La trasformazione della Convenzione in Regolamento: da normativa flessibile a normativa rigida?
La trasformazione della Convenzione in Regolamento: da normativa flessibile a normativa rigida?
di Fausto Pocar
Ordinario di diritto internazionale, Università di Milano
La comunitarizzazione della Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali presenta senza dubbio aspetti particolari rispetto a quella delle altre convenzioni concluse fra gli Stati membri della Comunità europea ai sensi dell'art. 220 (ora 293) del Trattato istitutivo. Per la prima volta le istituzioni comunitarie hanno dovuto affrontare la trasformazione in regolamento di uno strumento convenzionale il cui contenuto ha carattere universale, nel senso che, come precisa l'art. 2 della Convenzione di Roma, trova applicazione anche quando la legge designata dalle sue norme di conflitto sia quella di uno Stato terzo. La natura universale della disciplina convenzionale pone infatti il problema della sua corrispondenza con i criteri generali ai quali la legislazione comunitaria sulla cooperazione in materia civile deve ispirarsi secondo il titolo IV della parte III del Trattato, in particolare il criterio – indicato nell'art. 65 – della necessità della normativa comunitaria per il buon funzionamento del mercato interno. Se l'incidenza sul mercato interno è evidente per quanto attiene al riconoscimento e all'esecuzione negli Stati membri delle decisioni rese in altri Stati membri, o agli effetti del fallimento aperto in uno Stato membro negli altri Stati membri – anche se lo è meno quando implicate siano persone residenti o domiciliate in Stati terzi – la universalità delle norme di conflitto pone sotto questo profilo questioni nuove, anche se in qualche misura queste erano già state affrontate dalla Commissione nella proposta di regolamento sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (c.d. «Roma II»).
Nella proposta di regolamento sui contratti, la Commissione appare accettare in via generale il principio dell'universalità della futura normativa. Anche se l'espressione «carattere universale» scompare dalla rubrica dell'art. 2, la soluzione accolta nel testo rimane intatta e il regolamento è applicabile anche quando le sue norme di conflitto conducano all'applicazione della legge di uno Stato non membro della Comunità europea.
Vi sono più ragioni per il mantenimento della soluzione già accolta nella Convenzione. In primo luogo il quarto considerando del preambolo espressamente indica che scopo del futuro regolamento è di aumentare la prevedibilità dell'esito delle controversie, la certezza del diritto e la libera circolazione delle sentenze. Non si tratta quindi solo di disciplinare la legge applicabile ai contratti in quanto tale, ma di assicurare la certezza del diritto ai fini della libera circolazione delle decisioni. In altre parole, anche se l'art. 65 del trattato Ce offre ora una sufficiente base giuridica al regolamento poiché si riferisce direttamente ai conflitti di leggi, il suo oggetto continua ad essere considerato come un «prolungamento» della disciplina relativa al riconoscimento e all'esecuzione delle sentenze, come è il caso della Convenzione di Roma rispetto alla Convenzione di Bruxelles. Inoltre, anche in questa materia possono farsi valere le considerazioni avanzate con riferimento al regolamento n. 44/2001 – e successivamente confermate dalla Corte di Giustizia nel parere 1/03 del 7 febbraio 2006 relativo alla conclusione della Convenzione di Lugano – e cioè che la normativa proposta costituisce un sistema globale e coerente suscettibile di interessare il mercato interno anche quando essa riguardi persone domiciliate in Paesi terzi o, nel caso di specie, l'applicazione del diritto di uno Stato terzo.
A questa «universalità» della normativa per quanto riguarda l'applicazione della legge di Stati terzi non si accompagna peraltro una prospettiva altrettanto universale quanto all'ambito oggettivo della normativa stessa. La preoccupazione di limitare l'intervento normativo alle fattispecie che abbiano un'incidenza diretta sul mercato interno emerge chiaramente dalle regole che restringono l'ambito oggettivo di applicazione di certe disposizioni del regolamento rispetto alle corrispondenti disposizioni della Convenzione di Roma. Basti pensare all'art. 5 in tema di contratti di consumo, che nella Convenzione di Roma disciplina la legge applicabile ai contratti con i consumatori indipendentemente dalla residenza di questi ultimi in uno Stato membro della Comunità o in uno Stato terzo, mentre nella proposta di regolamento limita il proprio ambito di applicazione ai consumatori abitualmente residenti in uno Stato membro. Con la conseguenza che ai non residenti si applica la disciplina generale di cui agli articoli 3 e 4, che non contiene alcun elemento di protezione del consumatore. La restrizione della tutela specifica ai consumatori residenti sul territorio comunitario corrisponde d'altra parte alla disciplina contenuta nelle direttive in materia di consumatori, che consentono l'applicazione del diritto di uno Stato terzo solo quando non contrasti con le norme di protezione previste dalle direttive medesime sempreché il consumatore sia residente in uno Stato membro.
Come indicato nel quarto paragrafo del preambolo sopra menzionato, la proposta di regolamento muove dalla considerazione della necessità di aumentare la prevedibilità dell'esito delle controversie e la certezza del diritto. Questa esigenza è del resto ribadita dal successivo ottavo considerando, in cui si esprime la convinzione che per contribuire all'obiettivo generale del regolamento, cioè alla certezza del diritto nello spazio giudiziario europeo, le regole di conflitto devono offrire un alto grado di prevedibilità, pur lasciando al giudice un margine di valutazione che gli consenta di stabilire, in ipotesi limitate, quale sia la legge che presenta il collegamento più stretto con la situazione. Se però si esamina la normativa proposta è agevole verificare che questo margine di valutazione lasciato al giudice è molto limitato, in nome e a favore della certezza del diritto.
L'art. 4 della Convenzione di Roma si basa, come è noto, su una soluzione di compromesso fra i sistemi di diritto internazionale privato caratterizzati da regole di conflitto flessibili e quelli contenenti essenzialmente regole di conflitto rigide. Essa adotta, in assenza di scelta delle parti quanto alla legge applicabile, un sistema di presunzioni a favore della legge di una delle parti (quella che esegue la prestazione caratteristica del contratto), lasciando tuttavia al giudice la libertà di applicare la regola generale di conflitto che designa la legge che presenta il collegamento più stretto con la fattispecie non solo quando la prestazione caratteristica non possa essere determinata, ma anche ogni volta che dal complesso delle circostanze risulti che il contratto presenta un collegamento più stretto con un altro Paese.
Per raggiungere una maggiore certezza giuridica, la proposta di regolamento mira a modificare i termini di questo compromesso riducendo la flessibilità della norma. A tal fine il nuovo art. 4 individua una serie di contratti o di categorie di contratti, sopprimendo in relazione ad essi la presunzione legata alla prestazione caratteristica e dettando in suo luogo criteri di collegamento rigidi, da seguire in ogni caso, basati tuttavia pur sempre in linea di massima sulla residenza abituale del contraente che deve fornire la prestazione caratteristica del contratto o sul luogo di situazione dell'immobile quando si tratti di un contratto ad esso relativo. Quanto agli altri contratti, viene adottata la stessa regola, nel senso che il contratto è regolato dalla legge del Paese in cui risiede, al momento della conclusione del contratto, la parte che deve eseguire la prestazione caratteristica: la sola differenza sta nel fatto che in questo caso la individuazione della prestazione caratteristica non è effettuata direttamente dalla norma, ma è affidata al giudice o comunque all'operatore che deve stabilire la legge applicabile, con la indicazione del momento al quale deve farsi riferimento. Solo quando la prestazione caratteristica non può essere individuata, il contratto è regolato dalla legge del Paese con il quale è più strettamente collegato. Solo in questo caso, dunque, la norma di conflitto è caratterizzata da flessibilità nella determinazione della legge applicabile. In altre parole, la flessibilità dell'art. 4, che costituisce la caratteristica principale nella Convenzione, si trova ad essere fortemente limitata nel regolamento, fino ad essere relegata ad un ruolo del tutto secondario.
Se non vi è dubbio che la soluzione così proposta è suscettibile di assicurare in via normativa una maggiore certezza del diritto, vi è però da domandarsi se la scelta fatta dal legislatore comunitario sia necessaria ed opportuna, soprattutto nei termini radicali in cui si è voluto modificare la disciplina convenzionale esistente. In proposito va osservato che la Convenzione di Roma, ormai in vigore da più di quindici anni, non ha dato luogo a difficoltà interpretative di rilievo ed ha costituito una base importante nella definizione delle relazioni contrattuali fra operatori residenti in Paesi diversi, che forse non necessitava un intervento così importante inteso a modificarne radicalmente la struttura.
Ma soprattutto va osservato che la certezza del diritto, che costituisce un obiettivo di indubbio significato, trova già nella Convenzione la sua garanzia nella norma che attribuisce un ruolo primario nella determinazione della legge applicabile all'autonomia delle parti, come dispone l'art. 3 della Convenzione e rispettivamente del regolamento. L'ampia libertà lasciata in proposito alle parti comporta che nella fase di stipulazione di un contratto, quando sussistano incertezze sulla legge applicabile, esse possano stabilire la legge applicabile a tutto o a parte del contratto, garantendosi in tal modo contro il rischio insito nella flessibilità della norma sulla determinazione oggettiva del diritto applicabile. La possibilità di avvalersi della garanzia derivante dall'autonomia dei contraenti è tanto più importante quando si tratti di operatori commerciali, come avviene normalmente nel caso di contratti internazionali.
Nel caso in cui una delle parti non sia un operatore commerciale, peraltro, la rigidità della norma di conflitto non sempre costituisce una garanzia di protezione della parte più debole del contratto, in particolare del consumatore, ma anzi è suscettibile di condurre talora, senza possibilità di correzione, alla legge meno favorevole alla parte debole. La scelta del regolamento, già peraltro presente nella Convenzione, di sopprimere ogni flessibilità nell'art. 5 a favore dell'applicabilità in ogni caso della legge del Paese di residenza del consumatore finisce spesso a danneggiare quest'ultimo poiché la legge del produttore o di chi fornisce il servizio è di frequente più protettiva. è invero caratteristica comune dei Paesi industrializzati, in cui normalmente risiedono i fornitori di prodotti e i prestatori di servizi a livello internazionale, di avere una legislazione protettiva del consumatore più sviluppata di quella dei Paesi meno industrializzati in cui risiedono destinatari di beni e di servizi. La soppressione nel regolamento di ogni ruolo dell'autonomia dei contraenti, nell'intento evidente di proteggere il consumatore, toglie ulteriore flessibilità alla norma, impedendo per esempio al produttore di designare come legge applicabile la legge del Paese della sua residenza, anche quando fosse più favorevole al consumatore. E si tratta di ipotesi non di scuola, poiché al produttore potrebbe convenire adottare una disciplina uniforme delle sue relazioni commerciali esterne anche se più protettiva della controparte (consumatore), venendo in tal modo a ridurre i costi che il riferimento a sistemi giuridici differenziati potrebbe comportare. L'equazione che viene spesso fatta tra certezza del diritto e protezione non è sempre corretta e talora la flessibilità normativa può garantire una tutela più elevata in un maggior numero di casi, se sottoposta a un controllo efficace del giudice.
Alla luce di queste perplessità che suscita o dovrebbe suscitare la trasformazione della Convenzione da normativa flessibile a normativa rigida nel regolamento comunitario, sarebbe stato preferibile un approccio più prudente, che si limitasse a facilitare e a rendere più certa la individuazione della prestazione caratteristica del contratto – o attraverso l'indicazione di presunzioni più precise e particolareggiate di quella generale attualmente figurante nella Convenzione, o eventualmente anche mediante l'inserimento di regole speciali per un limitato numero di contratti (ad esempio e soprattutto queli relativi a diritti reali o di affitto di beni immobili e quelli relativi a diritti di proprietà intellettuale soggetti a registrazone – senza però alterare la struttura dell'art. 4 basata sulla regola flessibile del collegamento più stretto del contratto, utilizzabile anche nel caso in cui la prestazione caratteristica possa essere individuata ma non risulti idonea a determinare in modo soddisfacente la legge applicabile. Una soluzione di questo tipo sarebbe stata più vicina a quella proposta dal Gruppo europeo di diritto internazionale privato, anche se quest'ultima abbandona, come nel regolamento, il sistema delle presunzioni a favore di regole rigide.
Di fronte al radicale cambiamento di direzione operato dalla proposta di regolamento rispetto alla Convenzione di Roma, si ha di nuovo l'impressione che la Commissione abbia avuto presente soltanto la opportunità di regolare i rapporti giuridici nel mercato interno, senza preoccuparsi della ricerca di soluzioni che possano valere anche per il mercato esterno, come se questo non avesse incidenza anche sul mercato interno. Se invero nell'ambito dei rapporti meramente interni alla Comunità le soluzioni adottate possono apparire soddisfacenti, esse lo appaiono assai meno nei rapporti esterni. In un contratto fra un compratore residente in uno Stato membro e un venditore residente in uno Stato terzo il giudice sarà costretto ad applicare la legge dello Stato terzo, mentre il giudice di questo, in relazione allo stesso contratto, applicherà forse una regola più flessibile. Più opportuno sarebbe se entrambi potessero applicare regole flessibili e se la Comunità facesse il primo passo in questa direzione, come aveva fatto con la Convenzione di Roma. La flessibilità delle soluzioni ha il merito di favorire un'armonizzazione a livello globale, creando precedenti giurisprudenziali che possano essere seguiti in più Paesi, mentre questo sviluppo è escluso in presenza di criteri rigidi diversi.
Né va dimenticato che la scelta a favore di una normativa caratterizzata da criteri rigidi è solo apparentemente soddisfacente anche per il mercato interno alla Comunità europea, ma è piuttosto suscettibile di produrre effetti negativi nello stesso. Poiché non rappresenta più la soluzione di compromesso fra sistemi diversi di diritto internazionale privato che caratterizza la Convenzione, ma è sbilanciata a favore dei sistemi di diritto civile in contrasto con quelli di common law, essa può indurre i Paesi di common law membri della Comunità a non accettare la nuova normativa, come è loro consentito dal trattato di Amsterdam. Finora né il Regno Unito né l'Irlanda si sono avvalsi della facoltà di non aderire agli strumenti di comunitarizzazione del diritto internazionale privato in materia di cooperazione civile, ma è probabile che essi rimangano estranei al futuro regolamento sulla legge applicabile ai contratti. Il risultato di una regolamentazione comune all'interno della Comunità, raggiunto dalla Convenzione di Roma, sarebbe in tal caso annullato, con una riduzione dell'acquis communautaire in questa materia, e con il venir meno di una base per una disciplina comune anche nelle relazioni della Comunità con Paesi terzi.
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