La trasformazione eterogenea da o in consorzi e società consortili
La trasformazione eterogenea da o in consorzi e società consortili
di Marco Maltoni
Notaio in Forlì
Impostazione del problema
La trasformazione di società di capitali in consorzio o in società consortile (e viceversa) era stata proposta dalla prassi all'elaborazione della dottrina e della giurisprudenza ben prima che gli artt. 2500-septies e 2500-octies tipizzassero tale vicenda modificativa della struttura organizzativa.
La previsione espressa delle fattispecie nei cataloghi proposti dalle disposizioni richiamate conduce tuttavia a due peculiari esiti interpretativi ed applicativi.
Innanzitutto giova rammentare, in chiave storica, che il dibattito si era polarizzato intorno a due questioni [nota 1], mai definitivamente risolte.
In primo luogo, il riconoscimento della piena legittimità dei passaggi fra società consortile e consorzio giustificato dall'identità causale fra schemi organizzativi vacillava di fronte alle perplessità di chi valutava l'operazione nella prospettiva dei terzi e dei creditori, rispetto ai quali l'operazione poteva creare un deficit di tutela, anche alla luce dell'incerto regime di responsabilità che grava sui consorziati.
In secondo luogo, il mutamento del fine associativo nei passaggi fra società consortile e società lucrativa mal si prestava ad essere qualificato come trasformazione, risolvendosi spesso in un mero mutamento dell'oggetto sociale, e quindi dello scopo, restando inalterata la struttura organizzativa (era il caso, per esempio, del passaggio da società consortile a responsabilità limitata in società lucrativa a responsabilità limitata).
Gli articoli 2500-septies e 2500-octies rendono obsoleta quest'ultima questione: da un lato, infatti, prevedono espressamente la trasformazione di società lucrativa di capitali in consorzio e viceversa, dall'altro qualificano nei medesimi termini, e quindi assoggettano integralmente alla disciplina specifica, ogni mutamento organizzativo che veda sulla linea di partenza o alla meta una società di capitali e una società consortile.
Nulla si dice tutt'ora delle vicende modificative della struttura organizzativa dell'ente che avvengano nel rispetto della causa consortile, anche perché non sembra trattarsi certamente di trasformazione eterogenea [nota 2]; non si può tuttavia escludere a priori che la disciplina disegnata per quest'ultima sia idonea a fornire gli strumenti interpretativi necessari per svolgere conclusivamente il tema della tutela delle ragioni dei terzi in caso di trasformazione di società consortile in consorzio, tramite la generalizzazione interpretativa dell'istituto dell'opposizione laddove venga in gioco una trasformazione potenzialmente lesiva degli interessi dei creditori.
La previsione espressa delle fattispecie in esame nei cataloghi contenuti negli artt. 2500-septies e 2500-octies conduce altresì ad un esito applicativo di cui l'operatore deve farsi carico nel momento in cui affronta ed analizza l'operazione prospettata.
Occorre infatti tener presente che la formula "trasformazione eterogenea" ha valore di definizione di sintesi tramite la quale sono accomunate e ricondotte all'istituto della trasformazione una pluralità di ipotesi di mutamento delle regole di organizzazione dell'attività connotate dalla diversità causale rispetto allo schema organizzativo di riferimento prescelto, ovvero le società di capitali.
A tale constatazione consegue da un lato la soggezione di tutte le fattispecie alla disciplina applicabile ad ogni ipotesi di trasformazione, che potremmo convenzionalmente qualificare come "disciplina generale"; dall'altro la consapevolezza che ogni singola fattispecie è altresì inevitabilmente soggetta a sue regole specifiche per le differenze che caratterizzano i diversi tipi sociali sul piano delle modalità di attuazione degli interessi di soci e di terzi.
Ne consegue che la trasformazione di o in consorzio o società consortile è soggetta, in definitiva, a tre livelli di disciplina non alternativi fra loro, ma cumulativi:
a. alle norme generali sulla trasformazione di cui agli artt. 2498, 2499, 2500 e 2500-bis;
b. alle norme applicabili alle trasformazioni in quanto eterogenee per espressa previsione normativa (art. 2500-septies e art. 2500-novies c.c.) o in via di applicazione analogica (artt. 2500-ter secondo comma, 2500-quater primo comma; 2500-quinquies primo comma);
c. alle norme particolari proprie della fattispecie, alcune delle quali esplicitate nell'art. 2500-octies, comma secondo.
Nozione di consorzio e disciplina della trasformazione eterogenea
Se le ipotesi di trasformazione fra società lucrativa e società consortile (o viceversa) propongono soggetti certi dal punto di vista della qualificazione giuridica, molto più mobili appaiono le frontiere della nozione di consorzio, che già dal punto di vista semantico è capace di coinvolgere realtà disparate, come la prassi e la legislazione insegnano.
Si rileva comunemente, infatti, che già il codice civile accoglie il termine "consorzio" con significati non omogenei, finendo così per qualificare allo stesso modo enti o organismi lontani fra loro e difficilmente riconducibili ad unità; a ciò si aggiunga una vasta legislazione speciale che spesso in maniera irrazionale non ha esitato a definire come tali fenomeni associativi il cui unico denominatore comune è reperibile nell'unione di più persone accomunate da situazioni omogenee da cui nascono bisogni comuni [nota 3].
Tali constatazioni costringono dunque in prima istanza a inquadrare i soggetti consortili cui si riferiscono gli artt. 2500-septies e 2500-octies, ed a cui risulta applicabile in via diretta la disciplina della trasformazione eterogenea.
Non vi è dubbio, a mio avviso, che il legislatore si sia rivolto ai consorzi di cui all'art. 2602, istituiti per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi di impresa. Al contempo la collocazione sistematica della disciplina, contenuta nell'ambito del V libro, e il parallelo istituito con le società consortili inducono a ritenere che l'istituto sia stato forgiato in una logica di impresa, e che le norme pertanto si rivolgano in via di applicazione diretta solo a quella tipologia di consorzi.
Il riferimento generico esclude però la possibilità di discriminare, nell'ambito della definizione di cui all'art. 2602, fra consorzi con attività esterna e consorzi con funzione anticoncorrenziale (o consorzi interni), sicché la trasformazione eterogenea in o da società di capitali lucrativa potrà vedere come protagoniste entrambe le forme consortili [nota 4].
Nulla vieta, peraltro, che la disciplina della trasformazione eterogenea possa poi applicarsi ad altri schemi con natura genericamente consortile, secondo la definizione offerta di volta in volta dalla prassi negoziale o dalla legislazione, anche speciale. Rispetto a tali organismi, tuttavia, la scelta della disciplina della trasformazione eterogenea applicabile deve passare in primis attraverso un processo di qualificazione della natura dell'ente considerato.
Si è già evidenziato, infatti, che tale disciplina è formata, oltre che da un nucleo di norme di applicazione generalizzata, anche da alcune disposizioni, contenute in particolare nell'art. 2500-octies, specificamente destinate ai diversi enti in ragione della loro natura.
Data tale premessa, occorre rilevare che sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno più volte operato un processo di riqualificazione degli organismi genericamente definiti come consorzi, riconoscendo in essi la natura propria delle associazioni non riconosciute [nota 5].
La trasformazione di associazioni in società di capitali o viceversa è soggetta a norme particolari e diverse da quelle disciplinanti la medesima vicenda qualora ne siano protagonisti consorzi in senso tecnico. Ne consegue, dunque, che la trasformabilità di organismi definiti consortili in società di capitali, nonché la vicenda opposta, deve essere preceduta, al di là del nomen iuris, da una ponderata analisi della loro natura effettiva, quale riconosciuta dalla dottrina dominante o dalla giurisprudenza onde selezionare, nell'ambito delle norme particolari in tema di trasformazione eterogenea, quelle applicabili.
Una volta identificata la natura dell'ente coinvolto nell'operazione, si procederà alla medesima applicando la normativa propria in via diretta o analogica, come ritenuto ammissibile dalla dottrina dominante [nota 6].
Operando secondo tale metodo, mi pare si possa ammettere l'applicabilità della disciplina della trasformazione eterogenea di o in consorzio anche agli organismi consortili previsti da leggi speciali ogniqualvolta abbiano per oggetto lo svolgimento di fasi dell'attività di impresa [nota 7], salvi i divieti o i limiti desumibili dalle stesse leggi speciali.
La trasformazione di società di capitali in consorzio o in società consortile: premessa metodologica
Si è sopra evidenziato che tali ipotesi di trasformazione sono soggette a tre livelli di disciplina: alle norme generali sulla trasformazione di cui agli artt. da 2498 a 2500-bis; alle norme generali sulla trasformazione eterogenea; alle norme particolari proprie della fattispecie.
Ragioni di economia espositiva e la volontà di affrontare direttamente le questioni applicative più rilevanti sconsigliano di riproporre in questa sede un'analisi articolata delle norme coinvolte, suggerendo piuttosto di focalizzare l'attenzione su taluni profili peculiari che devono essere portati all'attenzione dell'operatore.
Il dato normativo di diritto positivo con cui occorre misurarsi è rappresentato dall'espressa previsione di entrambe le ipotesi di trasformazione in esame nell'art. 2500-septies, da cui conseguono alcuni corollari interpretativi di immediata intuizione.
L'applicabilità incondizionata dell'art. 2500-novies c.c.
Alla trasformazione di società di capitali sia in consorzio sia in società consortile si applica l'art. 2500-novies. Ne consegue che entrambe le fattispecie divengono efficaci solo decorsi sessanta giorni dall'iscrizione dell'atto di trasformazione se non vi è stata opposizione da parte dei creditori sociali.
L'applicabilità diretta dell'art. 2500-novies consente di risolvere in via immediata il problema della tutela del ceto creditorio [nota 8], sebbene la soluzione normativa appaia sovrabbondante in caso di trasformazione in società consortile. Se quest'ultima adotta lo schema organizzativo di una società di capitali condivide con la società trasformata le regole sia in tema di formazione e protezione del capitale, sia in tema di rappresentazione dei dati contabili, al punto che prima della novella al codice civile si riteneva realizzabile il mutamento tramite la sola modifica dell'oggetto sociale. Dal punto di vista del ceto creditorio pertanto la riqualificazione normativa in termini di trasformazione condurrebbe ad un'assimilazione più immediata alla trasformazione omogenea fra società di capitali che non a quella eterogenea. Qualora poi la società consortile adotti lo schema della società di persone i creditori sociali risultano ulteriormente tutelati dalla responsabilità illimitata dei soci, secondo le regole proprie della trasformazione regressiva, che qui trovano applicazione in forza del rinvio all'art. 2500-sexies contenuto nell'art. 2500-septies9 e più in generale in virtù della norma dell'art. 2615-ter. Dunque anche in tale circostanza il rimedio dell'opposizione può apparire eccessivo.
Probabilmente la logica legislativa travalica l'evidenza di tali considerazioni, per ipotizzare che il cambiamento delle modalità di gestione dell'impresa, che deve essere insito in un mutamento delle finalità di esercizio, possa condurre ad un diverso giudizio di affidabilità del soggetto debitore da parte del ceto creditorio, e quindi renda giustificabile il ricorso all'opposizione.
Comunque sia, il dato di diritto positivo è insuperabile, ragion per cui ogni ipotesi di trasformazione eterogenea normativamente tipizzata, compresa quella in società consortile, è soggetta alla disciplina dell'art. 2500-novies.
La decisione dei soci. In particolare: trasformazione in consorzio e necessità del consenso individuale
Ai sensi dell'art. 2500-septies la trasformazione di una società di capitali in consorzio o in società consortile deve essere deliberata con la maggioranza qualificata dei soci che rappresentano almeno i 2/3 del capitale sociale, salvo il diritto di recesso, ai sensi degli art. 2437 e 2473 c.c., dei soci non consenzienti. L'equivoca formulazione letterale della norma ha alimentato il dubbio che la legge abbia optato, nella circostanza, per il sistema di voto capitario, ma appare senza dubbio preferibile ritenere, anche per coerenza sistematica, che non possa essere disattesa la regola generale secondo la quale il quorum deve essere calcolato per quote di partecipazione al capitale (e non per teste). D'altro canto, occorre considerare che la misura legale del quorum rappresenta una soluzione di compromesso fra la necessità di tutelare l'interesse al mantenimento dello scopo associativo e la volontà di favorire l'adeguamento della struttura organizzativa dell'impresa. Se valesse il sistema di voto capitario, si determinerebbe il paradosso per cui il maggior numero dei soci detentore di una quota di minoritaria del capitale, e quindi con un minor rischio di investimento, potrebbe decidere il mutamento dello scopo associativo a danno di coloro che più hanno investito nell'impresa sociale. Ne scaturirebbe una delibera «assunta non tanto da parte di una maggioranza rafforzata ma, piuttosto, di una maggioranza sovvertita» [nota 10].
L'interesse legale a garantire una delibera ampiamente condivisa, conduce alla conclusione per la quale la maggioranza del terzo comma deve essere intesa quale limite minimo richiesto per l'adozione della delibera, da cui conseguono almeno tre corollari applicativi. Innanzitutto detto quorum non può essere ridotto ad opera dell'autonomia privata. Lo stesso prevale inoltre sulle diverse maggioranze richieste, dalla legge o dallo statuto, per le modifiche statutarie. Infine, qualora l'autonomia statutaria preveda per le modifiche statutarie genericamente intese o specificamente per le trasformazioni tout court quorum più elevati di quello richiesto dall'art. 2500-septies, si deve ritenere che quest'ultima norma non trovi applicazione, risultando assorbita da quella statutaria. Se infatti è interesse del legislatore accordare una tutela particolare alle minoranze in sede di trasformazione eterogenea, ne consegue che deve essere riconosciuta prevalenza all'autonomia privata qualora il medesimo obiettivo sia perseguito in maniera più radicale. Nulla poi vieta di elevare specificamente il quorum richiesto dalla legge per la trasformazione eterogenea, fino al limite massimo consentito dalle caratteristiche tipologiche dell'ente.
L'art. 2500-septies, terzo comma, dopo aver richiesto il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, stabilisce che occorre comunque il consenso dei soci che assumono la responsabilità illimitata.
Non vi è dubbio, pertanto, che la trasformazione in società consortile in forma di società di persone postula il consenso espresso dei soci che assumono la responsabilità illimitata, con applicazione delle regole e dei principi, anche interpretativi, affermati in materia di trasformazione regressiva di società di capitali [nota 11].
La necessità del consenso espresso richiede invece un approfondimento rispetto a due ipotesi:
a. trasformazione in consorzio
b. previsione nello statuto di una società consortile in forma di società di capitali o di un consorzio dell'obbligo dei soci di versare contributi in denaro.
Il primo interrogativo è alimentato dalle controverse norme dell'art. 2615, che si occupa del tema della responsabilità del consorzio e dei consorziati verso i terzi.
Dopo aver previsto la responsabilità del solo fondo consortile «per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dalle persone che ne hanno la rappresentanza» (primo comma), si stabilisce la responsabilità solidale del fondo consortile con i singoli consorziati per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto di questi ultimi (secondo comma).
Agli effetti della trasformazione, e segnatamente della necessità o meno del consenso individuale dei soci, è l'ultima disposizione citata che viene in gioco, insinuando il dubbio del passaggio ad una forma organizzativa capace di determinare una situazione di responsabilità illimitata del socio per le obbligazioni assunte verso terzi; dubbio rafforzato dalla parte finale del medesimo secondo comma dell'art. 2615, per il quale «in caso di insolvenza nei rapporti fra consorziati il debito dell'insolvente si ripartisce tra tutti in proporzione alle quote», laddove si prefigura la possibilità di una responsabilità estesa a tutti i debiti contratti nell'esercizio dell'attività consortile.
L'incertezza interpretativa che avvolge le norme richiamate non aiuta a risolvere la questione; per tale motivo risulta forse più proficuo muovere dai dati certi, ovvero dall'art. 2500-septies e dalla nozione di responsabilità illimitata che vi è accolta.
Volendo limitarsi a individuare i tratti caratterizzanti della responsabilità illimitata cui si riferisce il legislatore, mi pare possibile stigmatizzare tre profili al termine di un breve iter argomentativo.
L'identità letterale che ricorre fra la norma dell'art. 2500-septies e quella dell'art. 2500-sexies rispetto al tema (… il consenso dei soci che assumono responsabilità illimitata ...) induce a postulare una ipotesi di identità concettuale fra le nozioni di responsabilità illimitata contenute nelle due disposizioni richiamate.
Poiché tradizionalmente la fattispecie di riferimento in materia è sempre stata rappresentata dalla trasformazione regressiva di società di capitali in società di persone (per lungo tempo la trasformazione eterogenea non è stata nemmeno considerata ammissibile), mi pare possibile individuare anche nella circostanza la norma di riferimento nell'art. 2500-sexies.
Per tale motivo la nozione di responsabilità illimitata cui si fa riferimento è quella contenuta nell'art. 2267, ai sensi del quale la responsabilità dei soci è estesa "alle obbligazioni sociali".
Volendo trarre le fila del ragionamento, e tenendo conto dei dati normativi, mi pare possibile sostenere che i profili caratterizzanti la nozione di responsabilità cui si riferiscono gli artt. 2500-sexies e 2500-septies siano i seguenti: i) si tratta di responsabilità estesa a tutte le obbligazioni sociali indistintamente assunte in nome e per conto dell'ente; ii)si tratta di responsabilità inevitabilmente e non eventualmente connessa alla qualità di socio; iii) la responsabilità assunta a seguito della trasformazione si estende a tutte le obbligazioni sorte anteriormente alla trasformazione medesima, stante il carattere generale e indifferenziato di tale responsabilità.
Il diritto di veto riconosciuto al singolo socio dall'art. 2500-septies ricorre certamente qualora si determini per effetto del cambiamento di struttura organizzativa l'assunzione di una responsabilità che presenta i profili descrittivi sopra enucleati.
Ciò ammesso, occorre chiedersi se la responsabilità in qualità di consorziato presenta le stesse caratteristiche descritte o, comunque, generi situazioni assimilabili tali da giustificare la necessità del consenso del singolo socio ex art. 2500-septies.
Al di là delle incertezze interpretative che avvolgono l'art. 2615 soprattutto in merito alle modalità di imputazione dell'obbligazione al consorziato [nota 12], si è formato un orientamento sufficientemente concorde in ordine alle caratteristiche identificative della responsabilità di cui al secondo comma della norma citata.
In primo luogo la previsione del secondo comma dell'art. 2615 non è fonte di responsabilità dei consorziati in quanto tali, e quindi di tutti i consorziati per ogni obbligazione, ma solo di quelli direttamente interessati. La lettura complessiva della disposizione, come articolata fra il primo e il secondo comma, consente infatti di rilevare che la responsabilità si riferisce «alle ipotesi nelle quali l'obbligazione è stata assunta per conto di uno solo o più consorziati esattamente individuati, mentre non riguarda certo le obbligazioni del consorzio o che comunque interessano la generalità dei consorziati» [nota 13]. La ricostruzione in tal senso appare generalmente condivisa, al punto che taluno fonda nella necessità di individuazione del soggetto obbligato la necessità di uno specifico incarico al consorzio dall'uno o dall'altro consorziato con un negozio che non è quello consortile ma a questo collegato [nota 14]; altri la necessità quantomeno della spendita del nome del consorziato rispetto ai terzi [nota 15]. Ai nostri fini, ciò che rileva è un dato interpretativo preciso: certamente non è legittimo inferire da tali norme una responsabilità del singolo consorziato per tutte le obbligazioni sorte nell'esercizio dell'attività dell'impresa consortile.
In secondo luogo la solidarietà degli altri consorziati per le obbligazioni dell'insolvente instaurata dall'ultima parte del secondo comma dello stesso art. 2615 non comporta l'estensione della responsabilità alla generalità delle obbligazioni consortili, ma solo a quelle rimaste insoddisfatte, per le quali peraltro ha già risposto il fondo comune in quanto obbligato in solido. Per tale motivo la responsabilità solidale degli altri consorziati è letta soprattutto in funzione di reintegrazione del fondo depauperato per ragioni estranee al mero funzionamento dell'organizzazione comune, e come tale con valenza meramente interna agli associati, senza possibilità per i terzi di farla valere [nota 16].
All'esito dell'indagine emerge quindi che le caratteristiche della responsabilità di cui al secondo comma dell'art. 2615 non sono coincidenti con quelle proprie della responsabilità illimitata cui sembra riferirsi l'art. 2500-septies.
Le differenzia la specificità delle obbligazioni per le quali detta responsabilità sorge nel consorzio, e finanche la sua eventualità; nonché il rilievo meramente interno quando si estende alle obbligazioni altrui.
Inoltre, per le obbligazioni assunte nell'interesse del consorzio quale ente, e quindi della generalità dei consorziati, risponde solo il fondo consortile, a mente del primo comma dell'art. 2615.
Dalla somma delle due considerazioni si desume altresì che non è immaginabile una responsabilità dei consorziati per le obbligazioni sorte anteriormente alla trasformazione, in quanto necessariamente imputabili solo all'ente e quindi a carico esclusivamente del fondo consortile.
Per quanto dunque possano sussistere dubbi sulla ricorrenza nella fattispecie di un'ipotesi di autonomia privata perfetta, nondimeno mi pare possibile ravvisare una situazione non coincidente con i profili caratteristici della responsabilità che legittima il veto del singolo socio alla trasformazione.
A questo punto si pone all'interprete un'alternativa ermeneutica di valore sistematico:
- ritenere che la regola del necessario consenso individuale si imponga in via estensiva in tutte le ipotesi in cui la trasformazione determini un peggioramento della situazione soggettiva del socio all'interno dell'ente con l'imposizione a suo carico di obbligazioni individuali ulteriori rispetto a quelle già ricorrenti nella struttura organizzativa di partenza; ovvero
- ritenere che il diritto di veto sorga solo in caso di modificazione in peius della responsabilità patrimoniale del socio verso i terzi per le obbligazioni dell'ente.
A mio avviso la scelta deve muoversi nella seconda direzione.
Storicamente il tema è stato affrontato e dibattuto nella sola prospettiva della assunzione di responsabilità patrimoniale dei soci verso i terzi [nota 17]. Come noto, la consapevolezza per le gravi conseguenze che derivano alla sfera patrimoniale del singolo, fino alla possibilità di essere coinvolto per estensione nel fallimento della società, ai sensi dell'art. 147 L. fall., inducevano parte della dottrina a richiedere che la deliberazione di trasformazione regressiva di società di capitali fosse assunta all'unanimità. Secondo un'altra tesi, la medesima sensibilità unita ad una maggior attenzione per l'interesse allo sviluppo dell'impresa sociale dovevano indurre a ritenere sufficiente il consenso non di tutti i soci, ma solo di coloro che tale responsabilità assumevano, mettendo in gioco il patrimonio personale [nota 18]. L'obiettivo degli osservatori era tuttavia sempre focalizzato sulla gravità del pericolo che correva la sfera patrimoniale personale del singolo socio, pericolo determinato dall'esposizione del patrimonio personale all'aggressione diretta dei creditori sociali. Non per nulla si è fondata la tesi del necessario consenso sulla constatazione che «la responsabilità illimitata è assimilabile ad una fideiussione necessaria che si traduce, in definitiva, in una dilatazione del conferimento» [nota 19].
Il legislatore della riforma sceglie chiaramente la seconda opzione fra quelle prospettate e si accontenta del consenso dei soci coinvolti in responsabilità al fine di evitare abusi della maggioranza ma sempre nella consapevolezza che la gravità del pericolo dell'aggressione patrimoniale diretta dei terzi può giustificare l'eccezionalità del rimedio, vale a dire il riconoscimento di un diritto di veto in capo al singolo rispetto ad un fenomeno evolutivo dell'impresa sociale [nota 20].
La scelta normativa di limitare il diritto di veto ai soli soci effettivamente coinvolti nella situazione di pericolo suona a conferma di un dato sistematico che traspare nella rinnovata disciplina della trasformazione, dato rappresentato dalla scelta giuspolitica di agevolare la trasformazione come momento evolutivo dell'impresa sociale, che traspare in numerose disposizioni [nota 21].
Il favore espresso nel sistema per la trasformazione si armonizza pienamente con l'intenzione di limitare la necessità del consenso individuale, e quindi il diritto di veto, alle sole ipotesi testualmente previste nella legge, almeno per le fattispecie tipizzate, e quindi ai soli casi in cui il socio assuma per effetto del mutamento funzionale od organizzativo dell'ente la responsabilità personale per le obbligazioni sociali verso i terzi, senza indulgere ad applicazioni estensive.
In definitiva, le argomentazioni proposte in successione inducono a mio avviso a ritenere che il diritto di veto sorge solo in caso di modificazione in peius della responsabilità patrimoniale del socio verso i terzi per le obbligazioni dell'ente.
Il pregiudizio che il singolo può subire sul piano della sua partecipazione individuale all'ente per effetto di altre regole organizzative, volontarie o legali, applicabili a seguito della trasformazione è bilanciato dal riconoscimento del diritto di recesso, che trae significato proprio dalla situazione di soccombenza sgradita del singolo rispetto alle decisioni della maggioranza.
Non per nulla il legislatore ha elevato il recesso a diritto individuale insopprimibile del singolo in ogni ipotesi di trasformazione da società di capitali (artt. 2437 e 2473), da società cooperativa (per effetto del rinvio operato dall'art. 2519 alla disciplina delle società di capitali), da società consortile (per effetto del rinvio operato dall'art. 2615-ter alla disciplina delle società di capitali), da società di persone (art. 2500-ter).
Rispetto alla fattispecie della trasformazione di società di capitali in consorzio tali considerazioni consentono di svolgere un primo corollario, che vorrebbe rappresentare la soluzione alla questione proposta in epigrafe.
Malgrado il peculiare regime di responsabilità di cui all'art. 2615, la trasformazione suddetta potrà avvenire a maggioranza, senza richiedere il consenso individuale dei soci, poiché nessuno di loro assume per effetto del mutamento organizzativo responsabilità illimitata per le obbligazioni dell'ente.
(…Segue): la decisione dei soci in caso di previsione statutaria di contributi a carico degli stessi
Le considerazioni sopra svolte consentono di giungere ad un'agevole soluzione anche della seconda questione prospettata.
Il tema verte sulla necessità di integrare la deliberazione assembleare con il consenso individuale qualora lo statuto della società consortile (in forma di società di capitali) o del consorzio risultanti dalla trasformazione di una società di capitali lucrativa contempli l'obbligo dei soci di versare contributi in denaro.
Previsti nell'art. 2603 n. 3 per i consorzi ed ammessi dall'art. 2615-ter secondo comma per le società consortili, i contributi non sono conferimenti, ma versamenti statutariamente imposti ai soci per coprire i costi di gestione [nota 22]. Rispetto ai modelli societari essi rappresentano una deroga al principio generale secondo il quale il socio è tenuto ad eseguire soltanto i conferimenti previsti nel contratto sociale [nota 23]. Si giustifica così sul piano sistematico la necessità della previsione espressa contenuta nell'art. 2615-ter, poiché rappresentano un'alterazione dei modelli societari per adattarli alle esigenze dell'impresa consortile.
Alla luce del fine per il quale sono ammessi, tenuto conto del carattere periodico e variabile che finiscono per assumere e dell'impossibilità di predeterminarne a priori l'ammontare, si ritiene che l'autonomia privata possa prevederli senza fissare limiti di alcun genere, nemmeno di importo [nota 24].
I dati interpretativi sommariamente riportati alimentano il dubbio che la previsione di tali contributi finisca per porsi in contrasto con il principio della limitazione della responsabilità proprio delle società di capitali: conclusione, quest'ultima, che presenta un'immediata ricaduta sulla questione al nostro esame, poiché finirebbe per imporre la necessità del consenso di tutti i soci.
L'intento di giungere ad una conclusione sulla base di una stima completa suggerisce di tener conto di altri due dati ermeneutici: a) secondo parte della dottrina la rilevanza meramente interna dell'obbligo esclude la deroga al principio della responsabilità limitata e la conseguente alterazione del modello societario [nota 25]; b) vi è tuttavia concordia nel ritenere che la successiva introduzione di tali obblighi richieda il consenso unanime dei soci, dal momento che incide profondamente sulla situazione soggettiva del socio [nota 26].
èalla luce di tali dati che occorre vagliare la necessità del consenso di tutti i soci alla trasformazione di società di capitali in consorzio o società consortile con imposizione statutaria dell'obbligo di contributo.
Le considerazioni sviluppate nel paragrafo che precede inducono a concludere inevitabilmente nel senso che sia sufficiente in tal caso una decisione a maggioranza, rappresentando il diritto di recesso lo strumento generale di salvaguardia consegnato dal legislatore all'interesse individuale.
Si è infatti sostenuto che solo l'assunzione di responsabilità generica verso i terzi per le obbligazioni sociali, come previsto dalla lettera della norma, impone il consenso unanime, per i riflessi che possono scaturirne sul piano patrimoniale individuale, fino al fallimento per estensione.
Di contro l'alterazione della posizione soggettiva individuale rispetto al modello organizzativo di partenza, anche sotto il profilo della responsabilità patrimoniale, non attribuisce alcun diritto di veto qualora rilevi solo sul piano interno.
Sotto questo profilo non vi è dubbio che l'obbligo di versare contributi rilevi solo sul piano interno e non possa essere strumentalizzato dai terzi, così da condurre all'affermazione di una sorta di responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali. Come già segnalato, vi è concordia in dottrina nel senso di ritenere che «una cosa è la responsabilità verso i terzi, altra cosa è l'estensione dell'obbligo di apporto» [nota 27].
Si aggiunga la considerazione che anche la dottrina specialistica, se richiede univoca l'unanimità di consensi per introdurre l'obbligo in questione in una società consortile già operante, ammette tuttavia la legittimità della scelta a maggioranza qualora sia consentito ai soci dissenzienti il diritto di recesso [nota 28]. In altri termini, si propone in via negoziale una soluzione scelta dal legislatore per le ipotesi di trasformazione in esame, a dimostrazione di come il diritto di recesso rappresenta lo strumento sufficiente per un equo contemperamento degli interessi in gioco.
Ne consegue, in definitiva, che la deliberazione di trasformazione di società di capitali potrà essere assunta a maggioranza anche se siano previsti nello statuto del consorzio o della società consortile risultante dalla trasformazione obblighi contributivi a carico dei singoli soci.
La necessaria ricorrenza dei requisiti soggettivi richiesti ex art. 2602 c.c. per partecipare ad un consorzio
La necessità di accertare la ricorrenza degli elementi tipologici del consorzio (e della società consortile) al momento della stipula dell'atto di trasformazione suggerisce di muovere dalla definizione contenuta nell'art. 2602.
Schematizzando il dettato normativo, si ravvisa nel consorzio l'organizzazione qualificata: a) dal punto di vista soggettivo, dalla partecipazione di una pluralità di imprenditori; b) dal punto di vista funzionale, dallo scopo di disciplinare o svolgere determinate fasi delle imprese dei partecipanti.
Atteso ciò, è necessario che i soci della società che intende trasformarsi in consorzio o in società consortile siano tutti imprenditori [nota 29]. La ricorrenza di tale espressione nell'art. 2602 induce la dottrina a ritenere che non rientri nella definizione di consorzio qualsiasi operatore economico la cui attività non sia qualificabile come impresa ai sensi dell'art. 2082; al contempo, tuttavia, la generalità della medesima espressione consente di comprendervi imprenditori piccoli o grandi, individuali o collettivi, pubblici o privati, commerciali o agricoli [nota 30].
Connesso è il tema della possibilità di trasformazione in consorzio o società consortile di società cui partecipino enti pubblici, anche territoriali. La realtà economica dimostra come sempre più spesso enti pubblici assumano su di sé la funzione di promotori, fondatori e "garanti" istituzionali di consorzi diretti a favorire la crescita delle imprese, specialmente medie e piccole, sul territorio, agendo come volano per la fornitura di servizi di supporto e sviluppo che assurgono per le singole imprese consorziate a fasi delle stesse, sebbene nuove e non preesistenti.
Sul piano teorico la polemica è accesa; non si può ignorare che, a rigore, tali enti non si prestino ad essere ricondotti nella definizione di "imprenditori".
Senza riprendere appieno i termini della disputa, è qui sufficiente rammentare che, per tale motivo, parte della dottrina ritiene che la loro presenza non consenta di riconoscere all'ente natura consortile, per difetto del requisito soggettivo, con conseguente nullità della partecipazione in quanto configgente con la causa negoziale [nota 31].
Al di là di quanto previsto dalle leggi speciali [nota 32], occorre tuttavia riconoscere che il fenomeno assume una tale valenza sul piano della prassi da non poter essere ignorato o condannato sulla base dei dati letterali della norma dell'art. 2602, ma piuttosto valorizzato sul piano funzionale.
è innegabile, infatti, alla luce dei dati empirici che la partecipazione degli enti pubblici finisce spesso per valorizzare al meglio o addirittura rendere possibile la funzione ausiliaria alle imprese che tali consorzi intendono perseguire.
Osservando il fenomeno da una prospettiva spiccatamente funzionale si è così ammesso che «la partecipazione di non imprenditori può giustificarsi nei limiti cui appaia strumentale alla realizzazione delle finalità consortili e le stesse siano in sintonia con il perseguimento degli interessi più generali di cui gli enti pubblici sono portatori» [nota 33]; con l'avvertenza, dal punto di vista strutturale, di creare eventualmente una categoria particolare di soci in cui far confluire coloro che non fruiscono delle prestazioni mutualistiche del consorzio ma svolgono solo una funzione di sostegno e supporto [nota 34].
La funzione enunciata nell'art. 2602 peraltro esclude la possibilità di dar luogo a enti, società comprese, unipersonali; ne consegue l'inammissibilità della trasformazione di società con unico socio in consorzio o società consortile, dovendo essere ricostituita preventivamente la pluralità di soci.
Gli altri requisiti richiesti per la costituzione di un consorzio o di una società consortile ai sensi dell'art. 2500 c.c.
Proseguendo sul piano dell'analisi delle condizioni richieste per procedere legittimamente alla trasformazione in oggetto, non si può ignorare che la caratterizzazione funzionale del consorzio può riverberarsi sulla necessità di procedere anche ad una modificazione dell'oggetto sociale della società che intende trasformarsi.
Se si pone l'accento sul carattere strumentale dell'attività consortile rispetto alle attività di impresa dei consorziati, e quindi sullo scopo mutualistico che connota l'ente, difficilmente sarà possibile mantenere immutata la descrizione dell'attività che costituisce oggetto sociale, in quanto inizialmente forgiata per realizzare un'impresa funzionale ad un'indipendente capacità di produrre utile.
Secondo la dottrina infatti, «è certo che dall'oggetto del consorzio dovrà emergere, esplicitamente o implicitamente, la funzione dell'organizzazione come strumento di regolazione e di ausilio alle attività esercitate dalle imprese partecipanti, che devono restare oltre che giuridicamente anche economicamente indipendenti e autonome» [nota 35].
Memori del monito per il quale «le società consortili sono, in via di principio, innanzitutto delle società e come tali vanno disciplinate» [nota 36], in sede di trasformazione dovrà garantirsi in primo luogo la ricorrenza dei requisiti propri del tipo prescelto, che può differire da quello adottato per lo svolgimento dell'attività lucrativa. Sotto questo profilo si aprono all'operatore le medesime problematiche che possono emergere in sede di trasformazione omogenea di società di capitali [nota 37].
Deroghe alla disciplina propria del tipo in funzione capitalistica possono tuttavia essere imposte dalla diversa causa assegnata al contratto sociale. Sotto questo profilo dovrà prestarsi attenzione alle clausola in tema di distribuzione dell'utili, oggetto di polemica dottrinale fra coloro che ne negano la legittimità e coloro che l'ammettono, seppur a particolari condizioni [nota 38].
è opportuno inoltre non trascurare il dato della durata, soprattutto alla luce delle novità in materia introdotte dalla riforma del diritto societario.
A norma dell'art. 2604, infatti, «in mancanza di determinazione della durata del contratto, questo è valido per dieci anni».
Il termine di dieci anni opera solo se il contratto non preveda una scadenza, escludendo la possibilità di consorzi a tempo indeterminato [nota 39].
Nella circostanza il precetto può venire in gioco se la società di capitali che si trasforma sia stata invece contratta senza termine finale, secondo quanto oggi ammesso espressamente dagli artt. 2328 e 2473. In tal caso ne consegue l'opportunità di introdurre la previsione di un termine di durata del consorzio, anche lungo, onde evitare l'intervento della norma suppletiva dell'art. 2604.
La questione tuttavia acquista rilievo nel caso in cui la società lucrativa contratta a tempo indeterminato intenda trasformarsi in società consortile.
La novità introdotta per le società di capitali dalla riforma in ordine alla durata riporta in primo piano il problema della prevalenza o meno della disciplina societaria rispetto a quella consortile.
Nel caso specifico la scelta conduce ad ammettere o meno enti con finalità consortili contratti a tempo indeterminato.
Nata per evitare limiti temporali eccessivi sul piano della concorrenza fra imprese e modificata con la riforma del 1976, la norma dell'art. 2604 appare agli interpreti frutto di compromessi, e come tale non supportata da una ratio nitida. Si ritiene comunque che la sua permanenza nell'ordinamento sia da ascriversi alla medesima esigenza per la quale era stata inizialmente introdotta, «in quanto il contratto consortile non deve (più) ma può (ancora) caratterizzarsi in senso anticoncorrenziale» [nota 40].
Qualunque siano le ragioni che sostengono il precetto, non vi è dubbio che la norma esiste e con la stessa occorra misurarsi muovendo dai dati interpretativi certi.
In tal senso mi pare possibile evidenziare tre profili: la norma dell'art. 2604 evidenzia l'ostilità del legislatore per la durata indeterminata dell'attività consortile [nota 41]; qualunque ne sia oggi il fondamento, le vicende storiche dimostrano che il limite temporale era dovuto alla peculiare causa contrattuale, connessione che oggi si ritiene permanga sullo sfondo [nota 42]; consorzio e società consortile condividono la funzione, pur nella diversità della struttura organizzativa.
La sequenza logica delle tre proposizioni conduce alla conclusione per cui anche la società consortile non può essere contratta a tempo indeterminato, per non eludere il precetto dell'art. 2604. D'altra parte, la scelta di sottoporre l'attività consortile al regime delle società «non vuol dire che il perseguimento di scopi consortili non possa in qualche modo reagire, per alcuni profili, sulla disciplina delle società-consorzio» [nota 43].
Un'ultima considerazione attiene alla posizione reciproca dei soci successivamente alla trasformazione, e quindi alla determinazione delle quote.
Il termine "quota" ricorre nella disciplina dei consorzi in tre occasioni: nell'art. 2603, intesa come parte che spetta ad ogni socio nel contingentamento; nell'art. 2609, nel quale si prevede l'accrescimento della quota del consorziato receduto o escluso a favore degli altri; nell'art. 2615, ai fini della ripartizione del rischio di insolvenza di un consorziato.
Vi è naturalmente una sostanziale differenza fra quota di contingentamento di cui all'art. 2603 e quota di partecipazione di cui alle altre norme richiamate [nota 44].
Quest'ultima rappresenta la frazione di partecipazione al fondo consortile e in genere la misura della partecipazione di ognuno alle situazioni patrimoniali attive o passive, nonché al voto, ma solo se espressamente previsto, valendo nel silenzio il voto capitario (cfr. art. 2606).
è evidente che per effetto della trasformazione ogni socio manterrà immutata la propria partecipazione al fondo consortile [nota 45], rappresentato non solo dal capitale sociale della società trasformata, ma dal suo intero patrimonio attivo, dal momento che a norma dell'art. 2614 il fondo è costituito non solo con i contributi dei consorziati (alias conferimenti) ma anche con «i beni acquistati con questi contributi».
Diversa dalla quota di partecipazione è la quota di contingentamento, funzionale alla ripartizione dei servizi dell'attività consortile fra i partecipanti. Fra le due tipologie di quote non ricorre un necessario rapporto biunivoco, potendo le medesime essere diverse [nota 46].
A mio avviso il principio di continuità in sede di trasformazione va affermato solo rispetto alla quota di partecipazione al fondo.
La quota di contingentamento è legata esclusivamente alla realtà consortile ed appare connessa alle esigenze normalmente differenziate delle singole imprese partecipanti [nota 47]. Nulla vieta pertanto che in sede di trasformazione, ferme le quote di partecipazione, i soci determinino, ove lo ritengano, quote di contingentamento diverse.
In coerenza con i principi sopra espressi, anche tale determinazione potrà avvenire a maggioranza, fermo il diritto di recesso del socio non consenziente. Facendo peraltro leva sul disposto dell'art. 2603 ultimo comma, sarà legittimo deferire la determinazione di tali quote ad un arbitratore esterno, evitando l'insorgere di liti in sede di trasformazione potenzialmente dannose per la proficua continuazione dell'attività comune.
Si sottolinea infine che, in coerenza con la causa mutualistica che lo connota, ed alla stregua di quanto previsto per le società cooperative, lo statuto dell'ente consortile risultante dalla trasformazione potrà precisare i requisiti di ammissione dei soci.
La ricorrenza di tale clausola non appare tuttavia necessaria: il riferimento a "fasi dell'impresa" risulta alquanto generico ed ampio, al punto da comprendere non solo le imprese che svolgono attività connesse, ma anche quelle fra le quali non esiste alcuna connessione.
Il requisito soggettivo minimo, come sopra specificato, è la qualità di imprenditore; la valenza della clausola statutaria è quella di introdurre limiti più rigorosi alla possibilità di accesso all'ente [nota 48].
La trasformazione di società consortile in società lucrativa
Il dato ricostruttivo da cui muovere nell'analizzare la fattispecie è rappresentato dalla constatazione che le società consortili si caratterizzano per adottare la struttura organizzativa delle società di capitali, o quella delle società di persone o infine, quella delle società cooperative, secondo la scelta a suo tempo compiuta dall'autonomia privata.
Tale dato consente, da un lato, di ricondurre le problematiche inerenti tale ipotesi di trasformazione a quelle proprie della trasformazione omogenea tra società di capitali o tra società di persone e società di capitali [nota 49], o a quelle tipiche della trasformazione di società cooperativa in società lucrativa, di cui si applicherà la relativa disciplina [nota 50]; dall'altro riduce particolarmente la portata derogatoria della norma speciale dettata dall'art. 2500-octies in tema di quorum deliberativo.
Quest'ultima disposizione, infatti, si limita ad un rinvio per relationem al quorum richiesto dalla legge o dall'atto costitutivo per lo scioglimento dell'ente.
Al proposito è sufficiente notare che le discipline proprie di ogni tipo adottabile in chiave consortile ex art. 2615-ter non impongono per lo scioglimento maggioranze diverse da quelle normalmente richieste per le modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto, salvo che non si tratti di assemblea straordinaria di seconda convocazione di società per azioni, nella quale è sempre necessario per assumere tale decisione il voto favorevole dei soci che rappresentino più di un terzo del capitale sociale, ai sensi dell'art. 2369, quinto comma.
Non si può infine escludere che l'art. 2615-ter rappresenti altresì la chiave sistematica per affermare l'estensione della disciplina dell'art. 2500-sexies a tutte le ipotesi di trasformazione in cui lo schema organizzativo di partenza sia rappresentato da una società di capitali con scopo consortile.
Come sopra ricordato, la dottrina è orientata infatti nel senso di ritenere che le società consortili vanno disciplinate come società del tipo cui appartengono. Atteso ciò, si può giungere ad ammettere che la disciplina dell'art. 2500-sexies si estende anche a tutte le trasformazioni eterogenee di società di capitali consortile, per effetto dell'applicazione dell'art. 2500-septies attuata in virtù del rinvio generico operato dall'art. 2615-ter, malgrado nulla sia previsto in proposito dall'art. 2500-octies. è ravvisabile, in altri termini, una sorta di filo di arianna sistematico, formato da rinvii normativi, che lega, limitatamente alle società consortili in forma di società di capitali, l'art. 2500-sexies all'art. 2500-octies, per il tramite degli articoli 2615-ter e 2500-septies.
La trasformazione di consorzio in società di capitali
L'ipotesi in esame presenta margini di complessità certamente superiori a quella sopra esaminata.
In conformità allo schema di analisi della vicenda organizzativa fino ad ora utilizzato, tale ipotesi di trasformazione è soggetta alle norme generali sulla trasformazione di cui agli artt. da 2498 a 2500-bis nonché alle norme generali sulla trasformazione eterogenea ed alle norme particolari proprie della fattispecie.
L'impostazione proposta consente di ritenere applicabili alla fattispecie non solo l'art. 2500-novies, ma anche, in via di applicazione analogica, gli artt. 2500-ter secondo comma, 2500-quater primo comma e 2500-quinquies.
Al fine di operare la trasformazione sarà necessario dunque presentare una relazione di stima del patrimonio consortile da un esperto nominato dal Tribunale se la società risultante dalla trasformazione è una SpA, o dallo stesso ente che si intende trasformare, se la società di arrivo è una Srl [nota 51].
In conformità a quanto disposto dall'art. 2500-quater primo comma le quote di partecipazione al capitale sociale a seguito della trasformazione corrisponderanno a quelle di partecipazione al fondo comune.
Infine, i consorziati restano responsabili per le obbligazioni assunte per loro conto dagli organi consortili ai sensi dell'art. 2615; ma non si può escludere, con la cautela già in precedenza espressa, la possibilità di ottenere la liberazione applicando la norma dell'art. 2500-quinquies secondo comma.
Ciò che a mio avviso cessa certamente è la responsabilità solidale degli altri soci in caso di insolvenza del soggetto obbligato di cui alla parte finale del secondo comma dell'art. 2615.
Se, infatti, come sembra ritenere la dottrina [nota 52], tale responsabilità opera solo sul piano interno al fine di mantenere integra la consistenza del fondo patrimoniale qualora sia stato tenuto all'adempimento in luogo dell'insolvente per effetto della regola della solidarietà esterna di cui all'art. 2615 secondo comma prima parte «per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati rispondono questi ultimi solidalmente col fondo consortile», ne consegue che, una volta adottata la forma della società di capitali, tale risultato potrà essere perseguito applicando le norme sul capitale, e precisamente gli artt. 2446, 2447 e 2482-bis in tema di ricostituzione del capitale sociale a seguito di perdite.
[nota 1] Si veda in proposito G. MARASà, «Nuovi confini delle trasformazioni e delle fusioni nei contratti associativi», in Riv. dir. civ., 1994, II, p. 323; M. SARALE, Trasformazione e continuità di impresa, Milano, 1996, p. 187 e ss.
[nota 2] In tal modo si sviluppa un'intuizione di G. MARASA' «Le trasformazioni eterogenee», in Riv. not. 2003, p. 597, ripresa da A. ZOPPINI - F. TASSINARI, «Sulla trasformazione eterogenea delle associazioni sportive», in Contr. imp., 2006, p. 910.
[nota 3] Si veda in proposito, M. SARALE, Consorzi e Società Consortili, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Gastone Cottino, 3, Padova, 2004, p. 408, ove ampi riferimenti bibliografici. A. BORGIOLI, Consorzi e società consortili, Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu - Messineo, Milano, 1985, p. 2, per il quale «consorzio è una parola polisensa suscettibile di indicare genericamente fattispecie nelle quali emergono, in sostanza, situazioni caratterizzate da una comunanza di interessi alle quali si attribuisce un altrettanto comune destino».
[nota 4] L. PANZANI, Commento all'art. 2500-septies, in AA.VV. Gruppi, trasformazione, fusione e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere, in La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2003, p. 338; M. SARALE, op. cit., p. 2287; G. FRANCH, Trasformazione eterogenea di società di capitali, in Commentario alla riforma delle società, artt. 2498-2506-quater, (a cura di) Luigi A. Bianchi, Milano, 2006, p. 298.
[nota 5] Si veda in proposito l'orientamento accolto in tema di consorzi fra proprietari di cui al III libro del codice civile che secondo molti presentano la natura di associazioni non riconosciute: F. GALGANO, «Auto-disciplina urbanistica», in Contratto e impresa 1985, p. 573; M. SARALE, «I consorzi privati nel sistema dei contratti associativi», in I consorzi e l'attività notarile: costituzione, capacità negoziale e scioglimento, in Quaderni di Vita Notarile, 1984 p. 18 e ss.; Trib. Bologna 10 aprile 2001, in Contratti, 2001, p. 1005; Trib. Napoli, 14 maggio 1998, in Notariato, 1999, p. 350; Trib. Roma 21 febbraio 1994, in Notariato 1995, p. 291.
[nota 6] Occorre naturalmente accettare la tesi secondo la quale la disciplina della trasformazione, anche eterogenea, può essere applicata analogicamente a fattispecie atipiche. In tal senso risulta orientata la dottrina maggioritaria:si veda di recente, ex multis, G. FRANCH, op. cit. p. 290. Contra G. PALMIERI, Autonomia e tipicità nella nuova trasformazione, in Il Nuovo Diritto Societario, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, (a cura di) P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. 4, Milano, 2007, p. 101.
[nota 7] Vedi L. 25 giugno 1909 n. 422; D.l. C.p.S. 14 dicembre 1947 n. 1577; L. 7 febbraio 1971 n. 127; L. 30 aprile 1976 n. 374; L. 21 maggio 1981 n. 240; L. 5 ottobre 1991 n. 317; L. 21 febbraio 1989 n. 83; L. 8 agosto 185 n. 443; L. 11 febbraio 1994 n. 109.
[nota 8] Prima della riforma vedi O. CAGNASSO, La Trasformazione delle società, Commentario del codice civile, a cura di P. Schlesinger, Milano, 1990, p. 63 e ss.
[nota 9] Vedi M. SARALE, Commento all'art. 2500-septies, in Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da G. Cottino e G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, ***, Bologna, 2004, p. 2287.
[nota 10] G. FRANCH, op. cit., p. 311.
[nota 11] Si veda in proposito la relazione del Prof. Lorenzo De Angelis.
[nota 12] Si vedano in proposito le note 13 e 14.
[nota 13] A. BORGIOLI, op. cit., p. 374.
[nota 14] G.D. MOSCO, I consorzi tra imprenditori, Milano 1988, p. 226 e ss.
[nota 15] G. VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Trattato di diritto commerciale e pubblico dell'economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1981, p. 421.
[nota 16] Così, seppur in forma dubitativa, A. BORGIOLI, op. cit., p. 375; in tal senso anche G.D. MOSCO, op. cit., p. 245 - 246.
[nota 17] Per un resoconto sulle diverse opinioni G. CABRAS, Le trasformazioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 7, ***, Torino, 1997, p. 137 e ss.; L. DE ANGELIS, La Trasformazione della società, in Trasformazione, fusione scissione, opa, società quotate, Trattato teorico pratico delle società, a cura di G. Schiano di Pepe, Milano, Ipsoa, 1999, p. 70.
[nota 18] G. TANTINI, Trasformazione e fusione delle società, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da G. Galgano, VIII, Padova, 1985, p. 210.
[nota 19] G. TANTINI, op. cit., p. 211.
[nota 20] La relazione di accompagnamento alla legge testualmente dichiara che «nella trasformazione di società di capitali in società di persone, si è considerata preferibile la trasformazione a maggioranza, …, dato che comunque il socio sarebbe tutelato dalla valvola del diritto di recesso … la possibilità che la delibera maggioritaria si presti ad abusi contro qualcuno dei soci rende opportuno richiedere il consenso di quelli che potrebbero assumere una responsabilità illimitata a fronte di altri che non l'assumerebbero».
[nota 21] Si pensi alla norma suppletiva dell'art. 2500-ter che consente la trasformazione delle società di persone in società di capitali a maggioranza, in deroga alla regola generale espressa dall'art. 2292; all'insieme delle norme contenute negli artt. 2500-septies e 2500-octies che consegnano il mutamento della causa, ovvero del momento funzionale, alla decisione della maggioranza; all'estensione dell'istituto della trasformazione al di fuori dell'area degli enti per comprendervi la comunione di azienda.
[nota 22] La natura dei contributi, diversa dai conferimenti, è pacifica in dottrina. Si vedano per tutti G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 435; G.D. MOSCO, op. cit., p. 206; M. SARALE, op. cit., p. 559.
[nota 23] In tal senso M. SARALE, Consorzi e società consortili, cit., p. 558, ove ampi riferimenti dottrinali; A. BORGIOLI, op. cit., p. 302; contra G.D. MOSCO, op. cit., p. 205 e ss.
[nota 24] M. SARALE, op. cit., p. 558; G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 436.
[nota 25] G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 436; G.D. MOSCO, op. cit., p. 207. Si veda anche in tema F. TASSINARI, I patti parasociali e e obbligazioni del socio a titolo diverso dal conferimento, in C. Caccavale, F. Magliulo, M. Maltoni, F. Tassinari, La riforma della società a responsabilità limitata, Ipsoa, Milano, 2004, p. 491.
[nota 26] VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 437; A. BORGIOLI, op. cit., p. 171; M. SARALE, op. cit., p. 560, ove ampi riferimento dottrinali.
[nota 27] G.D. MOSCO, op. cit., p. 207.
[nota 28] A. BORGIOLI, op. cit., p. 171.
[nota 29] Così anche G. FRANCH, op. cit., p. 299. Si segnala nello stesso senso la risposta al Quesito n.145/2006/I dell'Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, est. A. Ruotolo - A. Paolini.
[nota 30] M. SARALE, op. cit., p. 461; A. BORGIOLI, p. 225. Stante la definizione dell'art. 2602, la ricorrenza del requisito soggettivo finisce per risultare particolarmente significativa sotto il profilo causale, dal momento che tale requisito è funzionale allo scopo assegnato all'ente [nota 31]. Ne consegue che la mancanza dei requisiti soggettivi pone in dubbio anche la qualificazione della fattispecie, che non potrebbe essere annoverata nell'ambito delle trasformazioni eterogenee da società di capitali in consorzio o società consortile, ma ricondotta ad una diversa ipotesi di trasformazione, con applicazione conseguente della disciplina specifica, o addirittura ad una modificazione di diversa natura. Si pensi al caso di trasformazione in consorzio in assenza dei requisiti soggettivi dei soci. La fattispecie potrebbe prestarsi ad una riqualificazione in termini di trasformazione in associazione non riconosciuta, che è idonea al perseguimento di finalità non lucrative seppur egoistiche. Qualora lo schema organizzativo di arrivo dichiarato fosse una società consortile, invece, la medesima deficienza di requisiti soggettivi potrebbe costringere a ravvisare nella fattispecie non una trasformazione eterogenea, bensì una pluralità di modifiche statutarie, alcune delle quali anche passibili di invalidità se confliggenti con la causa lucrativa, oppure, al limite, qualora muti anche lo schema organizzativo (si pensi al caso di una SpA lucrativa che intendeva trasformarsi in una Srl consortile), una trasformazione omogenea. Sennonché, la gravità delle conseguenze sotto il profilo pratico e soprattutto sotto l'aspetto del controllo in sede di trasformazione pare certamente attenuata dall'orientamento dominante in dottrina che ammette la partecipazione a consorzi da parte non solo di chi già sia imprenditore, ma anche da parte di coloro che siano in procinto di diventarlo [nota 32].
[nota 33] G.D. MOSCO, op. cit., p. 147.
[nota 34] Si vedano le leggi 12 agosto 1977 n. 675 e 21 maggio 1981, n. 240.
[nota 35] M. SARALE, op. cit., p. 467.
[nota 36] M. SARALE, op. cit., p. 466. A. BORGIOLI, op. cit., p. 228, il quale sostiene che la presenza di tali enti darà luogo ad una partecipazione sui generis con obblighi e diritti che dovranno specificamente risultare dal contratto.
[nota 37] M. SARALE, op. cit., p. 491.
[nota 38] A BORGIOLI, op. cit., p. 159 Ampiamente: M. SARALE, op. cit., p. 541; G.D. MOSCO, op. cit., p. 300.
[nota 39] Dalla necessità di garantire l'esistenza del capitale minimo imposto per legge alla ricorrenza di situazioni organizzative incompatibili con il tipo di arrivo.
[nota 40] A. BORGIOLI, op. cit., p. 193; G.D. MOSCO, op. cit., p. 322; G. VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 438; per una disamina delle diverse posizioni dottrinali M. SARALE, op. cit., p. 544 - 545.
[nota 41] A. BORGIOLI, op. cit., p. 244; G.D. MOSCO, op. cit., p. 150; M. SARALE, op. cit., p. 488.
[nota 42] G.D. MOSCO, op. cit., p. 149.
[nota 43] G.D. MOSCO, op. cit., p. 150; A. BORGIOLI, op. cit., p. 245.
[nota 44] G.D. MOSCO, op. cit., p. 148 -149; A. BORGIOLI, op. cit., p. .242-243; G.VOLPE PUTZOLU, op. cit., p. 365.
[nota 45] Così A. BORGIOLI, op. cit., p. 160.
[nota 46] G.D. MOSCO, op. cit., p. 152 e ss.; A. BORGIOLI, op. cit., p. 284.
[nota 47] Così anche G. FRANCH, op. cit., p. 320.
[nota 48] A. BORGIOLI, op. cit., p. 283.
[nota 49] A. BORGIOLI, op. cit., p. 285; G.D. MOSCO, op. cit., p. 154.
[nota 50] A. BORGIOLI, op. cit., p. 227.
[nota 51] Si vedano dunque gli artt. 2500-ter, 2500-quater e 2500-quinquies; si veda anche G. FRANCH, op. cit., p. 379.
[nota 52] Cfr. artt. 2545-decies e 2545-undecies.
[nota 53] In tal senso anche la risposta al Quesito n. 151 - 2006/I dell'Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, est. A. Ruotolo.
[nota 54] A. BORGIOLI, op. cit., p. 375; G.D. MOSCO, op. cit., p. 245 - 246.
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