La trasformazione da e in società cooperativa: profili problematici e questioni applicative
La trasformazione da e in società cooperativa: profili problematici e questioni applicative
di Giuseppe Antonio Michele Trimarchi
Notaio in Gragnano
Trasformazione e cooperazione: il nodo dei confini della trasformazione da ed in società cooperative dopo la riforma
L'area operativa della trasformazione nel settore della cooperazione
Atteso il profondo intervento del legislatore in materia di trasformazione in generale, non appare, invero, possibile esaminare le questioni relative al fenomeno concernente il "transito" da ed in cooperative, senza verificarne le linee generali, che contribuiscono, non poco, a sciogliere taluni dei nodi che da sempre hanno avviluppato il delicato tema del passaggio dall'uno all'altro modello organizzativo-funzionale [nota 1].
Va anche, in limine, segnalato che non tutti i profili problematici che la pratica impone si mostrano di agevole soluzione.
Il contributo legislativo, peraltro, risente, invevitabilmente, della circostanza per cui la trasformazione ha storicamente segnato il confine ermeneutico ed applicativo ove piantare i paletti più profondi delle differenze tra società lucrative e società cooperative.
è noto il tormentato e vivace dibattito che, da sempre, ne caratterizza le questioni teorico-applicative.
Inutile negare che la legislazione ante-riforma risultava ruotare attorno al perno, in materia rappresentato dall'articolo 14 della legge 127 del 1971, che com'è noto, vietava la trasformazione di società cooperativa in società con scopo di lucro. Nulla, però, la norma diceva in ordine all'inversa direzione della modifica organizzativa ossia relativamente alla trasformabilità della società lucrativa in società cooperativa [nota 2].
Pure appare tanto preliminare quanto determinante ricordare che le problematiche inferenti il passaggio tra i diversi modelli organizzativi in parola, al di là dell'evidente quanto astringente dato normativo testè richiamato, risentivano non poco del diverso modo di intendere la cooperazione in generale. Ed in particolare se in essa occorresse intravedere l'espressione di una modalità dell'esercizio dell'attività d'impresa, e più precipuamente di una modalità "minore", organizzata con regole peculiari nell'attesa di un transito alla formula, per così dire, più evoluta, ossia «all' impresa ordinaria» [nota 3]. Oppure se la cooperazione fosse e sia strumento, tout court, per la realizzazione di obiettivi diversi da quelli propri dell'impresa lucrativa.
Si è già altrove evidenziato [nota 4] che gli artt. 2545-decies ed undecies, ossia le «norme speciali» della trasformazione della società cooperativa [nota 5], rappresentino un chiaro compromesso tra queste due tendenze di politica economico-legislativa.
Appare chiaro, infatti, che, da un lato, il principio segnato dal "vecchio" articolo 14 risulta abbandonato nell'esplicito riconoscimento della legittimità del "transito" dal modello cooperativo a quello lucrativo; d'altra parte poi, si rinviene un manifesto, quanto esplicito favor per la trasformazione delle cooperative a mutualità non prevalente, quindi, in linea di principio, di quelle appartenenti a quel «sottotipo cooperativo» che presenta i profili di maggiore "vicinanza" all'organizzazione ed agli scopi, delle società lucrative [nota 6].
In questo contesto si comprende la posizione di chi ritiene necessario chiedersi se abbia senso interrogarsi sulla eventuale sopravvivenza del divieto di cui all'articolo 14 legge 127\71 [nota 7].
Non è dato, infatti, trascurare la circostanza per cui se da un lato la trasformazione di società lucrative di capitali in cooperative appare fenomeno permesso dall'ordinamento positivo del post-riforma come risulta dal chiaro disposto del primo comma dell'articolo 2500-septies c.c., dall'altro, come evidenziato, il fenomeno di direzione inversa sembra consentito nei limiti in cui l'ente di partenza sia una cooperativa a mutualità non prevalente (articolo 2545-decies primo comma c.c.), e che l'operazione, in ogni caso, risulti assoggettata a particolari cautele (maggioranze, trasformazione di strumenti finanziari, devoluzione, relazione giurata concernente il valore effettivo del patrimonio, revisione contabile effettuata o quanto meno richiesta, solo ad esaminare il contenuto estrinseco delle "norme speciali " di cui agli articoli 2545-decies ed undecies c.c.).
Da quanto sopra emerge che risultano varie ipotesi riconducibili all'ampia nozione di trasformazione da o in cooperative, prima facie, sprovviste di un'esplicita disciplina normativa : si pensi alla trasformazione di società di persone o di consorzi in società cooperative , di società cooperativa in associazione riconosciuta o non, come pure non risulta disciplinata l'ipotesi della "trasformazione" di banca di credito cooperativo in banca popolare e viceversa [nota 8], ovvero di società cooperativa in consorzio in forma cooperativa [nota 9].
è evidente, nelle ipotesi appena formulate, ed in particolare in tutte quelle che delineano un passaggio da organizzazione cooperativa a lucrativa, che, ove si rinvenisse nell'articolo 14 della L. 127/71 un principio sopravvivente alla riforma del 2003, il relativo divieto affetterebbe di non praticabilità la fattispecie corrispondente; laddove, diversamente, si ritenga che il cambio di direzione del legislatore sia stato radicale, ad ogni ipotesi appena indicata, come a quelle rinvenibili nelle varie combinazioni che la prassi sia in grado di manifestare, dovrà darsi risposta sistematica di segno diametralmente opposto, fermo restando che i temi potrebbero risultare particolarmente complessi nel caso di esistenza di una disciplina ulteriormente speciale per la trasformazione di specifiche società cooperative [nota 10].
La questione, definita "di vertice" [nota 11], necessita, in tutta evidenza, di una riflessione di carattere generale e sistematico.
E si torna a quanto preannunziato: non può trascurarsi che la riforma ha fortemente innovato l'istituto della trasformazione. Dal tenore degli artt. 2498 e ss. emerge un forte ampliamento della nozione di trasformazione rispetto a quella cui l'insegnamento tradizionale ci aveva abituati [nota 12], come si evince dalla riconosciuta cittadinanza oltre che alle ipotesi di trasformazione a carattere omogeneo, e quindi nell'ambito del medesimo contesto causale (ad esempio trasformazione "progressiva da società di persone in capitali, o "regressiva " di segno inverso), anche di fattispecie che, in precedenza, erano, in larga prevalenza, escluse dal novero delle "trasformazioni legittime".
è sufficiente pensare, al riguardo, ai casi di cui agli articoli 2500-septies ed octies (trasformazioni c.d. eterogenee) , nonchè, l'osmosi, oramai ammessa - nei limiti che ci faremo carico di delineare - tra società lucrative e società cooperative ( di cui al primo comma dell'articolo 2500-septies c.c. ed agli articoli 2545-decies ed undecies, ovvero agli articoli 223-quaterdecies e quinquiedecies disp. att. trans. c.c.).
Un punto di partenza appare difficilmente sconfessabile: la riforma si preoccupa della trasformazione in generale come di istituto volto principalmente a disciplinare un effetto riqualificante la fattispecie della titolarità di rapporti giuridici imputati, anteriormente alla decisione di trasformazione, ad un'impresa collettiva (o ad altra formula organizzativa della contitolarità di rapporti) in funzione della prosecuzione e della continuità dei rapporti stessi, mostrando, dunque, un elevato grado d'attenzione verso la necessità d'evitare "discontinuità" tra la titolarità anteriore la decisione di trasformazione e quella successiva, ed, al tempo stesso, scarsa sensibilità verso la più tradizionale ricostruzione della trasformazione quale fenomeno di modifica dell'organizzazione dell'impresa all'interno del medesimo congegno causale [nota 13].
Solo in questo senso si è in grado di spiegare l'inserimento, nella disciplina della trasformazione, delle ipotesi c.d. di "trasformazioni eterogenee" cui vengono ricondotte, dal diritto positivo, anche modifiche del regime della (con)titolarità e della imputazione del tutto estranee alla nozione stessa d'impresa (quale che sia) e dunque del tutto avulse dal contesto dell'attività e\o della sua prosecuzione.
è sufficiente, al riguardo, riflettere sul passaggio da ed in comunione d'azienda per comprendere quanto il legislatore abbia abbandonato la prospettiva della qualificazione e della fattispecie per rifluire in quella dell'effetto e del risultato.
Egualmente, e sempre in generale, non può tacersi che i limiti imposti, organicamente, all'effetto - patentemente ampliato - della trasformazione sono due:
a. il diritto dei soci a non vedersi imposta - tout court - un'organizzazione della fattispecie significativamente e radicalmente diversa da quella che, in origine, aveva determinato l'adesione;
b. i diritti dei terzi, ed in particolare dei creditori, a non essere pregiudicati da decisioni di trasformazione idonei a diminuire, in ragione divisato effetto, la garanzia che la formula organizzativa assicurava precedentemente la stessa.
Le posizioni ora, sia pure genericamente, indicate appaiono avere suscitato le principali preoccupazioni del legislatore nella disciplina "generale" della trasformazione: in questo senso, infatti, non possono non leggersi le disposizioni in materia di recesso (artt. 2437 c.c. e ss. per le SpA, e art. 2473 c.c. e le Srl); la disciplina del consenso del socio destinato, di seguito alla trasformazione, ad acquisire responsabilità illimitata (art. 2500-sexies c.c.), e, specie nella trasformazione eteregonea, il diritto dei creditori di opporsi alla trasformazione (art. 2500-novies c.c.).
Fuori da queste cautele il legislatore non sembra che abbia avuto remore a qualificare e disciplinare come "trasformazione" sia eventi in cui si assista ad un cambiamento dell'organizzazione dell'esercizio dell'attività economica e d'impresa nell'ambito della comune ed autorevolmente condivisa nozione di "tipo" sociale [nota 14], sia il "transito" tra fattispecie in alcun modo riconducibili alla nozione di "tipo sociale" (si pensi alla trasformazione eterogenea da ed in fondazioni e/o associazioni), sia, infine, riferendo la disciplina de qua a passaggi tra fattispecie totalmente al di fuori del fenomeno associativo (si pensi alla trasformazione eterogenea da ed in comunione d'impresa).
In generale ciò ha indotto la dottrina ad interrogarsi in ordine alla riconducibilità al fenomeno della trasformazione di ipotesi che pur tradizionalmente assai lontane dalla relativa nozione, fossero assimilabili - quanto agli effetti - a quelli, pure oramai disciplinati come tali dalla legge (è nota in tal senso, e non pare nemmeno definitivamente sopita la questione dell'inquadrabilità o meno, nella trasformazione, del "passaggio" da società ad impresa individuale) [nota 15].
Il settore della cooperazione non sfugge al delineato quadro generale, anzi, se possibile, esso risulta "aggravato" da un duplice ordine di fattori :
- la trasformazione di società lucrative in cooperative risulta solo parzialmente disciplinata (cfr. art. 2500-septies c.c.);
- la trasformazione di società cooperative in lucrative appare caratterizzata da peculiari cautele (cfr. artt. 2545-decies ed undecies c.c.).
Quanto, a quest'ultimo aspetto, il limite che il legislatore ha imposto alla trasformazione delle società cooperative in lucrative lungi dal potersi ricondurre alla rilevanza del profilo causale - che, di per sé, appare oramai totalmente estraneo al legislatore della riforma in materia di trasformazione più in generale - appare, vieppiù, da ascriversi ad un qualche aspetto peculiare della cooperazione.
Ad avviso di taluni la peculiarità troverebbe ragione nelle «caratteristiche economiche della gestione» [nota 16] nel senso che ove il rapporto mutualistico non perda, nel tempo, la consistenza che il legislatore avrebbe inteso quale limite d'impermeabilità al transito verso il sistema lucrativo, esso detto transito ne risulterebbe inibito [nota 17]. Ove, viceversa, la consistenza del rapporto mutualistico risulti compromessa al di sotto del detto limite, verrebbero meno le ragioni che impongono la conservazione dell'impresa nel sistema cooperativo e, dunque, si rientrerebbe nell'ambito della legittimità dell'operazione. In questo contesto, l'articolo 2545-decies c.c. nella parte in cui ammette alla trasformazione le sole società cooperative a mutualità non prevalente salvaguarderebbe il "diritto del socio" alla conservazione del rapporto mutualistico e della relativa disciplina apprezzando come "meritevole d'interesse" la prosecuzione del rapporto secondo le regole della mutualità, a tutela dell'aspettativa dei soggetti a non vedere sovvertite queste regole allorché la gestione mutualistica "sia sostenibile" nel lungo periodo [nota 18].
L'opinione non sembra condivisibile. Non v'è, infatti, alcuna traccia dell'aspettativa del socio alla prosecuzione del rapporto secondo le regole della mutualità, non potendosi trascurare, al riguardo che il passaggio dalla mutualità prevalente a quella non prevalente (che rappresenta, com'è noto, il presupposto generale di legittimità della trasformazione in parola) possa avvenire, nella previsione legislativa, come conseguenza di una scelta assembleare volta alla soppressione delle clausole di cui all'articolo 2514 c.c. (cfr. 2545-octies primo comma c.c.) rispetto alla quale non sembra che il socio goda di particolari cautele. Se esistesse il principio della meritevolezza dell'interesse alla conservazione del rapporto sociale in termini di rapporto mutualistico, quand'anche nella sola ipotesi di sostenibilità di lungo periodo della gestione mutualistica, dovrebbe essere inibita la scelta della soppressione volontaria ad libitum. Il che non è, dal momento che essa scelta può essere deliberata in ogni momento. Ed inoltre la perdita della "prevalenza" appare, anche al di fuori delle ipotesi di soppressione delle clausole relative alla mutualità, pur sempre il frutto di una scelta gestionale, e quindi volontaria (cfr. 2545-octies c.c.). Ebbene, appare quanto meno singolare un diritto che, da un lato, sarebbe concepito ad esprimere il quid pluris della cooperazione - alla cui preservazione ontologicamente si dice destinato - e dall'altro, risulti suscettibile di soppressione per scelte volontarie (ora gestionali, ora organizzative) senza che il titolare, di fatto, abbia alcun potere per preservarlo!
Appare più convincente la ricostruzione di quanti rivengono la ratio del "divieto" di trasformazione di società cooperativa a mutualità prevalente in società lucrativa, nella necessità di evitare che il transito al modello lucrativo abbia scopo elusivo. Ossia di un passaggio che possa favorire l'abuso delle agevolazioni di cui il modello della cooperativa a mutualità prevalente gode [nota 19].
Altrove s'è avuta occasione di dare atto che la formazione del patrimonio delle cooperative non è, punto, dissimile da quella propria delle società lucrative [nota 20]. Nel contesto della mutualità prevalente, tuttavia, v'è ampio riscontro dell'indivisibilità delle riserve quale sostanziale contraltare delle particolari provvidenze di carattere fiscale e tributario [nota 21]. Ne emerge con chiarezza la diffidenza del legislatore verso un sistema che da un lato consenta la più agevole formazione e l'accantonamento di poste di netto patrimoniale attraverso cospicui benefici fiscali e dall'altro che, mercè l'indiscriminato utilizzo della tecnica (e del conseguente effetto) di trasformazione, finisca per negare la ragione stessa delle agevolazioni, che, intanto vengono riconosciute, in quanto l'impresa sia gestita con caratteri spiccatamente intrisi di mutualità. D'altro canto, si è osservato, che il principio permea altre operazioni che producono effetti simili a quello della trasformazione, in particolare avuto riguardo alla "destinazione patrimoniale". Come accade nel caso di perdita della mutualità prevalente e dello scioglimento della società.
Giova ricordare che, nella prima fattispecie, il legislatore s'è preoccupato di predisporre una disciplina idonea a determinare e separare la parte di patrimonio «corrispondente alle riserve indivisibili» (che deve rimanere tale anche dopo il mutamento di qualifica) dalla restante parte. A tale riguardo, l'articolo 2454-octies c.c. stabilisce che occorre un apposito bilancio. La disciplina si completa in forza dell'articolo 111-decies delle disposizioni di attuazione e transitorie [nota 22].
Nel caso, poi, in cui la perdita della mutualità prevalente avvenga in conseguenza del fatto che la società, per due esercizi consecutivi, non rispetti i criteri fissati per essa dal legislatore (quindi quelli di cui all'articolo 2513 c.c.) la procedura prevede che amministratori ed i sindaci, debbano, in occasione dell'approvazione del bilancio di esercizio, e nelle relazioni previste dagli articoli 2428 e 2429 c.c., indicare specificatamente i criteri seguiti nella gestione sociale per il conseguimento dello scopo mutualistico. Quando il mancato rispetto delle citate condizioni sia reiterato anche nel secondo esercizio bisognerà provvedere secondo il disposto dell'articolo 2545-octies c.c.
Nella diversa ipotesi di scioglimento di società cooperative, per l'aspetto che quivi occupa, pare opportuno ricordare che la legge prevede la convocazione dell'assemblea affinché essa provveda alla nomina dei liquidatori, alla determinazione dei loro poteri, dei criteri per la liquidazione ecc. La liquidazione, tuttavia, sarà diversa secondo che in liquidazione vi sia o meno una società cooperativa a mutualità prevalente. Solo in quest'ultima ipotesi, infatti, troverà applicazione la devoluzione dell'intero patrimonio sociale ai fondi mutualistici (giusta il disposto dell'articolo 2514 c.c.) salva la sola deduzione del capitale e i dei dividendi eventualmente maturati.
Nel caso di liquidazione di società cooperativa a mutualità non prevalente, invece, la procedura appare assai più simile a quella delle società lucrative ad eccezione che per la devoluzione ai fondi mutualistici che avrà ad oggetto le sole riserve indivisibili (ex art. 2545-ter). Ne consegue che il patrimonio eventualmente a ciò residuo potrà ridistribuirsi tra i soci.
Se ne ricava sistematicamente che se la società cooperativa perde la mutualità prevalente, l'exit dal settore della cooperazione "costituzionalmente garantita" ed agevolata (fermo restando la permanenza nel tipo "cooperativa") non determina mai devoluzione. La ragione di ciò potrebbe rintracciarsi nella circostanza per cui la permanenza della società tra i tipi (o nel tipo) della cooperazione continua ad assicurare l'applicazione della maggior parte delle regole proprie della stessa (scambio mutualistico, democraticità della gestione, capitarietà del voto, porta aperta, controlli e procedimenti speciali per la vigilanza e la liquidazione ecc.).
Nello scioglimento, la devoluzione colpisce quanto meno la "parte indivisibile" del patrimonio, che sarà più cospicua nelle cooperative a mutualità prevalente [nota 23] e meno "ingombrante" nelle cooperative diverse.
Insomma, appare chiaro che, a ragione o torto, la devoluzione è lo strumento utilizzato dal legislatore - con tecnica tutt'altro che esente da critiche [nota 24] - a presidio dell'inibizione di un transito fiscalmente fraudolento. è evidente che il fondamento di ciò risiede nella necessità di evitare che il "favor" accordato alla cooperazione si sostanzi in un aiuto di "Stato" a beneficio dell'ente lucrativo risultante dalla trasformazione [nota 25].
Ne consegue, tra l'altro, che non può non condividersi l'autorevole insegnamento per cui la devoluzione di cui è parola nell'articolo 2545-undecies c.c. non può operare indiscriminatamente, come accadrebbe nel caso di applicazione letterale del precetto normativo contenuto nel primo comma dell'articolo detto, ma solo avuto riguardo alla "parte indivisibile" del patrimonio di trasformazione [nota 26] e quindi di quella parte di netto che risulti composta da riserve indivisibili.
Appare, inoltre, evidente che nessuna delle ragioni fin'ora prese in considerazione abbia un qualche motivo di esistere nel caso di transito dal contesto lucrativo al contesto cooperativo, giacchè nessun pregiudizio ne deriverebbe a carico di principi generali in materia fiscale, tributaria o di "aiuti di Stato" (rectius di esercizio d'impresa in corretto regime di concorrenza).
Tutto ciò chiarito dal punto di vista metodologico, non può che concludersi respingendo l'idea che vi sia in alcun modo sopravvivenza del divieto di cui all'articolo 14 della L. 127/ 71 con la conseguenza che tutte le ipotesi non disciplinate dalla legge sembrano avere legittima cittadinanza nel nostro ordinamento e risulteranno assoggettate, per analogia, alle disposizioni sulla trasformazione di società cooperative in lucrative (o viceversa) seconda che ciascuna fattispecie produca un effetto, e rappresenti interessi, riconducibili all'una o all'altra "categoria" concettuale e, soprattutto, disciplina giuridica.
Profili applicativi controversi della trasformazione da ed in società cooperative:
il sottile filo d'Arianna rappresentato dal "tipo"
Atteso quanto precede, appare coerente riconoscere come consentita, oltre che la trasformazione di società cooperative in società lucrative ed in consorzi, anche quella in società consortili [nota 27].
Parimenti non militano significative ragioni per escludere che società di persone possano trasformarsi, tra l'altro, in società cooperative (di tipo Srl o SpA) [nota 28].
In tal caso, il problema è quello d'individuare la disciplina applicabile, posto che da un lato l'articolo 2500-ter c.c. (che disciplina la trasformazione, omogenea, di società di persone) pretende, com'è noto, il consenso della maggioranza dei soci a determinarsi secondo la parte a ciascuno assegnata sugli utili, ed inoltre impone la relazione di stima per la formazione del capitale; e, d'altra parte, la norma dell'articolo 2500-septies c.c. (che disciplina la trasformazione eterogenea delle società di capitali) prevede maggioranze diverse (i due terzi degli aventi diritto) e nulla impone in ordine alla formazione del capitale sociale.
Si ritiene che la seconda norma assuma carattere prevalente con riferimento all'individuazione della maggioranza, questa, infatti, risulta "rinforzata" proprio a presidio della maggior peso richiesto dalla legge per il transito eterogeneo, con la conseguenza che la trasformazione al vaglio dovrà essere decisa da tanti soci - della società di persone - che rappresentino i due terzi degli aventi diritto. Due terzi da calcolarsi secondo la parte a ciascuno assegnata agli utili, in omaggio al generale principio della decisione di trasformazione delle società di persone di cui all'articolo 2500-ter c.c.
L'applicazione delle norme a presidio della formazione del capitale sociale (di cui all'articolo 2500-ter c.c. secondo comma) dipende, in larga misura, dal più ampio significato da assegnarsi al ruolo del capitale sociale delle società cooperative, e soprattutto dal rinvio operato - nei limiti del "non previsto" ( nell'apposito titolo del codice ) e del "compatibile" - alle disposizioni in materia di società per azioni e a responsabilità limitata, dall'articolo 2519 c.c.
Il dibattito sul capitale sociale, il cui rilievo nelle società cooperative è invero significativamente diverso dalle lucrative, e quello relativo all'ampiezza del "rinvio" di cui s'è fatto cenno, non appare sopito, e coinvolge, solo per citare qualche esempio, non solamente il problema dell'applicazione o meno del secondo comma dell'articolo 2500-ter c.c. all'ipotesi di trasformazione in commento, ma più in generale la necessità o meno dell'applicazione della disciplina dei conferimenti in sede di costituzione, del versamento dei decimi, dell'esatto significato da assegnarsi alle modificazioni in aumento del capitale sociale che comportino modifica dell'atto costitutivo di cui all' art. 2524 comma 3 c.c. ecc.
Non è questa la sede per approfondire il complesso tema, tuttavia altrove [nota 29] s'è avuta l'occasione di segnalare che il richiamo alla normativa delle società di capitali sia pure nei limiti di quanto non espressamente e specialmente disciplinato ed, ovviamente, del compatibile, dovrebbe indurre ad una riflessione di sistema : quella secondo la quale il tipo cooperativo - dopo la riforma - si esprime in modelli organizzativi connotati da un diverso regime di flessibilità organizzativa, per i quali, fermo restando l'applicazione della disciplina speciale (ammissione dei soci, variabilità del capitale ed insignificanza del suo ammontare minimo, regole per la disciplina dei controlli di gestione e contabile, tanto per citare taluni aspetti più vistosamente differenti da quelli dei modelli organizzativi tipici delle società lucrative di riferimento) non può trascurarsi che il ruolo assegnato al "normotipo" lucrativo assurge a modello gestionale ritenuto dal legislatore più adeguato al perseguimento degli scopi mutualistici di quanto non lo sia un "tipo" (ossia un modello organizzativo) assolutamente autonomo [nota 30].
Insomma, il legislatore ha preso atto che le regole dell'organizzazione lucrativa siano regole adatte ed adeguate anche allo scopo mutualistico salvo per quegli aspetti che egli non abbia inteso disciplinare, o per gli altri, di tutta evidenza, incompatibili.
Ebbene appare difficile immaginare che siano "incompatibili" con la disciplina delle società cooperative le regole di prudenza nella "formazione" del capitale sociale delle società lucrative, dal momento che se - da un lato - è vero che esso è variabile e svolge un ruolo sensibilmente diverso rispetto a quello svolto nelle società di capitali, è altrettanto vero, d'altro canto, che il principio della sua esatta e corretta formazione, e della corrispondenza tra il conferimento ed i valori delle quote o delle azioni, oltre che della sua integrità complessiva non paiono subire, nel sistema della cooperazione, alcuna ragione reale di deminutio.
Ne deriva che la trasformazione di società di persone in cooperative non pare potersi sottrarre all'applicazione dell'articolo 2500-ter secondo comma c.c.
Vale segnalare, in conclusione dell'argomento al vaglio, che la trasformazione di società di cooperative in società di persone, è espressamente prevista nell'articolo 2545-decies primo comma c.c.
Occorre, pure, riflettere in ordine alla circostanza per cui il legislatore tace in ordine alla trasformabilità delle comunioni di azienda, delle associazioni riconosciute e delle fondazioni in società cooperative [nota 31] e viceversa.
Parte della dottrina finisce per ritenere vietate queste fattispecie [nota 32]. La conclusione nella sua generalità non convince fino in fondo, sol che si pensi a fattispecie che, già per la loro disciplina positiva evidenziano i caratteri di una marcata contiguità, che sfocia, talora, addirittura nella sovrapposizione (si pensi alla legislazione in materia di Onlus) [nota 33].
Ebbene, più in generale ora piace sottolineare che - in assenza di un divieto - si fa molta fatica a rintracciare nel sistema la ragione per cui un'associazione o una fondazione come pure una "comunione d'azienda", un consorzio, o una società consortile, siano legittimate - da una parte - a trasformarsi in società di capitali (art. 2500-octies c.c.) spogliandosi così dello scopo ideale e non lucrativo, della utilità sociale, ovvero modificando la propria mutualità consortile in causa lucrativa, sfondando quindi la linea "Marginot" da sempre rappresentata, nel transito al vaglio, dal congegno causale, e per converso assumere a dogma che l'assenza di una specifica disciplina imponga una valutazione di segno negativo allorchè le stesse fattispecie desiderino "trasformarsi" in società cooperativa, che a differenza delle società lucrative presenta, nella maggior parte delle ipotesi, un profilo di maggiore contiguità causale ed organizzativa, quando non addirittura (com'è appunto il caso delle Onlus) autentici margini di sovrapposizione di disciplina legale [nota 34].
Quale sarebbe la ratio dell'inibizione? Quali interessi essa servirebbe?
Vale, peraltro, sottolineare che l'articolo 2500-octies c.c., da applicarsi analogicamente, reca una disciplina esauriente del fenomeno, appalesandosi, al riguardo, come del tutto insignificante la lettera della legge nella parte in cui ha inteso circoscrivere la trasformazione dei consorzi, delle società consortili, delle comunioni d'azienda, delle associazioni riconosciute e delle fondazioni in società disciplinate dai capi V, VI, e VII del titolo V del libro V c.c. (ossia in SpA, Sapa, ed Srl ) dal momento che - con ogni probabilità - il vero nodo che il legislatore ha inteso sciogliere è stato quello d'ammettere la disciplina del transito eterogeneo da queste fattispecie di partenza alle società di capitali [nota 35].
Perchè una associazione riconosciuta potrebbe trasformarsi in SpA, mentre le sarebbe preclusa la trasformazione in cooperativa di tipo SpA o Srl a mutualità prevalente o meno?
Non si può trascurare che già in passato, nello studiare l'osmosi dal modello lucrativo al cooperativo molti autori ritenevano soddisfatta la tutela dell'interesse di ciascuno dei soci alla conservazione delle proprie ragioni di partecipazione al contratto stipulato, dall'applicazione, al transito detto, del principio dell'unanimità [nota 36].
Sotto questo aspetto la disciplina speciale dell'articolo 2500-octies c.c., tesa a disciplinare l'osmosi dal modello associativo o consortile, o dalla fattispecie comunione d'azienda al modello lucrativo, se estesa analogicamente al transito al modello cooperativo quale possibile tipo d'approdo, più che essere eversiva di un sistema, appaga l'esigenza, in taluni casi, di superare la barriera dell'unanimità come sistema "decisionale" idoneo al conseguimento dell'effetto della trasformazione [nota 37]. Nè, ad ostacolare la divisata trasformazione varrebbe invocare principi antielusivi analoghi a quelli che limitano la trasformazione delle società cooperative a mutualità prevalente, in quanto per tutte le fattispecie di partenza di cui all'articolo 2500-octies c.c. non si rinvengono particolari norme, nè principi, concernenti la formazione del patrimonio sociale, anzi, in particolare, per le fondazioni varrebbe la disciplina dell'ultimo comma della norma in commento a mente del quale, la trasformazione è "disposta dall'autorità governativa".
Neppure appaiono lesi gli interessi del ceto creditorio cui mai si potrebbe negare, anche per i casi al vaglio, l'applicazione delle cautele di cui all'articolo 2500-novies c.c.
Nel contesto in esame,in particolare, si deve affrontare la più complicata questione che riguarda le associazioni non riconosciute dal momento che esse nella disciplina positiva della trasformazione eterogenea, appaiono essere il legittimo target di un modello di partenza lucrativo di capitali (cfr. art. 2500-septies c.c.); ma non risultano menzionate come ente di partenza per l'approdo al lucrativo, dal momento che l'articolo 2500-octies c.c. ha inteso limitare tale facoltà alle sole associazioni riconosciute [nota 38].
Come considerare il silenzio legislativo?
Si deve accogliere l'istanza di quanti, sia pure con evidente riluttanza, hanno ritenuto il fenomeno definitivamente precluso almeno per l'ipotesi di transito da associazione non riconosciuta a società di capitali sostenendo che il dato letterale è insuperabile? [nota 39]
Pur ben comprendendo che la cautela s'impone come obbligo all'operatore pratico destinato ad assumere responsabilità in ordine al giudizio di legittimità dell'operazione in parola, vale sottolineare che la lettera della legge non appare preclusiva in assoluto. Infatti la norma dell'articolo 2500-octies c.c. fa riferimento al transito da associazione riconosciuta a società di capitali, con ciò manifestando d'escludere [nota 40] dal fenomeno della trasformazione le associazioni non riconosciute. Ma non bisogna trascurare che la norma in commento nulla dice in ordine al diverso fenomeno della trasformazione in società cooperativa di questi enti. Dunque, in linea di massima, non ricorre alcun letterale divieto.
Resta da esaminare se si rinviene una preclusione di principio.
La tradizione degli studi e della pratica offre taluni spunti di riflessione: molta dottrina e giurisprudenza in passato, quando cioè la barriera causale assumeva rilievi ben maggiori di oggi in termini di inibizione dell'operazione in questione e di quelle oramai definite "di trasformazione eterogenea", singolarmente era particolarmente propensa a riconoscere cittadinanza a quest'ipotesi [nota 41].
Sovente la giustificazione riposava proprio nella particolare affinità del congegno causale che avvicinava lo scopo ideale e non lucrativo dell'associazione a quello mutualistico.
Ne deriva, da un lato, che non si rinvengono ragioni di sistema volte ad impedire la trasformazione di associazione non riconosciuta in società cooperativa di tipo per azioni o a società a responsabilità limitata e, dall'altro, che la relativa disciplina deve essere quella delle trasformazioni eterogenee.
Occorre, da ultimo, valutare se la lettera dell'articolo 2545-decies c.c. nella parte in cui ammette la trasformazione (eterogenea) delle società cooperative in società lucrative (di persone e capitali) e consorzi, escluda la trasformazione in "comunioni d'azienda" in "associazioni non riconosciute" o in "fondazioni", fattispecie ammesse espressamente quando a trasformarsi sia una società lucrativa di capitali a mente dell'articolo 2500-septies c.c.
Piace ricordare che s'è autorevolmente sostenuto che « … ad esempio, una cooperativa che voglia assumere la forma di associazione non riconosciuta potrebbe trasformarsi dapprima in società di capitali (ex art. 2500- decies) e, poi, da società di capitali in associazione non riconosciuta (ex art. 2500- septies) … » [nota 42]. Se così fosse il primo transito sarebbe caratterizzato dalla consueta preoccupazione dell'evitare elusione o indebita attribuzione - attraverso l'operazione straordinaria - del "patrimonio agevolato" all'ente d'arrivo. La preoccupazione non muterebbe di molto se detto ente d'arrivo fosse un ente del libro I. Ma, occorre anche ricordare che l'articolo 2545-undecies c.c. nella parte in cui prevede devoluzione individua il sistema volto ad impedire il risultato vietato ed illecito, ne segue che rimarrebbe priva di ratio una soluzione che forte del solo dato letterale e formale finisse per obbligare l'utenza al conseguimento del medesimo risultato con un inspiegabile aggravio dei costi e dei tempi.
A conclusione di queste brevi riflessioni potrebbe revocarsi in dubbio la sola ipotesi di trasformazione di società cooperativa in comunione d'azienda, ossia dell'applicazione, al settore della cooperazione, di una delle fattispecie contemplate per le società di capitali dalla più volte citata norma dell'articolo 2500-septies c.c.
La ragione della perplessità lungi dal riposare nella lettera della legge, in difetto di ratio, lungi dal rinvenirsi nell'idoneità del congegno causale ad essere, in qualche modo, ostacolo per la qualifica di un'ipotesi siffatta in termini di trasformazione, potrebbe verosimilmente fondarsi su di un diverso ordine di considerazioni. E precisamente potrebbe ricondursi all'inidoneità sostanziale delle cooperative, in specie quando a monte dell'operazione vi sia una cooperativa a mutualità prevalente, ad avere un patrimonio "assegnabile" a taluno in sede di trasformazione. Infatti questo particolare sottotipo di cooperativa ha di norma un patrimonio composto da riserve indivisibili, che, com'è noto, una volta che si sia verificato il presupposto della trasformazione, va devoluto. In altri termini appare difficile che possa reliquare alcunchè ove transitando la cooperativa da mutualità prevalente a non prevalente al fine, appunto, di conseguire il presupposto legale della trasformazione, il successivo passaggio alla comunione possa, dare l'esito sperato, in quanto la devoluzione minerebbe in radice la possibilità di una comunione azienda. Forse, a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi allorchè alla trasformazione de qua proceda una cooperativa a mutualità non prevalente che sia stata sempre tale, la quale, per le cose dette appare più idonea a formare un patrimonio anche divisibile, e quindi non soggetto a devoluzione.
Occorre, ancora, ricordare che è opinione prevalente quella secondo cui nonostante il linguaggio legislativo, non rientra nella trasformazione la "modifica" imposta alle piccole società cooperative dall'articolo 111-septies disposizioni transitorie e d'attuazione al c.c. [nota 43]
A questo riguardo vale ribadire che l'effetto trasformazione conserva, pur sempre, quale paradigma di riferimento il concetto tradizionale di modifica del "tipo sociale", non più come evento discriminante l'effetto della trasformazione, ma più limitatamente, dopo la riforma, come minimum per potersi discorrere di trasformazione.
In altri termini per aversi trasformazione occorre, oggi, quanto meno la modifica del "tipo" inteso come significativa "riorganizzazione" della struttura utilizzata per l'esercizio dell'attività d'impresa, ossia come passaggio da una modalità dell'organizzazione caratterizzata da criteri suoi propri, esclusivi ed incompatibili con quelli di un'altra formula (organizzativa) cui si tende con la "modifica" in parola.
Per questo, non può che condividersi l'opinione di chi ha affermato che il passaggio da piccola società cooperativa a cooperativa del "tipo" modellato sulla società responsabilità limitata non altera «alcuno dei caratteri peculiari» della prima [nota 44].
Benché estraneo - come si vedrà - alla tematica propria della trasformazione eterogenea, vale, per l'evidente rapporto con le questioni sin'ora trattate dare un, sia pure, fugace conto del non sopito dibattito concernente il "passaggio" da cooperativa modellata sul tipo della società a responsabilità limitata a società per azioni, e viceversa, per la quale appare chiaro che la definizione della fattispecie in termini di trasformazione dipende dal considerare ciascuno dei modelli di riferimento come autentici "tipi sociali" tra essi diversi [nota 45]. Parte della dottrina opina, senz'uopo di alcuna dimostrazione, che il transito al vaglio non assuma mai i contorni della trasformazione giacchè difetterebbe al riferimento alle norme in materia di SpA o Srl per le cooperative la dignità del creare due "tipi" autonomi [nota 46].
Non è questa la sede per indagare e studiare il concetto di tipo sociale, vale però segnalare che autorevolissima dottrina raccomanda che il «tipo avrebbe il compito di evidenziare il modello socio-economico sotteso dalla fattispecie legalmente precostituita» [nota 47]. Già questo potrebbe invitare a considerare che, con ogni probabilità, il codice organizzativo della società cooperativa per azioni evidenzia un modello socio-economico di fattispecie legale diverso da quello della cooperativa a responsabilità limitata, ma, appare ulteriormente proficuo rammentare che quando si ragiona di "tipi", non già appare congruo domandarsi se un codice organizzativo rappresenti tipologicamente una società per azioni o di diversa configurazione (ad esempio Srl piuttosto che Sapa), dal momento che l'ampia rilevanza della disciplina speciale (già - ad esempio - in materia di società per azioni) renderebbe inutile il ricorso ad un simile congegno esegetico, quanto, invece, appare congruo interrogarsi se il diritto delle società per azioni o delle società a responsabilità limitata si applichi anche «in via residuale» [nota 48], essendo ciò sufficiente a definire il tipo, dal momento che la sua qualificazione sarà data dal risultato della combinabilità tra discipline speciali e disciplina generale [nota 49].
Il limite generale del tipo, risiede, avuto riguardo al modello lucrativo, naturalmente, nella distorsione della funzione societaria propria delle società per azioni o a responsabilità limitata che è pur sempre funzione lucrativa.
Distorsione funzionale, per il caso che ne occupa, non pertinente, giacchè, occorre ricordare, che il legislatore non aveva, assai prima della riforma, esitato ad utilizzare il codice organizzativo societario lucrativo per la funzione di «integrazione aziendale» (cfr. art. 2615-ter c.c.) [nota 50], così come, dopo la riforma, quel codice organizzativo è stato utilizzato per la funzione mutualistica.
Questo generale ragionamento induce a ritenere, tra l'altro, che la società consortile è "tipo" a se stante rispetto alla società lucrativa di riferimento, tant'è che il legislatore descrive il passaggio dall'uno all'altro "tipo" come trasformazione, e precisamente come trasformazione eterogenea (2500-septies ed octies c.c.).
In questo contesto vale precisare che resta ampiamente condivisibile la preoccupazione volta ad evitare, in ragione dell'evidente tutela del profilo della distorsione funzionale, l'utilizzazione dello schema societario per scopi non consentiti.
Coerentemente, sedes materiae, occorrerà evitare che la trasformazione possa utilizzarsi per consentire, ad esempio nel caso di transito da associazione a società per azioni, l'esistenza di un codice organizzato societario sprovvisto di clausola lucrativa, fermo restando, invece, che all'interno dei codici selezionati dal legislatore, il riferimento alla "residualità" della disciplina quale elemento decisivo per espungere il transito dalla società cooperativa per azioni a quella di cooperativa a responsabilità limitata (o viceversa) dal novero del concetto di trasformazione appare conclusione tutt'altro che scontata.
Infatti la residualità dell'applicazione della disciplina generale (delle società lucrative di riferimento) è affatto decisiva per escludere l'esistenza di un "tipo", anzi, ne rafforza l'idea: resta da stabilire se tale "residualità" sia tale da creare, all'interno del codice organizzativo della cooperazione, più modelli di riferimento che selezionino formule organizzative tra loro diverse ed incompatibili, come accade all'interno del codice organizzativo delle società lucrative, ovvero, se l'unicità del codice organizzativo della cooperazione sia talmente assorbente, e la disciplina residuale dei "normotipi di riferimento lucrativo", talmente secondaria, da risultare la prima preponderante e la seconda irrilevante per la qualificazione del passaggio al vaglio.
Ebbene una "prova" in tale direzione, al momento, non sembra fornita da alcuno, anzi. Sono stati evidenziati molti aspetti che inducono a ritenere che cooperative per azioni e quelle del "tipo" a responsabilità limitata abbiano qualificanti elementi d'incompatibilità: diversa disciplina di strumenti finanziari, diversa disciplina delle decisioni dei soci e dell'intervento in assemblea, compresa la delegabilità dell'intervento detto, diverse regole di governance e dei modelli utilizzabili a tal fine, oltre che delle regole di amministrazione, diverso rapporto tra organi di governance e decisionali, diverse regole in materia di revisione [nota 51], e ciò senza voler approfondire il sistema del capitale nell'uno e nell'altro modello organizzativo la cui pretesa "omogeneità" appare, ancor oggi, tutt'altro che pacifica.
Peraltro non bisogna dimenticare che lo stesso legislatore pare avere chiara una marcata differenza tipologica tra le due formule organizzative: non è, infatti, un caso che in materia di fusione, la disciplina assume caratteri significativamente diversi laddove all'operazione partecipino "società cooperative per azioni" (art. 2505-quater c.c.). Se tipologicamente la disciplina di riferimento fosse un mero "accidente residuale" che senso avrebbe un trattamento così diverso nell'ambito di una delle più significative operazioni straordinarie di riorganizzazione aziendale?
E se tale esigenza è avvertita dal legislatore in materia di fusione si è così sicuri che la medesima, invece, perda di significato nella trasformazione che, pure, è modifica statutaria "straordinaria" nel linguaggio aziendalistico?
Ecco perché piace ribadire quanto altrove già detto e più precisamente che «non vi sono sufficienti ragioni per escludere che il transito da cooperativa a responsabilità limitata a cooperativa per azioni (o viceversa) sia autentica trasformazione» e dunque imponga l'applicazione della normativa propria della trasformazione [nota 52].
Né l'invito a "sdrammatizzare" da taluni formulato sulla base della considerazione che in ogni caso (ossia tanto se si trattasse di trasformazione quanto se la fattispecie non lo fosse) troverebbe applicazione la disciplina del recesso [nota 53] appare convincente. Pacatamente, infatti, va osservato che se il transito all'esame non fosse trasformazione ma semplice modifica statutaria sarebbe del tutto incoerente sostenere che la relativa disciplina dovrebbe mutuarsi dal combinato disposto degli artt. 2532 c.c., 2519 c.c. e 2437 e ss. c.c. e 2473 c.c.: non può trascurarsi, invero, che le due ultime norme dette accordano il recesso al socio di SpA per il caso di trasformazione ed al socio di Srl per il caso di cambiamento del tipo, con la conseguenza che - ove non si rintracci fattispecie di trasformazione, per la qualificazione del transito al vaglio - risulta impossibile applicare le norme dette come ipotesi di recesso legale ex articolo 2532 c.c. Ne deve, coerentemente seguire che l'exit al socio cooperatore o finanziatore resterebbe, più verosimilmente, in generale precluso. Esso recesso potrebbe, al più, rientrare in gioco solo nel caso in cui la "modifica" in parola incida sullo scambio mutualistico [nota 54], ma questo sarebbe un mero caso attorno al quale appare discutibile ricostruire un'ipotesi scientifica.
Va, invece, segnalato che includendo il transito all'esame fra le ipotesi di trasformazione la relativa delibera risulterà, giocoforza, soggiacere alle regole delle maggioranze stabilite dalla legge per la trasformazione delle società cooperative di cui al comma secondo dell'articolo 2545-decies e non a quelle delle modifiche statutarie in generale, mentre la disciplina degli strumenti finanziari dettata dal terzo comma della norma citata per il transito dal sistema cooperativo al lucrativo non dovrebbe (ed in taluni casi, peraltro, non potrebbe) trovare applicazione.
Ancora, ragionando per la fattispecie al vaglio non riterrei in alcun modo applicabili alla trasformazione di società cooperativa a responsabilità limitata in società cooperativa per azioni il primo ed il secondo comma dell'articolo 2545-undecies c.c.: infatti non si rintracciano le ragioni che presiedono, come ampiamente esaminato, alla necessità di devoluzione del patrimonio, dal momento che la società non esce dal sistema della cooperazione (a mutualità non prevalente) [nota 55].
Maggiori dubbi, invece, potrebbe suscitare l'interrogativo concernente l'applicabilità del terzo comma della norma ultima citata. Ivi, il legislatore, preclude l'adozione della delibera di trasformazione per il caso di mancata revisione da parte dell'autorità di vigilanza "nell'anno precedente" l'esercizio di delibera, o "comunque", allorché l'organo amministrativo non ne abbia fatto richiesta nei novanta giorni precedenti la delibera. La revisione, infatti, ha una funzione più ampia rispetto ad un controllo volto alla verifica della formazione del patrimonio a devolversi ed allude all'ordinario controllo di gestione, di cui è parola nel disposto dell'articolo 2545-quaterdecies c.c., il quale, pare destinato ad assumere, nella disciplina della trasformazione, il ruolo di presupposto di legittimità in uno a quello marcatamente di carattere generale consistente nel principio per cui detto transito appare consentito solo alle società cooperative a mutualità non prevalente.
L'applicazione dell'articolo 2545-undecies comma 3 c.c., dunque, non risulta incompatibile con la trasformazione di società cooperative a responsabilità in cooperative per azioni o viceversa.
Decisioni e delibere di trasformazione
Quando si pensa alla trasformazione della o in società cooperativa non può, certo, prescindersi dal rilievo per il quale la relativa disciplina debba tener conto non soltanto della struttura organizzativa di partenza ma anche di quella di arrivo [nota 56] con la conseguenza che essa sarà assoggettata alle norme sulla trasformazione in generale anche da quelle specifiche del tipo di partenza e di quelle proprie del tipo cui tende la trasformazione, alla cui disciplina occorrerà anche attingere allo scopo di risolverne peculiarità e problematiche.
Tra l'altro appare oramai pacifico che salva la discussa ipotesi di "trasformazione" di società cooperativa a responsabilità limitata in società cooperativa per azioni e viceversa, di cui ampiamente al paragrafo precedente, la trasformazione da o in cooperativa da parte di altri enti integri ipotesi di "trasformazione eterogenea" con la conseguenza che la relativa normativa deve essere utilizzata per il completamento della disciplina delle relative fattispecie.
Si condivide, quindi, la conclusione di chi ha osservato che trovi applicazione sia l'art. 2500-novies c.c. (relativo) all'opposizione dei creditori, sia il regime generale della trasformazione evincibile dagli artt. 2498 al 2500-bis incluso [nota 57].
Quando a trasformarsi sia una società cooperativa:
Occorre ricordare che alla delibera di trasformazione è legittimata soltanto la società cooperativa a mutualità non prevalente [nota 58]. La delibera rientra tra le "modificazioni dell'atto costitutivo" e quindi in forza dell'espresso rinvio di cui all'articolo 2545-novies c.c. trova applicazione l'articolo 2436 c.c. La delibera va adottata dall'assemblea straordinaria con le maggioranze prescritte dall'art. 2545-decies c.c. quindi: - con il voto favorevole di almeno la metà dei soci della cooperativa; - quando i soci sono meno di cinquanta con il voto favorevole dei due terzi di essi; - se la cooperativa ha più di diecimila soci l'atto costitutivo può prevedere che la trasformazione venga deliberata, presente almeno il venti per cento dei soci, con il voto favorevole di due terzi di essi [nota 59].
La delibera di trasformazione comportando, inoltre, la contestuale devoluzione [nota 60] del patrimonio deve essere corredata in allegato [nota 61] da una relazione giurata di un esperto designato dal tribunale attestante il valore effettivo del patrimonio dell'impresa.
Nonostante la rubrica dell'articolo in commento discorra di "bilancio di trasformazione" le modalità della sua formazione (ossia il riferimento al valore effettivo del patrimonio e quindi il superamento, in via eccezionale, dei criteri ordinari di formazione del bilancio di cui all'articolo 2423-bis c.c.) ed ancor più la sua funzione (l'essere, cioè, indirizzato all'individuazione esatta e corretta, in ragione antielusiva, all'individuazione del quantum da devolvere) convincono nel ritenere che non si tratti di autentico bilancio [nota 62]. Sul problema dell'applicabilità o meno del secondo comma dell'articolo 2500-sexies c.c., altrove con ampiezza di motivazioni s'è espressa contrarietà [nota 63]. Qui vale solo ribadire che appare decisiva, nel senso auspicato, la circostanza per cui la norma di cui si vuole l'applicazione è prevista in materia di trasformazione di società di capitali in società di persone, fattispecie nella quale non esistono altri documenti dai quali i soci possano essere sufficientemente informati della trasformazione. Nel procedimento di trasformazione al vaglio, invece, v'è la relazione giurata, ossia un documento dal quale i soci potranno trarre tutte le indicazioni necessarie per deliberare la trasformazione.
Se la cooperativa intenda trasformarsi in società di persone troverà applicazione l'articolo 2500-sexies c.c. e si renderà necessario il consenso dei soci, che con la trasformazione, assumeranno responsabilità illimitata. Anzi si assume che, in tal caso, trovi applicazione l'integrale disposto dell'articolo 2500-sexies anche avuto riguardo alla relazione ed al suo deposito (comma 2) dal momento che, la funzione di tale relazione, che pare essere quella di informare accuratamente i soci sul rilevante cambio di disciplina delle responsabilità che conseguono all'esercizio collettivo dell'impresa, appare assorbente rispetto a quella più modestamente "informativa" di cui all'articolo 2545-undecies secondo comma di cui supra.
Ove la si ammetta se la cooperativa si trasformi in associazione riconosciuta e non, comunione d'azienda, e fondazione si pone il problema della disciplina ed in particolare se essa vada rintracciata nell'articolo 2545-decies c.c. che pure allude alla trasformazione eterogenea di società cooperative in lucrative ed inoltre in consorzi, ovvero nel diverso regime di cui all'articolo 2500-septies c.c.
Si deve ritenere preferibile, eccezion fatta naturalmente che per la trasformazione in consorzio [nota 64], che il paradigma normativo di riferimento debba essere l'articolo 2500-septies c.c. in quanto contiene una disciplina specifica che tiene particolare conto dell'ente d'arrivo, come dimostra la sensibilità del richiamo al consenso "comunque" necessario da parte dei soci che assumano responsabilità illimitata (che vi sarebbe quanto meno nel transito ad associazione non riconosciuta nei limiti di cui all'articolo 38 c.c.).
Quando ci si trasforma in società cooperativa:
Occorrerà tenere a mente le disposizioni valide per l'ente di partenza, sicchè saranno applicabili le norme degli artt. 2500-ter, quater e quinquies c.c. quando la delibera fosse assunta da società di persone. Ovvero l'articolo 2500-septies c.c. quando la delibera fosse adottata da una società di capitali. O, ancora, la norma dell'articolo 2500-octies c.c. per chi ritenga che anche i consorzi, le società consortili le associazioni riconosciute (e per quanto anticipato anche quelle non riconosciute) e le fondazioni si possano trasformare in società cooperativa di tipo Srl o SpA.
Ferme, come anticipato, restano le norme di carattere generale sulla continuità dei rapporti giuridici, sui limiti alla trasformazione, sul contenuto efficacia e pubblicità dell'atto di trasformazione e sul regime della relativa invalidità così come disciplinati dagli artt. 2498 e ss. c.c. (sino al 2500-bis), come parimenti ferma appare l'applicazione dell'articolo 2550-novies c.c. relativamente all'opposizione dei creditori.
Trasformazione e recesso in particolare l'ermetica disciplina del recesso del socio di società cooperativa
Si è avuto occasione di segnalare, più volte, che la delibera di trasformazione eterogenea da ed in cooperativa, come quella omogenea da cooperativa (del tipo) a responsabilità limitata a cooperativa (del tipo) per azioni, accorda il diritto di recesso al socio assente, astenuto o dissenziente, come risulta dall'applicazione delle norme proprie della società lucrative di capitali quando siano esse gli enti di partenza (artt. 2437 e 2473 c.c.), della norma dell'articolo 2500-ter c.c. quando l'ente di partenza sia una società di persone, ed ancora dalle norme del tipo lucrativo di riferimento allorché l'ente di partenza sia una società cooperativa in base al generale richiamo di cui all'articolo 2519 c.c.
Va, sia pure brevemente, considerata la circostanza che il diritto speciale d'exit riflette un'esigenza costante della trasformazione, e\o della trasformazione eterogenea, ancorché non assoluta: non v'è traccia del diritto d'exit in alcune esemplificazioni positive che, per quanto in precedenza detto possono riguardare anche le società cooperative. Si pensi alla trasformazione, appunto ritenuta ammissibile, di consorzio in cooperativa, o di associazione riconosciuta e non, in cooperativa. Che diritto ha il consorziato (ovvero l'associato) dell'ente di partenza in termini di exit nel silenzio legislativo?
Il problema non può non tener conto che l'articolo 24 c.c. (riferibile tanto alle associazioni riconosciute che alle non riconosciute) prevede che l'associato possa recedere in ogni tempo salvo che non abbia assunto l'obbligo di farne parte per un tempo determinato.
Ne deriva che l'assenza di una disciplina statutaria del diritto di recesso per il caso di trasformazione non determina alcuna asimmetria di sistema, giacchè il recesso potrà essere sempre esercitato a prescindere dalla qualità di associato assente, contrario o astenuto nella relativa delibera, come, pure, proprio in conseguenza di tale qualità, essendo l'exit un principio generale riferibile ai diritti degli associati degli enti del libro I c.c.
La prescritta necessità che le comunioni di aziende si trasformino in società di capitali (e, secondo la ricostruzione proposta, in cooperative) all'unanimità ex articolo 2500-octies c.c., esclude, naturalmente, ogni problema in ordine alla valutazione del diritto di recesso.
Come pure non si rintraccia associato dissenziente, assente o astenuto per il caso di trasformazione di fondazione in società cooperativa (per chi, ovviamente, lo ritenga ammissibile).
Diversamente, allorché a trasformarsi sia un consorzio va sottolineato da un lato che la disciplina dell'articolo 2500-octies c.c. (ritenuta applicabile anche quando l'ente di arrivo sia cooperativa) deroga, nella parte in cui prevede la trasformabilità a maggioranza assoluta, alla prescrizione dell'articolo 2607 c.c., il quale, com'è noto, stabilisce che le modificazioni del contratto debbano essere adottate all'unanimità; e che d'altro canto, nei consorzi, la disciplina del recesso appare caratterizzata (anche per il caso della trasformazione) dall'applicazione dell'articolo 2609 c.c. a mente del quale il recesso deve essere previsto nel contratto di consorzio. Con la conseguenza che, ove non previsto per la specifica ipotesi della trasformazione, forti dubbi possono avanzarsi per il suo riconoscimento a beneficio del socio di minoranza, che resterebbe sprovvisto della tutela dell'exit, e che, dunque, troverebbe protezione della sua posizione solo per l'ipotesi in cui la delibera sia adottata in abuso da parte della maggioranza.
Ciò premesso, giova segnalare che la disciplina del recesso coinvolge valutazioni sistematiche ed aspetti applicativi particolarmente delicati.
Vale approcciare al tema muovendo da una considerazione comparatistica:
quando recede il socio di società di capitali la disciplina degli artt. 2437e ss. e 2473 c.c. esprime di massima le seguenti esigenze:
- l'esercizio del diritto è caratterizzato dalla sola comunicazione del socio alla società;
- l'esercizio del diritto di recesso assegna al socio recedente il diritto alla liquidazione della quota sulla base della «consistenza patrimoniale» della società e delle sue «prospettive reddituali», ovvero «in proporzione al patrimonio sociale» (cfr. artt. 2437-bis c.c. comma 2, e 2473 comma 3 c.c.);
- il rimborso delle azioni o delle quote deve avvenire in un termine non superiore a centottanta giorni dalla comunicazione del recesso (artt. 2437-quater comma 4, e 2473, comma 4 c.c.).
Quando invece a recedere sia il socio di una società cooperativa dovrebbe di massima trovare applicazione la disciplina speciale del recesso dettata, per le società cooperative, dall'articolo 2532 c.c. il quale prevede:
- che la dichiarazione di recesso sia comunicata alla società, ma che gli amministratori possano constatare che «non sussistono i presupposti del recesso» accendendo, eventualmente, un procedimento che si sostanzia in un giudizio di cognizione (comma secondo);
- che il recesso sia efficace con riferimento al rapporto sociale dalla «comunicazione del provvedimento di accoglimento della domanda»; per il rapporto mutualistico, alla chiusura dell'esercizio in corso, se la comunicazione intervenga almeno tre mesi prima della stessa, ovvero «con la chiusura dell'esercizio successivo» (terzo comma).
- la liquidazione della quota, infine, avviene in base al «bilancio di esercizio» dedotte, in proporzione, le perdite imputabili al capitale, ed in forza di criteri convenzionali (se presenti) - art. 2535, secondo comma c.c. -. Detta liquidazione, inoltre, comprenderà eventualmente il rimborso del sovrapprezzo se non imputato ad aumento gratuito del capitale sociale. Il pagamento relativo, peraltro, dovrà avvenire nei centottanta giorni successivi all'approvazione del bilancio (art. 2535, terzo comma c.c.).
Non v'è chi non colga rilevanti differenze non soltanto estrinseche e procedurali, che arrivano fino all'inammissibilità, nelle società cooperative del recesso parziale espressamente riconosciuto nelle società per azioni (cfr. art. 2437 c.c. primo comma).
La situazione risulta connotata da un'elevato grado di problematicità allorchè si tenga nel doveroso conto che «il recesso dei possessori di strumenti finanziari forniti di diritto di voto è disciplinato dagli artt. 2437 e ss.» del codice civile.
Senza entrare, qui, nel merito delle questioni della natura giuridica di codesti "possessori", né affrontare nemmeno per cenni la questione se essi possano o non possano essere previsti in società cooperative del tipo a responsabilità limitata, vale qui segnalare che il legislatore introduce, nelle cooperative, una marcata differenza tra il recesso del socio ordinario o cooperatore, ed il recesso del socio "finanziatore" e del titolare di strumenti finanziari. Al primo, infatti, sarà applicata la disciplina speciale degli art. 2532 e 2535 c.c. sopra accennata, al secondo, quella delle società di capitali ed in particolare quella propria delle società per azioni.
Bisogna sottolineare, peraltro, che quest'ultima determina un trattamento del socio di maggior favore rispetto a quella approntata, per il recesso, dal legislatore al socio cooperatore, sia sufficiente pensare al fatto che il primo, dunque, e non il secondo potrà recedere parzialmente, avrà diritto alla liquidazione di una quota valutata in base a valori di mercato, dovrà essere liquidato in un termine non superiore a centottanta giorni decorrenti quello di comunicazione del recesso. Il suo diritto sarà diritto potestativo "puro", almeno nel senso che la società non può frapporvi ostacoli di sorta, salvo a caducare la delibera che ha occasionato il recesso stesso (cfr. 2473-bis comma 3 c.c.).
La ragione della circostanza che la disciplina più "favorevole", nelle cooperative, sia stata accordata al solo socio finanziatore, mentre quello cooperatore dovrà "accontentarsi" di una disciplina decisamente più restrittiva, si suole ricondurre al diverso fondamento causale dell'una e dell'altra partecipazione. Quella del socio finanziatore, in fin dei conti, non si discosta dalla partecipazione del socio di società lucrativa cui appare, per molti versi, integralmente assimilabile, donde l'applicazione della disciplina del recesso, che proteggendo l'investimento (garantendo adeguatamente il disinvestimento) evita di disincentivare queste formule partecipative.
La partecipazione del socio cooperatore ruota attorno alla mutualità che ne rappresenta l'autentico vantaggio (oltre che la premessa causale): per essa si comprende la scelta del legislatore svincolata da particolari preoccupazioni in ordine alla protezione del disinvestimento propria dell'exit da un «sistema lucrativo» [nota 65].
Parte della dottrina non ha mancato di sottolineare che uno degli aspetti più preoccupanti della disciplina del recesso "meno favorevole" [nota 66] andrebbe rinvenuto nell'applicazione integrale delle sue modalità, così come evincibili dall'articolo 2535 c.c. terzo comma, ove si prevede che il pagamento vada effettuato entro centottanta giorni dall'approvazione del bilancio, il quale a sua volta è quello successivo all'adozione della delibera di trasformazione o addirittura riferito all'esercizio successivo. Si ritiene di rintracciare, infatti, in questa disciplina un particolare aspetto di disvalore giuridico fondato sulla circostanza per cui il socio cooperatore nel caso di trasformazione pur recedendo resterebbe assoggetto ai risultati economici del tipo non desiderato [nota 67].
Senza entrare nel merito della questione, di grande rilevanza, concernente il momento d'efficacia del recesso, vale solo ricordare - in questa sede - che l'opinione che riconnette l'efficacia del recesso al pagamento della quota di liquidazione si fonda sostanzialmente sulla tutela accordata all'interesse del socio, il quale "resta" nella compagine sociale, malgrado il recesso, rectius la dichiarazione di recesso, fintantoché, appunto non percepisca la liquidazione stessa.
Su questa premessa, la considerazione della regola di cui all'articolo 2535 c.c. che "dilaziona" significativamente la liquidazione se da un lato desta perplessità, d'altro canto dovrebbe risultare "sconcertante" relativamente ad ogni ipotesi di recesso, e non soltanto in ordine all'exit conseguente ad una delibera di trasformazione. In tutte le ipotesi, infatti, il socio, malgrado l'evidente disinteresse manifestato per la società resta alla medesima ancorato, e vieppiù legato ai risultati di un esercizio significativamente (e verosimilmente) lontano al momento in cui il recesso è esercitato.
La circostanza che il socio cooperatore, quindi, nel caso della trasformazione, resti ancorato all'ente, ed ad un risultato di un tipo diverso da quello originariamente prescelto non appare colorare la questione di un disvalore maggiore di quanto non desti perplessità la più generale scelta legislativa del codificatore.
Per questo le "soluzioni" suggerite appaiono tutte dotate di un rilevante contenuto di arbitrarietà:
non convince quella di chi suggerisce la redazione di un bilancio straordinario successivo alla delibera di trasformazione e riferito al "momento di efficacia della trasformazione" da approvarsi a cura dell'assemblea ordinaria volto ad individuare il valore della quota del socio receduto, il quale poi, sarà liquidato nei centottanta giorni dall'approvazione di questo bilancio straordinario, «adattandosi la norma dell'articolo 2535 c.c.» [nota 68], giacchè, oltre a non rintracciarsi indizio in ordine all'obbligo a carico dell'organo amministrativo di predisporre un bilancio siffatto, oltre a non comprendersi la circostanza per la quale un bilancio straordinario sarebbe necessario nel solo caso di recesso del socio cooperatore in sede di trasformazione, mentre non lo sarebbe in tutti gli altri casi, essa non tiene conto del rilevante costo imposto all'azienda, e non soltanto economico, nel silenzio della legge.
Neppure risolve la questione la proposta di chi vorrebbe applicare il comma quinto dell'articolo 2437-ter c.c. nella parte in cui prevede il diritto dei soci di conoscere la determinazione del valore delle azioni nei quindici giorni che precedono la data di assemblea (nel nostro caso di trasformazione). Soluzione, questa, di sicuro più economica della precedente, ma che non sembra tener conto di talune significative circostanze:
- l'applicazione delle norme in materia di società di capitali sembra richiamata, quanto al recesso nelle cooperative, per i soli soci finanziatori e titolari di strumenti finanziari;
- la norma è prescritta per il recesso del socio di SpA, ma non per quello del socio di Srl, con la conseguenza che la sua applicazione obbliga ad un'ulteriore forzatura laddove si tratti di recesso esercitato dal socio di una cooperativa di tipo Srl per la quale la disciplina di riferimento neppure considera l'ipotesi de qua;
- e soprattutto, la norma richiamata in materia allude, per le società per azioni a quella valutazione delle azioni informata al criterio del "mercato", ove viceversa, nelle società cooperative, il richiamo al bilancio esprime il riferimento ad una valutazione informata ai criteri propri dello stesso "costo storico" e valori "nominali" della partecipazione.
Potrebbe, allora, affrontarsi la questione da un altro angolo prospettico: il recesso del socio cooperatore ha lasciato, sostanzialmente, indifferente il legislatore che non ha inteso accordare al di lui recesso alcun particolare favore.
Anzi forse il legislatore sembra abbia, in qualche modo inteso sfavorirlo o quanto meno non incentivarlo riservandogli una disciplina assai meno "vantaggiosa" di quella accordata al socio non cooperatore, o, più in generale al socio di società lucrative di capitali.
Se così fosse occorrerebbe "accettare" che il silenzio del legislatore confermerebbe una (magari discutibile) scelta di diritto positivo, quella evincibile dal silenzio in materia, che quivi si apprezzerebbe, anche in riferimento alla ricostruzione sistematica, come circostanza che esige, ai fini della disciplina del recesso del socio cooperatore, l'integrale applicazione degli artt. 2532 e 2535 c.c.
Alcune considerazioni sulla devoluzione del patrimonio
Fermo quanto già accennato in ordine al contenuto della devoluzione vale ricordare che l'articolo 2545-undecies stabilisce che la delibera di trasformazione determina la devoluzione ai fondi mutualistici del valore effettivo del patrimonio, dedotti:
- il capitale versato e rivalutato;
- i dividendi non ancora distribuiti.
Resta, come anticipato, incerta la formulazione della norma nella parte in cui letteralmente pare prevedere la devoluzione ai fondi mutualistici dell'intero patrimonio sociale. Altrove si è osservato che se così fosse non v'è chi non veda che la trasformazione diventi più un esercizio teorico che una concreta operazione funzionale al conseguimento di ceri interessi pure ritenuti meritevoli [nota 69].
Oltre che gli interessi coinvolti, anche una riflessione di carattere sistematico inducono ad opinare diversamente sol che si pensi al disposto dell'art. 223-quinquiesdecies disp. att. e trans. che, relativamente alle cooperative non agevolate ante riforma, quanto alla devoluzione, si è limitato a fare riferimento alle sole riserve indivisibili.
Pare opportuno, pure, chiarire l'inciso secondo cui possono dedursi il capitale versato ed i dividendi non distribuiti eventualmente esistenti alla data di trasformazione «eventualmente aumentato fino a concorrenza dell'ammontare minimo del capitale della nuova società», che può solo voler significare che le riserve indivisibili possono essere utilizzate a formare il solo capitale sociale necessario per la costituzione del tipo sociale di arrivo, con esclusione, quindi di ogni deduzione allorché il tipo d'arrivo non preveda un capitale minimo obbligatorio.
Per quel che quivi rileva, giova sottolineare che la singolarità della devoluzione è dogmatica prima ancora che tecnica: non può omettere di considerarsi, infatti, che essa colpisce, nel caso di trasformazione, imprese sul mercato e destinate, parimenti, a restare sul mercato, determinando - a loro carico - un congruo "assottigliamento" del netto patrimoniale, il che suscita perplessità in termini di legittimità costituzionale [nota 70]. Neppure deve trascurasi il rilievo concernente la scelta del legislatore che ha utilizzato, in funzione antielusiva, il sistema della devoluzione a "Fondi" che nulla hanno a che vedere con la pubblica amministrazione né con il fisco.
Dal punto di vista squisitamente tecnico occorre ricordare che l'articolo 2545-undecies c.c. impone che la relazione giurata dell'esperto nominato dal Tribunale attesti il valore effettivo del patrimonio dell'impresa. Ne consegue che la trasformazione esige il "prezzo" della devoluzione a valori determinati in deroga ai criteri di bilancio nonostante che la trasformazione comporti la continuazione dell'attività d'impresa. Acuta dottrina ha osservato che l'avviamento aziendale andrebbe considerato ai fini della devoluzione nella sola misura in cui la società trasformata lo abbia acquistato a titolo oneroso, dal momento che in ogni altro caso la sua contabilizzazione ai fini devolutivi sarebbe in contrasto con la continuazione dell'attività d'impresa [nota 71].
La devoluzione crea una posta di debito a carico della società deliberante ed a beneficio dei fondi creditori che va iscritta al passivo dello stato patrimoniale. Si è, altresì, sottolineato che la devoluzione non necessita di alcuna attività ulteriormente deliberativa, e che la sua efficacia appare subordinata alla piena efficacia della trasformazione [nota 72], quindi al decorso del termine di sessanta giorni accordato ai creditori sociali di promuovere opposizione ex art. 2500-novies c.c.
In punto pratico occorre ricordare che un'opinione ha segnalato che la delibera di trasformazione potrebbe contenere particolari modalità di attribuzione del "patrimonio effettivo" a devolversi, individuandosi tali modalità, quanto meno, nella facoltà di assegnare ai fondi strumenti partecipativi in analogia con la previsione di cui all'articolo 2545 sexies c.c. ultimo comma, ovvero, che essa possa prevedere una dilazione nel tempo del debito da devoluzione in applicazione "analogica" della previsione contenuta nel terzo comma dell'articolo 2535 c.c.
Anzi, s'è aggiunto che la particolare fissazione delle modalità del rimborso assurgerebbero a "parametro" cui i creditori della cooperativa trasformando commisurebbero, anche, il loro diritto d'opposizione ex art. 2500-novies c.c. [nota 73]
A dire il vero l'opinione non sembra condivisibile. Con la devoluzione,infatti, il legislatore si è limitato a stabilire un (singolare) credito a carico di un soggetto (passivo), ossia la società trasformata, ed a beneficio di un soggetto attivo (i fondi). Non si rinvengono, invero, elementi di diritto positivo che assegnano a questo rapporto obbligatorio una disciplina che si allontani o, peggio, che deroghi alla generale disciplina del rapporto obbligatorio e del credito. Uno dei cui principi fondamentali appare ruotare intorno al primo comma dell'articolo 1183 c.c.: quod sine die debeatur, statim debeatur.
Dunque il creditore (rectius i fondi) hanno il diritto di esigere l'immediato pagamento del credito. In questo contesto appare quanto meno singolare l'attribuzione al debitore (ossia alla società trasformanda) del diritto di stabilire unilateralmente dilazioni di pagamento o peculiari modalità nel pagamento dello stesso.
Non pare, infatti, potersi invocare, nemmeno analogicamente, la disciplina dell'articolo 2535 c.c. il quale nello stabilire che la società (al fine del rimborso della quota o delle azioni al socio o ai suoi eredi per l'ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale) possa accedere ad un «programma di dilazione» «in più rate entro un termine massimo di cinque anni» fa espresso rinvio alla circostanza che tale facoltà venga preventivamente stabilita in atto costitutivo, di guisa che essa assurga a regola di organizzazione. In altri termini la vicenda dilatoria dell'adempimento del debito appare preventivamente concordata tra i soci. In altri termini v'è l'espressa previsione dell'accordo preventivo di dilazione, si potrebbe dire, tra la società ed i suoi futuri eventuali creditori (rectius i soci che recederanno), prevedendo il legislatore che detti soggetti possano preventivamente convenire una modalità di esecuzione concernente la disciplina dell'estinzione del futuro rapporto obbligatorio. Consensus in idem che non pare ricorrere nel formulato suggerimento, dal momento che qui, a differenza che nella previsione dell'articolo 2535 c.c. terzo comma, sarebbe il debitore, cioè la società, al momento (tardivo nel divisato contesto) del verificarsi del presupposto genetico dell'obbligazione, che, per così dire unilateralmente, determinerebbe la modalità dell'estinzione del rapporto stesso. Né vale trascurare che - al riguardo - il legislatore tace del tutto.
Neppure appare pertinente il richiamo all'articolo 2545-sexies c.c. che è norma indirizzata a stabilire i poteri dell'assemblea nel fissare le regole per la ripartizione dei ristorni.
Non appare, infatti, percorribile la strada dell'analogia. Altro è la posizione, sia pure creditoria, del socio per i ristorni, altro è la posizione creditoria dei fondi nella devoluzione.
La prima rappresenta una delle modalità attraverso cui si realizza la causa mutualistica e si assegna al socio il vantaggio derivante dalla partecipazione sociale. Si tratta di una ragione di credito la cui fonte ha causa nel contratto sociale : il socio diviene creditore quoad socius, ed è principio generale pacifico che l'assemblea [nota 74] abbia ampia sovranità in materia di an, quantum e quindi anche quomodo nell'assegnazione del vantaggio casualmente derivante dal rapporto sociale. Ciò accade nell'organizzazione lucrativa nella quale il codice selezionato alla stregua del principio di proporzionalità della partecipazione,o del valore convenzionalmente pattuito,assegna al socio l'utile che l'assemblea stabilirà di distribuire, se ne deciderà la distribuzione, quando la deciderà, e senza che il socio abbia o possa - al riguardo - lamentare alcunché, salvo sempre la tutela giurisdizionale dell'abuso (cfr. 2433 c.c. primo comma).
Il principio è valido anche per le società cooperative per le quali le regole per la ripartizione di utili e ristorni sono stabilite nell'atto costitutivo (art. 2521 c.c. n. 8) tenendosi conto che lo svolgimento dell'attività mutualistica quando non stabilita in atto costitutivo è contenuta in regolamenti approvati dall'assemblea (art. 2521 ultimo comma). In questa direzione è ben comprensibile la norma che assegna all'assemblea di deliberare (o meno) la ripartizione del ristorno (art. 2545 sexies primo comma) e di stabilire le modalità dell'assegnazione del ristorno stesso (ultimo comma della norma in commento).
Il legislatore altro non ha fatto, in tal caso, che ribadire l'ampio principio della sovranità assembleare nel "gestire" il vantaggio derivante dal rapporto sociale e quindi dalla causa della fattispecie.
I fondi sono creditori, invero, del tutto estranei alla causa societatis. Il loro diritto non nasce dalla "partecipazione" al vantaggio mutualistico ma, al più, dalla ragione d'evitare che un patrimonio formatosi sulle provvidenze proprie della cooperazione non venga attribuito ad enti che ne siano estranei con deviazione delle regole che presiedono alla tutela e sviluppo della cooperazione, e forse, del principio di non alterazione della concorrenza tra imprese lucrative, attraverso l' "assistenza fiscale". Civilisticamente, essi sono creditori ordinari e non si ricorda principio civilistico che assegni al debitore, nel silenzio di una previsione positiva, o di una ragionevole ratio, di stabilire le modalità di adempimento del debito.
L'esecuzione della prestazione appare caratterizzata dall'avere il debito de quo ad oggetto un'obbligazione pecuniaria, con applicazione, dunque, delle relative norme.
L'errore o peggio la scorrettezza nella formazione dell'oggetto della devoluzione non sembrano destinati ad interferire con la validità della trasformazione che risulta improntata al principio della pubblicità sanante di cui all'articolo 2500-bis c.c.
Ne consegue che ferme le responsabilità personali anche in eventuale sede penale ove ne ricorrano i presupposti il fondo potrà tutelarsi solo in sede risarcitoria [nota 75].
[nota 1] Tra i contributi più significativi al divisato fine, dopo la riforma del diritto delle società di capitali e cooperative, piace ricordare G. MARASà «Principi civilistici nella riforma del diritto societario» in Giur. comm. 2004, I; O. CAGNASSO, Introduzione alla disciplina della Trasformazione, della fusione e della scissione, in Il Nuovo Diritto Societario, Commentario diretto da G. Cottino e G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti artt. 2484-2548, 2004; F. GUERRERA, Trasformazione, fusione, scissione, in AA.VV. Diritto delle società di capitali, 2003; P. SPADA, La disciplina delle trasformazioni societarie nel nuovo diritto dell'economia: contenuti e opportunità per le imprese, relazione al Convegno organizzato da Paradigma a Milano 20 febbraio 2004; L. PANZANI, artt. 2498-2500-novies c.c., in La riforma del Diritto societario, a cura di G. Lo Cascio vol. IX, AA.VV. (Gruppi, trasformazione, fusione, scissione, scioglimento e liquidazione, società estere), 2003; M. MALTONI, F. TASSINARI, La Trasformazione delle società, in Notariato e nuovo diritto societario. Collana diretta da G. Laurini, Milano, 2005; G. CAMPOBASSO, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, agg. alla V° edizione, 2004; C. MOSCA, E. BUFFA DI PERRERO, G. FRANCH, artt. 2498-2500-novies c.c., in Commentario alla riforma delle società a cura di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, 2006; G. PALMIERI, Autonomia e tipicità nella nuova trasformazione; A. CETRA Le Trasformazioni omogenee ed eterogenee, entrambi in Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, 4° Volume, 2007.
[nota 2] Va opportunamente ricordato che nei tempi più recenti parte della dottrina era oramai orientata a rintracciare l'ostacolo a quest'ultima trasformabilità nella diversità causale dei due tipi societari, anche se era diffusa l'opinione di quanti sostenevano che tale barriera potesse superarsi con l'unanimità dei consensi all'operazione.
[nota 3] Appare agevole in questo senso concepire i caratteri essenziali dell'organizzazione cooperativa (tra cui, ad esempio, il principio della porta aperta, oppure il significato delle agevolazioni tributarie e non solo) quali "meri" strumenti tecnici volti a consentire, nell'alveo dell'impresa (minore) cooperativa energie economiche che altrimenti non avrebbero la forza di acquisire il ruolo di organizzazioni economico-imprenditoriali.
[nota 4] G.A.M. TRIMARCHI, La Nuove Società Cooperative, Ipsoa, 2004, p. 188 e 189.
[nota 5] Ancorché non siano le uniche chiamate a disciplinare il complesso fenomeno.
[nota 6] Fermo quanto più innanzi verrà chiarito in ordine alla possibilità, per la società cooperativa a mutualità prevalente, di "perdere" il requisito della mutualità prevalente e,quindi, di trasformarsi in lucrativa.
[nota 7] Come fa V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative in Il Nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. IV, p. 197.
[nota 8] Alcune delle citate ipotesi sono, coerentemente prospettate da V. DE STASIO, Il Nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, cit., p. 195-196.
[nota 9] V. DE STASIO op. ult. cit., p. 197.
[nota 10] è appena il caso di accennare in questa sede che per le banche popolari e del credito cooperativo esiste un'autentica disciplina speciale nel Testo Unico bancario - D.lgs. 58/98 - nel quale, peraltro si rinviene la disciplina della fusione di una banca del credito cooperativo in banca popolare (art. 36) senza che, tuttavia, ne risulti esplicitamente curata la disciplina della trasformazione.
[nota 11] V. DE STASIO, Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 197
[nota 12] Appare chiaro oggi assai più di quanto non lo fosse in precedenza, che la trasformazione è sempre più tecnica concernente un effetto, e più precisamente quello della organizzazione, o meglio della riorganizzazione, talora delle modalità di svolgimento dell'attività d'impresa, talaltra della "mera" imputazione della titolarità di situazioni soggettive patrimoniali che prescindono dallo stesso esercizio dell'attività d'impresa, sul presupposto che la continuazione dei rapporti di cui è menzione nell'articolo 2498 c.c. rappresenti l'id quod plerumque accidit rispetto agli interessi in gioco che, diversamente, potrebbero essere soddisfatti dalla sequenza, diversa sul piano tecnico ma simile proprio quanto all'effetto complessivo e finale, della scioglimento, liquidazione, ricostituzione della fattispecie in una forma organizzativa "altra" rispetto alla precedente. Sul punto cfr. M. SCIUTO - P. SPADA, Il tipo della società per azioni in Trattato a cura di G.E. Colombo, G.B. Portale, I, 2004, p. 96 e ss. L'aspetto preponderante della trasformazione come effetto riorganizzativo della fattispecie relativa all'attività e/o all'imputazione delle situazioni patrimoniali è messo in evidenza con particolare ricchezza di argomentazioni da M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit. p. 5 e ss. Mostra di aderire a questa ricostruzione, più di recente A. PACIELLO, Società Cooperative, Trasformazione - Devoluzione del patrimonio e bilancio di trasformazione, in Commentario alla riforma delle società diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Grezzi, M. Notari, - Società cooperative, artt. 2511-2548 c.c. - p. 493.
[nota 13] M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit., p. 192-193.
[nota 14] Sulla nozione e significato di "tipo sociale" non può prescindersi dall'insegnamento di P. SPADA, La Tipicità delle società, 1974, in particolare sui contenuti minimi essenziali cfr. p. 231 e ss.
[nota 15] M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit. p. 230-231; di recente sul punto con discutibile argomentazione Tribunale di Mantova del 28 marzo 2006, in Vita notarile n. 3, 2006, p. 1434 e ss. con nota di L.S. Licciardello, «Osserva-zioni in tema di trasformazione di società in nome collettivo con unico socio in impresa individuale»
[nota 16] V. DE STASIO, Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 203.
[nota 17] La consistenza è individuata nel rilievo quantitativo del rapporto mutualistico, ed in particolare nel fatto che l'articolo 2513 rinviene nell'ammontare superiore al 50% dei ricavi di vendite e prestazioni di servizi verso soci (lettera a) o del costo del lavoro dei soci (lettera b) o del costo della produzione di servizi ricevuti da soci (lettera c).
[nota 18] V. DE STASIO, in Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 204.
[nota 19] A. BASSI, Principi generali della riforma delle società cooperative, Utet, 2005, p. 66 e ss.; così anche prima della riforma Cass. Civ. 14 luglio 97 n. 6349; sul punto cfr. lo studio 7 -2006 Gruppo Studio sulla riforma delle società cooperative del Consiglio Nazionale del Notariato del 14 gennaio 2006, in Studi e Materiali Anno V, Fascicolo 1, 2006 Brevi considerazioni sul problema della trasformazione di società cooperativa in società lucrativa contestuale alla perdita della mutualità prevalente di G.A.M. TRIMARCHI p. 342 e ss. e bibliografia ivi rassegnata; e di recente nella stessa direzione A. PACIELLO, Trasformazione - Devoluzione del patrimonio e bilancio di trasformazione, in Commentario alla Riforma, cit., p. 492.
[nota 20] Cfr. studio 7 -2006 Gruppo Studio sulla riforma delle società cooperative del Consiglio Nazionale del Notariato cit. p. 329-333
[nota 21] Il che non vuol dire che nelle cooperative a mutualità prevalente non possano esservi riserve divisibili.
[nota 22] Il quale stabilisce che: «ferma la natura indivisibile delle riserve accantonate, non rileva ai fini dell'obbligo di devoluzione previsto dall'articolo 17 della legge 26 dicembre 2000 n. 388 la modificazione delle clausole previste nell'articolo 26 del D.lgs. C.P.S. 14 dicembre 47 n. 1577, ovvero la decadenza dai benefici fiscali per effetto della perdita del requisito della prevalenza come disciplinato dagli articoli 2512 e 2513 del codice civile ... ».
[nota 23] Anche se per queste società la legge prevede, come evidenziato, la devoluzione dell'intero patrimonio sociale.
[nota 24] Osserva, tra l'altro, che i « … fondi mutualistici … sono soggetti che nulla hanno a che vedere con il fisco … » V. DE STASIO Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 220.
[nota 25] V. DE STASIO, Il Nuovo diritto delle società, op. loc. ult. cit., ed ivi note 96 e 97.
[nota 26] A. BASSI, Principi generali della riforma delle società cooperative, Milano, p. 95 e ss.; G. MARASà Problemi della legislazione cooperativa e soluzioni della Riforma, in Le cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario, 2004, p. 10 e ss.
[nota 27] Così anche C.G. CORVESE in Le società Cooperative, in La riforma delle Società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, 2004 p. 203.
[nota 28] Così anche L. DE ANGELIS, «La Trasformazione nella riforma del diritto societario», in Società, 2003, p. 384; di recente nel senso dell'ammissibilità della fattispecie all'esame G.M. MICELI, La Trasformazione eterogenea, tesi per dottorato in ricerca in diritto commerciale XVII ciclo, 2006, Relatore Prof. O. Cagnasso, in corso di pubblicazione, visionabile direttamente presso la Biblioteca dell'Università L. Bocconi di Milano, Via Gobbi 5 p. 180 e ss.
[nota 29] G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, cit., p. 75 e ss.
[nota 30] Nella stessa direzione M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit., p. 280-281. In senso contrario, di recente V. DE STASIO Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 193.
[nota 31] Il rilievo è stato formulato da G. BONFANTE nell'intervento al Forum " La riforma delle Società, Guida all'applicazione del nuovo diritto societario " in Milano 27-28-29-30 ottobre 2003 intitolato La nuova società cooperativa mutualità e modelli di disciplina (intervento distribuito ma non pubblicato). Piace segnalare che, di recente, il tema specifico della trasformabilità delle cooperative in fondazioni di partecipazione e viceversa è stato affrontato con prospettive di soluzioni favorevoli, nel rispetto dell'attenta disamina della specificità della normativa relativa alle fondazioni di partecipazione, da A. FUSARO, «Trasformazione da e in fondazione di partecipazione», in I Quaderni della Fondazione Nazionale per il Notariato, "Fondazioni di Partecipazione", 2007, p. 46
[nota 32] G. BONFANTE in intervento al Forum "La riforma delle Società…" cit.
[nota 33] Cfr. G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, cit., p. 189.
[nota 34] Si pensi al fatto che le cooperative sociali, ad esempio sono Onlus di diritto.
[nota 35] Così già G. MARASà, «Le Trasformazioni eterogenee», in Riv. notariato, 2003, 3, p. 585 e ss.
[nota 36] Per tutti O. CAGNASSO, La Trasformazione delle società, in Commentario del codice civile, a cura di P. Schlesinger, 1990, p. 61.
[nota 37] L'unanimità continuerebbe a valere per le comunioni d'azienda, per le quali, ove si voglia trasformare in cooperativa di tipo SpA o Srl è richiesto, in ogni caso, il consenso di tutti i comunisti.
[nota 38] Norma, in realtà, priva di una sicura ratio che non sia quella generica del favor accordato alle associazioni riconosciute. Sul punto M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, cit., p. 313-318; ravvisa - discutibilmente - nella norma in esame, il riconoscimento di una maggiore garanzia relativamente alla consistenza patrimoniale F. GALGANO, Diritto Commerciale, XII ed., 2003, p. 490.
[nota 39] Così M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari op. cit., p. 317 ove, giustamente, si considera irrilevante la disciplina speciale della trasformazione delle associazioni (non riconosciute) sportive in società di capitali di cui alla L. 91\81 e successive modificazioni ed integrazioni.
[nota 40] Con un "passaggio" logico che, purtuttavia non appare nemmeno lì, definitivo ed indiscutibile.
[nota 41] Così a mò d'esempio piace ricordare che secondo la Corte d'Appello di Torino, 25 marzo 1997 «è omologabile la trasformazione da società cooperativa a responsabiltà limitata in associazione di volontariato», in Riv. del notariato, 1997, p. 565 e ss.; conforme Corte d'Appello di Trieste, 20 ottobre 1995, in Vita not., 1996, p. 344 e ss.; Corte d'Appello di Trieste, 20 maggio 1993, in Vita not. 1993, p. 1509 e ss. Come pure si riteneva ammissibile la trasformazione di una associazione non riconosciuta in società cooperativa anche se trattasi di ipotesi non espressamente prevista dall'art. 2498 c.c. (previgente), Tribunale di Udine, 20 luglio 1988 in Riv. del notariato, 1988, p. 697.
Per dovere di completezza si segnalano contra: Tribunale di Udine, 23 maggio 1996 in Dir. fall. 1996, II, p. 1144 e ss. e Tribunale di Napoli, 9 aprile 1992, a mente del quale: «la diversità causale tra l'associazione non riconosciuta e la società cooperativa è elemento necessario e sufficiente per negare l'ammissibilità della trasformazione dell'ente secondo le norme di cui agli art. 2498 e ss. c.c. » in Riv. del notariato, 1992, p. 1229. Dopo la riforma è indirizzato a riconoscere legittimità all'operazione in commento G. MARASà, «Le trasformazioni eterogenee», cit., p. 594.
[nota 42] G. MARASà, «Le trasformazioni eterogenee», cit., p. 595. Si ricorda che nell'op. cit. p. 591 l'illustre scrittore ha peraltro sostenuto che l'assenza di una disciplina completa di tutte le fattispecie d'arrivo o partenza delle trasformazioni eterogenee è dovuta al fatto che « … il riformatore - probabilmente valutando che la legge di delega gli consentiva di intervenire solo in materia di società di capitali - ha considerato il fenomeno soltanto nella prospettiva che il punto di partenza o di arrivo della vicenda trasformativa sia una società di capitali. In questo senso si spiega anche la mancata considerazione delle società di persone che, peraltro, in linea di fatto sono state più raramente oggetto di attenzione in sede giurisprudenziale con riguardo alla problematica in esame …».
[nota 43] Sul punto decisive le osservazioni di P. MARANO, «La c.d. trasformazione delle piccole società cooperative», in Riv. del notariato, 2004, I, p. 985 e ss.
[nota 44] Il corsivo è di P. MARANO, op. ult. cit. p. 991.
[nota 45] La questione era stata già adombrata in G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, cit., p. 193.
[nota 46] Cosi V. De STASIO, Il Nuovo diritto delle società, cit., p. 193 ed ivi in specie nota 4. Nel medesimo senso del citato autore A. PACIELLO, Trasformazione - Devoluzione del patrimonio e bilancio di trasformazione, in Commentario alla riforma delle società, cit., p. 494 secondo il quale il "tipo" cooperativo è sempre stato ed è uno e il riferimento alla normativa in materia di SpA o Srl vale per le società cooperative come mera disciplina residuale.
[nota 47] Recentemente, in questo senso, M. SCIUTO e P. SPADA, Tipo, Costituzione Nullità, in Il tipo della società per azioni, Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. I, p. 82.
[nota 48] M. SCIUTO e P. SPADA, Il tipo della società per azioni, cit., p. 91.
[nota 49] M. SCIUTO e P. SPADA, Il tipo della società per azioni, op. loc. ult. cit., sia pure riferito alle sole società per azioni. Il che vale quanto dire, per fare un esempio, che se alle società sportive, o alle fondazioni bancarie si può applicare anche se in via residuale, atteso il rilevante peso della legislazione speciale in materia, la disciplina delle società per azioni esse appartengono al tipo detto, altrimenti no.
[nota 50] M. SCIUTO e P. SPADA, Il tipo della società per azioni, cit., p. 97.
[nota 51] Così M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit., p. 288-289.
[nota 52] Fermo quanto più avanti precisato.
[nota 53] A. PACIELLO, Trasformazione - Devoluzione del patrimonio e bilancio di trasformazione, in Commentario alla riforma delle società, cit., p. 494.
[nota 54] Come adombra, appunto, A. PACIELLO, op. ult. cit., p. 495.
[nota 55] Anche se la relazione giurata dell'esperto di cui al comma secondo dell'articolo 2545-undecies potrebbe avere un ruolo tutt'altro che trascurabile nella vicenda della valutazione del recesso del socio assente o dissenziente. La questione di carattere generale verrà presa in considerazione più avanti.
[nota 56] Così M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit., p. 195-196.
[nota 57] Conformi sia G. BONFANTE nell'intervento al Forum "La riforma delle Società, Guida all'applicazione del nuovo diritto societario" tenutosi in Milano 27-28-29-30 ottobre 2003 intitolato La nuova società cooperativa mutualità e modelli di disciplina, cit.; e M. MALTONI, in M. Maltoni, F. Tassinari, La Trasformazione delle società, cit., p. 197 e ss.
[nota 58] Questione di particolare momento pratico è quella concernente l'ammissibilità del contestuale effetto della "perdita" volontaria dei requisiti della prevalenza e della trasformazione. Questione affrontata ampiamente nello studio … cui si fa rinvio per la molteplicità delle questioni lì affrontate non senza sottolineare in questa sede che s'è inteso dare al quesito risposta positiva. Contra A. PACIELLO, Trasformazione - Devoluzione del patrimonio e bilancio di trasformazione in Commentario… cit., p. 491 ivi nota 8.
[nota 59] Già altrove s'è chiarito che i quorum non sembrano tutti inderogabili. Appare tale solo quello del secondo comma dell'articolo 2545-decies c.c. che prevede che quando la cooperativa abbia meno di cinquanta soci la trasformazione deve essere approvata da almeno i due terzi di essi. Quando, invece la cooperativa abbia più di cinquanta soci e fino a diecimila, la delibera di trasformazione va approvata da almeno la metà dei soci. Il che lascia intendere che il quorum è elevabile ma non riducibile. Egualmente allorchè la cooperativa abbia più di diecimila soci è concesso che l'atto costitutivo possa prevedere un quorum costitutivo di almeno il 20% del complesso dei soci (il che vuol dire che esso può essere innalzato ma non ridotto) e che la trasformazione sia deliberata con il voto favorevole dei due terzi dei votanti. Quorum quest'ultimo da ritenere inderogabile in peius dal momento che esso s'inserisce in una previsione di agevolazione della delibera di trasformazione delle grandi cooperative con l'evidente scopo di snellirne le procedure, ma al tempo stesso rappresenta un'eccezione al generale principio per cui la delibera deve essere assunta con il voto favorevole di almeno la metà dei soci così già G.A.M. TRIMARCHI, Le Nuove società cooperative, cit., p. 191 nota 20. Di recente pare condividere questa ricostruzione A. PACIELLO, op. ult. cit., p. 497 ivi nota 31.
[nota 60] Salva l'ipotesi per chi la condivide di trasformazione di società cooperativa a responsabilità limitata in società cooperativa per azioni e viceversa.
[nota 61] La circostanza che il legislatore preveda l'allegazione della relazione alla "proposta" di delibera da parte degli amministratori non deve ingannare: la delibera di trasformazione, infatti, assume i connotati tradizionali di negozio unilaterale collegiale (salvo, quanto alla collegialità, l'applicazione dei principi del voto per corrispondenza e del sistema decisionale ove applicabile), dunque non v'è una "proposta" cui si contrapponga,a completamento un' "accettazione". Ne consegue che la relazione non può essere allegata all'avviso (rectius a tutti gli avvisi) di convocazione (che in qualche modo rappresentano la "proposta" di trasformazione). Essa dunque deve in qualche modo allegarsi all'ordine del giorno, ossia all'elencazione degli argomenti da trattare in sede deliberativa. Ma quest'ultimo non ha un ubi consitam documentale autonomo rispetto alla deliberazione ed alla correlata verbalizzazione, per questo si ritiene necessaria l'allegazione della relazione de qua alla delibera di trasformazione.
[nota 62] Così A. PACIELLO, op. ult. cit., p. 496.
[nota 63] G.A.M. TRIMARCHI, Le Nuove società cooperative, cit., p. 192, contra A. PACIELLO op. loc. ult. cit.
[nota 64] Testualmente avocata nella previsione dell'articolo 2545-decies c.c.
[nota 65] Nello stesso senso V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 210-211.
[nota 66] Quindi quello del socio cooperatore.
[nota 67] In questo senso V. DE STASIO, op. loc. ult. cit.; e nella stessa direzione A. PACIELLO op. ult. cit., p. 499 a mente del quale testualmente: «questa disciplina … è di difficile comprensione poiché finisce per vincolare il socio ai risultati economici dell'impresa ben oltre il momento risolutivo del rapporto, incide in modo significativo sull'interesse del socio a partecipare sia pure temporaneamente, al diverso schema causale …».
[nota 68] V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 211-213.
[nota 69] Al più profilandosi opportuna per quelle società cooperative sprovviste di patrimonio da devolvere.
[nota 70] V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 214.
[nota 71] R. SANTAGATA, in Codice Civile commentato a cura di G. Alpa - G. Mariconda, V, 2005, p. 2181.
[nota 72] V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 221.
[nota 73] V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 223-224.
[nota 74] Talvolta il consiglio di sorveglianza.
[nota 75] V. DE STASIO, La Trasformazione delle cooperative, cit., p. 226.
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