Gli interessi riferibili ad imprese e ad altri enti
Gli interessi riferibili ad imprese e ad altri enti
di Francesco Steidl
Notaio in Firenze

Premessa

Il titolo di questa relazione mi impone una precisazione preliminare. Esaminerò solo i casi in cui imprese od altri enti, a mente di quanto previsto dall'art. 2645-ter, intendano destinare beni in qualità di disponenti, tralasciando di occuparmi delle ipotesi in cui questi soggetti si trovino in posizione di beneficiari, circostanza affatto diversa e che mi sembra coinvolga problematiche già affrontate in altra sede, più che altro connesse alla effettività della destinazione ed ai mezzi per la sua realizzazione coattiva.

Destinazione ad attività d'impresa e separazione patrimoniale

Accostare i concetti di destinazione e di impresa può sembrare perfino ovvio, poiché sia la definizione di imprenditore (art. 2082 c.c.) che quella di azienda (art. 2555 c.c.), interpretate l'una in funzione dell'altra, contengono un richiamo esplicito alla destinazione di beni ad una certa attività economica, destinazione che viene opportunamente qualificata come "organizzazione".

Organizzare beni per una attività economica, infatti, significa imprimere loro una destinazione diretta allo scopo di produrre nuove utilità.

Occorre chiedersi, in primo luogo, quale rilievo possa avere, nei confronti dei creditori, l'atto di destinare beni e mezzi all'attività di impresa, fatto che, come sopra detto, è connaturale al suo esercizio, in relazione al riconoscimento di un possibile grado di separazione fra il patrimonio impiegato nell'impresa e quello "personale" dell'imprenditore.

In linea generale, la destinazione di beni ad uno scopo resta normalmente relegata al foro interno del disponente, ed a tale atto l'ordinamento non riconosce alcun rilievo in ordine alla graduazione o subordinazione degli interessi dei beneficiari, in confronto con quelli dei creditori del disponente.

Voglio chiarire meglio questo concetto con un esempio al di fuori del mondo dell'impresa: una persona che destina una sua casa ad abitazione per i figli e il coniuge separato, compie un atto che avrà sicuramente delle conseguenze nell'ambito dei rapporti sociali, ma che non ne avrà alcuna sul piano giuridico, non creerà alcuna modificazione che sia giuridicamente apprezzabile da coloro che entrino in rapporto con il patrimonio del disponente.

La prospettiva potrebbe nettamente modificarsi qualora la stessa identica destinazione fosse condizione ed effetto di un procedimento di separazione personale, nel qual caso tale speciale utilizzazione, altrimenti irrilevante, gode di una particolare tutela da parte dell'ordinamento, attraverso la tendenziale separazione dal patrimonio del disponente del bene casa in funzione di una sua diversa utilizzazione [nota 1].

E' necessario quindi esaminare che cosa, a parità di contenuti di utilizzazione del bene, distingue le due ipotesi di destinazione, quale sia cioè l'elemento che, nel secondo caso, fa affermare senza dubbio che siamo di fronte ad una effettiva, apprezzabile e giuridicamente rilevante modificazione nel patrimonio del disponente, tale da provocare la subordinazione dei diritti dei creditori all'interesse dei beneficiari.

Rilevanza del negozio di destinazione

Direi che ciò che qualifica la destinazione, e l'argomento sarà ripreso più avanti, non è quindi soltanto, per usare le parole di P. Spada, il contenuto «dell'utilità d'uso del bene selezionata», che pure ha ovviamente il suo rilievo con riguardo al requisito della liceità, ma che, come abbiamo visto, può essere identico, quanto il fatto che la destinazione segua ad una sua "proclamazione" erga omnes, che può scaturire da diverse fonti, rilevanti e non rilevanti per l'ordinamento.

Questa "proclamazione della destinazione" può quindi risolversi in una mera determinazione interna (giuridicamente irrilevante) o in un negozio più o meno solenne, che diventa fonte di quella programmata selezione cui ho accennato e che riceve tutela se riconoscibile, se tipizzata, oppure, come vedremo, seppur non tipizzata, che può trovare eguale tutela, dopo l'introduzione dell'art. 2645-ter c.c., in caso di giudizio positivo di meritevolezza [nota 2] ed a conclusione del procedimento che conduce fino all'esecuzione della formalità di trascrizione.

Il negozio si pone quindi come paradigma di riconoscibilità e accettabilità della destinazione e diventa elemento fondamentale della fattispecie, la cui sussistenza o meno, a parità di contenuti, può qualificare la destinazione come rilevante o irrilevante per l'ordinamento.

Ma la mera sussistenza di un negozio di "proclamazione" non è sufficiente a giustificare la rilevanza di qualsiasi destinazione in funzione di separazione, anzi, si può affermare che l'ordinamento abbia selezionato una serie di negozi in funzione di destinazioni particolari e li abbia tipizzati (il fondo patrimoniale, l'atto costitutivo di società, soprattutto la unipersonale, ed all'interno della disciplina dell'impresa capitalistica i patrimoni destinati, i fondi pensione, la cartolarizzazione di crediti, ecc.) ritenendo a priori che questi schemi siano latori di una "causa sufficiente" [nota 3]: se i contenuti del negozio sono tali da soddisfare quelli normativi, non vi è necessità di indagare oltre, circa l' "intenzione" del disponente, ma l'effetto di separazione, di articolazione del patrimonio si produce a dispetto di qualsiasi eventuale diversa motivazione.

Quello della tipizzazione dei negozi, e delle ricadute in punto di separazione patrimoniale, non è evidentemente un meccanismo perfetto, e lo dimostrano le tradizionali utilizzazioni distorte di alcuni di essi, come il fondo patrimoniale (ma il discorso potrebbe valere anche per l'atto costitutivo di una società unipersonale), ma il legislatore, che ha comunque previsto rimedi per queste ipotesi, ha ritenuto che fosse funzionale per l'economia e per l'ordinato svolgersi dei rapporti giuridici, preordinare alcuni tipi negoziali per i quali non vi fosse la necessità per l'interprete prima, e per il giudice poi, di individuarne la causa e di doverne riconoscere la meritevolezza, con un procedimento potenzialmente defatigante e di incerti risultati.

Quindi il negozio tipico di destinazione, per esempio la costituzione di una società unipersonale o di un fondo patrimoniale, è una "proclamazione" di un programma di articolazione del patrimonio del disponente che genera separazione, ma deve rispondere a requisiti di forma e sostanza previsti dalla legge: un fondo patrimoniale costituito per scrittura privata autenticata o fra semplici conviventi, ovvero una società a responsabilità limitata unipersonale senza il versamento dell'intero capitale sociale, sono atti di destinazione che non conseguono il risultato voluto perché non integrano completamente lo schema negoziale voluto dal legislatore, e quindi non generano separazione. [nota 4]

Meritevolezza della destinazione

Un cenno al requisito della meritevolezza, espressamente richiamato dall'art. 2645-ter c.c.: questa norma, ad una prima lettura, sembra aprire scenari amplissimi, sembra cioè consentire alla autonomia privata [nota 5] il ricorso ai negozi più disparati, purché la destinazione, lo scopo perseguito dal disponente sia meritevole di tutela [nota 6].

A mio parere, dopo anni in cui il requisito della meritevolezza nei negozi atipici si è risolto solo in un cimento per gli studenti dell'esame di diritto privato, non avendo significativamente la giurisprudenza mai posto a base di una sua decisione tale requisito [nota 7], è forse tempo che, a seguito di questo improvviso risveglio legislativo, ci si chieda con urgenza se il concetto di meritevolezza – in questo contesto – non possa avere oggi un valore più puntuale, quasi operativo per l'interprete. Mi spiego: il Notaio che sia chiamato a redigere un negozio di destinazione, dovrà prevedere non solo quella che ho definito la "proclamazione" degli interessi, dei soggetti e dei mezzi, ma far risultare in maniera inequivocabile anche la loro astratta e prevedibile adeguatezza a raggiungere il fine lecito.

Diversamente il negozio potrà indicare sicuramente un interesse lecito, magari socialmente apprezzabilissimo, ma sicuramente immeritevole di ricevere tutela da parte di un ordinamento che non ne può riconoscere il valore.

Impresa e funzione del modello organizzativo

La definizione di meritevolezza come «adeguatezza dell'organizzazione della destinazione» (per usare le parole di V. Scaduto) anticipa quelle che saranno le conclusioni della mia relazione sulla possibile utilizzabilità del negozio atipico di destinazione nel mondo dell'impresa, sia individuale che collettiva, dal momento che si tratta di vedere se il nostro ordinamento ha previsto forme organizzative solo in senso meramente descrittivo, oppure, come invece evidentemente appare, esse sono inderogabili e rappresentano una scelta, certamente frutto di una tradizione, ma che individua modelli dai quali l'autonomia privata non si può discostare, pena l'incertezza e l'ingovernabilità dei rapporti economici.

Per quanto riguarda l'impresa è quindi necessario tenere ben presente lo statuto nel cui ambito il legislatore ha ritenuto di differenziare le sue varie forme in relazione ai modelli organizzativi.

I beni dell'impresa, sono per definizione già destinati ad uno scopo, e l'ordinamento collega a questa inclusione rilevanti conseguenze che vanno aumentando di importanza via via che il livello organizzativo si specializza (quindi dall'imprenditore individuale, all'impresa collettiva fino alla società di capitali) con il riconoscimento di un grado di autonomia patrimoniale che cresce in parallelo.

Il concetto di autonomia patrimoniale, d'altra parte, al cui studio la dottrina si è lungamente dedicata, riecheggia quello più attuale e moderno di separazione patrimoniale [nota 8], anzi si può dire che la separazione sia la più notevole affermazione dell'autonomia patrimoniale, perché se i creditori particolari del socio potessero liberamente soddisfarsi sui beni sociali, sarebbe vanificata la funzione dell'impresa collettiva che godrebbe dello stesso grado di tutela della comunione ordinaria, con grave danno dell'economia in generale.A questo proposito, va detto che il legislatore ha ritenuto tradizionalmente di tipizzare i modelli organizzativi dell'impresa, in maniera condizionante per il riconoscimento degli effetti rilevanti, sia con riguardo ai rapporti interni che nei confronti dei terzi: ogni ipotetico tentativo di costruire una forma di organizzazione imprenditoriale individuale o collettiva atipica [nota 9] finirebbe per essere sanzionato dall'ordinamento, perché il legislatore ha ritenuto, con una scelta propria degli Stati moderni, che l'impresa debba muoversi all'interno di regole certe, sia per se stessa, quale embrione di progresso della società, che per il mondo del credito, principale fonte del suo sviluppo. [nota 10]

Alle diverse forme organizzative dell'impresa corrispondono livelli diversi di separazione del patrimonio, che sono tracciati dal codice in maniera dettagliata, proprio per far sì che i creditori siano sempre posti in condizione di sapere su quale "schema di responsabilità" contare quando la finanziano.

Sono eloquenti in proposito i casi di "sconfinamento" dalle discipline tipiche di settore che la legge sanziona variamente, da quello del socio accomandante che compie atti di ingerenza (art. 2320 c.c.) e per questo perde il beneficio della responsabilità limitata, a quello della mancata indicazione del vincolo negli atti compiuti in relazione allo specifico affare (art. 2447-quinquies c.c.) che provoca anche qui l'estensione della responsabilità a tutto il residuo patrimonio sociale.

Se questo, come io ritengo, è il pensiero che ispira lo statuto dell'impresa, certamente diverso da quello della famiglia, nel quale l'evoluzione del costume e la progressiva affermazione dei principi costituzionali giocano un ruolo rilevantissimo nel giudizio di imperatività del precetto di legge, e quindi nella possibilità di ritagliare all'autonomia privata campi di azione sempre più penetranti, tutto ciò che si pone al di fuori dei vari modelli organizzativi previsti dal suo statuto non può "rientrare dalla finestra" attraverso il negozio di destinazione, che è norma sì nuova, ma che si deve misurare con il complesso del diritto previgente. [nota 11]

Nel caso in cui si voglia destinare beni ad uno scopo, il cui contenuto sia magari identico a quello dei negozi tipici, ma la cui fattispecie si differenzi per qualche elemento, attraverso la stipulazione di un negozio atipico, secondo quella che sembra essere l'impostazione del nuovo art. 2645-ter c.c., l'attenzione dell'operatore giuridico deve quindi concentrarsi sull'analisi dei vari "statuti", cioè del corpus normativo entro il quale la destinazione deve andare ad incidere e, in riferimento agli esempi fatti, degli statuti dell'impresa o della famiglia, giudicando se la "nuova" [nota 12] destinazione possa iscriversi negli ordinamenti di settore senza provocare una indebita lesione delle fattispecie legali, in sostanza una violazione di norme imperative.

La risposta a questo interrogativo dipende ovviamente dal rilievo che si dà alle singole disposizioni di legge che prevedono ipotesi di destinazione con effetti di separazione patrimoniale, se si tratti cioè sempre di norme di stretta interpretazione ovvero esista nel nostro ordinamento un principio secondo il quale il negozio di destinazione, dopo l'introduzione dell'art. 2645-ter, è generalmente ammissibile, restando quindi l'art. 2740 c.c. norma di carattere residuale. [nota 13]

Chi ritenga, per esempio, che il patrimonio destinato ad uno specifico affare sia ipotesi praticabile solo dalle società per azioni in quanto la loro particolare struttura e soprattutto il necessario assoggettamento delle SpA a molteplici controlli, soddisfi esigenze di correttezza dell'operazione che giustificano il sacrificio dei creditori "generici" in vista del privilegio di cui godono i creditori del patrimonio destinato, conclude che qualsiasi ipotesi di destinazione patrimoniale non tipizzata sia per ciò stesso da considerarsi illegittima in campo societario e più in generale di impresa. [nota 14]

Al contrario, se si ritenga che l'art. 2645-ter sia indice di un generale favor del legislatore nei confronti dei negozi di destinazione, le ipotesi tipiche resterebbero a regolare solo l'ambito per il quale sono dettate, ma l'autonomia privata potrebbe validamente dar vita a negozi atipici che vadano a completare la disciplina che il legislatore ha tracciato solo per alcuni settori. [nota 15]

Se cioè il legislatore considera legittimo l'effetto della separazione patrimoniale generata dal fondo patrimoniale solo in presenza di un vincolo matrimoniale, ovvero che i patrimoni destinati trovano la loro giustificazione solo nelle SpA per i motivi cui prima ho accennato, un atto di destinazione di beni a protezione dei bisogni della famiglia di fatto, ovvero un patrimonio destinato in una Srl [nota 16], sarebbero negozi sicuramente da qualificare come illeciti perché il programma in essi contenuto si porrebbe in contrasto con norme di rango imperativo e quindi, ancorché stipulati, sarebbero nulli e non sortirebbero alcun effetto di separazione.

Al contrario, chi ritiene invece che l'art. 2645-ter abbia espressamente introdotto una generale deroga all'art. 2740 c.c. conclude che le ipotesi tipiche di separazione patrimoniale, pur non dispositive per le fattispecie in cui sono dettate, non segnano un confine invalicabile dalla autonomia privata, anzi segnerebbero l'emersione di una classe di interessi meritevoli già tipizzata e quindi utilizzabile per riempire di contenuti il negozio atipico di destinazione. [nota 17]

Imprenditore individuale e destinazione

Per l'imprenditore individuale la destinazione di un bene all'esercizio dell'impresa ovvero la sua eterodestinazione non crea per costui alcuna separazione patrimoniale: i suoi creditori possono soddisfarsi a loro piacimento su qualsiasi suo bene, sia d'impresa che non, salvi gli effetti derivanti dalla eventuale inclusione dell'impresa stessa nella comunione legale fra i coniugi, che provoca (art. 190 c.c.) una sussidiarietà nella soddisfazione dei creditori sui beni personali dell'imprenditore, eccezione che si può dire però che sia più il sintomo della sovrapposizione di uno statuto diverso (quello della famiglia) a quello dell'impresa, e che quindi non vada a modificare il principio generale.

Ciò non significa che l'imprenditore non possa stipulare validi negozi di destinazione del suo patrimonio, con efficacia erga omnes, del tipo di quelli che l'esperienza ci mostrerà in futuro, magari a favore della famiglia di fatto, oppure a scopo benefico, separando quindi dal proprio patrimonio, con un negozio ex art. 2645-ter, uno dei beni previsti da questa norma, e che questa separazione non possa trovare tutela anche nei confronti dei creditori dell'impresa, a seguito delle opportune forme di pubblicità, ma solo che egli non potrà specializzare, non potrà articolare con un negozio di destinazione una parte dei suoi beni per un "fine di impresa", per un fine cioè per il quale il legislatore ha previsto e tipizzato modelli organizzativi tipici connessi a livelli differenziati di responsabilità patrimoniale.

Se questo fosse possibile, lo statuto dell'impresa individuale ne verrebbe irrimediabilmente compromesso, con grave nocumento per la certezza dei rapporti giuridici in campo commerciale e per la circolazione dei capitali che in tutti i paesi moderni è principale fonte di ricchezza.

Esiste, peraltro, anche per l'imprenditore individuale, una possibilità offerta dalla legge per specializzare il proprio patrimonio destinato all'attività di impresa e per fini ad essa connessi, ed è quella della costituzione di una società unipersonale, soprattutto da quando è stata tolta la limitazione della responsabilità connessa alla articolazione del patrimonio in un'unica società, aprendosi quindi la strada alla possibile specializzazione dell'impresa individuale in diversi settori di attività, cui corrisponde la differenziazione dei diversi ceti creditori.

Questo riconoscimento fatto all'imprenditore individuale che voglia distinguere i suoi affari ed il relativo assetto delle responsabilità, è il frutto di un negozio, quello costitutivo di società, tipizzato dal legislatore in modo da renderne riconoscibile erga omnes gli effetti.

La scelta poteva essere diversa, per esempio il legislatore italiano avrebbe potuto creare l'impresa individuale a responsabilità limitata come ha fatto il Portogallo in attuazione della XII direttiva Cee. Ha invece preferito "entificare", cioè fare assumere personalità giuridica al patrimonio dedicato dell'imprenditore individuale, attraverso la società unipersonale.

Impresa collettiva e destinazione

Nell'impresa collettiva, invece, la destinazione dei beni all'attività di impresa, trova una sua risposta immediata in termini di separazione patrimoniale attraverso la previsione di schemi, quali l'atto costitutivo ed il negozio di conferimento accompagnati dalle connesse forme di pubblicità, che in quanto "proclamazione tipica" della destinazione, nel senso prima precisato in via generale, sono tali da non necessitare alcun giudizio di ammissibilità, che è preordinato dal legislatore.

L'impresa collettiva, soprattutto di capitali, ha conosciuto nel nostro paese in epoca recente nuove ipotesi di destinazione introdotte da direttive comunitarie, che fanno ritenere che quella dell'articolazione patrimoniale è esigenza sempre più sentita dagli operatori economici, in funzione di una sempre maggiore razionalizzazione del rischio.

Mi riferisco sia al fenomeno, già citato, dei patrimoni destinati nelle SpA che a quello, meno recente, della scissione, quest'ultimo riguardante anche le società non capitalistiche: anche questa ipotesi può rappresentare un caso emblematico di negozio di destinazione a servizio dell'impresa, con "entificazione" del patrimonio separato, la cui disciplina ci può fornire altri elementi utili per giungere ad una conclusione apprezzabile sull'argomento in questione.

Non è possibile in questa sede richiamare tutta la dottrina che ancor prima dell'entrata in vigore della riforma delle società, si è spesa nel cercare di trovare motivi che potessero far preferire alla società per azioni l'impervia strada della creazione di un patrimonio destinato, oltretutto oggetto di qualche residuo dubbio di disciplina in tema di insolvenza [nota 18], e sicuramente non impermeabile a obbligazioni nascenti da fatto illecito, rispetto alla strada piana della creazione di una nuova società unipersonale.

Lo strumento può dirsi pressoché disapplicato per il momento perché, per quanto se ne sappia, i patrimoni destinati in Italia si contano su una mano o poco più.

Resta però la disciplina ad indicare un percorso e soprattutto restano i limiti normativi entro i quali, se la SpA volesse realizzare l'articolazione del proprio patrimonio, dovrebbe essere confinata. La separazione qui deriva dal negozio tipico che coincide con la delibera sociale, opportunamente pubblicizzata, insieme ad una serie di successivi adempimenti contabili e di gestione che concorrono a tenere, anche fisicamente, distinto l'affare dagli altri.

E' importante notare che tutte le ipotesi di destinazione di una parte del patrimonio della società (quindi anche il caso di scissione cui accennavo sopra) sono previste in funzione di una attività di impresa cui deve essere indirizzato il patrimonio separato.

Se la destinazione non è funzionale all'esercizio di una diversa impresa (o dell' "affare" [nota 19] come è stato empiricamente indicato dal legislatore della riforma, forse traducendo dall'inglese il comune concetto di "business") siamo fuori dal perimetro dello statuto dell'impresa e quindi il negozio, magari fraudolentemente indirizzato a produrre effetti di separazione, non ne produce affatto.

E' questa una conclusione forte cui potrebbe però giungersi anche in caso di scissione o di costituzione di una società unipersonale, quando la società di nuova costituzione destinataria del patrimonio distaccato, fosse una società che non svolge alcuna attività di impresa, ma si limitasse al godimento dei beni attribuiti, con integrazione della fattispecie dell'art. 2248 c.c. sulla comunione di godimento e ipotizzabili censure di simulazione del negozio [nota 20].

Di converso, è da notare che tutte le volte che l'articolazione riguarda beni destinati all'esercizio di un'attività di impresa sono forti le garanzie poste a tutela delle varie classi di creditori, che possono sempre opporsi qualora questa destinazione possa pregiudicare i loro diritti [nota 21].

Mi sembra in proposito notevole osservare che la scarna disciplina dell'art. 2645-ter c.c. non prevede alcuna forma di opposizione dei creditori dell'impresa, i quali dovrebbero subire passivamente la separazione del patrimonio dell'imprenditore a danno delle proprie aspettative [nota 22], salva l'azione revocatoria, che però ha evidentemente presupposti diversi rispetto al rimedio dell'opposizione.

In conclusione di questa rapida disamina dei motivi per cui, in via generale, mi sembra di escludere che l'art. 2645-ter c.c. possa validamente proporsi quale norma per l'impresa, vorrei infine rilevare che se si parte dal dato testuale, cercando di non farsi condizionare dal dibattito in corso da anni sui vincoli di destinazione e sui diversi ambiti in cui sono andati ad incidere, credo possa affermarsi con una certa sicurezza che il legislatore, al quale non può certo attribuirsi particolare consapevolezza nell'immaginare gli scenari successivi all'entrata in vigore della norma, mai abbia ritenuto di introdurre un istituto di tale dirompente novità nell'ambito delle regole che disciplinano l'impresa.

Il fatto che la norma, per lo meno sul versante di una sicura opponibilità, si applichi testualmente solo ai beni immobili o mobili registrati [nota 23], il limite temporale sia di novanta anni o sia commisurato alla vita della persona fisica beneficiaria, che non sia prevista alcuna surrogazione del vincolo in caso di trasformazione dei beni (elemento questo comprensibilmente fondamentale nella disciplina dei patrimoni destinati), non può che far ritenere che il legislatore abbia probabilmente avuto presente tutto fuor che l'impresa, nel cui statuto, infatti, le ipotesi di separazione conseguenti a destinazione, sono disciplinate con specifico riguardo al particolare ambito in cui devono operare.

Ipotesi di possibile destinazione in ambito di impresa

Escluso quindi che l'imprenditore individuale o collettivo possa utilizzare l'art. 2645-ter per destinare una parte del suo patrimonio ad un "ramo di attività" o a un singolo affare [nota 24], non è tuttavia detto che non possano essere individuate alcune ipotesi di destinazione che si pongano non in concorrenza, ma al di fuori dei casi di destinazione imprenditoriale specializzata, necessariamente regolati da quello "statuto" [nota 25].

Il taglio casistico di questo convegno mi impone di concludere con una serie di ipotesi di destinazione nel mondo dell'impresa da esaminare alla luce di quanto puntualizzato nel corso di questo intervento [nota 26].

una società vuole destinare i frutti di un suo immobile alla creazione di una rete commerciale per il "commercio equo e solidale". La destinazione è meritevole, non c'è dubbio, i mezzi probabilmente anche. Resta però il fatto che anche qui il "patrimonio destinato ad uno specifico affare" disciplinato dall'art. 2447-bis e le norme che lo disciplinano stanno sullo sfondo a dirci quali sono i limiti soggettivi ed oggettivi in cui ci possiamo muovere, perché la destinazione dei frutti dell'immobile è ad un affare, solidale quanto si vuole, ma sempre un affare;

un terzo destina un suo immobile ad una società farmaceutica quale sede per le ricerche su una particolare malattia. Anche qui lo scopo è meritevole, con certezza, ma qui l'impresa è beneficiaria della destinazione e non disponente, e quindi siamo fuori dal tema che mi ero prefisso di esaminare perché la destinazione non è effettuata da un imprenditore, pur essendo qui ipotizzabile un negozio di destinazione;

una società che si occupa di energie alternative destina un suo capannone alle ricerche sull'auto non inquinante. La destinazione, intesa come classe di interessi cui fa riferimento, è meritevole, ma proviamo a modificare la "colorazione" della destinazione facendo lo stesso esempio, ma con una società che destina un suo capannone all'assemblaggio di componenti per auto sportive. E' chiaro che l'attività "energie alternative" e "ricerca" fanno ritenere meritevole (in senso solamente metagiuridico) ciò che evidentemente non è;

un'impresa destina un'area a parcheggio pubblico. Forse qui non siamo di fronte ad una destinazione d'impresa, e quindi la strada del negozio ex art. 2645-ter c.c. potrebbe anche essere percorribile, ma mi sembra che già norme di carattere pubblicistico in materia di standard urbanistici, prevedono tali destinazioni, per cui sarà difficile che gli enti territoriali accettino di modificare (e poi perché ?) la prassi amministrativa che già impone la stipula di convenzioni;

una persona trasferisce alla società Alfa Srl un terreno edificabile perché sia destinato alla costruzione di tre appartamenti per i propri figli [nota 27]. Anche qui mi sembra che si torni al punto da cui siamo mossi: se la costruzione del fabbricato si realizza dopo il trasferimento dell'area, l'impresa dovrebbe dotarsi di una contabilità e gestione differenziata, che tendano a separare il "ramo" dal resto dell'attività, compiendosi quindi la assimilazione all'ipotesi del patrimonio destinato, che abbiamo visto essere fattispecie soggettivamente inderogabile. Forse l'unico modo per raggiungere una soddisfacente realizzazione degli interessi potrebbe essere quello di trasferire il terreno all'imprenditore, già vincolato allo scopo dal disponente, allo stesso modo in cui si potrebbe trasferirgli un bene ipotecato. Se ammettiamo la meritevolezza di una simile destinazione, che ha ben poco di superindividuale, la cosa potrebbe funzionare, ma si può replicare che qui non si tratta di destinazione d'impresa in senso stretto, perché il vincolo è apposto dal disponente che non è un imprenditore, anche se l'operazione è funzionale alla successiva realizzazione dell'opera.

Per l'ultimo esempio è necessaria una brevissima premessa. Un fenomeno analogo a quello della destinazione che stiamo esaminando si verifica quando una società commerciale istituisce un fondazione per scopi direttamente non imprenditoriali utilizzando parte del suo patrimonio per la dotazione. Questo patrimonio, una volta che la fondazione abbia ottenuto la personalità giuridica, resta insensibile alle vicende creditorie della società fondatrice, attraverso un procedimento di "entificazione" dello scopo. [nota 28] Lo stesso potrebbe però ben accadere per mezzo di un negozio di destinazione: una società commerciale potrebbe decidere di destinare un insieme di immobili di sua proprietà ad abitazioni per i suoi operai ed impiegati, magari a margine di un accordo sindacale, seguendo lo schema dell'art. 2645-ter c.c.; istituire una fondazione potrebbe rivelarsi impresa eccessiva, per la necessità di dotarsi di organi amministrativi distinti, di trasferire il patrimonio ad altro soggetto per un tempo indeterminato, dei costi di gestione e del controllo che l'autorità esercita sull'amministrazione. Lo scopo è certamente meritevole di tutela, sia sotto il profilo del contenuto dell'utilità selezionata, sia sotto il profilo della adeguatezza dei mezzi per il fine. Si tratta di una ipotesi che fuoriesce completamente dalla previsione del patrimonio destinato di cui agli artt. 2447-bis e seguenti, perché il fine non è di impresa, individua un interesse che appartiene ad una classe [nota 29] diversa da quelle già tipizzate dalla legge, non è "soggettivamente tipico" [nota 30], cioè l'uso di questo strumento di destinazione non è consentito solo ad alcuni soggetti (come nei patrimoni destinati) , e quindi può ben trovare applicazione attraverso la stipula di un negozio ai sensi dell'art. 2645-ter c.c.

Per ipotesi del genere, sia pure residuali, si potrebbe recuperare l'operatività e l'efficacia della norma in commento anche per il mondo dell'impresa.

Interessi riferibili ad altri enti

Quando si parla di "altri enti" in riferimento alla norma dell'art. 2645-ter non si può fare a meno di pensare a quell'insieme di organizzazioni, pubbliche e private, che vengono comunemente oggi incluse nel c.d. "terzo settore" e che di recente ha incontrato sempre maggiore attenzione da parte del legislatore, soprattutto fiscale, nel tentativo di regolare settori di attività economica, anche assai rilevanti, che in passato erano costretti nella scarna disciplina del libro primo del codice civile.

Oggi la sempre maggior commistione di soggetti economici in relazione alle cause (lucrativa e non lucrativa) fa sì che non abbia più molto senso distinguere i soggetti in base a tale criterio, una volta strettamente condizionante, tanto che il legislatore della riforma societaria ha introdotto la possibilità di passare alternativamente dal modello causale lucrativo a quello non lucrativo, e viceversa, attraverso la trasformazione c.d. eterogenea, secondo un meccanismo che solo pochi anni fa avrebbe sollevato non poche perplessità dogmatiche [nota 31].

Né oggi è messa in discussione la possibilità per un ente c.d. no-profit di gestire un'attività di impresa, anche in forma organizzata: il vero discrimine non è quindi più quello strutturale, nel senso che non necessariamente ad un soggetto che svolge attività economica deve corrispondere un determinato modello causale.

Infatti sia le società, soprattutto da quando sono state disciplinate la c.d. "impresa sociale" [nota 32] e la società sportiva dilettantistica [nota 33], che le associazioni o le fondazioni possono svolgere sostanzialmente la stessa attività indirizzata a scopi non lucrativi. Il discrimine sta quindi, e soltanto, nella circostanza - da accertarsi in concreto - che al conseguimento di utili corrisponda o meno una loro distribuzione agli associati.

Fatta questa premessa, resta da verificare quale sia l'ordinario schema di responsabilità che i creditori si trovano a fronteggiare quando entrano in rapporto con un ente di questo tipo [nota 34]. Soccorrono in proposito le scarne norme del codice civile che connettono alla assunzione della personalità giuridica [nota 35], e quindi alla soggettivizzazione dell'ente, conseguenze rilevanti in ordine alla sua autonomia patrimoniale, mentre nelle associazioni non riconosciute il fondo comune, cioè il patrimonio dell'ente, risponde delle obbligazioni in solido con chi ha agito.

Se questo è lo schema di responsabilità, qualsiasi deviazione da esso si pone quale norma eccezionale e quindi va analizzata con questo criterio.

La disciplina dell'impresa sociale, con l'art. 6 primo comma del D.lgs. 155/2006, ha introdotto una nuova ipotesi di responsabilità limitata, cioè di autonomia patrimoniale perfetta. Non si possono però confondere i piani in cui opera questa normativa, destinata a regolare un aspetto nuovo dell'impresa con fini solidaristici, e la fattispecie disciplinata dall'art. 2645-ter c.c., perché la prima aggiunge alle regole proprie di ciascuna organizzazione il "beneficio" della responsabilità limitata in presenza di taluni requisiti, evidentemente con riguardo a quelle organizzazioni la cui struttura non preveda già la personalità giuridica, mentre l'art. 2645-ter disciplina solo l'ipotesi in cui un soggetto (il c.d. "conferente") proceda alla separazione dal suo patrimonio di un bene particolare per uno scopo. Insomma, nella fattispecie dell'impresa sociale non è riscontrabile alcun fenomeno di separazione patrimoniale in senso stretto, che è invece il dato caratterizzante della destinazione.

E' comunque certo che se, in via generale, come parte della dottrina [nota 36] ritiene, lo scopo è meritevole solo se è riconoscibile una spinta solidaristica o comunque superindividuale, il c.d. terzo settore sia l'ambito di elezione per questo tipo di negozi.

Anche qui il requisito della meritevolezza dovrà essere interpretato con il canone della adeguatezza dei mezzi al fine, ma certamente una fondazione potrà articolare una parte del proprio patrimonio per uno scopo che intenda perseguire anche attraverso il "valore aggiunto" della separazione patrimoniale. Gli esempi possono essere innumerevoli [nota 37], purché non si ricada nella destinazione di impresa cui è dedicata la prima parte di questa relazione.

In quest'ultimo caso, infatti, l'articolazione del patrimonio della persona (giuridica o meno che sia) per una attività di impresa, appare percorribile solo attraverso le forme tipizzate dal nostro ordinamento, che prevedono precisi schemi di responsabilità in relazione a specifiche obbligazioni a carico dell'imprenditore [nota 38]. Ne consegue che una associazione o una fondazione che esercitano attività imprenditoriale, risponderanno delle obbligazioni che sorgono da detta attività, necessariamente con tutto il loro patrimonio, alla stessa stregua dell'imprenditore individuale, non potendosi separare l'attività di impresa, al fine di conseguire un diverso grado di responsabilità nei confronti dei creditori, se non con la creazione di un soggetto differenziato, attraverso la costituzione di una società unipersonale, o anche di una separata organizzazione, e questo perché anche l'ente non commerciale che svolge attività di impresa è soggetto allo stesso statuto generale dell'imprenditore [nota 39].


[nota 1] P. SPADA, nel suo intervento a Firenze al Convegno sull'argomento tenutosi il 23 settembre 2006 (ancora inedito) parla di «destinazione come comportamento programmatico che seleziona le utilità d'uso di un bene in funzione di un determinato risultato» evidentemente mettendo in rilievo la funzione del negozio.

[nota 2] M. NUZZO, in «Atto di destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del Notaio» relazione al Convegno di Milano del 19 giugno 2006 su "Atti notarili di destinazione dei beni: articolo 2645-ter c.c.", attualmente disponibile su www.scuoladinotariatodellalombardia.it, sostiene incisivamente che l'art. 2645-ter contenga due regole, la prima volta a disciplinare una fattispecie primaria e produttiva di soli effetti obbligatori, la seconda riguardante l'opponibilità della separazione che consegue solo alla trascrizione e all'accertamento della meritevolezza degli interessi selezionati.

[nota 3] Predomina nella dottrina tradizionale la concezione oggettiva della causa. Secondo tale teoria la causa è la funzione economico sociale del negozio: l'ordinamento infatti riconosce un negozio come tale analizzando l'utilità che da esso deriva per la società. Tale riconoscimento è diretto ed esplicito nei contratti tipici, mentre è solo indiretto (perché attuato attraverso il giudizio di meritevolezza) in quelli atipici. In dottrina seguono questa concezione, tra gli altri, F. SANTORO PASSARELLI, in Dottrine generali del Diritto Civile, Napoli, 1989, p. 127-128; E. BETTI, in Teoria generale del negozio giuridico, Padova 1961, p. 184 e ss., C. MIRABELLI, in Dei contratti in generale, Comm. Cod. Civ. Torino, 1980, p. 159, MESSINEO, in Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm., a cura di Cicu Messineo, Milano, 1968, p. 111. In giurisprudenza Cass. n. 7844/1993, in Giur. it. 1995, I, p. 733, Cass. n. 12401/1992 in Foro it. 1993 I, p. 1506, Cass. n. 4921/1980 in Mass. giust. civ. 1980, p. 2083, Cass. n. 1346/1978 in Giur. it. 1978, I, 1, p. 2171. Seguono invece la teoria della causa in concreto, in dottrina F. GAZZONI, in Manuale di diritto privato, Esi, 2000, p. 788, C.M. BIANCA, in Il contratto, Milano, 2000, p. 452, G.B. FERRI, in Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico Milano 1966, p. 370, in giurisprudenza Cass. n. 10332/1998 in Guida al diritto, 1998, p. 78, Cass. n. 7266/1997 in Foro it., 1997, I, p. 3179, Cass. S.U. n. 68/1973 in Giust. civ., 1973, I, p. 603-609.

[nota 4] M. BIANCA, in «L'atto di destinazione: problemi applicativi» relazione al Convegno di Milano del 19 giugno 2006, cit., parla di tipicità di vincoli di destinazione in senso funzionale quando il legislatore individua a monte le finalità del vincolo (es. fondo patrimoniale) ed in senso soggettivo quando l'uso di alcuni strumenti di destinazione è consentito solo ad alcuni soggetti (es. patrimoni destinati, che possono essere utilizzati solo dalle SpA).

[nota 5] A quanto mi consta non esiste nel nostro ordinamento un'altra norma che richiami espressamente l'art. 1322 c.c. secondo comma. Secondo un orientamento consolidato in dottrina e in giurisprudenza, la meritevolezza dell'interesse coincide con i limiti dell'ordine pubblico, del buon costume e della liceità. Essa si identifica con la causa, intesa come funzione economico-sociale e non vale, quindi, come requisito ulteriore ai fini del riconoscimento della validità dell'atto posto in essere dai privati. (In questo senso MESSINEO, op. cit., p. 13, G. STOLFI, in Teoria del negozio giuridico, Padova 1947, p. 210, G.B. FERRI Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 403. In giurisprudenza vedi Cass. 2288/04, in Guida al diritto, 2004, p. 19, 54; Cass. n. 3142/1980, in Giust. civ. mass., 1980, V e Cass. n. 7832/98, in Studium iuris 1999, p. 80, n. 2288/04.

Altri obiettano che una tale ricostruzione privi l'art. 1322, 2° comma di qualsiasi contenuto, dal momento che i limiti di ordine pubblico, buon costume e liceità sono già posti dall'art. 1343. Si registra qualche pronuncia che accoglie una nozione di meritevolezza più ampia rispetto a quella di liceità della causa, nella quale confluiscono le esigenze del mercato e del traffico giuridico, della tutela dei soggetti in posizione debole, dell'utilità sociale del contratto (Cass. 6496/91 in Il fisco, 1991, 5007). In dottrina cfr. E. BETTI, op. cit. p. 193 e ss.; P. RESCIGNO, voce Contratto, in Enc. Giur. IX, Roma 1988, p. 18; F. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 173; M. BIANCA, op. cit., p. 432, opera un interessante collegamento con l'art. 41 Cost., e sostiene che la meritevolezza non può prescindere dalla scelta costituzionale, nel senso che l'iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale. Diffusamente sul concetto di meritevolezza come richiamato dall'art. 2645-ter cfr. F. GAZZONI, «Osservazioni sull'art. 2645-ter», in www.judicium.it

[nota 6] M. NUZZO, op. cit., ritiene che dalla norma risulti con chiarezza che qualunque scopo meritevole di tutela è perseguibile attraverso il nuovo meccanismo di destinazione, esprimendosi per la generale liceità dell'atto di destinazione disciplinato dall'art. 2645-ter c.c. V. SCADUTO, «Gli interessi meritevoli di tutela: "autonomia privata della opportunità" e "autonomia privata della solidarietà"», in questo volume, chiarisce con lucidità che la meritevolezza cui fa riferimento l'art. 2645-ter può definirsi come «adeguatezza dell'organizzazione della destinazione, in vista della realizzazione di un interesse lecito».

[nota 7] F. GAZZONI, op. cit, § 3, ne fa espressa menzione citando App. Milano 29 dicembre 1970, poi riformato da Cass. 2 luglio 1975 n. 2578.

[nota 8] Sul punto F. DI SABATO, Società in generale - Società di persone, in Trattato di Diritto Civile del Cnn, Napoli, 2004, p. 68, che ritiene che l'autonomia patrimoniale delle società di persone, che rende insensibile il patrimonio della società rispetto alle vicende patrimoniali dei singoli soci, si traduca in un vincolo di destinazione dei beni conferiti dai soci. Secondo M. NUZZO, op. cit., l'autonomia patrimoniale trova il suo fondamento nella struttura organizzativa dell'ente che dà una doppia garanzia, l'una connessa alla articolazione dei suoi organi, l'altra ai meccanismi di controllo amministrativo e giudiziario rispetto alle modalità di gestione ed all'effettività della destinazione

[nota 9] Per esempio se volessimo costituire in Italia una impresa individuale a responsabilità limitata, come ammesso in Portogallo, al di fuori dell'ipotesi tipica della società unipersonale, sicuramente il negozio sarebbe nullo per mancanza di causa.

[nota 10] Nel nostro ordinamento vige infatti il principio di tipicità delle società, sancito dall'art. 2249 c.c., secondo il quale le parti non possono costituire tipi di società diversi da quelli espressamente regolati dalla legge, neppure nell'esercizio del potere di autonomia privata (F. DI SABATO, in Manuale delle società, Torino 1987, p. 33; G.B. FERRI, Le società, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, vol. 10, tomo 3°, Torino, 1961, p. 70; F. GALGANO, in Diritto commerciale, Le società, Bologna, 1983, p. 1; G. ROMANO-PAVONI, in Teoria delle società, Tipi-Costituzione, Milano, 1953, p. 197. G. CAMPOBASSO, in Diritto commerciale 2, Torino 1999, p. 46). Secondo F. DI SABATO, op. cit., p. 35: « l'art. 2249 si pone quindi come un'eccezione al principio dell'autonomia contrattuale sancito nell'art. 1322, comma 2 » , eccezione che viene giustificata con la rilevanza che il contratto di società, a differenza degli altri contratti, ha verso i terzi, e con la conseguente necessità che ai terzi che instaurano rapporti giuridici con una società sia data la possibilità di conoscere a priori, mediante il semplice riferimento al tipo adottato, la struttura essenziale della società e la disciplina ad essa applicabile. Cfr. anche P. SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, p. 435 e ss. secondo il quale sotto il profilo organizzativo non vi potrebbero essere società atipiche in quanto ogni regolamento organizzativo predisposto dall'autonomia privata sarebbe compatibile con i modelli della società semplice e della società in nome collettivo. Nel senso invece dell'ammissibilità di società atipiche (tra cui sarebbero da inquadrare, secondo l'autore, anche quelle di fatto) vedi A. MORELLO, Le Società atipiche, Milano, 1983.

[nota 11] P. SPADA, op. cit., parla eloquentemente dell'art. 2645-ter come di una norma solo procedimentale.

[nota 12] Dove "nuova" va qui inteso sia quanto ad uno scopo sconosciuto alla tipizzazione normativa, sia quanto a scopi conosciuti, ma realizzati al di fuori del negozio tipico previsto dal legislatore per ipotesi determinate, ovvero, come afferma M. BIANCA, cit. supra nota 4, vincoli di destinazione sia in senso funzionale che soggettivo.

[nota 13] Secondo M. NUZZO, op. cit., l'intera produzione normativa che ha previsto una moltiplicazione di patrimoni separati è solo formalmente rispettosa del principio dell'art. 2740 c.c., che risulta fortemente depotenziato. Si esprime espressamente sulla non inderogabilità del principio della unicità del patrimonio, in tema di trust, Trib. Bologna 30 settembre 2003, in Trust e attività fiduciarie, 2004, p. 67. Dall'analisi di queste sempre più frequenti deroghe al concetto di universalità si può desumere, secondo quella che è la ricostruzione di M. BIANCA, in Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, una vera e propria tendenza legislativa alla parcellizzazione dei patrimoni in relazione alla destinazione degli stessi ad uno scopo ben preciso. Sul punto, diffusamente, E. ROPPO, in La responsabilità patrimoniale del debitore, in Tratt. di Dir. Priv., XIX/1, Torino 1997, p. 509, e V.M. TRIMARCHI, [nozione] Patrimoni,o in Enc. Dir., XXXII [Milano 1982], § 2, p. 272 e ss. Sulla par condicio creditorum, la cui effettività a stregua dei nuovi orientamenti normativi è stata criticamente valutata cfr. P. SCHLESINGER, in L'eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano 1995, p. 919-931.

[nota 14] La riforma societaria del D.lgs. n. 6 del 2003, con l'introduzione dell'art. 2447-bis c.c., ha apportato un'importante innovazione, consentendo alle SpA di destinare una parte dei beni sociali alla realizzazione di uno specifico affare, isolando e separando quei beni, agli effetti della responsabilità patrimoniale della società, dal resto dei beni sociali. Data la potenziale ampiezza della novità (è possibile creare patrimoni separati non solo per realizzare operazioni economiche tipizzate da singole disposizioni normative ma in generale per qualunque affare rientrante nell'oggetto sociale) in dottrina si è sottolineato l'affermarsi di una forte tendenza verso la specializzazione della responsabilità patrimoniale (C. GRANELLI, in «La responsabilità patrimoniale del debitore fra disciplina codicistica e riforma in itinere del diritto societario», Riv. dir. civ., 2002, p. 513; A. ZOPPINI, «Autonomia e separazione del patrimonio, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni», in Riv. dir. civ., 2002, p. 545. Sulla natura giuridica dei patrimoni destinati cfr. P. FERRO-LUZZI, in «La disciplina dei patrimoni separati», in Riv. soc., 2002, p. 121, ID., «I patrimoni dedicati e i gruppi nella riforma della SpA», Riv. not., 2002, p. 271; F. DI SABATO, «Sui patrimoni dedicati nella riforma societaria», in Società, 2002, 6, p. 665 e ss.; F. FIMMANò, «Il regime dei patrimoni dedicati di SpA», in Società, 2002, 8, p. 962; G. FAUCEGLIA, «I patrimoni destinati ad uno specifico affare», in Fallimento, 2003, p. 810; L. BECCHETTI, «Patrimoni e finanziamenti destinati: profili problematici», in Italia oggi-Nuovo diritto societario, 30 giugno 2003; ID., «Riforma del diritto societario. Patrimoni separati, dedicati e vincolati», in Riv. not., 2003, p. 49.

[nota 15] M. NUZZO, op. cit., considera in proposito che la classe di interessi che già sarebbero presi in considerazione dalle varie norme istitutive di patrimoni separati, farebbe sì che il negozio di destinazione che perseguisse la stessa classe di interessi giustificherebbe di per se' un giudizio positivo di meritevolezza, giungendo così ad una sorta di tipizzazione degli interessi meritevoli di tutela, tuttavia, sempre secondo l'autore, non assoluta, ma aperta a nuovi ingressi.

[nota 16] La dottrina ha ritenuto che non esista alcuna preclusione a che i patrimoni destinati possano essere costituiti anche nell'ambito delle società in accomandita per azioni (E. GIANNELLI, Sub art. 2447-bis, Società di Capitali, in Commentario a cura di G. Piccolini e A. Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004, p. 1223).

[nota 17] A questo proposito - per chi fa propria questa conclusione - potrebbe ravvisarsi una progressiva assimilazione fra i compiti del Notaio e del giudice italiano, e quello del giudice di common law, il quale chiamato a decidere su una fattispecie concreta in base ad un bagaglio di precedenti apparentemente identici, per discostarsi dal precedente vincolante (in qualche modo paragonabile al nostro precetto legislativo) deve necessariamente poggiare la sua diversa decisione su una difforme valutazione della fattispecie. Lo stesso procedimento logico, secondo questa impostazione, dovrebbero seguire il Notaio ed il giudice, davanti ad un negozio di destinazione atipico: se la classe di interessi è già tipizzata, valutare se la fattispecie è diversa da quella legale e, facendosi forza di questa diversità, affermarne la liceità. Questo approccio, se forse potrebbe essere astrattamente condivisibile in tutte quelle ipotesi di destinazioni iscrivibili nel più vasto ambito della «autonomia della solidarietà» (per questa definizione cfr. P. SPADA, op. cit.), è, come vedremo, assolutamente non praticabile quanto alle destinazioni di impresa.

[nota 18] Secondo G. COMPORTI, Sub artt. 2447-novies, in La Riforma delle Società, a cura di Sandulli e Santoro, artt. 2423-2461, 2, Torino, 2003, l'insolvenza del patrimonio destinato non può mai determinare il fallimento dello stesso patrimonio, posto che esso non può configurarsi come soggetto-imprenditore. In senso contrario si è detto che il patrimonio destinato potrebbe fallire in caso di insolvenza non essendo la sua natura di ostacolo all'apertura di una procedura fallimentare nei riguardi della sola massa patrimoniale separata (M. LAMANDINI, «I patrimoni "destinati" nell'esperienza societaria. Prime note sul D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6», in Riv. soc., 2003, p. 502). In senso conforme anche E. GIANNELLI, op. cit., p. 1271, che ritiene che in tal modo i creditori del patrimonio potrebbero così avvalersi del principio della par condicio e dell'istituto della revocatoria fallimentare, altrimenti loro preclusa.

[nota 19] E' presente in dottrina il dibattito sulla nozione di affare. Secondo E. GIANNELLI, op. cit., p. 1220, il termine affare riguarderebbe una singola operazione e non potrebbe identificarsi con un ramo di attività della società. Per una interpretazione estesa alla nozione di parte specifica dell'attività della società, che quindi possa consistere anche in un ramo di attività della società si pronuncia la dottrina prevalente, con l'avvertenza però che l'affare non può coincidere con l'unica attività oggetto della società (A. SANTOSUOSSO, La riforma del diritto societario – Autonomia privata e norme imperative dei D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 e 6, Milano, 2003, p. 182; nonché R. LENZI, «I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell'affare», in Riv. not., 2003, 3, p. 554).

[nota 20] La giurisprudenza (Cass. n. 8368 del 2000) ha ritenuto che l'efficacia costitutiva della iscrizione nel registro delle imprese non costituisce ostacolo per ammettere la simulazione di un atto costitutivo di società di capitali. Inoltre, secondo Cass. 8939 del 1987 qualora la società dopo la sua costituzione, non abbia esercitato una attività di impresa, ma si sia limitata ad acquistare un immobile per concederlo in affitto, il contratto sociale sarebbe simulato e dissimulerebbe una reale situazione di comproprietà. Ritiene poi G. MARASA' in Le società, I, Società in generale, 2° ed. Milano, 2000, p. 209, che nelle comunioni mascherate in veste di società l'accertamento della nullità non implicherebbe lo scioglimento della società con liquidazione del patrimonio, ma determinerebbe l'applicazione delle norme sulla comunione.

[nota 21] Sia in caso di patrimoni destinati che di scissione è infatti prevista l'opposizione dei creditori ai sensi degli artt. 2447-quater e 2506-ter c.c., mentre la tutela dei creditori in ipotesi di destinazione patrimoniale mediante costituzione di società unipersonale da parte dell'imprenditore è lasciata alla ordinaria disciplina della revocatoria.

[nota 22] Nel mondo bancario sono emerse notevoli preoccupazioni in seguito all'entrata in vigore della norma, come anche espresse da C. FRATTA PASINI, Presidente dell'Associazione Nazionale delle Banche Popolari, in «Il nuovo art. 2645-ter del codice civile (le preoccupazioni del mondo bancario)», in questo volume, il quale si spinge a prevedere che le banche potrebbero chiedere ai clienti una puntuale informativa sulla loro volontà di vincolare beni con negozi di destinazione, sanzionando l'inadempienza con la revoca degli affidamenti, e mette altresì in risalto i possibili problemi che potrebbero nascere dall'ipoteca che andasse a gravare beni vincolati, che potrebbe garantire solo debiti contratti per lo scopo.

[nota 23] Secondo M. BIANCA, M. D'ERRICO, A. DE DONATO, C. PRIORE, L'atto notarile di destinazione, Milano, 2006, p. 34, «l'unico limite che la norma sembra evidenziare è riconducibile alla possibilità di destinare solo beni per i quali possa essere reso noto il vincolo destinatario, onde garantire i terzi ed i creditori». Ne consegue, sempre per gli stessi Autori che «la disciplina del trasferimento della partecipazione nella "nuova" società a responsabilità limitata e la funzione di regola di conflitto tra più acquirenti svolta dal terzo comma dell'art. 2470 c.c., con la scelta di affidare al Registro delle Imprese un ruolo similare a quello della pubblicità immobiliare, consentono di optare per la destinabilità delle quote sociali nell'ambito procedimentale della nuova norma». In senso conforme G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 178 e ss. Non mi sentirei di concordare con questa tesi, pur così autorevolmente espressa, in primo luogo perché esigenze di prudenza in questa materia dovrebbero far propendere per l'opponibilità del vincolo alle sole ipotesi letteralmente disciplinate dell'art. 2645-ter (quindi beni mobili o mobili registrati), in secondo luogo perché l'art. 2470 terzo comma c.c. limita il suo ambito applicativo solo al conflitto fra più aventi causa dallo stesso autore, senza nulla dire – come invece l'art. 2645-ter c.c. – sugli effetti del pignoramento in relazione al principio posto dall'art. 2915 c.c.

Infatti, è stato osservato, all'indomani della pubblicazione della riforma societaria (cfr. M. MALTONI, La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2003, p. 184 e ss. ed in particolare p. 194) come «oggi nulla sia cambiato: l'introduzione della norma del terzo comma dell'art. 2470 c.c. non vale di per sè a scalfire i principi e le regole, immodificate, proprie della pubblicità commerciale, quali risultanti dagli artt. 2188 c.c. e ss. … l'art. 2470 c.c. si limita ad assegnare al fatto dell'iscrizione il valore di co-elemento tramite il quale si stabilisce la prevalenza fra più acquirenti da un medesimo dante causa … [con] piena assimilazione della fattispecie prospettata nell'art. 2740 c.c. alle altre ipotesi di acquisto a non domino di beni mobili», dove l'iscrizione dell'atto di cessione sostituisce la «situazione estrinseca rilevante nell'ambiente sociale» che per i beni mobili non registrati è data dal possesso.

Ne consegue che le quote sociali, sia pure in un contesto dominato da norme che sembrano assimilarle ai beni mobili registrati, restano beni mobili per ciò che riguarda le regole della loro trasmissione, non essendo rinvenibile, come per gli immobili o i mobili registrati, per i quali oltretutto il requisito della buona fede non trova alcun riscontro, neppure un principio di continuità delle iscrizioni.

E' stato inoltre osservato (ancora M. MALTONI, op. cit.) che il pignoramento di quote sociali, come disciplinato dall'art. 2471 c.c., si realizza con duplice modalità, ognuna delle quali assolve ad un diverso compito: la notifica e l'iscrizione a libro soci «ad elemento di interferenza sul piano dell'organizzazione societaria» rivolte quindi all'organo amministrativo perché non proceda a successive annotazioni di trasferimenti di partecipazioni per non legittimare soggetti diversi dal pignorato all'esercizio dei diritti sociali, mentre l'iscrizione del pignoramento nel Registro delle Imprese ha la funzione di attribuire rilievo alla vicenda della cessione sul piano dei rapporti con i terzi. In definitiva l'iscrizione del pignoramento conseguirebbe l'effetto di non potere più considerare in buona fede chiunque acquisti la quota in momento successivo, facendo quindi venire meno tale requisito, espressamente considerato dall'art. 2913 c.c. Quindi, sempre per la stessa dottrina, le quote di Srl non sono considerabili come beni mobili registrati (con quanto ne conseguirebbe - in caso contrario - circa la loro assimilazione ai beni immobili in questa materia, e quindi anche l'estensione analogica della disciplina di cui all'art. 2645-ter c.c.) e ad esse deve ritenersi applicabile la regola dell'art. 2914, n. 4 c.c. che prevede l'opponibilità al creditore pignorante di un atto di trasferimento se sia stato trasferito il possesso, dove il trasferimento del possesso – appunto quale elemento di estrinseca rilevanza – viene sostituito dalla iscrizione dell'atto di cessione nel Registro delle Imprese.

Non hanno quindi effetto nei confronti del creditore pignorante le alienazioni delle partecipazioni che non siano state iscritte nel Registro delle Imprese, salvo che risultino avere data certa. Considerato che l'art. 2470 prevede per la cessione di quote per lo meno la scrittura privata autenticata (quindi di data certa), ne consegue che l'acquirente prevarrà sul creditore pignorante che non abbia ancora effettuato la pubblicità nel Registro delle Imprese, senza che per questo, però, possa attribuirsi alla iscrizione del pignoramento la stessa efficacia costitutiva della pubblicità immobiliare. Insomma, mi sembra che assimilare gli effetti dell'art. 2645-ter c.c., che si riconnettono all'operatività del principio di cui all'art. 2644 c.c., a quelli degli artt. 2470 e 2471 c.c., la cui funzione, come abbiamo visto, si discosta notevolmente dalla disciplina in materia di beni immobili e mobili registrati, può dar luogo a più di una perplessità in punto di sicura opponibilità, che è certa solo per immobili e mobili registrati.

Questo non vuol dire che non siano stipulabili validi negozi di destinazione che coinvolgano beni diversi, ed eventualmente anche quote sociali, ma solo che essi non saranno opponibili ai creditori del disponente, per il semplice motivo che non esiste una norma che lo preveda, il che ne sancirebbe probabilmente l'inutilità.

[nota 24] M. BIANCA, M. D'ERRICO, A. DE DONATO, C. PRIORE, op. cit, p. 18, sembrano invece concludere in senso opposto poiché inseriscono l'attività di impresa, citando espressamente l'art. 2447-bis, fra quelle classi di interessi in cui il giudizio di meritevolezza sarebbe stato già fatto positivamente dal legislatore, con questo implicitamente ammettendo che un'impresa possa destinare parte del proprio patrimonio al di fuori delle regole dell'art. 2447-bis c.c. Gli Autori proseguono poi citando l'impresa sociale ed i campi di attività in cui tale impresa può operare, come ampliamento delle ipotesi di sicura destinazione negoziale. Ciò è sicuramente condivisibile se ci si arresti solo a considerare l'accettabilità sociale di una tale destinazione, cioè si guardi all'impresa sociale come "catalogo" per lo scrutinio dell'interesse (come suggerito da P. SPADA, op. cit.), senza però trarne conclusioni circa la possibilità di farne oggetto di qualsiasi negozio di destinazione da parte di qualsiasi soggetto, andando così a sconvolgere la tipicità in senso soggettivo dei vincoli di destinazione, così come definiti dalla stessa M. BIANCA (cit. supra, nota 4).

[nota 25] Per il trust della Convenzione dell'Aja (cioè quello i cui effetti sono riconosciuti in Italia) questione è diversa perché ordinariamente la c.d. separazione dal patrimonio del disponente è conseguente ad un atto di trasferimento, essendo infatti da molti messo in dubbio che il c.d. trust autodichiarato, pur praticatissimo negli ordinamenti anglosassoni, possa stare sotto l'ombrello protettivo della Convenzione. Il problema finisce per essere quindi più quello della separazione dal patrimonio del trustee. Soccorre a questo proposito la legge applicabile, regolante la fattispecie per espresso richiamo della norma convenzionale, secondo la quale, a prescindere dalla natura dei beni in trust, il patrimonio in trust deve intendersi separato da quello del trustee. Vi possono essere anche per il trust rilevanti problemi di pubblicità del vincolo, soprattutto in un paese come il nostro che non la prevede espressamente, ma direi che mentre per il trust (non autodichiarato) il problema della opponibilità ai creditori del disponente del vincolo, si pone nello stesso modo risolto dal nostro ordinamento per i negozi dispositivi, quello della opponibilità ai creditori del trustee è solo un problema di conoscenza dell'esistenza del trust da parte dei terzi, quindi di pubblicità notizia, la cui eventuale mancanza può essere sostituita dalla prova della effettiva conoscenza. Questo perché, come ho avuto modo di rilevare in altro luogo (F. STEIDL, «Trascrizione di atti attributivi di beni immobili al trustee – I», in Trust e attività fiduciarie, 2002, 3, p. 351) per i terzi creditori del trustee che entrano in contatto con un bene, di qualsiasi tipo, la semplice conoscenza che trattasi di bene in trust, fa scattare la disciplina legale (della legge straniera applicabile) che fa sì che il bene debba essere considerato "segregato" all'interno del suo patrimonio, senza alcun riguardo per lo scopo. In sostanza, l'evidenziazione dell'esistenza del trust ai sensi dell'art. 12 della Convenzione de L'Aja non genera opponibilità dello scopo, che resta completamente rimessa alla dinamica delle obbligazioni assunte dal trustee ed alla sua responsabilità nei confronti dei beneficiari, ma solo e soltanto separazione di patrimoni, e tanto basta per il riconoscimento di tale effetto del trust nel nostro ordinamento.

La prospettiva del 2645-ter c.c. mi sembra invece diversa, dal momento che lo scopo della destinazione assurge ad elemento fondante dello sbarramento che preclude ai creditori generici di soddisfarsi sui beni del disponente. Quindi il creditore del disponente, dal momento che i beni destinati possono essere oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo, deve potere conoscere il contenuto del vincolo che gli viene opposto, attraverso una pubblicità che tenga conto e descriva il contenuto del vincolo. Peraltro anche dalla recente circolare dell'Agenzia del Territorio n. 5/2006 emergono chiaramente le difficoltà di modellare l'esecuzione della formalità (che ne dovrebbe essere appunto il fulcro) al fine di rendere opponibile lo scopo ai creditori del disponente. La circolare è disponibile in M. BIANCA, M. D'ERRICO, A. DE DONATO, C. PRIORE, op. cit, p. 97.

[nota 26] I primi cinque esempi sono scaturiti dalla discussione durante i lavori della Commissione "Vincoli di destinazione" istituita dal Cnn in preparazione dei convegni di Rimini e Catania e dai suggerimenti dei suoi componenti.

[nota 27] Chi ritiene che l'art. 2645-ter sia dettato solo in ambito di "autonomia della solidarietà" potrebbe non giudicare valido un atto in cui l'unico vantaggio sia quello del disponente o di un suo familiare.

[nota 28] M. NUZZO, op. cit, rileva che dopo l'entrata in vigore del D.P.R. 361/2000 che ha introdotto la nuova disciplina del riconoscimento delle persone giuridiche private, queste possano acquisire la personalità giuridica previo accertamento che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo stesso, con abbandono dell'impostazione secondo la quale la limitazione della responsabilità era giustificata solo dall'interesse pubblico.

[nota 29] La definizione è di M. NUZZO, op. cit.

[nota 30] La definizione è di M. BIANCA, in «L'atto di destinazione: problemi applicativi» relazione al Convegno di Milano del 19 giugno 2006, cit.

[nota 31] L'unico limite posto dalle norme in materia di trasformazione eterogenea appare essere quello che impedisce alla associazione che abbia ricevuto contributi pubblici o liberalità dal pubblico di trasformarsi in società di capitali.

[nota 32] Con il D.lgs. 24 marzo 2006 n. 155 in attuazione della legge 13 giugno 2005 n. 118. Va notato, a tal proposito, che la nuova impresa sociale ha introdotto una nuova ipotesi si responsabilità limitata, differenziata da quelle già conosciute: infatti l'art. 6 primo comma dispone che «salvo quanto già disposto in tema di responsabilità limitata per le diverse forme giuridiche previste dal libro V del codice civile, nelle organizzazioni che esercitano un'impresa sociale il cui patrimonio è superiore a ventimila euro, dal momento della iscrizione nella apposita sezione del Registro delle Imprese, delle obbligazioni assunte risponde soltanto l'organizzazione con il suo patrimonio». Questo significa che l'organizzazione i cui requisiti corrispondano a quelli stabiliti dalla legge speciale, e che venga iscritta in apposita sezione del Registro delle Imprese, acquista quella autonomia patrimoniale perfetta, che altrimenti è riservata solo alle persone giuridiche.

[nota 33] Introdotte con la legge 27 dicembre 2002, n. 289 e poi modificate dall'art. 4, commi 6-bis, 6-ter e 6-quater, aggiunti durante l'iter di conversione del decreto-legge 22 marzo 2004, n. 72, approvato definitivamente dalla legge 21 maggio 2004, n. 128.

[nota 34] Parla di autonomia patrimoniale perfetta V.M. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2003, p. 69 quale insensibilità del patrimonio del singolo partecipante ai debiti dell'ente e insensibilità del patrimonio dell'ente ai debiti del singolo partecipante.

[nota 35] Per una puntuale rassegna dei modi di acquisto della personalità giuridica cfr. F. GAZZONI, in Manuale di diritto privato, cit., p. 147 e ss.

[nota 36] F. GAZZONI, «Osservazioni sull'art. 2645-ter», cit., , parla di interesse superindividuale e socialmente utile, P. SPADA, nella relazione cit., di «autonomia della solidarietà».

[nota 37] Come la destinazione di un immobile a casa per disabili o anziani o a centro di recupero per tossicodipendenti, a luogo di culto, a sede permanente di esposizioni, ecc.

[nota 38] Se l'organizzazione che gestisca un'impresa sociale voglia godere del beneficio della responsabilità limitata dovrà, oltre che prevedere statutariamente alcuni requisiti, sottoporsi ad una pubblicità che inizia dalla denominazione cui deve essere aggiunta la qualifica di impresa sociale, fino all'apposita iscrizione in sezione speciale del Registro delle Imprese, in mancanza della quale non scatta il beneficio. Ma va rimarcato che la responsabilità limitata è relativa al patrimonio dell'ente nel suo complesso, che risponderà comunque di tutte le obbligazioni derivanti dall'attività dell'impresa sociale, senza che tale attività possa essere "articolata" e differenziata da quella dell'ente che la svolge. Anche in questo campo si vede come eventuali destinazioni ex art. 2645-ter c.c., ben potendo riguardare beni determinati dell'ente non potranno avere ad oggetto una attività imprenditoriale.

[nota 39] Cfr. G. BARALIS, , «Enti non profit: profili civilistici», in Riv. not. 1999, I, p. 1091 e ss.

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