Obiettivi di diritto materiale e tendenze del diritto internazionale privato e processuale comunitario
Obiettivi di diritto materiale e tendenze del diritto internazionale privato e processuale comunitario [*]
di Sergio M. Carbone
Ordinario di diritto internazionale, Università di Genova

La caratteristica del diritto internazionale privato comunitario: la non neutralità

è noto che la Comunità europea persegue gli obiettivi materiali posti dal Trattato Ce e tra essi, in particolare, la realizzazione di un c.d. mercato interno tra gli Stati comunitari. Non stupisce, quindi, se al perseguimento di queste finalità sono state indirizzate anche le norme che concorrono a formare il diritto internazionale privato e processuale. Si tratta allora di verificare se, a causa di tale circostanza, si sia progressivamente affermato, in ambito comunitario, lo specifico metodo di coordinamento degli ordinamenti giuridici denominato "metodo materiale" dei conflitti di legge, che si va ad affiancare al metodo classico della "localizzazione" delle fattispecie dotate di caratteristiche di internazionalità, proprio delle tradizionali norme di conflitto indifferenti al contenuto delle leggi da esse richiamate. E, sotto questo profilo, pertanto, si tratta di verificare se, almeno in parte, in ambito comunitario, sia stata contraddetta la tradizionale "neutralità" dei sistemi di diritto internazionale privato e processuale.

Quanto ora indicato sembra trovare un immediato riscontro positivo sul versante del diritto processuale civile comunitario; in questo senso, il trasferimento del titolo IV dal terzo pilastro al primo ha, infatti, anzitutto confermato la necessità che le regole di diritto processuale civile internazionale di stampo comunitario siano funzionali ad esigenze materiali. Tra esse, in primo luogo, la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, così come indicato dall'art. 61 del Trattato Ce. Parimenti, anche nell'ambito del diritto internazionale privato, negli ultimi decenni si è progressivamente maturata una compiuta consapevolezza circa la necessità e l'urgenza del superamento delle differenze delle norme di conflitto dei singoli Stati membri, proprio al fine di perseguire compiutamente ed in modo uniforme obiettivi di diritto materiale. Al riguardo, in tal senso, particolarmente significative sono le norme della Convenzione di Roma del 1980 (attualmente in corso di trasformazione in regolamento comunitario c.d. "Roma I", con modifiche ed integrazioni anche significative), relative alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Essa, infatti, pur adottata attraverso uno strumento di diritto internazionale, ha in realtà avviato il processo di comunitarizzazione del diritto internazionale privato, funzionale a politiche comunitarie di settore, attualmente proseguito, grazie al nuovo ambito di applicazione del titolo IV del Trattato Ce, attraverso l'elaborazione di un progetto preliminare di regolamento relativo ai rapporti obbligatori extracontrattuali (c.d. "Roma II"), nonché di una normativa di diritto internazionale privato in materia di regimi matrimoniali, di diritti patrimoniali tra coniugi e di successioni.

L'evoluzione della disciplina dello spazio giudiziario europeo: da "Bruxelles I" al pacchetto di regolamenti Ce

Come già accennato, da tempo la progressiva integrazione economica tra i Paesi membri ha evidenziato che la compiuta realizzazione del mercato interno europeo richiede il superamento delle diversità delle normative nazionali relative al c.d. diritto processuale civile internazionale, da un lato, al fine di determinare, secondo parametri uniformi, i criteri di individuazione dei giudici competenti in ambito comunitario per la risoluzione delle controversie civili e commerciali, e, dall'altro, al fine di garantire identici effetti, all'interno dei territori dei singoli Paesi membri, delle decisioni pronunciate dai loro giudici oltreché degli atti pubblici adottati nel loro ambito.

D'altronde, l'importanza, per l'instaurazione del mercato unico europeo, di soddisfare l'esigenza di garantire a tali decisioni una circolazione facilitata all'interno delle frontiere comunitarie era già stata avvertita in sede di conclusione del Trattato di Roma, dal momento che l'art. 220 (ora art. 293 Tce) aveva già previsto l'obbligo, in capo agli Stati membri, di procedere a «semplificare le formalità cui sono sottoposti il reciproco riconoscimento e la reciproca esecuzione delle decisioni giudiziarie». è proprio sulla base di questa disposizione che, nel settembre del 1968, è stata conclusa a Bruxelles una convenzione internazionale di diritto uniforme, che, peraltro, come è noto, non si è limitata a perseguire l'obiettivo sancito dall'art. 220 del Trattato di Roma (garantendo che le decisioni dei giudici comunitari esplichino i medesimi effetti nell'ambito del mercato interno), ma ha previsto, sulla base di criteri uniformi, norme in tema di competenza giurisdizionale in relazione a ogni controversia che presenti carattere di transnazionalità e ricada nell'ambito di applicazione, ratione materiae e personarum, della Convenzione stessa.

è proprio in ragione di queste considerazioni che la Convenzione di Bruxelles è dotata di carattere "doppio", in quanto non soltanto ha mirato ad agevolare l'estensione degli effetti che le decisioni producono nell'ordinamento di origine all'intera area comunitaria, ma ha previsto anche meccanismi atti a scongiurare la pendenza di più procedimenti relativi alla medesima controversia innanzi a giudici di Stati membri diversi, riducendo in tal modo possibili contrasti di giudicati. E, d'altro canto, la disciplina in esame, nonostante la sua caratteristica di normativa di diritto uniforme, ha svolto anche una funzione propulsiva per quanto attiene gli sviluppi di una disciplina diretta, all'interno della Comunità, di quegli aspetti del diritto processuale civile e commerciale che presentano implicazioni transfrontaliere. Si spiega così il consolidamento nel tempo di una volontà sempre più ferma di comunitarizzare definitivamente e completamente la disciplina contenuta nella Convenzione, affermando parallelamente la competenza della Comunità in materia, nella convinzione che lo sviluppo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia è essenziale alla formazione di un compiuto funzionamento ed al rafforzamento del mercato interno.

Il passaggio dall'unificazione avente carattere interstatuale alla disciplina comunitaria ha avuto luogo, come già accennato, in virtù dell'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, che ha comportato la trasposizione del settore della cooperazione giudiziaria e giuridica in materia civile dal terzo pilastro al primo. Le nuove competenze comunitarie nell'ambito del diritto internazionale privato e processuale trovano, infatti, il loro fondamento nell'art. 61, lett. c), del Trattato, che attribuisce alla Comunità europea, assegnando, al riguardo, un ruolo particolarmente significativo al Consiglio, il potere di adottare «misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile, come previsto all'art. 65». Pertanto, i settori oggetto dell'azione comunitaria sono: «a) il miglioramento e la semplificazione: del sistema per la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziali; della cooperazione nell'assunzione dei mezzi di prova; del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, comprese le decisioni extragiudiziali; b) la promozione della compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di competenza giurisdizionale; c) l'eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri».

La progressiva creazione di uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia», dunque, riservata tradizionalmente all'azione intergovernativa ed attuata mediante il ricorso allo strumento delle convenzioni internazionali, deve essere ora realizzata in maniera diretta, per mezzo dell'adozione di tutti gli atti normativi di cui la Comunità è solita avvalersi nell'esercizio delle proprie competenze e, segnatamente, di direttive e regolamenti. è su queste basi che la Comunità europea ha provveduto a sviluppare, nello spazio giuridico del mercato interno, un'intensa attività normativa volta a garantire, per quanto concerne i procedimenti aventi implicazioni transnazionali, un vero e proprio spazio privo di frontiere interne per l'amministrazione della giustizia in materia civile.

In questo quadro normativo si collocano il regolamento Ce n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 (c.d. "Bruxelles I"), recante una disciplina generale in materia civile e commerciale, che, dal 1º marzo 2002, sostituisce la Convenzione di Bruxelles del 1968, collocandosi in una posizione di assoluta continuità rispetto al passato, nonché il regolamento Ce n. 1346/2000 del 29 maggio 2000, relativo alle procedure transfrontaliere di insolvenza, il regolamento Ce n. 2201/2003, che abroga il precedente regolamento n. 1347/2000, concernente la competenza, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi (rispettivamente noti anche come disciplina "Bruxelles II-bis" e "Bruxelles II"), il regolamento Ce n. 1348/2000, in tema di notificazione e comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale e ancora il regolamento Ce n. 1206/2001, relativo alla cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell'assunzione delle prove in materia civile o commerciale. Nondimeno, è da ricondurre all'ambito degli strumenti la cui base giuridica è da individuarsi nell'art. 65 del Trattato anche il recentissimo regolamento Ce n. 805/2004, che consente la libera circolazione dei titoli esecutivi all'interno dello spazio giudiziario europeo.

Tali strumenti hanno operato sul duplice fronte dell'armonizzazione in senso verticale, attraverso il coordinamento dei differenti sistemi giudiziari nazionali, ed in senso orizzontale, tramite l'adozione di norme atte a rendere uniformi o, quanto meno, compatibili, le ulteriori disposizioni nazionali sui conflitti di legge rilevanti; i due livelli di armonizzazione, dunque, hanno interagito tra loro, favorendo standards normativi comuni ed incrementando le condizioni di uniformità ed equivalenza degli atti degli ordinamenti degli Stati membri della Comunità europea, oltre che il grado di reciproca fiducia degli ordinamenti nazionali interessati, con impiego progressivamente sempre più accentuato dell'autonomia privata, purché non a pregiudizio della parte più debole del rapporto controverso.

Al riguardo, nel perseguire tale obiettivo e nell'operare delle scelte di politica materiale relative alle possibili interpretazioni delle disposizioni applicabili alle diverse tipologie di controversie, secondo le indicazioni che risultavano dai principi e dalle norme sostanziali di diritto comunitario, si è, volta a volta, privilegiata la soluzione più coerente con essi e, soprattutto, con l'"effetto utile" della norma di cui si forniva l'interpretazione, nell'ottica di favorire gli obiettivi dell'intero ordinamento comunitario, nonché di garantire una maggiore certezza del diritto. A questi fini, dunque, sebbene ogni disposizione di diritto processuale civile comunitario sia stata valutata nell'insieme delle altre norme dello stesso tipo con le quali fa sistema, nondimeno è stata sempre interpretata alla luce del più ampio contesto del diritto comunitario. In tale prospettiva, pertanto, in particolare, la protezione dei valori di uguaglianza e di uniformità di trattamento della dimensione interindividuale ha contraddistinto l'interpretazione della normativa di diritto processuale civile comunitario. Si spiega così l'impegno profuso in questa direzione dalla Corte alla ricerca di un significato autonomo dei termini utilizzati dal diritto processuale civile comunitario, trattandosi della soluzione tendenzialmente ideale per qualsiasi questione interpretativa, al fine di garantire che i diritti e gli obblighi rispettivi degli Stati membri siano equamente bilanciati, che non si verifichino discriminazioni tra situazioni analoghe e che spettino alle parti i medesimi diritti e obblighi, a prescindere dal giudice concretamente adito.

Si è ritenuto tuttavia che tali specifiche nozioni autonome possano essere dedotte solamente se altrimenti legittimate da altre disposizioni comunitarie, oppure in quanto la relativa definizione sia chiaramente desumibile dalla stessa disciplina, o dai principi che sono a fondamento del diritto processuale civile comunitario. Al di là di tali limiti rigorosi e restrittivi, infatti, un'interpretazione creativa ad opera della Corte comporterebbe una modificazione sostanziale del diritto degli Stati membri, senza alcuna loro partecipazione alla relativa attività normativa, venendosi così a creare, unicamente in virtù dell'apporto della giurisprudenza processuale, un diritto sostanziale europeo in materia civile e commerciale, in violazione dei limiti imposti, con riguardo a tale materia, alla produzione normativa in ambito comunitario. Questo, quindi, il limite invalicabile che ci viene indicato dall'interpretazione delle norme di diritto processuale civile comunitario, pur nella ricerca che la giurisprudenza ha perseguito, nella massima misura possibile, di realizzare i valori di eguaglianza ed uniformità in coerenza con gli obiettivi materiali posti a fondamento del sistema comunitario. Peraltro, qualora non sia stato possibile procedere ad un'interpretazione autonoma delle nozioni impiegate dalle norme di diritto processuale civile comunitario per le ragioni ora indicate, sono comunque stati adottati, proprio nel rispetto degli accennati obiettivi materiali, parametri la cui applicazione, pur appartenendo all'ordinamento interno del giudice adito o ad altra legge applicabile al rapporto controverso, quanto meno non pregiudicano l'effet utile della disposizione volta a volta rilevante, nel rispetto del principio innanzi indicato.

I criteri di distribuzione della competenza giurisdizionale nello spazio giudiziario europeo: foro generale, fori speciali, fori esclusivi

Sulla scorta di questi criteri non stupisce che la giurisprudenza abbia anzitutto precisato che il regolamento Ce 44/2001 attribuisce giurisdizione agli Stati membri nei confronti dei soggetti domiciliati all'interno del territorio comunitario, sulla base del loro foro generale, identificato, per tutte le controversie (e salvo alcune limitate eccezioni di cui in appresso), ai sensi dell'art. 2 del regolamento, nel luogo del domicilio del convenuto.

Si sono presentate, peraltro, delle difficoltà in rapporto alla determinazione del domicilio, proprio perché manca una nozione autonoma di domicilio in sede comunitaria: pertanto, nell'applicazione del regolamento 44/2001, per quanto concerne le persone fisiche, si è fatto rinvio alla legge interna dei singoli Stati membri; spetta dunque al giudice investito della controversia verificare che il convenuto, secondo le norme della lex fori, sia effettivamente "domiciliato" all'interno dello Stato in cui esso esercita la propria giurisdizione, al fine di accertare la sua competenza a conoscere della controversia. Analoga situazione si verifica per le persone giuridiche, anche se, al riguardo di queste ultime, l'art. 60 del regolamento individua soltanto tre criteri, posti sullo stesso piano e operanti in via alternativa, che possono rilevare al fine di localizzare il domicilio delle società e, più in generale, delle persone giuridiche, sulla scorta di quanto dispone l'ordinamento volta a volta applicabile. Si tratta della sede legale, dell'amministrazione centrale o del centro dell'attività principale della società o della persona giuridica convenuta in giudizio. Conseguenza di queste disposizioni è che, sia in relazione alle persone fisiche, sia alle persone giuridiche, è possibile che si verifichi una situazione tale per cui un soggetto risulti domiciliato in più Stati membri e, pertanto, più giudici siano competenti a conoscere della medesima controversia. In tal caso, la soluzione di questo inconveniente, pur in mancanza di una sola e comune nozione di "domicilio", al fine di garantire che non si producano giudicati confliggenti, è comunque offerta dagli artt. 27 e 28 del regolamento n. 44/2001, allorché si afferma la prevalenza della competenza del giudice che è stato adito per primo, in applicazione del criterio di carattere temporale della prevenzione.

Come innanzi accennato, comunque, il principio di cui all'art. 2 ha portata tendenzialmente generale e, di conseguenza, le deroghe ad esso devono essere interpretate restrittivamente, come del resto più volte ribadito dalla stessa Corte di Giustizia, allorché ha precisato la portata dell'impiego del criterio generale del domicilio del convenuto, rispetto ai vari fori definiti alternativi, ovvero facoltativi, ovvero speciali, innanzi ai quali il soggetto domiciliato all'interno di uno Stato membro può essere convenuto in giudizio, in ragione delle caratteristiche della controversia sulla quale verte la lite e della sua localizzazione all'interno dello spazio giudiziario europeo. Ed al riguardo nessun dubbio che, in relazione a queste ipotesi, tassativamente previste all'interno dell'art. 5 del regolamento, spetti all'attore la possibilità di scegliere se instaurare la controversia presso il foro generale oppure presso quello speciale.

Il sistema normativo in esame, per converso, in alcuni casi eccezionali, si preoccupa di individuare, sempre sulla base di criteri omogenei e vincolanti per tutti gli Stati membri, la competenza di un unico e solo giudice, in deroga al criterio generale ed ai criteri speciali innanzi indicati, in funzione della particolarità delle situazioni e dei rapporti oggetto della lite. Per alcune controversie, dunque, valgono solo ed esclusivamente i criteri di competenza giurisdizionale tassativamente previsti dall'art. 22 del regolamento n. 44/2001, senza alcun potere dispositivo o determinativo in capo ai soggetti parte della controversia. Da ciò discende che, in merito a tali controversie, per un verso, i giudici localizzati nel territorio di un qualsiasi Stato diverso da quello indicato nelle disposizioni in esame dovranno considerarsi privi di potere giurisdizionale e, per altro verso, che il tribunale individuato in virtù di uno dei titoli da esse previsti deve considerarsi dotato di giurisdizione esclusiva «indipendentemente dal domicilio» del soggetto convenuto. Pertanto, la ricorrenza di uno dei criteri esclusivi di giurisdizione deve essere rilevata anche d'ufficio, sulla base dell'art. 25 del regolamento n. 44/2001, da parte di qualsiasi giudice investito della controversia.

La ragione alla base della previsione dei suddetti fori esclusivi è duplice: da un lato, soddisfa l'esigenza di garantire che sia investito della decisione della lite unicamente il giudice collegato mediante il vincolo maggiormente intenso alla fattispecie dedotta in giudizio, essendo costui in grado di conoscere in modo approfondito tanto le circostanze di fatto, quanto le norme giuridiche rilevanti ai fini della decisione della controversia e, dall'altro lato, la collocazione territoriale del giudice competente a pronunciare la decisione consente di garantire ad essa la massima effettività ed immediatezza per quanto riguarda i suoi contenuti, nell'interesse di una corretta amministrazione della giustizia. Ovviamente, come confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, l'art. 22 del regolamento n. 44/2001, dal momento che priva le parti sia della facoltà di scegliere del giudice, sia della possibilità di adire il foro del domicilio del convenuto, in evidente deroga dei due principi fondamentali su cui si basa l'intero sistema "Bruxelles I", non deve essere interpretato in senso più esteso di quanto strettamente necessario al perseguimento delle sue finalità. Pertanto, l'elenco delle controversie di cui all'art. 22 del regolamento n. 44/2001 non solo deve considerarsi tassativo, ma l'ambito materiale dei rapporti indicati in tale disposizione deve essere interpretato restrittivamente.

Il ruolo dell'autonomia delle parti in materia di deroga alla giurisdizione: la proroga di competenza

In considerazione di quanto affermato nel paragrafo precedente, dunque, e come ribadito anche nel considerando n. 11 del regolamento, il principio della competenza generale del giudice del luogo in cui è domiciliato il convenuto «deve valere in ogni ipotesi salvo i casi rigorosamente determinati nei quali la materia del contendere o l'autonomia delle parti giustifichi un diverso criterio di collegamento». Da quest'ultima considerazione consegue che, comunque, all'interno del regolamento n. 44/2001, ampio spazio è riservato anche a favore dell'autonomia privata. In particolare, l'art. 23 del regolamento attribuisce alle parti la possibilità di designare il giudice competente per la risoluzione delle controversie. In tal modo, si riconosce, per un verso, la "disponibilità" della scelta del giudice da parte dei soggetti interessati dalla controversia e, per altro verso, l'"esclusività" della giurisdizione individuata in base a tale scelta; questo tuttavia può avere luogo a condizione che: a) l'oggetto della controversia non rientri in una delle categorie previste dall'art. 22 del regolamento, relativamente alle quali, come evidenziato, la designazione del giudice competente è inderogabilmente stabilita dalle disposizioni in questione, in virtù di criteri esclusivi sottratti alla disponibilità delle parti e b) per quanto riguarda le controversie concernenti rapporti di assicurazione, rapporti con i "consumatori e rapporti di lavoro, siano soddisfatti ulteriori e specifici requisiti, e siano anche rispettati i limiti posti all'operatività degli accordi di proroga della giurisdizione, in funzione della tutela del contraente più debole (vedi infra).

La scelta di politica del diritto a favore di un ampio riconoscimento del ruolo dell'autonomia privata nel senso ora indicato ha, comunque, consentito alla giurisprudenza ed alla dottrina di precisare che le clausole di proroga della giurisdizione sono destinate a produrre i loro effetti anche nelle ipotesi in cui esse provvedano ad indicare: a) due o più giudici alternativamente competenti; b) giudici diversi, ognuno dei quali competente in via esclusiva per gruppi di controversie differenti; c) un giudice designato dalle parti a prescindere «da qualsiasi legame oggettivo o soggettivo tra il rapporto giuridico controverso ed il giudice designato»; d) un giudice convenzionalmente indicato in via non esclusiva, bensì alternativa rispetto ai tribunali competenti ai sensi dei criteri previsti dal regolamento. Peraltro, secondo il dettato dell'art. 23, a meno che le parti non stabiliscano diversamente in via espressa, la competenza stabilita da una clausola di proroga è da considerarsi esclusiva.

In ogni caso, l'accordo di deroga, al fine di essere valido ed efficace, deve soddisfare alcuni requisiti di carattere soggettivo, oggettivo e formale. Si richiede, infatti, da un lato, che le parti contraenti siano fornite di adeguata capacità e che almeno una sia domiciliata all'interno di uno Stato membro, che l'oggetto della clausola riguardi una sfera determinata di rapporti giuridici e che la competenza sia attribuita anche a più giudici, purché siano determinati con certezza e, ovviamente, operino in uno Stato comunitario. D'altro lato, i requisiti formali sono improntati al minor formalismo possibile: è infatti ammessa anche la conferma per iscritto di una clausola stipulata verbalmente e tale requisito si considera soddisfatto pur in presenza della sola conferma scritta della clausola di proroga inviata da uno dei contraenti all'altra parte, la quale, avendola ricevuta, non formuli alcuna obiezione al riguardo. Ma non soltanto. è altresì considerata sufficiente, secondo il dettato dell'art. 23, par. 1, lett. b), la stipulazione dell'accordo di proroga in «una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro» oppure (secondo il disposto attualmente codificato nella lett. c) dell'art. 23, sulla scorta degli esiti della giurisprudenza comunitaria) in «una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale campo, è ampiamente riconosciuto e rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel ramo commerciale considerato». Infine, il requisito della forma deve ritenersi rispettato anche nel caso in cui la clausola di deroga sia espressa per telegrafo, telescrivente o fax, in quanto questi metodi consentono una registrazione durevole delle dichiarazioni delle parti. Si tratta, quindi, di scelte di politica del diritto rivolte tutte a garantire l'attenuazione delle esigenze formali sottese all'operatività degli accordi di proroga della giurisdizione. Tali scelte, peraltro, non escludono la necessità che il consenso delle parti risulti in maniera chiara e precisa, nella forma idonea ad essere notato da una parte che agisce in buona fede ed usa la normale diligenza; in virtù di questa impostazione, pertanto, qualora, ad esempio, la clausola di proroga sia inserita in altro documento, il rinvio a questo operato dal contratto dovrà essere specifico (c.d. relatio perfecta).

Emerge da queste considerazioni, dunque, che l'art. 23 del regolamento deve essere considerato una norma particolarmente significativa, in quanto ha accolto soluzioni che riconoscono l'importanza e l'utilità del ricorso all'autonomia privata ai fini dell'individuazione del giudice più adeguato a risolvere le controversie in materia civile e commerciale, assegnando ad essa un ruolo decisivo nel realizzare il coordinamento dell'esercizio delle giurisdizioni statali nello spazio giudiziario europeo. è in tale prospettiva, pertanto, che deve essere valutato, ad esempio, il rapporto intercorrente tra l'art. 23 in esame e l'art. 6 del medesimo regolamento n. 44/2001. E cioè se il foro indicato dalle parti, per un verso, sia in grado di esercitare anche una vis atractiva sulle cause connesse di cui all'art. 6 e, per un altro verso, abbia capacità di resistenza nei confronti dell'attrazione esercitata da altro foro che sia competente sulla base delle disposizioni previste da quest'ultimo articolo. Al riguardo sembrano infatti scontrarsi due esigenze contrapposte, parimenti tutelate all'interno dello spazio giudiziario europeo, costituite dal rispetto della volontà delle parti e dal principio di economia dei giudizi, tra le quali è difficile determinare in termini assoluti quale debba prevalere.

Un esempio. Con riferimento alla situazione processuale descritta nell'art. 6, n. 2, a favore della possibilità di consentire al giudice indicato dalle parti di pronunciarsi anche sulle chiamate di garanzia e sulle chiamate in causa di terzo ad essa relative, sembra deporre la considerazione, confermata dalla giurisprudenza della Corte, secondo la quale l'art. 6, n. 2, è destinato ad operare nel maggior numero possibile di situazioni, a prescindere dal criterio che fonda la competenza del giudice della causa principale. Peraltro, in senso contrario si può affermare che, se è ragionevole consentire la concentrazione delle liti di fronte al giudice munito di una competenza speciale, giustificata in virtù di un collegamento oggettivo con la controversia principale, non altrettanto si può affermare per far valere la concentrazione dinanzi ad un giudice individuato convenzionalmente dalle parti: aderendo alla soluzione opposta, infatti, si costringerebbe un soggetto, terzo rispetto alla clausola di proroga, a comparire di fronte ad un giudice che, in ipotesi, può anche essere privo di qualsiasi collegamento oggettivo con la lite principale, in quanto individuato esclusivamente sulla base di un accordo da altri concluso.

La circolazione degli atti autentici come strumento di attuazione del mercato interno

Ugualmente preordinata all'instaurazione del mercato unico europeo, e di particolare interesse alla luce dei temi oggetto di studio nel presente convegno, è la disciplina speciale per il riconoscimento degli effetti esecutivi degli atti autentici pubblici relativi ai rapporti civili e commerciali formati in uno Stato comunitario, dettata dal capo IV del reg. n. 44/2001 (corrispondente al titolo IV della Convenzione di Bruxelles). Come per gli atti di natura giurisdizionale ed il titolo esecutivo europeo (istituito dal regolamento Ce n. 805/2004, sopra citato), infatti, in base ad essa gli atti pubblici godono dello stesso regime agevolato per la circolazione dei loro effetti esecutivi nello spazio giudiziario europeo.

Per potersi giovare del regime indicato, gli atti in questione devono (i) essere perfezionati con l'intervento di una pubblica autorità che ne attesti l'autenticità; inoltre (ii) essere considerati autentici non soltanto nei loro aspetti formali, ma anche nei loro contenuti; e, infine, (iii) essere esecutivi nello Stato d'origine. Il requisito da ultimo menzionato rappresenta peraltro, a ben vedere, non già un vero e proprio elemento costitutivo di un determinato atto al fine di essere qualificato "atto pubblico", ma solo un "presupposto" o una "condizione" per la sua esecuzione in Stati differenti rispetto a quello di formazione.

Determinante per la qualificazione di "atto pubblico" ai fini in esame risulta, invece, il secondo requisito indicato, consistente nella c.d. "autenticità dell'atto", da intendersi come relativa all'attestato di "pubblica autorità" non solo dell'autenticità della firma, ma anche della effettiva consapevolezza delle parti in merito al contenuto dell'atto, ossia in merito al contenuto delle loro dichiarazioni nonché alle circostanze al riguardo rilevanti. Il processo formativo dell'"atto pubblico" comporta, quindi, la partecipazione ad esso non solo delle parti interessate, ma anche di un altro soggetto chiamato a riceverlo nell'esercizio della funzione di pubblica documentazione ad esso assegnata dalla legge, in analogia con quanto disposto, all'interno dell'ordinamento italiano, dagli artt. 2699 e 2700 c.c.

Il primo requisito, infine, pur non espressamente previsto dalla normativa in esame, è stato precisato in via interpretativa dalla Corte di Giustizia nella sentenza Unibank (Unibank c. Flemming, causa C-260/97, del 17 giugno 1999), che ha affermato che un titolo di credito, esecutivo sulla base del diritto dello Stato d'origine, non costituisce atto autentico ai sensi della Convenzione di Bruxelles se la sua autenticità «non è stata attestata da un'autorità pubblica o da qualsiasi altra autorità a ciò autorizzata da tale Stato». La Corte ha raggiunto tale conclusione in base alla motivazione per cui sono solo gli effetti direttamente riconducibili agli atti autentici che possono essere equiparati alle sentenze ai fini del riconoscimento dei loro effetti. Si tratta, quindi, di una nozione tendenzialmente restrittiva, che non consente di ricomprendervi un atto autonomamente negoziato tra privati di cui la pubblica autorità si è limitata ad autenticare la sottoscrizione senza verificare l'effettiva consapevolezza delle parti in merito ai contenuti, in quanto in tal caso esso non possiede alcun valore di autenticità su cui possa fare affidamento il giudice della delibazione per l'attribuzione degli effetti esecutivi. In breve, il carattere autentico dell'atto, al fine di poterlo qualificare pubblico ai fini in esame, deve essere dimostrato in modo incontestabile sia relativamente al suo contenuto, sia relativamente alle sue forme con adeguato intervento di un'autorità pubblica.

Con riguardo poi al regime di circolazione degli "atti pubblici autentici" caratterizzati dai requisiti ora indicati, esso, come anticipato, è analogo a quello relativo ai provvedimenti giurisdizionali. Tali atti, pertanto, allorché siano impiegati quale espressione di una pubblicità legale ai fini del loro accesso nei pubblici registri, non richiedono alcuna procedura di riconoscimento. L'art. 57 del reg. n. 44/2001, infatti, stabilisce che la procedura di cui agli artt. 38 e ss., in tema di esecuzione, opera, su istanza di parte, al solo fine di dichiarare, appunto, esecutivi in uno Stato membro gli «atti pubblici formati ed aventi efficacia esecutiva in un [altro] Stato membro».

Così, con riferimento particolare all'ordinamento italiano, l'automaticità del riconoscimento comporta che, in occasione del deposito presso l'archivio notarile di atti pubblici stranieri autenticati, la procedura a tal fine rilevante, contenuta nella legge notarile del 16 febbraio 1913, n. 89, in particolare al suo art. 106, n. 4, non potrà essere utilizzata per operarne un controllo di legalità prodromico rispetto alla stessa iscrizione nei registri. Purché si tratti di un atto dotato dei requisiti menzionati, il pubblico ufficiale preposto alla tenuta dei registri dovrà provvedere al riguardo, senza la necessità di un preventivo intervento dell'autorità giurisdizionale.

Può tuttavia accadere che (anche) gli atti pubblici autenticati o i loro effetti siano oggetto di contestazione: in tal caso (come nell'ipotesi suddetta in cui si voglia procedere all'esecuzione di un atto pubblico straniero e non al suo mero riconoscimento, mediante, ad esempio, la sua iscrizione/trascrizione in un registro dello Stato richiesto), la parte interessata, per impedirne il riconoscimento automatico nell'ordinamento dello Stato richiesto, dovrà avviare il procedimento di cui agli artt. 43 e ss. del reg. n. 44/2001 che, con riguardo al nostro ordinamento, dovrà essere proposto innanzi alla Corte d'Appello del luogo in cui l'atto deve essere eseguito o deve essere iscritto nei pubblici registri, oppure, in alternativa, del luogo in cui si trova il domicilio della parte contro la quale viene chiesta l'esecuzione o l'iscrizione. Occorre però notare che il solo motivo ostativo all'esecuzione degli atti in questione è costituito dalla loro contrarietà all'ordine pubblico dello Stato richiesto, non rilevando, in virtù delle stesse caratteristiche dell'atto pubblico, gli altri controlli previsti per le decisioni straniere. Anche per tale motivo è, quindi, necessario che il controllo dell'autenticità della formazione e del contenuto degli atti pubblici sia particolarmente rigoroso ed esteso come sopra esposto.

La tutela, in ambito processuale, di alcuni soggetti deboli: assicurato, consumatore, lavoratore

Nell'evidenziare il ruolo essenziale che, per precisa scelta di politica del diritto, è svolto dall'autonomia privata nel coordinamento delle giurisdizioni nazionali, non si può tralasciare di soffermarsi sui precisi limiti che essa pur incontra in relazione a determinate categorie di controversie contrattuali, vale a dire quelle riguardanti assicurati, consumatori e lavoratori dipendenti, disciplinate secondo regole volte a garantire un'adeguata tutela a favore del contraente debole (sezioni 3, 4 e 5 del regolamento, artt. 8-21). Si riconosce così, in ragione di tale finalità di protezione, all'attore che rientri nelle suddette categorie, la possibilità di adire, comunque, il giudice dello Stato in cui ha il proprio domicilio o la propria residenza, ovvero del luogo in cui svolge la propria prestazione abituale e, allo stesso tempo, si esclude che i soggetti appartenenti alle categorie in esame possano essere convenuti in uno Stato diverso da quello del loro domicilio abituale (art. 12 del regolamento n. 44/2001). Pertanto, onde evitare che la tutela accordata dal punto di vista normativo dalle disposizioni suddette venga elusa tramite clausole rivolte a determinare convenzionalmente il giudice dotato di una competenza giurisdizionale esclusiva, si prevede che esse possano essere invocate in deroga alle disposizioni poste a tutela del contraente debole, soltanto se la scelta del giudice avvenga dopo il sorgere della controversia, oppure se utilizzata in favorem (e da parte) del soggetto debole.

Per quanto riguarda, in particolare, i contratti con il consumatore, la protezione è stata ulteriormente potenziata nel senso ora indicato. Infatti, affinché il consumatore possa usufruire di tale tutela è sufficiente che gli atti necessari alla conclusione del contratto siano stati compiuti nello Stato del suo domicilio ed il prodotto o il servizio oggetto del rapporto contrattuale vi sia stato specificamente pubblicizzato. Naturalmente, a tal fine, il soggetto controparte del consumatore dovrà essere in ogni caso un "professionista", secondo la nozione abitualmente usata in sede comunitaria, vale a dire un soggetto che, in occasione della conclusione del contratto, agisce nell'esercizio di un'attività economica con caratteristiche professionali. In assenza di questo requisito, infatti, viene conseguentemente a mancare, in capo al consumatore, la condizione di ineguaglianza o inferiorità che giustifica il trattamento privilegiato ed i limiti alla naturale espansione ed operatività dell'autonomia privata.

Parimenti, con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato, al lavoratore viene sempre consentito convenire il proprio datore di lavoro, non solo nello Stato del domicilio di quest'ultimo, ma anche nello Stato nel quale si è svolta abitualmente l'attività lavorativa, oppure ancora in quello nel quale si trova la «sede d'attività presso la quale il lavoratore è stato assunto», allorché l'attività lavorativa sia svolta in più luoghi, ma in nessuno con carattere di abitualità (con la precisazione che, se i luoghi in cui il lavoratore ha svolto la propria attività con carattere di continuità sono plurimi, rileva, tra questi, l'ultimo).

La tutela, in ambito sostanziale, di alcuni soggetti deboli: agente di commercio, consumatore, lavoratore

Una corrispondente scelta di politica del diritto a tutela dei soggetti socialmente deboli si riscontra egualmente nelle norme comunitarie di diritto internazionale privato altrettanto orientate nella loro formulazione verso la soddisfazione di esigenze di diritto materiale e non già di semplice localizzazione del rapporto. In questa direzione si è già da tempo orientata la giurisprudenza comunitaria nell'interpretazione di alcune norme sostanziali previste in specifici atti comunitari, alle quali è stata assegnata la qualificazione di norme di applicazione necessaria, al fine di garantirne l'operatività nei riguardi di rapporti ai quali, a vario titolo, si è ritenuto opportuno estendere la protezione sostanziale prevista in ambito comunitario, a prescindere dalla loro legge regolatrice. Si pensi, ad esempio, alla direttiva 86/653/Cee, che stabilisce norme materiali per la protezione degli agenti commerciali indipendenti nei rapporti contrattuali con le imprese per le quali operano. Tale direttiva, in realtà, nulla dice in merito all'ambito della sua applicazione, con specifico riguardo a rapporti con elementi di estraneità rispetto alla Comunità; tuttavia, la Corte di Giustizia, nella nota sentenza Ingmar (Ingmar GB Lted c. Eaton Leonard Technologies Inc., causa C-381/98, del 9 novembre 2000), ha adottato al riguardo un'interpretazione teleologica della norma, proprio al fine di giustificare l'estensione del diritto all'indennità o alla riparazione a seguito della fine del contratto, così come prevista dagli artt. 17 e 18 della suddetta direttiva, anche ad agente commerciale pur vincolato ad un contratto che, per comune volontà delle parti, era soggetto alla legge dello Stato della California, nel quale era anche domiciliato il preponente. Nel caso di specie, quindi, con una chiara scelta di politica del diritto orientata da specifiche esigenze di diritto materiale, la Corte ha affermato la natura di norme di applicazione necessaria delle disposizioni citate, prevedendone l'applicazione anche a fronte della diversa legge regolatrice del contratto scelta dalle parti, proprio in quanto la sua disciplina avrebbe negato all'agente stabilito all'interno dei confini comunitari la tutela prevista dalla direttiva.

In tal modo, al fine di perseguire una politica di diritto materiale, si è previsto l'ampliamento del campo di applicazione della norma a situazioni pur dotate di significativi criteri di collegamento con Stati terzi, operando in tal modo una sorta di autocollegamento all'ordinamento comunitario, che ben potrà essere utilizzato anche con riguardo ad altri analoghi rapporti, in funzione del ruolo che la Comunità svolge in ambito internazionale e dell'interesse di quest'ultima all'affermazione, anche in territorio extracomunitario, di determinati valori che le sono propri.

D'altronde, è nota l'esigenza politica di riconoscere la competenza della Comunità europea per quanto concerne la «materia civile che presenti implicazioni transfrontaliere», «per quanto necessario al corretto funzionamento del mercato interno». Pertanto, sembra logico che si estenda fino a ricomprendere settori che, pur non essendo oggetto di competenza diretta del mercato unico, tuttavia siano strettamente collegati al corretto funzionamento di quest'ultimo. Infatti, diversamente da quanto dispone l'art. 95 del Trattato Ce, gli articoli 61 e 65 Ce non si limitano a ricomprendere unicamente le misure che hanno «per oggetto» l'instaurazione ed il funzionamento del mercato unico.

In questo modo, i principi ed i criteri relativi alla disciplina dei c.d. conflitti di legge adottati in sede comunitaria tendono ad estendere la loro applicazione anche nei confronti di fattispecie extracomunitarie. Come è stato di recente osservato, infatti, la globalizzazione dell'economia e l'internazionalizzazione dei mercati hanno provocato un rapporto di reciproca comunicazione e ripartizione di competenze tra ordinamenti, sulla scorta di principi che devono necessariamente trascendere i soli rapporti e le sole fattispecie che gravitano all'interno del territorio degli Stati aderenti all'Unione europea e che, pertanto, lasciano esigui margini alla possibilità di adottare al riguardo soluzioni che coinvolgano esclusivamente questi ultimi.

Le medesime finalità si riscontrano, quindi, anche nella formulazione e nell'interpretazione delle norme di diritto internazionale privato in materia di tutela dei consumatori, le quali prevedono, spesso espressamente, che, in presenza di un qualsiasi collegamento con lo spazio comunitario, la tutela da esse assicurata non venga meno anche in relazione a situazioni con riferimento alle quali la legge regolatrice del contratto sia la legge di uno Stato terzo, che si riveli essere meno vantaggiosa per la categoria dei consumatori. Le specifiche direttive adottate al riguardo, invero, contengono spesso norme speciali aventi carattere unilaterale che estendono espressamente l'ambito di applicazione della loro normativa non solo alle fattispecie interne alla Ce, ma anche a rapporti che sono regolati da ordinamenti appartenenti a Stati terzi. Un esempio è rappresentato dall'art. 6.2 della direttiva 93/13/Ce in materia di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, il quale, infatti, prevede che: «[g]li Stati membri prendono le misure necessarie affinché il consumatore non sia privato della protezione accordata dalla presente direttiva a motivo della scelta della legislazione di un Paese terzo come legislazione applicabile al contratto, laddove il contratto presenti un legame stretto con il territorio di uno Stato membro».

Si introduce, dunque, un criterio di collegamento di natura imperativa avente carattere sussidiario, secondo gli stessi principi contenuti nell'art. 5 della Convenzione di Roma del 1980, nel senso che la sua operatività non può essere derogata dalle parti del contratto se non al fine di prevedere un risultato più favorevole per la parte debole.

Sulla medesima linea di favor nei confronti del contraente debole si colloca anche la disciplina in materia di contratti individuali di lavoro. In particolare, l'art. 6 della Convenzione di Roma prevede, è ben vero, come criterio principale quello generale della volontà delle parti, ma è altrettanto vero che esso è temperato dall'impossibilità che la conseguente tutela per il lavoratore risulti inferiore a quella assicurata dalle norme imperative della legge che, se non fosse intervenuta la scelta dei contraenti, regolerebbe il contratto. Pertanto, anche in presenza di specifiche clausole di scelta della legge applicabile, si applicherà, se più favorevole all'interessato, la legge del luogo in cui il lavoratore presta abitualmente il proprio lavoro (o, se non individuabile con certezza, la legge del luogo in cui è localizzata la sede del datore di lavoro), oppure, in alternativa, la legge dello Stato che presenta il collegamento più stretto con il contratto di lavoro.

Emerge dunque dalle considerazioni ora svolte la ferma scelta del diritto comunitario di proteggere, anche attraverso le tecniche di diritto internazionale privato o di diritto processuale civile internazionale, le categorie sociali ritenute deboli, che, in assenza di una disciplina specifica in loro favore, derogatoria dei principi generali, tanto in ambito processuale, quanto in ambito sostanziale, rischierebbero di non potersi giovare delle tutele previste dal diritto comunitario a causa del maggior potere contrattuale della loro controparte. Tanto che, al fine di perseguire questo obiettivo, talvolta la Comunità si spinge addirittura ad estendere la propria disciplina a situazioni pur collegate molto intensamente a Stati extracomunitari: è questo, appunto, quanto accade, come si è visto, in relazione ai contratti con i lavoratori e con i consumatori, secondo quanto espressamente stabilito dalle citate direttive, secondo principi estensibili anche ad analoghi rapporti contrattuali.

Il ruolo dell'autonomia delle parti in materia contrattuale: Convenzione di Roma del 1980 e regolamento "Roma I"

Come risulta da quanto innanzi indicato a proposito della legge regolatrice dei contratti stipulati da soggetti socialmente deboli, il diritto comunitario, nell'ottica del raggiungimento delle finalità di diritto materiale nell'interesse di una parte rispetto all'altra, adotta tecniche internazionalprivatistiche destinate ad operare anche in relazione a rapporti che si situano al di fuori dei confini territoriali comunitari, con portata riduttiva di eventuali clausole di esercizio dell'autonomia privata in senso internazionalprivatistico. Con riferimento, invece, ai rapporti contrattuali in cui le parti in causa si collocano su una posizione di tendenziale parità, la scelta di politica del diritto relativa ai conflitti di legge è quella di assegnare il massimo riconoscimento possibile all'autonomia privata per quanto concerne la scelta del diritto applicabile. D'altronde, è ormai universalmente riconosciuto sia dai legislatori, sia dalla prassi, che tale principio rappresenti una sorta di "soluzione spontaneamente uniforme" che, da un lato, trova il suo fondamento su basi storico-filosofiche, risalenti a Savigny e Mancini, e, dall'altro, valorizza massimamente l'intento pratico perseguito dalle parti in occasione della conclusione del contratto.

In questo senso, pertanto, affidando alla volontà delle parti la scelta della legge applicabile, si è inteso favorire il loro interesse materiale, non essendovi motivi per considerare la scelta di legge attribuita all'autonomia privata «incompatibile con qualsiasi criterio materiale», oppure inidonea nel «perseguire una politica materiale». Infatti, l'impiego dell'autonomia internazionalprivatistica non si riduce a mera tecnica rivolta ad esprimere il legame più stretto con la sede di esecuzione delle prestazioni oggetto della fattispecie negoziale e/o la sua migliore localizzazione, bensì soprattutto consente di garantire, nella massima misura possibile nell'ottica delle parti, la produzione degli effetti di carattere materiale secondo le ragioni economiche alla base dell'operazione di cui il contratto costituisce la formalizzazione in termini giuridici. Da ciò consegue che il fine principale dell'impiego internazionalprivatistico dell'autonomia privata è da individuarsi in una specifica scelta politica di tutela degli interessi materiali dei contraenti, che si identificano anche nella tutela del perseguimento del loro identico scopo. Solo in tal modo, infatti, si riconosce compiutamente il valore positivo degli scambi, dell'iniziativa economica e del contratto, assicurando ad esso la funzione di offrire alle parti di ottenere vantaggi in misura maggiore delle perdite e di garantire razionalità ai risultati conseguiti, di modo che, non solo le parti, ma anche l'intero ordinamento possa giovarsene. In altre parole, lasciando alle parti la libertà di individuare la legge regolatrice del contratto, si è inteso consentire loro di scegliere non tanto la legge dotata del legame più stretto con la sede di esecuzione o comunque della localizzazione più adeguata rispetto alle prestazioni oggetto della fattispecie negoziale, bensì la legge che garantisce nella massima misura possibile la produzione degli effetti di carattere materiale che esse hanno perseguito mediante la stipulazione del contratto.

Naturalmente, affinché tali finalità ed effetti, propri dell'ordinamento giuridico individuato in virtù dell'inquadramento operato delle parti, possano essere riconosciuti nella prospettiva della tutela degli interessi materiali innanzi indicati, sarà necessario che questi siano espressione di un interesse meritevole di tutela e che quindi non celino un intento fraudolento, che non siano contrari ai principi dell'ordine pubblico internazionale propri dell'ordinamento del foro e/o che non risultino incompatibili rispetto a norme di applicazione necessaria della lex fori o di altri ordinamenti con i quali «la situazione presenti uno stretto legame», tenuto conto della loro natura e del loro oggetto, alla luce di quanto chiaramente indicato nell'art. 7 della Convenzione di Roma del 1980 sulle obbligazioni contrattuali.

Si tratta perciò di qualificare l'impiego del criterio di collegamento costituito dalla scelta della legge applicabile al contratto non già attraverso il tradizionale metodo della localizzazione spaziale della fattispecie, bensì in virtù del rinvio all'ordinamento giuridico che si legittima ad inquadrare e a disciplinare gli effetti del contratto, sulla scorta della preferenza espressa dalle parti in ragione del loro intento negoziale, nonché delle caratteristiche e degli obiettivi dell'operazione economica da esse conclusa. Considerazioni, queste ultime, che, del resto, giustificano anche le motivazioni in base alle quali si privilegia l'applicazione della legge di tale ordinamento, a discapito di altre pur applicabili in ragione di altri criteri di collegamento che localizzano il contratto all'interno del loro ambito di applicazione. Ed al tempo stesso si pone l'accento sul fatto che l'autonomia delle parti in senso internazionalprivatistico non possa avere giustificazioni, caratteri e finalità differenti da quelli propri dell'autonomia privata in senso sostanziale.

Sulla base di quanto detto, dunque, risulta anche che l'autonomia privata può produrre gli effetti ora indicati soltanto se è inquadrata all'interno di un sistema ordinamentale giuridico che permetta di verificarne con compiutezza normativa la validità e di integrarne i contenuti, anche allorché ciò si riveli necessario nell'ottica dell'intento perseguito dalle parti. Il "contrat sans lois" risulta allora essere solamente il frutto di una teoria volta ad esasperare sino all'eccesso le potenzialità normative dell'esercizio dell'autonomia privata in senso internazionalprivatistico.

D'altra parte, l'esigenza dell'inquadramento e della legittimazione giuridica del rapporto contrattuale nell'ambito di un sistema ordinamentale dotato di compiutezza normativa, scelto dalle parti, consente di rilevare che il contratto internazionale e l'operazione economica ad esso sottesa, alla stregua del contratto che esaurisce i suoi elementi e i suoi effetti all'interno dei confini di un singolo ordinamento giuridico, hanno una valenza giuridica che non si esaurisce nelle sole clausole e nella disciplina espresse nelle regole contrattuali. In questo senso si può affermare che tale inquadramento dell'operazione economica all'interno di un dato ordinamento giuridico costituisce, oltre che presupposto di legittimazione, anche fonte di regolamentazione dei contratti internazionali, essendo idonea, secondo quanto innanzi indicato, ad integrare (e produrre regole ulteriori rispetto a) quanto espresso dalle clausole contrattuali.

La scelta ad opera dei soggetti contraenti della legge applicabile al rapporto contrattuale e/o a parte di esso non comporta, quindi, in alcun modo la prevalenza della volontà delle parti rispetto all'ordinamento richiamato ed a quello nel cui ambito, in ragione delle norme internazionalprivatistiche, sono riconosciuti gli effetti di tale scelta. Gli effetti risultanti dalle determinazioni delle parti rilevanti al riguardo subiscono, infatti, l'operatività delle norme imperative dell'ordinamento designato e si avvalgono delle proprietà normative di quest'ultimo, al fine di integrare la medesima disciplina del contratto. Pertanto, l'operatività della scelta del regime applicabile al contratto e degli effetti di tale scelta, sempre attraverso il meccanismo delle tecniche proprie del diritto internazionale privato, potrà essere preclusa allorché si riveli contraria all'ordine pubblico internazionale e/o alle norme di applicazione necessaria dell'ordinamento del foro o di ogni altro ordinamento con cui la fattispecie concreta presenti uno stretto collegamento, in ragione della sua natura e del suo oggetto. Quindi, affinché un'operazione contrattuale possa avere successo, non è possibile prescindere da quanto previsto dagli Stati ai quali le parti del contratto appartengono o nei quali queste ultime si trovano ad operare; in tal modo, anche le esigenze fondamentali poste alla base delle norme imperative dei vari ordinamenti, connessi a vario titolo con la fattispecie concreta di volta in volta in rilievo, vengono tutelate, in applicazione di quel principio di solidarietà che permea le relazioni tra i singoli Stati e che ha visto accentuare la propria intensità proprio nel momento storico della massima espansione dell'autonomia privata, giungendo in tal modo a bilanciare la tutela delle suddette esigenze pubblicistiche con l'esercizio dell'autonomia privata.

La materia societaria: autonomia privata e principio dello Stato d'origine

Alla stessa logica di cui al precedente paragrafo si ispira l'evoluzione del diritto internazionale privato comunitario in materia societaria, rivolta a garantire ampio riconoscimento alla libertà di iniziativa economica ed all'autonomia privata, temperato tuttavia dall'esigenza di assicurare un'adeguata protezione degli interessi degli investitori e degli stakeholders, sulla scorta della disciplina dell'ordinamento giuridico del mercato in cui la società opera. Come è noto, in merito a tale evoluzione, un ruolo determinante è stato svolto dall'indirizzo giurisprudenziale in virtù del quale l'esigenza di garantire la continuità della personalità giuridica, nonché il reciproco riconoscimento dello statuto personale delle società comunitarie, così come individuate ai sensi dell'art. 48 del Trattato Ce, comporta la prevalenza della disciplina dell'ordinamento dello Stato comunitario nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione, rispetto a quello della sua sede reale e/o della sua attività. Questo principio è stato di recente affermato in termini espliciti nelle sentenze Centros (Centros Ltd. c. Erhvervs-og Selskabsstyrelsen, causa C-212/97, del 9 marzo 1999), Überseering (Überseering BV c. Nordic Construction Company Baumanagement GmbH (NCC), causa C-208/00, del 5 novembre 2000) ed Inspire Art (Kamer van Koophandel en Fabrieken voor Amsterdam c. Inspire Art Ltd., causa C-167/01, del 30 settembre 2003), in occasione delle quali la Corte, a tutela della libera iniziativa economica e dell'esercizio dell'autonomia privata, ha chiaramente confermato il «diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in un altro Stato membro», nonché il diritto di vedere riconosciuto tale status della società in ogni ordinamento giuridico comunitario, in quanto entrambi «inerenti all'esercizio, nell'ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento, così come garantita dal Trattato».

Nessun dubbio, quindi, in merito all'incompatibilità con la libertà di stabilimento di eventuali disposizioni degli Stati membri che, in occasione del trasferimento della sede effettiva o della sede dell'attività principale di una società, oltre che dell'apertura di una sua succursale in un altro Stato membro, impongano in maniera diretta ovvero indiretta procedimenti che di fatto impongono una sua ricostituzione nell'ordinamento in cui la nuova sede viene ad essere localizzata. Lo Stato, diverso da quello di costituzione, in cui la società si trova ad operare o in cui ha collocato la propria sede effettiva, qualora quest'ultima sia già stata oggetto di un regolare procedimento costitutivo nell'ordinamento di un altro Stato, non potrà pertanto pretendere che la società in questione proceda a (ri)costituirsi al suo interno; né potrà imporre ad essa nuove regole o formalità estranee al suo statuto, sostanzialmente equivalenti a quelle relative alla costituzione di una nuova società.

L'accennato principio dello Stato d'origine, come innanzi indicato, evidenzia pure il riconoscimento dell'autonomia privata (optio legis) di coloro che hanno provveduto alla costituzione della società. Infatti, secondo quanto già avvenuto nell'ordinamento statunitense, si permette alle parti interessate di individuare ed utilizzare la legge regolatrice della società da esse ritenuta più confacente ai loro interessi, optando per il modello organizzativo ritenuto più idoneo a realizzare il progetto imprenditoriale sotteso alla costituzione della società. è anche per queste ragioni, in conclusione, che tale legge merita di essere preferita quale lex societatis rispetto alle altre leggi con essa eventualmente concorrenti, che potrebbero ritenersi legittimate ad essere applicate secondo altri titoli.

Pertanto la legge del luogo di incorporazione della società, anche in ragione della sua coincidenza con l'optio legis operata dai soci, è stata considerata, sulla base dei principi di diritto internazionale privato comunitario, la più idonea ad essere applicata alla disciplina dello status giuridico delle società, al fine di garantire efficienza al sistema ed opportunità agli operatori economici. Tanto che la lex loci incorporationis trova applicazione anche nell'ipotesi in cui la società svolge tutte le sue attività in Stati diversi da quello in cui è incorporata ed ha dunque con tale Stato il solo legame rappresentato dalla optio legis operata dalle parti al momento della costituzione della società.

Discende da quanto ora affermato che lo statuto personale della società, così come disciplinato dall'ordinamento che ha presieduto alla sua costituzione, è immediatamente e direttamente applicabile, oltrechè azionabile, in qualsiasi altro ordinamento, nonostante la presenza di eventuali disposizioni nazionali aventi contenuto difforme, che rivendicano la loro applicazione in qualità di norme appartenenti all'ordinamento in cui è localizzata la sede ovvero in quanto lex fori. Queste ultime, peraltro, potranno trovare applicazione nei casi in cui la lex loci incorporationis confligga con norme o principi imperativi propri della lex fori e/o della lex loci, allorché si tratti di attività che la società svolge all'interno di tali ordinamenti e di disposizioni adottate a tutela degli interessi dei soggetti che operano in essi.

Quindi, allorché si assista al concorso tra più leges, che pretendono di applicarsi, in particolare con riferimento a determinati profili che attengono alla corporate governance, in virtù del fatto che nel loro ambito si è verificata la costituzione della società stessa (lex loci incorporationis), ovvero in quanto le società di cui si discute gravitano all'interno del loro ambito territoriale di applicazione (lex mercatus), si pongono, assai di frequente, delicate difficoltà interpretative. La competenza della lex loci incorporationis, pertanto, non può dirsi assoluta ed esclusiva per qualsiasi atto relativo alla società o per i comportamenti degli organi sociali sia rispetto ai terzi, sia rispetto ai soci, sia rispetto ai c.d. stakeholders: essa infatti potrà concorrere con altra normativa, ritenuta più adeguata e sufficientemente giustificata da esigenze imperative, con riguardo ad ogni attività della società che in qualche misura possa interferire, o presentare collegamenti rilevanti, con gli interessi di altri ordinamenti statali.

Tale concorso, tuttavia, dovrà limitarsi ai soli casi in cui ci si trovi di fronte a disposizioni rivolte alla protezione di interessi generali ed alla specifica soddisfazione di "esigenze imperative" non adeguatamente tutelate dalla lex societatis, con estensione al diritto societario dei medesimi principi enunciati nella nota pronuncia Cassis de Dijon della Corte di Giustizia (Rewe Central AG c. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, causa 120/78, del 20 febbraio 1979). In altri termini, si assiste ad un concorso di più leges allorché l'applicazione della lex mercatus: a) risulta proporzionata allo scopo effettivamente perseguito; b) è volta a realizzare interessi meritevoli di tutela; c) non prevede trattamenti anche indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità; d) è adeguata ad evitare, nella massima misura possibile, la lesione dell'uniformità di trattamento comunitario delle persone giuridiche.

Un ulteriore limite all'applicazione della lex societatis, in favore della lex fori o di altra legge ritenuta applicabile, può aversi nell'ipotesi in cui si accerti la presenza di un intento fraudolento ovvero di un ricorso abusivo al diritto societario di un determinato Stato, motivato dalla volontà di sottrarsi all'applicazione delle norme imperative in materia di tutela di legittime esigenze dell'ordinamento giuridico in cui si intende svolgere la propria attività imprenditoriale. Tale intento fraudolento, tuttavia, dovrà essere verificato sulla base delle circostanze specifiche dei singoli casi e con un rigoroso impiego dell'onere della prova: in un "mercato delle regole", quale quello proprio del diritto societario, infatti, la libertà di scelta concessa alle parti allo scopo di sfruttare i vantaggi dei vari modelli organizzativi e dei diversi criteri di funzionamento al riguardo vigenti nei singoli Stati comunitari non sembra poter essere limitata in virtù di astratte presunzioni ex lege.

Ne risulta dunque uno scenario in cui la legge che regola lo statuto personale della società garantisce sempre certezza di continuità della sua personalità giuridica, mentre, per quanto riguarda la sua disciplina, altre leges societatis diverse da quella dello Stato di costituzione possono comportare possibili effetti anche sulla sua corporate governance. Ed anche in questo la scelta tra tali leggi è spesso giustificata in funzione di tutela di esigenze espresse da corrispondenti norme di diritto materiale. Un esempio. Sembra doversi propendere per l'applicabilità della lex mercatus per quanto concerne le responsabilità del tipo di cui agli artt. 2497 e seguenti c.c., con particolare riguardo alla tutela che deve essere accordata ai soci di minoranza e ai terzi, nelle ipotesi di comportamenti abusivi della capogruppo per esercizio dell'unitaria attività di direzione e coordinamento «in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale delle società medesime». In tal caso, infatti, quanto meno qualora gli interessi dei terzi o dei soci di minoranza non siano sufficientemente tutelati secondo criteri efficienti nell'ordinamento dello Stato in cui la società capogruppo è incorporata, si ritiene che possa essere applicata la legge dello Stato in cui ha luogo lo svolgimento delle attività sociali o in cui è localizzata la sede della società o della sua succursale, allorché ad essa si possano ricondurre le suddette attività (i.e. la lex loci actus).

La rilevanza della lex mercatus si estende inoltre, per la tutela delle stesse esigenze di diritto materiale innanzi indicate, ad altri profili particolarmente significativi della valutazione della disciplina applicabile alle società, quale, ad esempio, il diritto o al nome o alla denominazione sociale della società. Anche in questa ipotesi, infatti, sebbene in linea di principio la questione debba essere sottoposta alle disposizioni della lex societatis, si ritiene che, laddove la società operi in un altro Stato, l'utilizzo di tale nome o denominazione sarà possibile solamente qualora questo risulti compatibile con la disciplina relativa alla tutela del nome adottata da tale Stato. Addirittura, nell'ipotesi in cui si debba procedere a verificare la legittimità dell'utilizzo di una determinata denominazione (ad esempio allo scopo di verificarne gli effetti di possibile confusione), sarà necessario analizzare la questione non solamente sulla base della lex societatis, ma anche della lex mercatus dell'ordinamento dello Stato in cui la società svolge la sua attività.

Anche per quanto riguarda la rappresentanza negoziale degli organi societari e, in ogni caso, la rappresentanza volontaria conferita mediante mandato ad alcuni dei componenti degli organi sociali, ovvero a dipendenti della società, si ritiene che essa non sia soggetta alla competenza esclusiva della lex societatis; di conseguenza, essa dovrà essere valutata secondo i principi ed i criteri propri della legge regolatrice della rappresentanza volontaria, rilevando a tal fine la lex mercatus, in qualità di ordinamento in cui sono esercitati i relativi poteri rappresentativi. Nello stesso senso, d'altronde, si è espresso anche il legislatore belga che, all'art. 111 della recente legge di riforma del diritto internazionale privato, non ha esitato a indicare espressamente che gli eventuali poteri rappresentativi dei componenti degli organi sociali e dei dipendenti della società devono essere valutati avuto riguardo della legge dello Stato in cui tali poteri rappresentativi sono esercitati.


[*] La particolare circostanza relativa alla redazione della presente relazione giustifica la mancanza di specifici riferimenti bibliografici.

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