preceduto dal creditore, che trascriva il pignoramento» (op. cit., p. 179).

Nonostante la stima che il mio interlocutore si è giustamente guadagnata come massimo teorico contemporaneo delle formalità immobiliari, io non riesco davvero a riconoscermi nell'opinione che « … il conflitto tra due o più beneficiari che hanno concluso con lo stesso conferente contratti di destinazione relativi allo stesso bene, con finalità incompatibili, non può risolversi in base alla priorità della trascrizione, non essendo essi aventi causa dal conferente, tant'è che, come detto, non trova applicazione l'art. 2644 c.c., per cui varrà la regola ordinaria della priorità della data certa del contratto. Né può, ovviamente, aversi riguardo a quanto dispone l'ultimo comma dell'art. 1380 c.c. in materia di conflitto tra più diritti personali di godimento, non solo perché il vincolo non dà vita a tali diritti, ma anche perché, in questo caso, sussiste l'espressa disciplina di cui all'art. 2643 n. 8 c.c.» (op. cit. p. 179). Certo: se si coltiva una visione sostanzialistica del linguaggio legislativo, può dirsi che il beneficiario non è avente causa del destinante che trascrive sicché l'art. 2644 c.c. non può regolare il conflitto tra due destinazioni consecutive ed incompatibili. Chi, come me, rifiuta decisamente di ragionare sugli enunciati normativi credendo che verba sunt substantia rerum, non può accettare che una funzione plausibile ceda ad un lessico misticamente pensato come monovalente. Qui è la prima formalità che perfeziona la fattispecie del vincolo e della separazione; altre priorità nel tempo sono un non senso nell'ambiente delle formalità immobiliari.

[nota 29] Op. cit., p. 175.

[nota 30] Op. cit., p. 173.

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