I negozi di destinazione a tutela della pianificazione urbanistica
I negozi di destinazione a tutela della pianificazione urbanistica
di Giovanni Casu
Ufficio Studi, Consiglio Nazionale del Notariato
Premessa
Chi si accinge a valutare se l'art. 2645-ter c.c. possa avere una qualche incidenza nei processi di pianificazione urbanistica parte subito da una valutazione ottimistica, che può essere così riassunta: l'interesse cui si mira con un eventuale bene destinato a perseguire gli scopi che la pianificazione urbanistica attribuisce a tutti i beni immobili esistenti nel territorio preso in considerazione è certamente da valutare come interesse caratterizzato da meritevolezza, tenuto conto del pubblico interesse che caratterizza tutta la materia urbanistica.
Ci si trova, cioè, su questo fronte, la strada spianata favorevolmente su uno dei problemi più critici cui ha dato luogo la riflessione su questo articolo: quello di individuare in modo corretto gli interessi meritevoli di venir favoriti dalla disciplina del vincolo di destinazione.
Peraltro, proseguendo nell'analisi, iniziano ad emergere i primi dubbi, che possono essere così indicati:
a. se il vincolo di destinazione disciplinato dall'art. 2645-ter non può avere durata superiore a 90 anni, come è possibile applicare questo limite ai vincoli urbanistici imposti dai privati, per i quali non è previsto limite di durata?
b. la caratteristica precipua del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter è la separatezza del bene, che viene reso come tale estraneo alla capacità di aggressione dei creditori ordinari, come far reagire questa eccezione all'art. 2740 c.c. per la destinazione urbanistica imposta dal privato?
Sono soltanto alcuni dei molteplici dubbi che affiorano nel correlare la disciplina dell'art. 2645-ter c.c. a quella prevista per la pianificazione urbanistica e che impongono, pertanto, un percorso duplice:
a. da un lato una riflessione sul vincolo di destinazione disciplinato dal predetto articolo del codice, allo scopo di individuare i connotati fondanti dell'istituto, connotati che devono essere osservati nel momento in cui essi vanno trasferiti al settore urbanistico;
b. da un altro lato, l'approfondimento di alcuni aspetti del diritto urbanistico ove l'intervento del singolo cittadino ha acquisito (per legge o per prassi amministrativa) un ruolo che si innesta in un processo che vede a confronto pubblica amministrazione e privato allo scopo di sveltire determinate procedure intese e segnare la disciplina di un determinato territorio comunale.
Primo aspetto: disciplina in sintesi dei vincoli di destinazione previsti dall'art. 2645-ter
a) Caratteristiche e vantaggi
Con efficace sintesi la fattispecie delineata dall'art. 2645-ter c.c. è stata definita come «una previsione di legge che riconosce al soggetto di selezionare autonomamente un determinato assetto d'interessi, aggregando, con portata segregante, una parte del proprio patrimonio, per l'attuazione di quegli interessi» (DORIA).
La caratteristica del vincolo di destinazione per atto pubblico è quella di provenire da colui che ha la piena titolarità sul bene e che, utilizzando una delle facoltà che contrassegnano l'ampia sfera di facoltà del diritto di proprietà, assoggetta il bene stesso ad una determinata utilizzazione; con ciò:
a. precludendosi altre facoltà in contrasto con detta utilizzazione;
b. separando il bene dal restante suo patrimonio e rendendo il bene stesso insensibile all'aggressione dei creditori generici e limitandolo soltanto ad una pignorabilità limitata ai creditori c.d. speciali, vale a dire esclusivamente a vantaggio dei creditori per debiti contratti per lo scopo cui il bene è destinato.
In definitiva, i vantaggi evidenti che il vincolo di destinazione disciplinato dall'art. 2645-ter del codice civile comporta sono sostanzialmente due:
a. la trascrivibilità del vincolo, che lo rende opponibile ai terzi;
b. l'eccezione che essa comporta al principio contenuto nell'art. 2740 c.c., che stabilisce la garanzia generalizzata sui beni del debitore a vantaggio di tutti i creditori.
A compensazione di questi vantaggi esiste peraltro un termine oltre il quale il regime vantaggioso del vincolo di destinazione non può essere protratto: la durata della vita della persona fisica beneficiaria del vincolo di destinazione e comunque 90 anni dall'insorgenza del vincolo.
b) Vicende giuridiche del bene
Risulta del tutto indifferente la titolarità del bene, che può restare in capo al disponente, oppure essere trasferito a terzi, unitamente al vincolo, o successivamente ad esso. L'avere apposto sul bene il vincolo, come una sorta di onere reale, rende questo vincolo automaticamente trasferibile in capo a tutti i successivi aventi causa, a qualsiasi titolo sia avvenuto il trasferimento del bene: a titolo oneroso o a titolo gratuito; per atto tra vivi o per atto mortis causa.
c) Effetti
La dottrina più attendibile (ROSELLI; DE DONATO; D'ERRICO; GAZZONI) ritiene che nell'atto in discorso ci si muova su due piani: a) da una parte si verifica la destinazione del bene, che ha effetto obbligatorio e concerne soltanto le parti; b) da un'altra parte si verifica la separazione del bene destinato dal restante patrimonio del destinante e qui opera la trascrizione, il cui scopo è quello di rendere opponibile ai terzi la separazione del bene.
Con quest'atto non si ha una destinazione oggettiva (analoga a quella che si verifica creando tra due beni un rapporto di prelazione o di servitù), ma soggettiva, cioè a vantaggio di soggetti determinati, per un interesse caratterizzato da meritevolezza.
Per effetto dell'atto, il bene assoggettato alla disciplina in discorso viene separato dal restante patrimonio del destinante e posto in una situazione di separatezza, in deroga alla disciplina generale prevista dall'art. 2740 c.c.
Si è avuto modo di precisare che la trascrizione non attiene alla destinazione, la quale anche senza trascrizione produce i suoi effetti tra le parti; ma attiene all'effetto di separatezza che viene acquistato dal bene, effetto che ha un indubbio connotato di realità, perché con la pubblicità l'autonomia del bene segregato rispetto al restante patrimonio del soggetto destinante acquista effetto anche nei confronti dei terzi e in primo luogo nei confronti dei creditori ordinari del disponente (così sostanzialmente D'ERRICO, il quale afferma che «l'art. 2645-ter non contiene alcun riferimento alla trascrizione come elemento di completamento della fattispecie destinataria. Al più l'efficacia costitutiva della trascrizione andrebbe riferita all'effetto della separazione patrimoniale, nel senso che l'effetto separazione non può prescindere dalla trascrizione, e non al perfezionamento della fattispecie destinataria, già sorta, benché inopponibile»).
In definitiva, si nega alla trascrizione del vincolo efficacia costitutiva quanto alla destinazione ed efficacia invece costitutiva quanto alla separatezza.
Sulla base di queste riflessioni, si può affermare che l'atto di destinazione comporta che l'intero bene, con tutte le sue potenzialità utilizzatorie, va destinato alla realizzazione di quanto desiderato.
Ma dalla dottrina è stato anche posto in evidenza il principio che la destinazione deve essere effettiva, cioè che occorre che un soggetto si adoperi per la realizzazione degli interessi tutelati, sia esso il disponente, sia un avente diritto, sia un terzo cui venga affidato il compito di portare a realizzazione il divisato programma (MALTONI, il quale afferma che «laddove la destinazione non sia effettiva, permane solo l'effetto della separazione patrimoniale in deroga all'art. 2740 c.c. Il risultato è inaccettabile perché equivale ad ammettere che sia legittimo l'atto casualmente diretto a realizzare una separazione patrimoniale: vengono meno dunque le ragioni che fondano il sacrificio del ceto creditorio»).
d) Struttura dell'atto
Il legislatore sembra avere disegnato l'atto di destinazione come atto unilaterale, con il quale il proprietario di un bene lo destina per la tutela di un interesse meritevole, restando egli, in linea di principio, proprietario del bene (FUSARO).
E qui si pone il problema della effettività del vincolo, vale a dire dell'esigenza che il vincolo di destinazione sia concretamente realizzato. A tale riguardo, il soggetto tenuto a questa realizzazione, cioè che assuma il compito di vigilare ed operare perché la destinazione impressa al bene sia effettivamente eseguita, può essere lo stesso disponente, o il beneficiario della destinazione, oppure un terzo.
Può pertanto accadere, se il compito di effettuare la destinazione sia affidato ad un terzo o al beneficiario, che il disponente non si accontenti del negozio costitutivo del vincolo di destinazione, ma trasferisca ad altri la proprietà del bene allo scopo di agevolare detto compito, ricorrendo anche ad un pactum fiduciae; tant'è che la dottrina, per distinguere le due ipotesi, parla di destinazione statica e di destinazione dinamica, in questo secondo caso alludendo al trasferimento strumentale del bene ad altro soggetto rispetto al disponente (PETRELLI).
Sulla base di queste riflessioni, la dottrina accoglie l'opinione che l'atto di destinazione, oltre che unilaterale, possa essere anche bilaterale, gratuito od oneroso (FUSARO; BIANCA), ma non manca chi opta per l'atto necessariamente bilaterale o gratuito (GAZZONI).
Qualche Autore parla anche di atto unilaterale per l'apposizione del vincolo, di atto contrattuale invece per l'attribuzione di utilità (MISEROCCHI).
e) Durata
L'art. 2645-ter stabilisce che il vincolo di destinazione può avere una durata limitata nel tempo, che non può eccedere la durata della vita se si tratta di beneficiario persona fisica, la durata di 90 anni se si tratta di beneficiario persona giuridica.
Si discute in dottrina sulla razionalità di questo eccessivo limite di 90 anni, che trova scarsi riscontri nel nostro ordinamento e che appare del tutto contrario ai principi generali del nostro ordinamento giuridico (TONDO).
Ci si è anche chiesti quali siano gli effetti di un negozio concernente vincoli di destinazione di durata superiore a quella prevista dalla legge. Si è risposto che l'eventuale clausola prevedente una durata superiore ai termini di legge sia nulla, perché in contrasto con l'ordine pubblico economico, e come tale comportante la sostituzione di diritto di essa con la norma imperativa contenuta nell'art. 2645-ter c.c. (PETRELLI).
f) forma
è ormai dai più sostenuto che la norma che prevede l'atto pubblico per i vincoli di destinazione abbia portata sostanziale e non soltanto formale per consentire le operazioni di pubblicità ai sensi dell'art. 2657 c.c. che prescrive, per qualificare un atto idoneo all'ingresso nella pubblicità immobiliare, l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata.
Ciò significa che l'atto pubblico è richiesto come forma non tanto in funzione pubblicitaria (in questo senso, invece, PETRELLI), perché a tal fine sarebbe stata sufficiente la scrittura privata autenticata, quanto per garantire il contenuto dell'atto, in vista da un lato del controllo di legalità, e da un altro lato della valutazione della meritevolezza dell'interesse perseguito, il che giustifica la separatezza del bene dal patrimonio del disponente e l'opponibilità della separazione così ottenuta ai creditori ordinari (TONDO; BIANCA-D'ERRICO-DE DONATO-PRIORE, i quali parlano di «forma richiesta non tanto per la trascrizione ma per quella separazione di cui la trascrizione è solo il veicolo», p. 35).
Si afferma pertanto che si tratta di forma attinente alla sostanza, e quindi di forma prescritta a pena di nullità, più che di forma prescritta a fini pubblicitari (FUSARO).
g) Pubblicità
Al negozio di destinazione del privato, per se stesso obbligatorio, in passato veniva da qualche conservatore dei registri immobiliari negata la trascrivibilità.
Questi i casi che si sono verificati nella realtà.
Il conservatore dei registri immobiliari di Firenze aveva rifiutato la trascrizione di un atto d'obbligo del proprietario di un bene inteso a destinare l'intera volumetria di detto bene per 10 anni ad attività produttive. Nel caso di specie si trattava di un fabbricato dedicato al commercio e alla lavorazione di carni. Il proprietario aveva chiesto al Comune la concessione edilizia per un ampliamento del fabbricato esistente; il Comune aveva aderito alla richiesta ma aveva imposto al richiedente il rilascio di un atto unilaterale d'obbligo con l'impegno a destinare l'intero bene all'attività predetta.
Il conservatore aveva rifiutato la trascrizione dell'atto d'obbligo; l'interessato aveva presentato ricorso e il Tribunale di Firenze (Decreto 5 ottobre 1991, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 922) aveva respinto il ricorso ritenendo legittimo il rifiuto del conservatore, giudicando valida l'argomentazione che la pubblicità immobiliare, prevedendo fattispecie suscettibili di pubblicità a numero chiuso, rifiuta la trascrivibilità degli atti d'obbligo.
La dottrina (FUSARO, «Gli atti di impegno in materia edilizia e loro trascrivibilità», in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 922) ha affermato l'esistenza di una prassi che contempla molteplici variazioni di queste figure di atto d'obbligo, ed ha indicato le seguenti:
- atto di impegno o di asservimento allo scopo di ottenere un provvedimento del Comune che abiliti a realizzare su un bene una costruzione utilizzando una volumetria non propria della zona, ma una volumetria di maggiore ampiezza prevista dal piano regolatore per un'altra zona;
- atto d'obbligo inteso a conservare le parti comuni tali per un certo periodo;
- atto d'impegno recante il divieto di mutare la tipologia di attività all'interno dei locali;
- licenza commerciale con l'impegno a realizzare interventi edilizi all'interno del bene (ad es. a condizione che si crei un parcheggio).
La dottrina (D'ERRICO) si sofferma sulle modalità attuative del procedimento di trascrizione del vincolo di destinazione, ipotizzando varie fattispecie negoziali che trovano differenziati riscontri nelle formalità attinenti alla pubblicità immobiliare:
a. negozio unilaterale nel quale il conferente conserva la titolarità dei beni e impone il vincolo di destinazione (formalità di trascrizione soltanto a carico del conferente);
b. il conferente predetermina la destinazione ed attribuisce strumentalmente i beni predestinati all'attuatore (formalità di trascrizione a carico del conferente ed a favore dell'attuatore);
c. il conferente predetermina la destinazione, attribuisce strumentalmente all'attuatore i beni predeterminati con un mandato fiduciario a quest'ultimo per la realizzazione dello scopo (si prevedono due trascrizioni: la prima per il trasferimento a carico del disponente ed a favore dell'attuatore; la seconda per la trascrizione del vincolo, a carico del disponente);
d. il conferente procede ad una attribuzione transitoria (a termine) risolutivamente condizionata alla realizzazione della destinazione, a favore del soggetto attuatore della destinazione (anche qui due trascrizioni: la prima per la fase circolatoria del bene a carico del conferente ed a favore dell'attuatore; la seconda per l'opponibilità del vincolo a carico dell'attuatore).
Secondo aspetto: fattispecie d'intervento del privato nella pianificazione urbanistica
Dopo aver passato in rapida rassegna i principi salienti che caratterizzano la disciplina prevista dall'art. 2645-ter sui vincoli di destinazione, appare opportuno tentare di calare detti principi sulla tematica della pianificazione urbanistica, puntando l'analisi prevalentemente sugli aspetti caratterizzati da un contributo che talvolta il privato è chiamato a dare alle determinazioni della pubblica amministrazione sul governo del territorio.
a) Fattispecie legislative
Occorre primieramente escludere dal nostro discorso i numerosi vincoli previsti dal legislatore, che vengono ad incidere sulla proprietà privata. Esistono infatti numerose fattispecie disciplinate dalla legge che in modo o in un altro condizionano l'utilizzazione del bene, incanalandone l'utilizzabilità univoca, oppure impedendo determinate utilizzazioni.
In materia urbanistica esistono forti condizionamenti per il diritto di proprietà, tant'è vero che si parla di proprietà conformata, cioè non tanto disciplinata con l'ampiezza di facoltà previste dall'art. 832 c.c. («diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo»), bensì con i forti condizionamenti previsti dalla normativa sia legislativa che attinente alla strumentazione urbanistica. La proprietà conformata significa non proprietà assoluta, bensì proprietà caratterizzata da limitazioni di godimento e di destinazione predisposte da leggi ordinarie o di strumentazione amministrativa.
Si comprende come, in materia, ove esista la norma (sia legislativa che regolamentare) non vi sia spazio per l'atto di disposizione del privato, se non in termini: a) o di mero ausilio per creare le condizioni cui la norma predetta condiziona lo status del bene; b) o al limite negli stretti ambiti in cui il legislatore o non è intervenuto, oppure è intervenuto lasciando ampio spazio al contributo dell'autonomia privata.
Rientrano certamente in questa materia i vincoli di inedificabilità sotto indicati:
- fasce di inedificabilità dal ciglio delle strade (art. 19 della legge 765/1967; D.M. 1 aprile 1068; art. 9 legge 729/1961);
- fasce di inedificabilità in prossimità delle strade ferrate (art. 235 legge 2248/1865 All. F);
- fasce di inedificabilità in prossimità degli aeroporti (artt. 714-717 c. nav.);
- fasce di inedificabilità in prossimità dei cimiteri (D.P.R. 285/1990).
A stretto rigore, qui non di tratta di vincolo di destinazione, bensì di un vincolo negativo di destinazione: in questi casi non è consentita una sola utilizzazione del bene, come avverrebbe se si trattasse di vincolo di destinazione ai sensi dell'art. 2645-ter c.c., bensì di una limitazione delle varie facoltà del proprietario, il quale potrà utilizzare il bene che si trova in queste condizioni con piena facoltà utilizzatoria, esclusa soltanto la possibilità di edificare negli spazi sopra indicati.
Però non vi è alcun dubbio che questi vincoli di inedificabilità, ancorché consistano in vincolo in negativo, riducono lo spazio di libertà utilizzatoria del bene e come tali impongono una limitazione che deve inquadrarsi, ancorché in modo del tutto particolare, nei vincoli di destinazione.
Ma è evidente, trattandosi di vincoli imposti per legge, che in questi casi l'art. 2645-ter non può trovare applicazione.
b) Convenzione di lottizzazione
Un altro settore che merita di essere approfondito, allo scopo di valutare se sia possibile utilizzare per esso il vincolo di destinazione disciplinato dall'art. 2645-ter c.c., è la convenzione di lottizzazione.
Trattasi di un segmento delle procedure urbanistiche nel quale la dottrina ha individuato i momenti più significativi per cercare di definire natura ed effetti delle convenzioni urbanistiche (MAZZARELLI, voce Osservazioni e accordi amministrativi. III) Convenzioni urbanistiche, in Enc. Giuridica Treccani, 1988, p. 2, la quale dichiara che la natura giuridica dell'accordo e quella della relazione che intercorre tra convenzioni e procedure- in specie di lottizzazione- costituiscono le vie maestre lungo le quali si è svolta la teoria giuridica delle convenzioni urbanistiche), sempre combattuta dal dubbio se privilegiare l'aspetto negoziale, oppure l'aspetto pubblicistico attinente alle procedure cui detto negozio veniva ad essere preordinato.
In questo settore la convenzione urbanistica si è imposta gradualmente.
In origine, sulla base della legge urbanistica (legge 1150/1942), la lottizzazione, vale a dire la ripartizione del territorio in lotti, cioè in porzioni destinate all'edificazione, veniva in via primaria lasciata alla disciplina di piano: sulla base di un piano regolatore generale si prevedeva un secondo piano (piano particolareggiato) il quale, tra l'altro, avrebbe dovuto definire le modalità di ripartizione del terreno in lotti edificabili.
In alternativa al piano particolareggiato, nell'ipotesi di una sua inesistenza, la predetta legge urbanistica prevedeva il progetto di lottizzazione, d'iniziativa dei privati ed approvato dal Comune. Questo progetto, nella prassi amministrativa, da eccezione divenne la regola, per l'inerzia degli enti locali a varare i piani particolareggiati, ma con l'ovvio inconveniente che, non essendo prescritto per esso un equilibrio pianificatorio con la restante parte del territorio comunale, esso finì per costituire strumento di iniziative sporadiche e irrazionalmente localizzate, con costi di urbanizzazione enormi per i Comuni.
Si ritenne pertanto di ovviare all'inconveniente con la c.d. legge-Ponte (art. 8 della legge 765/1967) la quale trasformò il progetto di lottizzazione in piano di lottizzazione, sempre di iniziativa dei privati, ma con più attenzione all'intero territorio e prevedendo altresì la stipulazione, a valle del procedimento, di una c.d. convenzione di lottizzazione con la quale i privati assumevano a proprio carico specifici oneri patrimoniali connessi alla urbanizzazione primaria e secondaria ed offrivano adeguate garanzie per l'adempimento di questi oneri.
Tale nuovo strumento aveva il duplice vantaggio di realizzare un razionale coordinamento nell'attività lottizzatoria dell'intera zona e di sovvenire il Comune nelle spese necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.
L'intento pianificatorio che caratterizzava questo piano di lottizzazione con l'annessa convenzione di lottizzazione attribuiva ad esso valore normativo, tant'è vero che veniva considerato strumento urbanistico equiordinato al piano particolareggiato e ad esso alternativo, in quanto veniva ad assolvere identica funzione ed esprimeva scelte programmatorie dello stesso livello (così FIALE, Diritto urbanistico, Esselibri Simone, 1997, p. 236).
La qualificazione giuridica da attribuire al rapporto che si instaurava tra il piano di lottizzazione e la successiva convenzione di lottizzazione costituiva peraltro oggetto di profonde dispute sia in giurisprudenza che in dottrina: da parte di alcuni si optava per la natura provvedimentale, nel senso che si attribuiva maggiore valenza alle determinazioni amministrative della pubblica amministrazione, mentre si tendeva a relegare la convenzione di lottizzazione in una posizione subordinata rispetto al primo (Cons. Stato 23 febbraio 1993, n. 180, in Foro amm., 1993, p. 365; Cons. Stato 3 giugno 1987, n. 326, in Foro amm., 1987, p. 1353; Cons. Stato 16 marzo 1999, n. 286, in Riv. giur. ed., 1999, I, p. 789, per il quale «le convenzioni di lottizzazione costituiscono contratti di natura peculiare che lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, alla stregua di esigenze sopravvenute e, a maggior ragione, per l'obbligatorio adeguamento alle modifiche normative»; Cons. Stato 19 dicembre 1994, n. 1046, in Cons. Stato, 1994, I, p. 1701, per cui «le cosiddette convenzioni urbanistiche costituiscono uno dei primi esempi, nel nostro ordinamento, dei contratti ad oggetto pubblico, e si inseriscono in un procedimento amministrativo ben precisato dalla legge quale esercizio del potere pubblicistico di assetto territoriale del Comune e, nonostante l'apparente modulo contrattuale, rimangono nel versante pubblico della cura dell'interesse urbanistico, finendo con il costituire al tempo stesso, presupposto per l'emissione del successivo provvedimento comunale di autorizzazione alla lottizzazione (operante come piano urbanistico) e parte del contenuto di tale provvedimento, per quanto riguarda gli obblighi assunti dai privati (fideiussioni, cessione di aree, obbligazioni propter rem di costruzione di opere di urbanizzazione e simili) e tali limiti al potere del Comune in ordine al rilascio delle successive concessioni»).
Da parte di altri si tendeva a ritenere il piano di lottizzazione e la convenzione di lottizzazione documenti entrambi necessari sul piano della rilevanza a determinare l'effetto autorizzativo e quindi si tendeva a valutare tutta l'operazione come strumento contrattuale, nel quale tutte le parti (privati e pubblica amministrazione) assumevano un ruolo paritario (così GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, p. 439 e ss., che parla di contratto ad oggetto pubblico sostitutivo di un procedimento. Nello stesso sostanziale senso URBANI, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Torino, 2004, p. 199, il quale afferma non essere possibile distinguere realmente tra un provvedimento amministrativo, cui imputare gli effetti conformativi del territorio, ed un atto negoziale, con cui regolare le obbligazioni del privato; PERICU, L'attività consensuale dell'Amministrazione pubblica, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, Bologna, 1998, p. 1619, il quale afferma che la convenzione di lottizzazione è il piano di lottizzazione, per cui si è in presenza di un atto giuridico che viene in essere nella forma dell'accordo, dal quale derivano effetti giuridici caratteristici e propri di atti amministrativi, quali il piano particolareggiato di esecuzione, oltre che effetti obbligatori).
La stessa giurisprudenza ordinaria affermava che la convenzione di lottizzazione costituiva un contratto di natura peculiare, che lasciava integra la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica (Cass. 8 giugno 1995, n. 6482, in Riv. giur. ed., 1995, I, p. 789).
Quali riflessioni trarre da questa ricostruzione delle procedure lottizzatorie?
Certamente l'interesse sotteso alla destinazione urbanistica di determinate aree a costruzioni a pluriuso (uso abitativo, o industriale, o artigianale, o commerciale, o di servizi) rientra felicemente tra gli interessi meritevoli di tutela contemplati dall'art. 2645-ter c.c. Il fine d'interesse pubblico cui è preordinata tutta la sistemazione del territorio comunale giustifica certamente, sul piano della meritevolezza, una destinazione proiettata alla regolamentazione congrua dell'uso del territorio.
Ciò posto, allorquando un soggetto intenda destinare un proprio terreno alle finalità edificatorie, egli non può mai procedere individualmente, destinando detto territorio a tale utilizzazione (beninteso sul piano pianificatorio), senza chiamare in causa la pubblica amministrazione.
E comunque detto soggetto deve muoversi necessariamente, per ottenere il risultato desiderato, uniformandosi passo passo alla prevista procedura, la cui conclusione soltanto potrà garantire la destinazione edificatoria dell'area interessata.
Pertanto il ricorso allo strumento dell'art. 2645-ter c.c. in questa sede ha scarse possibilità di utilizzo. A meno che non ci si muova ai margini della procedura predetta.
è il caso seguente, accaduto di recente: alcune società, intendendo procedere di comune accordo alla realizzazione di un programma integrato di intervento edilizio per realizzare un progetto di riqualificazione di area urbana individuata da un piano regolatore generale, creano un consorzio tra loro, allo scopo di unificare i contatti con il Comune sul cui territorio detta area insiste, per porre a disposizione del Comune stesso le proprie aree di sostegno alle opere di urbanizzazione sia primaria che secondaria.
Nel creare il consorzio, individuano le aree di rispettiva proprietà e creano su di esse un vincolo di destinazione «alla realizzazione degli scopi del consorzio», ai sensi dell'art. 2645-ter c.c. In tal modo, insomma, per evitare che ogni società si presenti nei confronti del Comune in modo separato, per dare unitarietà al tutto, intendendo addivenire rapidamente al loro intento, utilizzano lo strumento del consorzio, ma contemporaneamente destinano le aree interessate di loro proprietà all'opera divisata.
In questo caso la destinazione dei beni è stata utilizzata in una fase preparatoria (per velocizzare la pratica e portarla rapidamente ad effetto) ed è stato stabilito che «il vincolo di destinazione cesserà solo con la chiusura della liquidazione e l'estinzione del consorzio». Non si fa riferimento alla durata improcrastinabile dei 90 anni del vincolo, ma è evidente che questo è destinato a cessare molto prima.
Quali conclusioni trarre da questa vicenda? Una volta stipulate con il Comune le convenzioni necessarie, è evidente che la destinazione del bene (o che esso sia mantenuto interamente in capo ai privati titolari, o che sia in parte ceduto al Comune per le operazioni di urbanizzazione primaria) continuerà a produrre effetti; in tal caso il bene non sarà più peraltro garantito dal vincolo imposto dall'art. 2645-ter c.c. (e quindi con esclusione della possibilità di aggressione dei creditori ordinari ex art. 2740 c.c.), bensì esposto a tutti i creditori ancorché si tratti di bene destinato alla edificazione.
E quali conclusioni trarre, sul piano generale, dalle convenzioni di lottizzazione?
In questi casi la destinazione è sempre predisposta con apposite norme o di fonte legislativa o di fonte regolamentare. L'accordo delle parti, quando interviene, non crea mai autonomamente una destinazione del bene, ma si limita a regolamentarne in dettaglio la già avvenuta destinazione, nell'interesse di un governo ordinato del territorio.
Pertanto la destinazione prevista dall'art. 2645-ter c.c., sempre scaturente dall'atto del soggetto che sul bene ha un determinato dominio, comunque lo si voglia qualificare questo atto (negozio unilaterale caratterizzato in modo pieno dall'autonomia privata, oppure segmento di un meccanismo più ampio di tipo procedimentale), qui non ha ragion d'essere, perché la destinazione non trova mai la sua esclusiva fonte nella volontà del privato, ma deve comunque far capo alle determinazioni o della legge o della pubblica amministrazione (v. SALVIA - TERESI, Diritto urbanistico, Padova, 2002, p. 142, per i quali «se si pensa che negli ordinamenti moderni la possibilità concreta di utilizzazione edilizia dei suoli è determinata in partenza dagli strumenti urbanistici, appare evidente che la soluzione del problema non può farsi dipendere da criteri che fanno capo alla volontà del privato in ordine allo sfruttamento in termini più o meno intensivi delle aree di sua proprietà, essendo invece necessario assumere come punti di riferimento le esigenze obiettive della zona». E più avanti gli stessi Autori affermano «in mancanza di precise indicazioni legislative o di piano il criterio fondamentale da seguire sembra quello secondo cui nelle zone di nuova espansione o comunque in quelle edificabili scarsamente urbanizzate richiedenti soluzioni urbanistiche unitarie, il piano attuativo, di lottizzazione o particolareggiato, si pone come condicio sine qua non per il rilascio delle singole concessioni»).
c) Piano di lottizzazione privato
Va qualificato come piano di lottizzazione privato un contratto di vendita-tipo dei singoli lotti, con il quale il lottizzatore inserisce una serie di vincoli per gli acquirenti dei lotti, vincoli prevalentemente negativi, del seguente tenore: «è vietata la destinazione dei costruendi edifici ad uso diverso da quello di abitazione civile»; oppure: «è vietato agli acquirenti dei singoli lotti di edificare oltre certi limiti volumetrici», o «di eseguire costruzioni su parti di terreno da destinare a verde", o "di realizzare le facciate esterne con stile diverso da quello indicato», ecc.
Per la giurisprudenza queste clausole e questi divieti recepiti nell'atto di acquisto dei vari lotti si sostanziano in servitù reciproche a favore e contro ciascuno dei lotti compravenduti (Cass. 10 novembre 1976, n. 4142, in Riv. not., 1978, p. 858; CONFORTINI, Vincoli di destinazione, in Dizionari del diritto privato, a cura di N. Irti, Milano, 1980, p. 827).
Con questa fattispecie, mentre da un lato si ricorre all'istituto della servitù allo scopo di imprimere a tutta la fattispecie un connotato di realità, mentre nella sostanza si tratterebbe di vincoli di natura obbligatoria, si intuisce come la disciplina dell'art. 2645-ter non possa venire in considerazione, trattandosi di impegni che, più che sulla destinazione impressa all'intera area dal proprietario lottizzante, trovano la propria fonte in strumenti negoziali che per se stessi disciplinano la materia. In definitiva, è il vincolo contrattuale che assume l'acquirente, tradotto in servitù, che viene a determinare l'impegno a mantenere la destinazione particolare del bene, non la volontà di destinazione impressa dal primo proprietario.
d) Standards urbanistici
Ulteriore strumento che si pone in contrasto con la possibilità di utilizzare il meccanismo previsto dall'art. 2645-ter c.c. è rappresentato dai c.d. standards urbanistici.
Si tratta di vincoli imposti per legge o per atto amministrativo all'attività edificatoria nel territorio comunale, i quali, da una parte circoscrivono la facoltà discrezionale dei Comuni nel rilascio delle concessioni edilizie o dei permessi di costruire, da un'altra parte impongono ai Comuni stessi determinate limitazioni nella formulazione dei piani urbanistici.
Gli standards urbanistici nascono con l'art. 17 della legge 765 del 1967 ed hanno originariamente lo scopo di porre delle preclusioni all'attività edilizia nei Comuni sprovvisti di piano, caratterizzati soltanto dall'esistenza di regolamenti edilizi, che operavano in linea di massima senza ricorrere a razionali misure pianificatorie del territorio comunale.
Gli standards urbanistici costituiscono limitazioni all'attività edilizia, intese a garantire la conservazione del paesaggio urbano tradizionale e a migliorare le condizioni di insediamento, con la prescrizione di limiti inderogabili di densità edilizia e di distanza tra i fabbricati, nonché di rapporti massimi tra spazi destinati ad insediamenti residenziali o produttivi e spazi destinati ad attività collettive, verde pubblico e parcheggi.
Si usa distinguere tra standards generali, previsti per i Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, stabiliti per legge e validi per l'intero territorio nazionale, la cui caratteristica è quella di vincolare immediatamente l'attività edilizia dei privati; e standards speciali, stabiliti con decreto ministeriale e rivolti ai Comuni per costringerli ad introdurli negli strumenti urbanistici (così FIALE, Diritto urbanistico, Esselibri Simone, 1997, p. 259): per questi ultimi il vincolo sull'attività edilizia non è diretto, ma indiretto, per il tramite dello strumento urbanistico.
Con la legge 10/1977 sono stati fissati nuovi limiti di volumetria nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici.
Attualmente il territorio viene ripartito in centro storico, centro abitato e restante parte del territorio comunale, e con decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 sono state individuate le zone territoriali omogenee, per ognuna delle quali operano differenziati limiti di densità edilizia, limiti di altezza, limiti di distanza tra fabbricati, rapporti tra spazi destinati ad insediamenti residenziali e spazi pubblici.
Si tratta di valutare se tutta questa normativa intesa a limitare la quantità e la qualità del tipo di edificazione nelle varie zone del territorio comunale abbia punti di riferimento con la normativa contenuta nell'art. 2645-ter c.c. La risposta è nettamente in senso negativo.
In primo luogo perché tutta la materia degli standards urbanistici è di fonte normativa, sia legislativa che regolamentare, non di fonte negoziale.
In secondo luogo perché essa appare finalizzata più a comprimere la destinazione edificatoria di beni che a favorirne lo sviluppo.
Si tratta in definitiva di condizionamenti normativi, che non trovano sbocchi nell'autonomia dei privati, sia perché le zone considerate hanno una destinazione precisa imposta per legge o per strumentazione urbanistica, sia perché nell'ambito di questa destinazione monocorde l'attività del privato deve rispettare determinate forti prescrizioni.
e) Vincolo di destinazione a parcheggio
Uno dei momenti in cui può valutarsi, con maggiore approssimazione, l'utilizzazione del vincolo di destinazione disciplinato dall'art. 2645-ter c.c. è quello dei vincoli a parcheggio, disciplinato dalla legge Tognoli (legge 122/1989) e dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
In questo caso il vincolo di destinazione è previsto dalla legge statale o regionale, ma il provvedimento abilitativo del Comune allo scopo di consentire la realizzazione del parcheggio presuppone un atto d'obbligo dell'interessato che intende realizzare il parcheggio, atto d'obbligo assoggettato a trascrizione.
Trattasi certamente di un vincolo di destinazione, che presuppone l'esistenza di area fabbricabile (sita al piano terreno o da realizzare nel sottosuolo di un preesistente fabbricato), ma che prevede la futura realizzazione di un'unità immobiliare che sarà destinata ad una determinata utilizzazione (posto auto, o posto macchina, o posto a parcheggio), che è destinata a permanere nel tempo.
Ma questi parcheggi non nascono soltanto assumendo su di sé un'impronta indelebile di destinazione a parcheggio, ma nascono anche con una destinazione finalizzata a vantaggio di determinati soggetti: questi ultimi debbono consistere in proprietari di una unità immobiliare (abitativa o meno): o ubicata nello stesso stabile nel quale si costruisce il parcheggio (legge Tognoli), o ubicata nello stesso Comune ove si crea il parcheggio (decreti legge decaduti per mancata conversione in legge, ma sanati per il passato con atti di conferma ai sensi dell'art. 1, 2° comma legge 30 maggio 1995, n. 204); o anche in comuni limitrofi (legge regionale della Lombardia 19 novembre 1999, n. 22).
Non costituisce certamente dichiarazione di vincolo a parcheggio la richiesta al Comune di ottenere un provvedimento abilitativo che consenta la realizzazione del parcheggio: trattasi di istanza diretta alla pubblica amministrazione allo scopo di ottenere un provvedimento amministrativo e quindi non può essere data alla richiesta stessa valore di creazione di alcun vincolo.
Solitamente la richiesta pretende un atto accompagnatorio, che viene qualificato come atto d'obbligo. Questo atto d'obbligo dalla legge regionale della Lombardia 19 novembre 1999, n. 22, successivamente modificata dall'art. 104 della legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (il quale articolo stabilisce che i parcheggi sono da destinarsi a pertinenza «di unità immobiliari residenziali e non, posti anche esternamente al lotto di appartenenza, senza limiti di distanza dalle unità immobiliari cui sono legati da rapporto di pertinenza, purché nell'ambito del territorio comunale o in Comuni contermini»), viene qualificato nel seguente modo: «il rapporto di pertinenza è garantito da un atto unilaterale, impegnativo per sé, per i propri successori o aventi causa a qualsiasi titolo, da trascrivere nei registri immobiliari».
In questo modo l'atto d'obbligo viene imposto allo scopo di attestare, anche nei confronti dei terzi, l'esistenza di un vincolo di pertinenza tra due beni: il costruendo parcheggio e una identificata unità immobiliare.
Ai nostri fini non interessa che la legge regionale della Lombardia preveda una deroga rispetto alla legge statale 122/1989, la quale ultima, nello stabilire il vincolo pertinenziale, prevedeva come bene principale un'unità immobiliare insistente nello stesso stabile ove il posto auto era stato realizzato.
Non vi è alcun dubbio che una legge regionale successiva ad una legge statale, ove regolamenti diversamente la stessa fattispecie, debba trovare applicazione fino a che, eventualmente, la legge regionale non sia ritenuta incostituzionale da una decisione della Corte costituzionale. Nel nostro caso, pertanto, la legge regionale della Lombardia non ha abrogato la legge statale qualificata come legge Tognoli, ma ne ha reso inapplicabile la norma in contrasto limitatamente al territorio della Regione lombarda.
In questo caso si tratta di un atto d'obbligo che si traduce non in un vincolo obbligatorio di destinazione, bensì in un vincolo reale di pertinenza, cioè in un rapporto tra bene e bene nel quale il bene parcheggio viene ad assumere la caratteristica di bene secondario destinato a vantaggio del bene principale. è insomma il rapporto pertinenziale tra cosa e cosa che rileva, non il vincolo di destinazione a parcheggio soltanto. O, detto in altre parole, qui abbiamo un bene che viene costruito con una destinazione fissa (bene destinato a parcheggio), ma contemporaneamente il Comune impone che la destinazione vada a vantaggio di un altro bene compiutamente individuato (l'unità immobiliare ad abitazione o l'unità immobiliare ad opificio industriale o altro).
La legge Tognoli non prescrive la trascrizione dell'atto di vincolo. Anzi la legge Tognoli non prevede neppure la necessità dell'atto d'obbligo, il quale è stato creato soltanto dalla prassi amministrativa. Prova ne sia che un'attenta dottrina auspica che almeno de iure condendo sia previsto l'obbligo di presentare al Comune un atto d'obbligo che venga preventivamente trascritto. Ma ciò non allo scopo di ottenere che l'atto d'obbligo sia destinato ad avere effetti nei confronti dei terzi (cioè allo scopo di consentire che un atto rivestente natura puramente obbligatoria venga assoggettato a pubblicità immobiliare), ma soltanto allo scopo di rendere possibile la conoscenza che nel caso di specie il bene oggetto di negoziazione consiste in un parcheggio Tognoli, per evitare che si incorra, per ignoranza nell'identificazione dell'oggetto, nella nullità negoziale sanzionata dall'art. 9, ultimo comma della legge 122/1989 (v. in tal senso IEVA, «Gli spazi destinati a parcheggio nella legge Tognoli e nella legge 765/1967; discipline e problematiche a confronto», in "La disciplina degli spazi per parcheggio", a cura di M. Ieva, atti del convegno di studio tenutosi a Roma il 16 novembre 1990, Milano, 1992, p. 86).
Come è stato egregiamente chiarito in dottrina (MARè, «Natura e funzione dell'atto d'obbligo nell'ambito del procedimento di imposizione di vincoli di destinazione urbanistica», in "La disciplina degli spazi per parcheggio", a cura di M. Ieva, atti del convegno di studio tenutosi a Roma il 16 novembre 1990, Milano, 1992, p. 91), l'atto d'obbligo nasce da una prassi: dall'esigenza da parte del Comune di avere documentati alcuni obblighi del privato in relazione all'ottenimento di un provvedimento abilitativo all'edificazione e inoltre di renderli conoscibili ai terzi per il tramite della trascrizione. Anche se poi il legislatore ha recepito espressamente l'atto d'obbligo prescrivendolo in una norma di legge (artt. 7 e 9 della legge 10/1977).
Si è discusso se l'atto d'obbligo sia entità giuridica diversa dalla convenzione con la pubblica amministrazione e si tende a definire l'atto d'obbligo non diverso dalla convenzione urbanistica, ma soltanto strumento operativo più agile che consente un'estrema semplificazione del procedimento, ma che non ha né funzione né finalità diversa dalla convenzione, salvi i rari casi in cui esso opera come fase preliminare della convenzione stessa (MARè, «Natura e funzione dell'atto d'obbligo nell'ambito del procedimento di imposizione di vincoli di destinazione urbanistica», in "La disciplina degli spazi per parcheggio", a cura di M. Ieva, atti del convegno di studio tenutosi a Roma il 16 novembre 1990, Milano, 1992, p. 95). Ma non manca chi afferma che mentre le convenzioni lottizzatorie hanno spiccato carattere negoziale e bilaterale, quando si sostanziano nella partecipazione pianificatoria della pubblica amministrazione (piani regolatori e strumentazione urbanistica in genere), l'atto d'obbligo viene richiesto per l'abilitazione ad interventi edilizi singoli, nei confronti dei quali l'impegno del privato «viene ad assumere il carattere di un preventivo atto di sottomissione nei confronti del provvedimento» abilitativo richiesto (RUGGIERO, Contenuto e finalità delle convenzioni urbanistiche nell'esperienza notarile, in Convenzioni urbanistiche e tutela nei rapporti tra privati, Milano, 1978, p. 139).
Probabilmente un'accurata analisi della natura dell'atto d'obbligo potrebbe essere di utilità per accertare se esso possa, per sua natura, essere ricondotto sotto l'egida dell'art. 2645-ter c.c. Un'analisi del genere porterebbe troppo lontano. Basti osservare che per la dottrina più comune esso, pur avendo un certo contenuto negoziale, non può essere valutato disgiuntamente dal provvedimento amministrativo cui esso è preordinato, il che fa concludere per la prevalenza dell'aspetto pubblicistico rispetto all'aspetto privatistico, tant'è che si afferma che una volta ottenuto il provvedimento amministrativo richiesto, l'atto d'obbligo è immodificabile e da tale momento su di esso possono incidere soltanto le vicende estintive del provvedimento amministrativo stesso (MARè, «Natura e funzione dell'atto d'obbligo nell'ambito del procedimento di imposizione di vincoli di destinazione urbanistica», in "La disciplina degli spazi per parcheggio", a cura di M. Ieva, atti del convegno di studio tenutosi a Roma il 16 novembre 1990, Milano, 1992, p. 97).
Ma se ciò è vero, occorre concludere che la destinazione data al bene parcheggio (cioè la destinazione a fungere esclusivamente da bene destinato al ricovero delle autovetture), non trova la propria base nell'atto d'obbligo, bensì esclusivamente nel provvedimento abilitativo emesso dalla pubblica amministrazione, e pertanto non appare possibile costruire la figura in discorso ricorrendo esclusivamente al negozio di destinazione posto in essere sulla base dell'art. 2645-ter c.c.
Probabilmente soltanto con riferimento al forte legame pertinenziale che sorge tra il bene parcheggio e l'unità immobiliare cui esso viene asservito si potrebbe parlare dell'atto d'obbligo come dell'unica fonte creativa di esso. Siamo infatti nel campo del diritto privato, di un legame di natura reale che intercorre tra due beni; in tal caso la scelta del bene da servire (bene principale), l'operazione pubblicitaria da effettuare per rendere detto vincolo conoscibile dai terzi e quindi in grado di produrre i suoi effetti anche nei loro confronti, è tutto basato sull'atto d'obbligo. Ma a ben vedere qui non si tratta di vincolo di destinazione del bene, ma di vincolo di asservimento di un bene ad un altro, vincolo adeguatamente disciplinato dal codice civile e che trova negli artt. 817 e ss. sufficiente regolamentazione e disciplina.
è poi risaputo che i Comuni pretendono l'atto d'obbligo anche per i c.d. parcheggi previsti dalla legge 765/1967, cioè per i parcheggi obbligatori, che nascono contemporaneamente alla realizzazione dell'edificio cui essi accedono. Le Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. Unite, 15 giugno 2005, n. 12793, in Foro it., 2005, I, p. 3327, con nota di SCODITTI) hanno affermato che l'atto d'obbligo qui previsto è un segmento del procedimento inteso ad ottenere il provvedimento abilitativo del Comune e pertanto si inquadra nel rapporto che lega il privato che chiede questo provvedimento e la pubblica amministrazione competente a rilasciarlo; e qui si conclude, senza che da esso debbano trarsi impegni o vincoli a favore dei terzi.
Tant'è che si afferma che esso: a) non si inquadra nel contratto a favore dei terzi ex art. 2411 c.c.; b) e non può essere qualificato come negozio giuridico a sé stante, produttivo di effetti negoziali autonomi come qualunque negozio frutto di autonomia privata.
A ben vedere, insomma, si tratta di uno strumento sulla base del quale il richiedente si impegna non a destinare a parcheggio tutti i posti auto realizzati, bensì a destinare a parcheggio un numero di posti auto entro i limiti dello standard. Una volta realizzati, questi posti auto entro lo standard acquistano valore di pertinenze ex lege e acquisiscono una destinazione d'uso che, in quanto pretesa dalla legge, non può essere più mutata. Sotto questo aspetto, pertanto, l'avvenuto impegno del richiedente il provvedimento abilitativo non può avere alcuna incidenza, per cui si deve sostenere che eventuali mutamenti di destinazione d'uso del bene trovano ostacolo non nell'atto d'obbligo, bensì nel testo di legge. In altre parole, non è l'atto d'obbligo a funzionare come base della destinazione del terreno a posto auto, bensì il provvedimento abilitativo che lo include e che trova nella legge la propria fonte e ragione giustificativa.
Sulla base delle riflessioni precedenti appare impossibile attribuire all'atto d'obbligo qui considerato un connotato tale che consenta di inquadrarlo nella fattispecie normativa disciplinata dall'art. 2645-ter c.c.
Il discorso fatto per i parcheggi realizzati oltre lo standard di legge vale a maggior ragione per i parcheggi realizzati entro lo standard di legge. Nessuno ha mai contestato che con la costruzione del posto auto per effetto della norma in discorso si creasse un vincolo a parcheggio ineliminabile, perché il vincolo aveva la sua fonte in una norma di legge.
Il punto dubbio era se, al di là del vincolo previsto dalla normativa urbanistica, si creasse un altro vincolo imposto nelle contrattazioni privatistiche. Lo affermava la giurisprudenza della Cassazione, che vedeva nella norma un vincolo reale d'uso a favore non di chiunque, ma dei soli abitatori della costruzione sorta in modo coevo al posto auto (v. da ultimo in tal senso Cass. 23 marzo 2004, n. 5755, in Foro it., 2004, I, 2088; Cass. 6 maggio 2004, n. 10148); lo negava la dottrina, che attribuiva alla norma soltanto un contenuto pubblicistico che non poteva trovare alcun rilievo in materia privatistica sulla commercializzazione del bene, che restava libera, senza vincoli di alcun genere (v. per tutti MARICONDA, «Nullità urbanistiche e disciplina generale del contratto nullo: la pretesa nullità relativa ai parcheggi», in Corr. giur., 1986, p. 858; PALLOTTINO, «La disciplina degli spazi per parcheggio nell'ambito della normativa urbanistica», in "La disciplina degli spazi per parcheggio", a cura di M. Ieva, atti del convegno di studio tenutosi a Roma il 16 novembre 1990, Milano, 1992, p. 46; LUMINOSO, «Posti macchina e parcheggi tra disciplina pubblicistica e codice civile», in Contratto e impresa, 1990, p. 102). Ma, lo si ripete, nessuno poneva in discussione il fatto che la destinazione del bene a parcheggio non potesse subire variazioni, se non con un nuovo provvedimento della pubblica amministrazione.
Pertanto se anche per i parcheggi ponte entro lo standard si afferma che la base del parcheggio, cioè il fatto generatore del vincolo di destinazione a parcheggio del bene, è stato il provvedimento abilitativo del Comune e non l'atto d'obbligo delle parti, occorre concludere che neppure per questo settore torni di utilità la fattispecie prevista dall'art. 2645-ter c.c.
f) Cessione di cubatura
La cessione di cubatura è nata nella prassi; con essa il proprietario di un'area edificabile "trasferisce" (normalmente dietro corrispettivo) al proprietario di un'area confinante, tutta o parte della cubatura utilizzabile sul proprio fondo, rendendo questo, in tutto o in parte, inedificabile. Al termine dell'operazione, il proprietario "cessionario" potrà edificare sfruttando la cubatura acquisita, in aggiunta a quella naturalmente espressa dal proprio fondo. L'intera operazione riguarda fondi compresi nella medesima zona nella quale dovrà essere rispettato lo standard urbanistico vigente (cfr. in questo senso, in sintesi, LEO, voce Trasferimento di cubatura, in Dizionario enciclopedico del Notariato, Vol. V, Aggiornamento, Roma, 2002, p. 710; e in Studi e materiali, 6.2, Milano, 2001, p. 669; sull'argomento v. anche GRASSANO, «La cessione di cubatura nel processo conformativo della proprietà edilizia privata», in Giur. it., 1990, IV, p. 383; SCARLATELLI, «La cosiddetta cessione di cubatura. Problemi e prospettive», in Giust. civ., 1995, II, p. 287; CIMMINO, «La cessione di cubatura nel diritto civile», in Riv. not., 2003, p. 1113).
La necessaria presenza della P.A. nell'operazione rende insufficiente il solo accordo tra privati come diretto - di per sé - a determinare l'incremento edificatorio di un fondo a scapito di un altro, tanto che in posizione estrema, si è addirittura arrivati ad affermare la totale irrilevanza dell'autonomia negoziale per il conseguimento del risultato.
Nella qualificazione giuridica di questa fattispecie si può privilegiare la fase genetica oppure la fase conclusiva di essa: se si esalta la fase genetica della vicenda, costituita dall'accordo tra i privati proprietari, la disciplina del particolare autoregolamento di interessi andrà individuata nel diritto privato; se si esalta invece la fase conclusiva del procedimento, ponendo l'accento sul provvedimento amministrativo che contribuisce a realizzare l'effetto voluto (autorizzazione al nuovo assetto programmato, concessione edilizia ecc.) è doveroso ricorrere ai principi del diritto amministrativo.
La giurisprudenza della Cassazione si è occupata della materia con attinenza all'aspetto tributario oppure con attinenza alla determinazione di stima nell'ipotesi di espropriazione per pubblico interesse: in tal caso essa ha dovuto affrontare anche il problema della natura della cessione di cubatura ed ha sostanzialmente enunciato le seguenti conclusioni:
a. la cessione di cubatura non può farsi rientrare in nessuno dei tradizionali diritti reali, ivi compresi il diritto di proprietà e i diritti reali limitati (Cass. 14 maggio 2003, n. 7417, in Giur. imp. 2003, p. 1328);
b. la cessione di cubatura da parte del proprietario del fondo confinante, onde consentire il rilascio della concessione a costruire nel rispetto del rapporto area-volume, non necessita di atto negoziale ad effetti obbligatori o reali, essendo sufficiente l'adesione del cedente, che può essere manifestata o sottoscrivendo l'istanza e il progetto del cessionario; o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi; o notificando al Comune tale sua volontà. Mentre il cosiddetto vincolo di asservimento rispettivamente a carico e a favore del fondo si costituisce, sia per le parti che per i terzi, per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario sul suolo attiguo (Cass. 12 settembre 1998, n. 9081).
In sostanza, nella cessione di cubatura si trasferisce a favore di un fondo contiguo la propria potenzialità edificatoria, in tal caso rinunciando a costruire. Pertanto, più che un vincolo di destinazione, essa si sostanzia in una rinuncia a costruire: non si destina il proprio bene a qualcosa, ma si rinuncia a sfruttare una facoltà attinente al proprio diritto di proprietà.
Trattandosi di contratto tra proprietari di fondi diversi, non si può parlare di vincolo di destinazione e, in ogni caso, non si crea alcun diritto reale a favore del beneficiario della cessione di cubatura, il quale soltanto con il provvedimento abilitativo del Comune potrà realizzare il proprio interesse.
Siano quindi al di fuori del meccanismo disciplinato dall'art. 2645-ter c.c., dato il contenuto esclusivamente preparatorio del contratto in discorso, in vista di un futuro provvedimento amministrativo, al quale ultimo soltanto spetta la realizzazione del divisato interesse.
Riflessioni conclusive
Sulla base delle riflessioni precedenti, si può concludere affermando che nella materia urbanistica e specialmente nel settore di questa destinato alla creazione della normativa di carattere amministrativo che governa la materia (piani generali o particolari, programmi di fabbricazione, regolamenti edilizi) la disciplina prevista dall'art. 2645-ter sui vincoli di destinazione ha scarse possibilità di utilizzazione.
Questi i motivi di fondo che appaiono giustificare la predetta conclusione:
a. in questa materia il governo del territorio non è mai imposto dal privato, ma soltanto dalla pubblica amministrazione cui l'ordinamento demanda il potere relativo;
b. allorquando il privato è chiamato ad interloquire in materia, occorre in ogni caso il concorso di volontà della pubblica amministrazione, per cui la caratteristica del vincolo di destinazione di essere generato da un negozio unilaterale qui non trova applicazione;
c. il vincolo di destinazione presuppone una destinazione completa del bene del privato per il raggiungimento di un interesse meritevole di tutela, ma in materia urbanistica la destinazione del bene si restringe soltanto ad un aspetto della gamma di poteri che fanno capo al proprietario (l'edificazione, appunto), il che rende problematico applicare la predetta norma nel nostro caso;
d. il vincolo di destinazione è prevalentemente caratterizzato da gratuità, mentre i rapporti che intercorrono tra privato e autorità preposta al governo del territorio hanno sempre caratteristica di negozi con un corrispettivo: in tanto il privato si impegna nei confronti della pubblica amministrazione, in quanto quest'ultima concede al privato richiedente determinati benefici di ordine edilizio;
e. in ogni caso i vincoli che il privato accetta di imporre sulla sua proprietà a vantaggio della regolamentazione pubblica del territorio non hanno mai durata limitata nel tempo, bensì durata indeterminata (richiedendo per le modifiche un mutamento di determinazione da parte della pubblica autorità), il che impedisce che sia applicabile la norma contenuta nel predetto articolo del codice.
In definitiva, nella disciplina urbanistica, considerato lo scarso apporto offerto per la destinazione dalla volontà del soggetto proprietario del bene e i limitati ambiti della vasta gamma di facoltà che fanno capo al proprietario entro i quali opera la destinazione urbanistica del bene, l'applicazione in materia dell'art. 2645-ter c.c. determinerebbe un forte vulnus, del tutto privo di giustificazione, alla garanzia dei creditori generali sul bene destinato. E lo scopo del citato articolo non appare certamente questo.
Bibliografia
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