La trasformazione eterogenea da o in società cooperative
La trasformazione eterogenea da o in società cooperative [*]
di Vincenzo De Stasio
Docente di Diritto Commerciale Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Piacenza - Cremona
Ci sono tanti profili da esporre sull'argomento e soprattutto ci sono numerose difficoltà interpretative che sono peculiari non soltanto della trasformazione, ma proprio della materia cooperativa, nella quale la trasformazione diventa punto di emersione di tutte queste difficoltà.
Un primo problema, anche a rimanere in superficie, risulta dalla collocazione stessa delle norme: quelle che sono state commentate oggi fanno tutte parte del titolo V del libro V del codice civile; invece le norme sulla trasformazione delle cooperative sono in parte nel titolo VI (importantissimi gli artt. 2545-decies ed undecies), ma vanno integrate con le norme generali sulla trasformazione (e speciali sulla trasformazione eterogenea) del titolo V. Inoltre, di importanza non minore, anche sotto il profilo pratico, sono alcune norme transitorie degli artt. 223-quaterdecies e 223-quinquiesdecies disp. att. trans c.c.
Da che cosa derivano allora le difficoltà di quest'argomento? Sicuramente dalla specialità dei problemi che si incontrano allorché la trasformazione tocca il fenomeno mutualistico; la specialità deriva anche da un istituto che nelle altre ipotesi di trasformazione non c'è: quello della devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici. Si tratta di un istituto "asimmetrico", perché riguarda la trasformazione da cooperative, ma non ha alcun rilievo, nel passaggio inverso da società lucrative a società cooperative.
Più in generale, tutte le ipotesi di passaggio tra tipo mutualistico cooperativo e altri tipi sono connotate da un certo grado di "asimmetria", nel senso che le regole delle trasformazioni in un verso e in quello contrario non sono delineate in termini speculari.
Porsi il problema delle ragioni di questa "asimmetria" è importante.
Un altro aspetto di rilievo è che le cooperative a mutualità prevalente (cioè quelle più significative dal punto di vista della mutualità) non sono soggette alla trasformazione. Dunque la trasformazione è anche istituto "residuale", e ciò pone un problema di sistema, a monte dei problemi pratici dei quali oggi dobbiamo trattare.
Proprio per dedurre affrontare i problemi applicativi, è necessario dare preliminarmente un inquadramento sistematico alla trasformazione della cooperativa prevista nell'art. 2545-decies (cioè comprendere perché si possono trasformare soltanto quelle cooperative che non sono a mutualità prevalente); il che ci impone di capire qualcosa di più delle differenze tra cooperativa a mutualità prevalente e cooperative diverse e la ratio dell'istituto della devoluzione.
La devoluzione ai fondi mutualistici è regolata nella disciplina legale in maniera talmente complessa e farraginosa che, senza una bussola legata alla ratio di questo istituto, diventa difficile prendere posizione anche sui dilemmi che sorgono in fase applicativa.
Vediamo subito i limiti della trasformazione: soltanto le cooperative a mutualità prevalente non si possono trasformare. Allora il problema posto dall'indicazione dell'art. 2545-decies c.c. è se quest'ultima norma sia abilitativa, cioè se consente alle cooperative "diverse" una trasformazione che altrimenti sarebbe vietata, o se sia l'espressione di un principio generale di libertà di trasformazione.
Potrebbe sembrare un problema puramente teorico, ma la riforma della cooperazione non ha abrogato nessuna delle norme speciali precedenti. Da un punto di vista sistematico, quanto alla trasformazione che coinvolga le cooperative, la norma-cardine, a partire dal 1971, è stata l'art. 14 della legge n. 127/71, che vietava la trasformazione di cooperative in società lucrative quand'anche la relativa deliberazione fosse assunta all'unanimità. A ben vedere, non si tratta di una norma "simmetrica": vietandosi soltanto questo passaggio e non l'inverso, si erano poste le premesse dell'asimmetria che riscontriamo ancora nel sistema, dal confronto tra l'art. 2500-septies c.c. e l'art. 2545-decies c.c. (che assoggettano a regole ben diverse la trasformazione "in" cooperativa, rispetto alla trasformazione "da" cooperativa).
Prima dell'art. 14 L. n. 127/71, il problema della trasformabilità delle cooperative era stato discusso dai grandi maestri del diritto commerciale (da Bigiavi, da Ascarelli, da G. Ferri sr.), con accenti che fanno pensare al problema attuale della distinzione tra norme abilitative e principi generali. Bigiavi scriveva che «se è vero che società mutualistiche e società lucrative, pur appartenendo allo stesso genus società, formano però due categorie nettamente distinte, è chiaro che non c'è affatto bisogno di una norma espressa che escluda la trasformazione, giacché quest'ultima, almeno in via di principio, risulta esclusa automaticamente proprio per il fatto che ci troviamo dinanzi a due categorie di società separate in maniera profonda»: cioè dalla distinzione fra causa mutualistica e causa lucrativa. Chi invece svalutava questa distinzione, come G. Ferri, scriveva che non è esatto dire che una trasformazione della società dal tipo capitalistico al tipo cooperativo non sia consentita dalla legge, perché per questo sarebbe stata necessaria «una espressa disposizione, la quale limitasse il potere dell'assemblea straordinaria rispetto a questa particolare modificazione dell'atto costitutivo».
La soluzione del dilemma circa il carattere "abilitativo" dell'art. 2545-decies o di conferma di un supposto principio generale di libera trasformabilità, del quale è spesso affermata la ricorrenza attuale nell'ordinamento, ha ricadute pratiche: se la norma dell'art. 2545-decies è abilitativa, allora si applica solo alle cooperative regolate dal codice civile. Ad esempio, nell'ambito della cooperazione bancaria, dove l'art. 150-bis T.U.B. esclude l'applicazione dell'art. 2545-decies c.c., le trasformazioni consentite sono soltanto quelle menzionate dal Testo Unico bancario (quindi una banca popolare può trasformarsi soltanto in società per azioni; una banca di credito cooperativo può essere assorbita mediante una fusione c.d. trasformativa, ma non può essere trasformata mediante una trasformazione in senso stretto: cfr. artt. 31 e 36 T.U.B.).
Questo consente di cogliere il primo aspetto problematico, ossia la delimitazione dell'ambito applicativo della trasformazione prevista nell'art. 2545-decies.
Vediamo altri problemi pratici.
Il passaggio da cooperativa a mutualità prevalente a cooperativa "diversa" (da quelle a mutualità prevalente) e/o il passaggio inverso costituiscono "trasformazione"? Sicuramente no, o quantomeno a questo "passaggio" non si applicano gli artt. 2545-decies e 2545-undecies c.c.
Il passaggio da cooperativa alla quale si applica la disciplina della società per azioni in via residuale (art. 2519, comma 1, c.c.) a cooperativa cui si applica la disciplina della Srl in via residuale (art. 2519, comma 2), e viceversa, costituiscono trasformazione?
Questo è un punto dubbio: sicuramente la fattispecie non ha nulla a che vedere con la disciplina degli artt. 2545-undecies e 2545-decies. L'unico problema, del resto, è quello dell'applicabilità o meno dell'istituto del recesso a questo "passaggio". Personalmente ritengo che non si tratti di una trasformazione; però ci sono opinioni diverse su questo punto.
Vediamo un po' meglio che cosa accade nel passaggio da cooperativa a mutualità prevalente - che non si può trasformare in società lucrativa - a cooperativa "diversa" da quelle a mutualità prevalente, che invece può essere trasformata. Questo passaggio può avvenire in due modi (art. 2545-octies c.c.):
a. mediante una modifica statutaria che elimini dallo statuto le clausole di limitazione del lucro per i soci cooperatori (cioè quelle clausole che corrispondono, con alcune modificazioni, alle clausole dell'art. 26 della legge Basevi e che ora sono previste dall'art. 2514 c.c.);
b. l'altra ipotesi è quella di perdita della prevalenza per effetto di una evoluzione della gestione. Quando una cooperativa è a mutualità prevalente? Quando la sua gestione si svolge in prevalenza in rapporto con i soci: prevalenza della mutualità significa che la gestione di servizio della cooperativa ha rilievo economico maggiore rispetto alla gestione dello stesso tipo con i terzi.
Alla prevalenza della mutualità la riforma societaria del 2003 ha riconnesso la meritevolezza delle agevolazioni di carattere fiscale: pertanto le cooperative a mutualità prevalente non si possono trasformare anche perché sono destinatarie di agevolazioni fiscali. Questo è sempre stato uno dei problemi della trasformazione in società lucrativa: il fatto che un soggetto imprenditore, che ha goduto di agevolazioni fiscali, muta veste per confrontarsi nella arena concorrenziale delle imprese con scopo lucrativo. Gli effetti negativi sul piano della parità concorrenziale possono essere esclusi o vietando la trasformazione oppure, se la trasformazione non si può impedire, ovviando a tali effetti in qualche altro modo. L'impostazione del D.lgs. n. 6/2003 è quella di porre rimedio alle esternalità negative mediante l'istituto della devoluzione ai fondi mutualistici.
Un altro effetto negativo della trasformazione della cooperativa è quello di consentire al soggetto che si trasforma di uscire, a suo gradimento, dal perimetro del controllo di vigilanza (si sa che la cooperazione è soggetta ad un sistema generalizzato di vigilanza governativa, che invece le società lucrative non conoscono, salvo che in settori particolari in ragione dell'oggetto dell'attività). La trasformazione in società lucrativa sottrae l'imprenditore cooperativo al controllo della vigilanza e quindi sorge la necessità di impedire che questa uscita sia deliberata con la finalità di non fare emergere fatti poco commendevoli dalle eventuali ispezioni. Questo secondo problema è stato risolto in maniera abbastanza semplice dall'art. 2545-undecies, comma 3, c.c., che prevede che la trasformazione non si può attuare se la cooperativa non è stata sottoposta a revisione da parte dell'autorità di vigilanza nell'anno precedente o, comunque, se gli amministratori non ne abbiano fatto richiesta da almeno 90 giorni. Quindi la cooperativa che intenda deliberare la trasformazione deve assoggettarsi un'ultima volta al controllo di vigilanza, che serve a verificare che la divisata uscita dal perimetro delle società mutualistiche non sia dettata da motivi poco commendevoli.
Resta comunque il problema della devoluzione degli aiuti e/o delle agevolazioni che la cooperativa abbia ricevuto: l'idea che la devoluzione sia legata ad una eliminazione o ad una restituzione di agevolazioni è già interpretazione della ratio dell'istituto, non da tutti condivisa. In un trattato recente in materia di società cooperative si dice, infatti, che la devoluzione è una sanzione, quasi che la trasformazione, anziché essere un fatto neutro, sia proprio un atto che deve essere sanzionato.
Si parla di "sanzione" forse anche perché la devoluzione non è "esatta" restituzione allo Stato di benefici fiscali ricevuti dalla cooperativa, ma è trasferimento del risultato economico di questi benefici fiscali genericamente a vantaggio del movimento cooperativo, tramite quella sua espressione che è data dai c.d. fondi mutualistici, in veste di beneficiari. Può dirsi, questa, una funzione perequativa o è una funzione dissuasiva?
Più in generale, è opportuno chiedersi quale sia l'atteggiamento attuale dell'ordinamento rispetto al sistema delle trasformazioni delle cooperative. Da un canto, vi è un atteggiamento di favore, dato dal superamento della regola dell'art. 14 della legge n. 127/71 e dal fatto che ci sono dei quorum agevolativi per la trasformazione di società cooperativa in società lucrativa. A fronte dell'istituto della devoluzione, si dovrebbe d'altro canto affermare che si tratta dell'apertura di una porta che appena socchiusa, o che è falsamente aperta, dato che la devoluzione è "una sanzione". Il vero problema è quello della ratio sottostante a quest'istituto, perché è la devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici ad assumere connotati ambigui: per un verso, "elemento dissuasivo" rispetto alla trasformazione, così da essere interpretata da alcuni autori come sanzione; per altro verso, essa potrebbe essere intesa in termini di strumento semplicemente perequativo.
Ciò comporta interpretazioni diametralmente opposte, favorite da una formulazione della norma (art. 2545-undecies, comma 1) che è portato di stratificazioni successive, di interventi anche di mani diverse nel corso del processo legislativo: di qui la difficoltà del procedimento interpretativo, perché in questo caso la ratio editatoria (quella che ha determinato coloro che hanno formulato le norme a scriverle in un certo modo) si distacca senz'altro dalla ratio legis (che invece deve essere ricostruita dall'interprete).
Ci sono cooperative che sono soggette alla disciplina transitoria, in quanto costituite prima della riforma del 2003. Queste cooperative sono soggette alla disciplina degli artt. 223-quaterdecies e 223-quinquiesdecies disp. att. trans. c.c. La seconda è una norma interessante perché stabilisce il principio che le cooperative che non erano agevolate nel vecchio regime, cioè quelle che non avevano le clausole Basevi nello statuto, possono attuare la trasformazione senza devolvere il patrimonio: questo perché nel loro patrimonio non hanno riserve indivisibili. Da questa norma sembra emergere una correlazione tra oggetto della devoluzione e riserve indivisibili, che riprende la motivazione "fiscale" della devoluzione: infatti, le riserve indivisibili si formano anche per effetto delle agevolazioni che le cooperative ricevono, dai tempi della legge Pandolfi, in relazione agli utili maturati. Viceversa, questa norma di esenzione dalla devoluzione non si applica alle cooperative che erano agevolate sulla base della legge Basevi (art. 223-quaterdecies).
Che cosa succede se una cooperativa, attraverso una modifica statutaria, toglie queste clausole ex Basevi, ora riprese e aggiornate nel codice civile (art. 2514 c.c.) per le cooperative a mutualità prevalente? In linea di principio accade che la cooperativa, dal momento in cui la deliberazione di modifica statutaria è efficace, cioè dal momento in cui questa delibera è iscritta nel Registro delle Imprese, diventa una cooperativa a mutualità non prevalente e quindi assoggettata alla disciplina dell'art. 2545-octies c.c.; in questo caso, sentito il parere del revisore esterno - ove presente -, gli amministratori devono redigere un apposito bilancio, che va notificato entro 60 gg. dall'approvazione al Ministero per le Attività Produttive, al fine di determinare il valore effettivo dell'attivo patrimoniale da imputare alle riserve indivisibili. Secondo l'interpretazione che è stata data dalla dottrina maggiormente accreditata, queste riserve indivisibili costituiscono il patrimonio che nel caso di una successiva trasformazione dovrà essere oggetto di devoluzione.
Come ho ricordato prima, ci si può imbattere in cooperative a mutualità non prevalente che non hanno eliminato dallo statuto le clausole dell'art. 2514, ma che non sono più "a mutualità prevalente" perché, dall'esame dell'evoluzione della gestione e dalla relazione degli amministratori, risulta che per due anni la cooperativa non ha rispettato la prevalenza della mutualità, cioè ha operato più con i terzi che con i soci. In questo caso, senza modifiche statutarie, pur mantenendo le clausole già Basevi, la cooperativa diventa "diversa" e assoggettabile a trasformazione (e comunque, ancora prima e indefettibilmente, alla disciplina dell'art. 2545-octies).
Occorre avvertire che vi è un punto oggetto di evoluzione interpretativa: si dice che, in effetti, la condizione delle cooperative diverse debba meritare un trattamento differente a seconda che siano mantenute o meno nello statuto le clausole di "compressione" del lucro per i soci; tant'è che, fra i provvedimenti all'esame del recente disegno di legge del Governo, c'è anche quello che vuole espungere dal dettato dell'art. 2545-octies l'adempimento del bilancio speciale certificato, nel caso in cui il passaggio da "prevalente" a "diversa" sia legato non alla soppressione delle clausole dell'art. 2514, ma semplicemente alla "naturale" evoluzione della gestione dalla prevalenza del servizio ai soci alla prevalenza dei rapporti coi terzi.
Perché allora una cooperativa diversa si può trasformare ed una cooperativa a mutualità prevalente no? Ponendomi questo problema, ho pensato che in realtà qui si valorizzi proprio la gestione mutualistica: che ci sia un interesse dei soci alla gestione mutualistica è circostanza della quale nessuno dubita; che una gestione mutualistica, per essere significativa, debba anche essere efficiente, è pure circostanza della quale è difficile dubitare. Se una cooperativa passa dalla mutualità prevalente alla mutualità "diversa" senza modificare il proprio statuto, cioè per effetto della naturale evoluzione della gestione, ciò significa che l'attività imprenditoriale legata alla gestione di servizio è un'attività che non è in grado di autosostenersi, quindi che la cooperativa è costretta, per mantenere il proprio equilibrio di bilancio e la gestione economica di impresa, a rivolgersi al mercato e a non privilegiare più il rapporto con i propri soci, oggetto della gestione di servizio. Questo potrebbe essere il motivo della limitazione della trasformazione alle sole cooperative "diverse": rispetto a queste ultime, infatti, si affievolisce l'interesse dei soci cooperatori all'esistenza di un soggetto imprenditore con il quale intrattenere una gestione mutualistica, perché questa gestione non è economicamente significativa e, qualora tornasse ad essere prevalente, probabilmente nella maggior parte dei casi non sarebbe nemmeno in grado di sostenersi, dal punto di vista dell'economicità dell'impresa. Questo fa sì che, nella valutazione del legislatore, sia consentito il passaggio successivo alla lucratività, e quindi l'uscita del soggetto imprenditore dall'ambito del movimento cooperativo.
Questa uscita si attua con la trasformazione, che può essere deliberata con i quorum particolari indicati dall'art. 2545-decies, comma 2, c.c.
La norma più rilevante dal punto di vista pratico è quella dell'art. 2545-undecies, comma 1, c.c., là dove recita che «la deliberazione di trasformazione devolve il valore effettivo del patrimonio, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti […] ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione». Dal punto di vista del notaio, chiamato a verbalizzare la delibera di trasformazione, è di particolare interesse comprendere il significato di questo verbo all'indicativo: "devolve". Che cosa significa "devolve"? "Trasferisce"? In altri termini, qual è l'effetto di questa deliberazione? Giustamente è stato scritto da Maltoni che l'assemblea non ha nessun potere discrezionale di eliminare la devoluzione: in effetti, la devoluzione è imperativa perché ci sono ben precise ragioni che impongono questa devoluzione. Il problema è però di stabilire come la devoluzione opera e se la fonte e i termini della devoluzione risultino soltanto dalla legge o possano in una certa misura derivare e trovare la propria fonte anche nella delibera.
Ci sono due problemi: il quantum e il quomodo.
Il primo problema è quello di determinare quanto va devoluto: su questo punto ci sono alcuni contrasti interpretativi dei quali dovremo senz'altro parlare; il secondo è il quomodo, cioè in che modo (in contanti?), in che termini si attua la devoluzione; se ci sono modalità alternative di adempimento; in quale momento questo obbligo di devoluzione diventa effettivo. Su tutti questi profili si possono fare molte considerazioni, che sono cruciali dal punto di vista pratico, perché dal quantum e dal quomodo della devoluzione deriva la sostenibilità o meno di un'operazione di trasformazione di società cooperativa in società lucrativa. Quindi è problema che va affrontato con attenzione, sul quale, del resto, si riflette la ratio dell'istituto della devoluzione. Infatti, se diciamo che questa è una sanzione, arriveremo a interpretare la norma nel senso letterale, così come sostenuto da alcuni autori, nonché in ambienti vicini ad alcuni fondi mutualistici: l'oggetto della devoluzione è tutto il patrimonio tranne - sostanzialmente - il capitale: quindi, sia che ci siano soltanto riserve indivisibili, sia che ci siano anche riserve divisibili, tutto il residuo va devoluto, in caso di trasformazione, ai fondi mutualistici.
Per le riserve indivisibili nulla quaestio: queste vanno devolute ai fondi mutualistici anche in caso di scioglimento e liquidazione della cooperativa "diversa". Per le riserve divisibili il problema si pone, perché sono riserve che, appunto in quanto tali, i soci si possono ripartire quantomeno allo scioglimento della cooperativa.
Inoltre va considerato il significato dell'inciso che, prima, abbiamo omesso nella lettura dell'art. 2545-undecies, comma 1; è consentito, infatti, l'aumento della deduzione del capitale fino a concorrenza dell'ammontare minimo del capitale della società risultante dalla trasformazione (è una regola che ha un senso pratico per la trasformazione nelle sole società di capitali , dato che la "deduzione" può arrivare fino a 10.000 euro o a 120.000 euro a seconda del "tipo di arrivo": società a responsabilità limitata o società azionaria). Quindi vi è la possibilità che una parte piccola (in valore assoluto, non necessariamente in termini relativi, per una iniziativa imprenditoriale altrettanto piccola) del patrimonio della cooperativa, pur se corrispondente alle riserve indivisibili, venga a costituire il capitale minimo legale del tipo sociale risultante dalla trasformazione. Il senso di questa disciplina legale, probabilmente, è quello di agevolare la trasformazione nelle realtà imprenditoriali più piccole: quindi, questo inciso del primo comma dell'art. 2545-undecies è un segno di favor per la trasformazione, per quei casi in cui l'impresa non soltanto fatica a tenersi in piedi con la gestione mutualistica, ma è anche di piccole dimensioni. In dette ipotesi, è auspicabile il movimento di questa realtà imprenditoriale - specialmente se la stessa è in difficoltà - verso un approdo alla causa lucrativa.
L'altro problema è il quomodo. Cerchiamo di fissare un punto fermo: qual è il momento (se accettiamo la tesi che la devoluzione comporta una prestazione pecuniaria) in cui sorge il credito del fondo mutualistico?
Innanzitutto si procede alla relazione di stima a norma dell'art. 2545-undecies, comma 2, che prevede che «alla proposta di deliberazione di trasformazione gli amministratori allegano una relazione giurata di un esperto designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società cooperativa, attestante il valore effettivo del patrimonio dell'impresa» (anche su questo punto ci sono differenti orientamenti: c'è chi afferma che il "valore effettivo" ricomprende anche l'avviamento, c'è chi lo nega; ma in questa sede ci si può limitare a dire che questo è un problema dell'esperto, non necessariamente del notaio verbalizzante). Il problema è di stabilire - se, appunto, c'è un patrimonio da devolvere (che ammonta alla cifra determinata dall'esperto) -, in che momento sorge il credito del fondo mutualistico. Reputo che il credito sorga nel momento in cui la trasformazione è efficace, donde il problema di stabilire se si applica la regola speciale delle trasformazioni eterogenee (come ritengo più probabile), per cui la trasformazione non diventa efficace prima del decorso dei 60 gg. dall'iscrizione della deliberazione di trasformazione nel Registro delle Imprese (art. 2500-novies c.c.), al fine di consentire ai creditori della cooperativa di proporre un'eventuale opposizione (del resto, in un'operazione trasformativa che comporti la devoluzione, l'interesse dei creditori della cooperativa a opporsi è in re ipsa, poiché la devoluzione è proprio un deflusso di risorse patrimoniali dal patrimonio del debitore); oppure, se non si ritiene applicabile la regola speciale in materia di trasformazione eterogenea, il credito del fondo mutualistico sorge al momento stesso dell'iscrizione della delibera di trasformazione nel Registro delle Imprese (e non 60 gg. dopo), secondo la regola generale dell'art. 2500 c.c.
è possibile che il credito del fondo mutualistico venga soddisfatto con modalità alternative al pagamento ? Anche qui il problema interpretativo è legato alla ratio dell'istituto della devoluzione: se consideriamo che la norma dell'art. 2545-undecies sia di carattere sanzionatorio, evidentemente la risposta deve essere negativa; se invece cerchiamo di bilanciare i diversi interessi che stanno attorno alla devoluzione, tenendo anche in conto la posizione dell'impresa che continua la sua attività dopo la trasformazione e la sua necessità di sostenersi, possiamo anche immaginare che per la devoluzione prevedano modalità di esecuzione alternative al pagamento di un debito pecuniario immediatamente esigibile. Da una breve indagine comparatistica, emerge che anche nell'ordinamento spagnolo per la trasformazione delle cooperative è prevista la devoluzione, che si svolge sotto il controllo dell'autorità di vigilanza; in base alle leggi locali delle varie regioni, competenti a regolare la materia cooperativa, sono previste varie modalità esecutive della devoluzione, anche, ad esempio, con possibilità di dilazione del debito.
Tali soluzioni appaiono ragionevoli e forse ricavabili in via interpretativa per il nostro ordinamento, sottolineando il nesso di derivazione della devoluzione dall'autonomia privata che si esplica nella conformazione della delibera trasformativa: nella costruzione sintattica del testo di legge che stiamo interpretando, è la deliberazione di trasformazione che "devolve" e, pertanto, non si può escludere che, quanto al quomodo della devoluzione, vi sia uno spazio regolativo rimesso appunto all'autonomia privata.
Non escludo nemmeno, se il tipo sociale risultante dalla trasformazione è azionario, che sia possibile attribuire degli "strumenti finanziari ex art. 2346 c.c." al fondo mutualistico. Questo perché, in effetti, una delle tesi che circolano tra gli studiosi della cooperazione in merito alla posizione del fondo mutualistico è che quest'ultimo sia una sorta di "socio silente" della cooperativa (infatti riceve il 3% degli utili ogni anno). A questa stregua, la devoluzione sarebbe una sorta di liquidazione di questo particolare "socio silente", nel momento in cui la società esce dal movimento cooperativo. Se si tratta di una condizione in qualche maniera avvicinabile ad una posizione di carattere partecipativo, nulla vieta che la delibera che attua la trasformazione possa contenere nel suo deliberato anche una previsione relativa al quomodo della "liquidazione" del fondo mutualistico, purché l'oggetto della previsione sia adeguato al "valore effettivo" di quanto al fondo mutualistico spetta in base alla relazione dell'esperto (l'eventuale liquidazione del debito pecuniario in rate differite dovrà comportare il pagamento di interessi a tassi adeguati; lo strumento finanziario che viene attribuito in sostituzione della devoluzione non dovrà essere uno strumento finanziario inalienabile o di valore economico inadeguato, ecc.).
Se si accede alla tesi che la devoluzione non sia istituto meramente sanzionatorio, queste soluzioni sono percorribili, tanto più ove vi sia l'assenso preventivo del fondo mutualistico sulla modalità di liquidazione individuata nella delibera. Non è detto, però, che questo preventivo assenso vi sia in ogni caso. In mancanza, si pone il problema di come possano reagire i fondi mutualistici a una previsione di devoluzione "inadeguata".
Il problema è complesso. Da un punto di vista formale, essi sono creditori, ma tali diventano solo nel momento in cui la trasformazione è efficace (cioè in un momento che comunque non può precedere l'iscrizione della delibera di trasformazione nel Registro delle Imprese, quale che sia la tesi adottata in merito all'alternativa fra applicazione dell'art. 2500-novies o dell'art. 2500 c.c.): essi non sono creditori anteriori alla trasformazione e quindi non possono fare alla stessa preventiva opposizione (se non per l'eventuale partecipazione agli utili del 3 %, dandosi il caso che il relativo credito non sia stato pagato dalla cooperativa: ma si tratta di un'ipotesi particolare, che non può condizionare la soluzione del problema in generale). La soluzione più convincente è che essi possano fare valere soltanto pretese risarcitorie in un momento successivo alla trasformazione, alla stregua di quanto disposto dall'art. 2500-bis c.c. e dunque secondo regole e principi analoghi a quelli studiati per la responsabilità in caso di danno da fusione.
[*] Trascrizione autorizzata dell'intervento orale al Convegno. Per alcuni riferimenti bibliografici, l'autore rinvia alle note del proprio saggio "La trasformazione delle cooperative", in Liber amicorum G.F. Campobasso, a cura di P. Abbadessa e G.B. Portale, 4, Utet, 2007, p. 189 e ss.
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