Profili evolutivi della fondazione nella moderna prassi e nella legislazione speciale
Profili evolutivi della fondazione nella moderna prassi e nella legislazione speciale
di Andrea Zoppini
Ordinario di diritto privato comparato, Università di Roma Tre
Con il sintagma fondazione di partecipazione si vuole indicare, secondo un'espressione proposta da Enrico Bellezza che si è ormai consolidata nell'uso, l'assunzione di una struttura corporativa da parte di un ente fondazionale.
Il tema costituisce un banco di prova di molte delle teorie e delle prassi operative che si sono sviluppate sul terreno della fondazione di diritto privato.
Quanto alle prassi operative, la fondazione di partecipazione conferma che è ormai definitivamente venuto meno il modello socio-economico che il legislatore storico ha visualizzato come antecedente ipotetico generale dell'istituto, che era la fondazione di mera erogazione istituita nella forma del lascito testamentario.
Quanto, invece, alla ricostruzione teorica, il tema della fondazione di partecipazione sottende rilevanti quesiti in ordine all'autonomia statutaria che in questo istituto può legittimamente ammettersi; e poi ha indubbia rilevanza quanto alle conseguenze in punto di disciplina applicabile.
Una volta, infatti, ammessa la legittimità della scelta statutaria, si deve verificare in che misura sia possibile fare appello alla disciplina degli enti associativi e/o corporativi al fine di risolvere problemi inerenti all'organizzazione della fondazione: si pensi, ad esempio, all'esclusione dalla fondazione di un componente dell'organo di indirizzo, ponendosi il problema dell'applicazione dell'art. 24 c.c., al problema della impugnazione delle deliberazioni consiliari o assembleari, ovvero alla adozione di sistemi di amministrazione esemplati sul modello dualistico o monistico.
Vi sono, rispetto a questi, altri due problemi che rimangono sullo sfondo delle presenti riflessioni:
a) se abbiano spazio nel nostro sistema enti associativi "atipici", destinati a rientrare nella categoria delle «altre istituzioni di carattere privato» (art. 12 c.c.). Va detto che quello delle altre istituzioni rappresenta un comodo espediente logico-argomentativo per risolvere problemi di sistemazione concettuale della materia delle persone giuridiche di diritto privato, ma come tale non costituisce un rimedio logico o dogmatico che consenta d'identificare con certezza la disciplina da applicarsi [nega in modo reciso la configurabilità e l'utilità pratica della categoria RESCIGNO, voce Fondazione (diritto civile), in Enc. del dir., XVII, Milano, 1968, p. 790-792; nello stesso senso ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, p. 98 e ss.; cfr. in senso contrario GALGANO, Delle persone giuridiche, in Commentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1969, nota 13, p. 124; PREITE, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, Milano, 1988, p. 372 e ss.]. In ogni caso, la tesi in ordine alla quale per l'ente che chiede il riconoscimento non sarebbe necessario conformare la propria struttura ai modelli dell'associazione e della fondazione è smentita dalla prassi amministrativa che invece espressamente richiede che l'ente definisca la propria natura di fondazione o di associazione [Cons. St., Sez. I, 30 maggio 1961, n. 874, in Cons. St., 1962, I, p. 638 e ss.].
b) Se e in che misura possa determinarsi una forma di «abuso della forma giuridica», tutte le volte che il distacco del concreto atteggiarsi dell'ente rispetto al referente generale dell'istituto si riverbera sulla configurazione della fattispecie, sino a smentirne i tratti essenziali.
Per impostare correttamente l'analisi, è necessario, a mio parere, risalire agli interrogativi di fondo che in questa materia si pongono, che sono quelli inerenti all'individuazione della fattispecie e della nozione che della fondazione il sistema positivamente accoglie.
A questa domanda è opportuno dare risposta avendo, prima di tutto, il senso dell'evoluzione storica dell'istituto, che si è sviluppato in una zona 'grigia' del sistema tra il diritto privato e quello amministrativo.
Storicamente, infatti, la fondazione è stata costruita sulla pubblica utilità dello scopo e sull'idea della natura solo geneticamente privatistica dell'istituto, che al momento del riconoscimento era destinato ad assumere una connotazione pubblicistica. Ne sono prova l'idea della assoluta immodificabilità dello statuto e così i poteri conformativi dell'ente riconosciuti dalla pubblica amministrazione.
Questo modello culturale e normativo si è progressivamente stemperato e poi è stato radicalmente sovvertito.
Dagli anni sessanta del Novecento si è ammesso il fatto che una fondazione potesse esercitare attività d'impresa, e ciò grazie alla dimostrazione proposta dai seminali saggi di Pietro Rescigno e di Renzo Costi. Già dagli anni settanta si è avvertita e documentata la discrasia tra la prassi e il modello dogmatico tradizionale, che ha imposto l'ormai raggiunta consapevolezza della "metamorfosi" dell'istituto. Il fenomeno si lega strettamente all'assunzione della fondazione alle logiche della produzione, in particolare nei casi in cui l'ente diviene uno dei (possibili) strumenti dell'iniziativa economica e/o della legittimazione sociale dell'impresa.
Infine, negli anni ottanta si è in radice ripensato il rapporto tra l'efficienza economica e l'attività non lucrativa, ammettendosi che anche tali attività concorrono a formare il benessere collettivo.
Una fase della privatizzazione della fondazione, in questa logica, si è chiusa con la riforma del sistema di attribuzione della personalità giuridica, realizzatasi con il D.P.R. 361/00, che ha indubbiamente liberalizzato l'accesso alla personalità giuridica e alla responsabilità limitata.
Quanto si è appena considerato costituisce la logica premessa del fatto che le norme del codice non propongono una definizione della fondazione ovvero dell'associazione, né individuano gli elementi strutturali delle rispettive fattispecie, che devono essere pertanto desunte in coerenza con la disciplina codicistica [v. ZOPPINI, Le fondazioni… cit., p. 72 e ss.].
In questa prospettiva, si deve considerare che:
a) non rileva la qualificazione giuridica della fattispecie qual è operata dai soggetti che la hanno posta in essere: quindi, per quanto significative, non possono trarsi conclusioni definitive dal nomen iuris speso per identificare la natura della persona giuridica, né i suoi organi (assemblea, organo di indirizzo);
b) anche il criterio tradizionalmente professato in ordine alla prevalenza dell'elemento personale ovvero di quello patrimoniale, utilizzato al fine di distinguere l'associazione dalla fondazione, appare scarsamente significativo, in quanto incapace di identificare la fattispecie se non in maniera descrittiva e avendo riguardo a talune caratteristiche morfologiche ricorrenti. La giurisprudenza pratica così come la dottrina hanno da tempo registrato associazioni che amministrano fiduciariamente un patrimonio [cfr. ad es. MOSCATI, Associazioni e fondazioni: finalità fiduciarie e loro rilevanza, in AA.VV., Fiducia, Trust, Mandato ed Agency, Milano, 1991, p. 221 e ss.], così come fondazioni a struttura associativa [VITTORIA, «Le fondazioni culturali e il consiglio di amministrazione», in Riv. Dir. Comm., 1975, I, p. 316 e ss.; più di recente IORIO, Le fondazioni, Milano, 1997, p. 212 e ss.].
Ciò che appare decisivo è, invece, il modo in cui nell'atto costitutivo e nello statuto, in quanto regole di espressione dell'autonomia organizzativa e statutaria dei fondatori dell'ente, l'attività è concretamente programmata e si realizza.
In questa prospettiva, autenticamente caratteristico dell'associazione, e distintivo dalla fondazione, è il potere - organizzato in conformità alla regola democratica - di influire, determinare ed eventualmente modificare lo scopo sociale.
Viceversa, nella fondazione:
i) l'autonomia del fondatore si estingue per effetto del riconoscimento o con l'inizio dell'attività dell'ente (art. 15 c.c.) [cfr. Trib. Roma 15 settembre 1987, in Foro It., 1989, I, c. 907 e ss.], quindi ogni potere specifico attribuito agli organi deve essere statutariamente previsto;
ii) lo scopo definisce l'area della doverosità che connota inderogabilmente l'agire dell'organo amministrativo [al punto di non poter disporre l'estinzione dell'ente, come constata M.V. DE GIORGI, «A proposito di fondazioni (novelle attitudini di un antico istituto)», in Ann. Univ. Ferrara - Sc. Giur., Nuova Serie, X (1996), p. 33-39];
iii) è assente un organo di indirizzo propriamente detto [non esiste infatti «alcun organo in cui si esprimano i titolari dell'interesse», così FERRO-LUZZI, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge e all'atto costitutivo, Milano, 1993, nota 181, p. 191].
In questo senso può parlarsi di destinazione di un patrimonio allo scopo: con ciò non vuole intendersi solo che il patrimonio è conferito per conseguire lo scopo enunciato nelle tavole della fondazione, quanto che l'attività, che con quel patrimonio si esercita, deve necessariamente e inderogabilmente essere orientata a realizzare lo scopo senza che sia possibile modificarne la destinazione [v. ZOPPINI, Le fondazioni… cit., p. 72 e ss., p. 98 e ss., ove ulteriori riferimenti].
Se si accolgono queste premesse, mi pare evidente che il potere di conformare l'ente (Gestaltungsfreiheit) riconosciuto al fondatore è tutt'altro che esiguo, ove si ponga mente alla libertà di determinare, oltre allo scopo, la struttura dell'ente e le modalità dell'attività.
è in primo luogo possibile apporre elementi accidentali al negozio di fondazione, al fine di condizionare l'efficacia dell'atto costitutivo al verificarsi di determinati eventi capaci di vulnerare l'interesse programmato (quale ad esempio l'alterazione in fase di riconoscimento dello schema previsto dal fondatore); ovvero ricollegare un effetto risolutivo al verificarsi di un determinato evento. In quest'ultimo caso, tuttavia, non si avrà l'automatica 'retrocessione' dei beni al fondatore, ma il provvedimento estintivo è mediato dall'atto amministrativo (artt. 27, 30, 31 c.c.), cui segue la liquidazione e la devoluzione dei beni secondo le previsioni statutarie.
Compatibile con la fattispecie appare, altresì, che lo stesso fondatore o gli stessi beneficiarî amministrino direttamente l'ente e/o si riservino la facoltà di nominare degli amministratori. Così come, prendendo spunto dalla fondazione previdenziale, lo statuto può rinviare ad un regolamento posto in essere tra i fondatori e/o tra i beneficiarî che disciplina le modalità di partecipazione al conferimento ovvero specifica i diritti dei soggetti beneficiarî.
Criteri generali alla stregua dei quali dovrà vagliarsi la validità di tali previsioni sono, oltre alla presenza nell'atto costitutivo, la specifica determinatezza e la compatibilità con lo scopo.
In contrasto con lo Stiftungsbegriff sono, invece, tutte quelle disposizioni che riconoscono una posizione di discrezionalità del fondatore tali da revocare in dubbio la definitività dell'istituzione e l'autonomia dell'ente. Sono, pertanto, incompatibili con la fattispecie le previsioni statutarie che condizionano la perfezione dell'iter deliberativo all'adesione del fondatore, come anche il caso in cui il fondatore si riservi il ruolo di interprete dello statuto. Analogamente, se può ammettersi che il fondatore riservi a se stesso attraverso specifiche disposizioni statutarie - che dovranno essere giuridicamente configurate come disposizioni modali della dotazione patrimoniale - diritti di natura reale o obbligatoria, è invece inammissibile che il fondatore riservi a se stesso (o ad una persona identificata) il diritto a disporre del patrimonio e/o dei risultati da esso provenienti. Previsioni, queste, che segnerebbero irrimediabilmente il sacrificio dell'autonomia dell'ente, degradato a patrimonio autonomo sottratto all'azione esecutiva dei creditori del beneficiario.
Un'ulteriore precisazione appare necessaria: la fondazione non può trovare in se stessa il proprio fine. Ciò significa che l'eterodestinazione del risultato pertiene non (solo) al momento strutturale/conformativo, ma descrive l'identificazione causale della fattispecie. Conseguentemente non può ravvisarsi tale connotato funzionale nell'ente che esaurisca la propria attività nell'amministrazione di un patrimonio; egualmente nell'ipotesi in cui l'ente assolva al (l'unico) cómpito di fungere da presupposto d'imputazione di una determinata situazione soggettiva. Se infatti può dubitarsi dell'ammissibilità d'una fondazione istituita al solo fine dell'amministrazione d'un'impresa, ciò è, invece, ammissibile tutte le volte che l'impresa è il mezzo attraverso cui conseguire dei risultati che la trascendono.
Se, quindi, si analizza il problema della fondazione di partecipazione con riguardo al profilo della struttura organizzativa, il codice civile non detta un modello strutturale della fondazione, e quindi l'autonomia statutaria può conformare il modello amministrativo nei modi in cui ritiene più opportuno.
Siamo abituati a pensare al modello di amministrazione tradizionale (articolato tra un organo amministrativo, di controllo e un'assemblea), ma se pensiamo al modello di amministrazione dualistico possiamo trarre dal consiglio di sorveglianza l'esempio emblematico di un organo ibrido, che unisce alte funzioni di amministrazione e di controllo. Ecco, io credo che questa possa essere una valida metafora dell'organo di indirizzo della fondazione, che elegge gli amministratori e svolge ad un tempo funzioni di alta amministrazione e di controllo, senza per questo incidere o poter modificare lo scopo sociale.
Questa scelta ha rilevanti implicazioni anche per quanto concerne la disciplina applicabile, atteso che giustifica un'interpretazione orientata al tipo reale, ciò significa che si è autorizzati ad attingere dalla disciplina dell'associazione tutte le volte in cui ciò non sia in contrasto con la destinazione patrimoniale sottesa al carattere della fondazione.
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