La nozione di liberalità non donativa nel codice civile
La nozione di liberalità non donativa nel codice civile
di Giuseppe Amadio
Ordinario di diritto civile, Università degli Studi di Padova

Premessa: i problemi e le fonti

Mettersi alla ricerca di una nozione codicistica di "liberalità non donativa" significa, com'è facile intuire, intraprendere un percorso che trascende ampiamente lo specifico ambito tematico oggetto d'indagine.

Innanzi tutto perché, in quanto nozione negativa, costruita per sottrazione, dalla più ampia categoria delle liberalità tout court, delle fattispecie non coincidenti con - ovvero, secondo il dettato della norma di riferimento (art. 809) «diverse da» - la donazione tipica, impone di definire il genus (liberalità), prima di identificare il proprium della specie: e ciò mette l'interprete a confronto con almeno due ordini di difficoltà.

a) Il primo deriva dalla relativa indeterminatezza (e, talora, contraddittorietà) delle formule ricavabili dal dato normativo, la quale trascorre, inevitabilmente, nell'elaborazione teorica e nelle applicazioni giurisprudenziali.

Anche a restringere l'individuazione delle fonti, come il titolo di questo intervento suggerisce, al dato codicistico, la qualifica "liberalità" risulta, espressamente o in modo implicito, riferita ad atti tra loro inassimilabili: la donazione formale (art. 769); la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale remunerazione (che è anch'essa "donazione", ex art. 770, comma 1°); le liberalità compiute in conformità agli usi o in occasione di servizi resi, (che invece, a norma dell'art. 770, comma 2° «non costituiscono donazione»); gli atti diversi dalla donazione dai quali (recita l'art. 809, comma 1°) la liberalità "risulta"; le assegnazioni o spese in favore dei discendenti, effettuate a causa di matrimonio, di avvio a una professione, per pagamento di debiti o premi assicurativi (che l'art. 741 espressamente assoggetta a collazione); le spese a favore dei discendenti per mantenimento, educazione, malattie, abbigliamento e nozze (escluse viceversa dalla collazione ex art. 742, comma 1°), nonché quelle per istruzione professionale o per corredo nuziale (sottratte solo se e in quanto non eccedenti la misura ordinaria, ex art. 742 comma 2°). Infine, nella norma di riferimento per il tema che oggi ci occupa, e che chiude il sistema, si delinea la categoria (del tutto indeterminata) degli «atti diversi dalla donazione», dai quali (recita l'art. 809, comma 1°) la liberalità «risulta» [nota 1].

A questo punto, più radicalmente, la stessa regola d'uso del termine, da parte del codificatore, rischia di apparire incerta, se è vero che la predicazione in termini di "liberalità" si trova, di volta in volta, riferita: all'atto (così, ad es., nella rubrica dell'art. 809); al risultato di esso (come rivela il comma 1° della stessa norma); o ad un elemento latamente soggettivo, in ragione del quale l'atto è compiuto (lo spirito, di cui è parola nella norma definitoria della donazione contrattuale).

Discorso a parte (che può aprirsi, per altro, solo per concludersi immediatamente) meriterebbe poi la qualifica di "liberalità" o di "atti a causa liberale", usualmente riservata, non dal legislatore, ma dalla dottrina, alle disposizioni mortis causa. Accostamento che per molti versi risulta plausibile (basti pensare alla serie di profili di disciplina che le accomuna, dalla speciale rilevanza del motivo erroneo o illecito, all'apponibilità di un modus, dall'ammissibilità di una conferma o esecuzione della disposizione nulla, alla riducibilità per lesione di legittima, sino alla comune considerazione che il legislatore tributario sempre riserva ai due tipi di disposizioni, attraverso la configurazione dell'imposta sulle "successioni e donazioni"), ma che non sembra comunque idoneo alla costruzione di una categoria unitaria, specie se fondata sulla considerazione del profilo causale (come diremo in appresso).

b) Il secondo ordine di difficoltà, che l'analisi incontra, discende da quello che potremmo definire come un atteggiamento culturale, da sempre riservato dalla dottrina civilistica (e in particolare dalla teoria del contratto) all'idea stessa di attribuzione liberale.

Opera, in tal senso (forse inavvertitamente), una sorta di riserva mentale in ordine alla riconduzione del fenomeno all'area della contrattualità: quasi che il paradigma del "dono" risulti estraneo alla razionalità insita nell'agire dell'homo oeconomicus, e agli strumenti di circolazione giuridica della ricchezza, tipicamente assorbiti nello schema dello scambio [nota 2].

Non a caso, la storia delle dottrine e ancor più quella delle codificazioni civili, rivela la ricorrente tendenza ad accostare donazione e testamento: così è per il code civil, che affianca, all'interno di un titolo unitario, la disciplina generale della donation entre vifs e del testament, come modi di disposizione dei diritti a titolo gratuito; così è, ancora, per il codice civile del 1865, che mantiene, sia sul piano della collocazione topografica, sia sul piano definitorio (ex art. 1050, la donazione è "atto" e non contratto) la distanza tra donazione e categoria contrattuale. Distanza che il codificatore del 1942 colmerà nella descrizione della fattispecie, che l'art. 769 costruisce esplicitamente come "contratto", ma manterrà viceversa nella scelta della sedes materiae.

La complessità delle fonti incide, significativamente, sull'elaborazione della categoria degli atti di liberalità. A ciò contribuisce una duplice singolarità, che contraddistingue il sottosistema normativo recante la disciplina della donazione [nota 3]: da un lato, talune delle regole che la compongono non si applicano, per espressa previsione di legge, ad atti che pure sembrano riprodurne fedelmente la struttura, come le liberalità d'uso (ex artt. 770, 742, cpv.), e, almeno in parte, le donazioni remuneratorie e obnuziali (art. 805, 3° comma); dall'altro lato, altre tra quelle regole sono invece dichiarate applicabili anche ad atti strutturalmente diversi dalla donazione (come accade proprio per la categoria delle liberalità atipiche, di cui all'art. 809).

Ciò ha favorito equivoci e duplicazioni, conducendo tra l'altro all'elaborazione di due nozioni diverse di "liberalità non donativa". Ma soprattutto, e più radicalmente, ha ispirato due diversi significati della liberalità tout court, corrispondenti a due distinti ambiti di riferimento: quello (dell'atto, e più in particolare) della causa dell'atto negoziale, da un lato, quello dell'effetto giuridico (se non a dirittura del risultato economico) di esso, dall'altro.

Si assegna, in tal modo, virtù distintiva del fenomeno liberalità complessivamente inteso, all'uno o all'altro dei due elementi che, nella definizione normativa, sembrano comporre la fattispecie della donazione tipica: rispettivamente, lo "spirito di liberalità" e l'"arricchimento" del donatario.

Di ciascuno di essi dovremo occuparci, al fine di porre le premesse per l'individuazione del concetto che oggi ci occupa.

La liberalità come causa negoziale: la difficile individuazione dell' "intento liberale"

L'idea della liberalità come causa negoziale, nella sua prima versione moderna (la seconda e più recente costituirà l'approdo ultimo del nostro percorso ricostruttivo) [nota 4] nasce sessant'anni fa con lo studio dedicato da Giorgio Oppo ad Adempimento e liberalità, in cui l'"intento liberale", posto a fondamento del contratto di donazione, viene qualificato come causa giuridica comune a tutti gli atti di liberalità [nota 5]. Ciò consente, a quella stessa tesi, di ricomprendere nella categoria atti che espressamente la legge afferma «non costituire donazione», come avviene per le liberalità d'uso, (e in parte per le donazioni remuneratorie e obnuziali); e di identificare, in queste, la species "liberalità non donative", cui talune norme si applicano, in ragione della comune natura, altre invece non si estendono, per la diversità di effetti economici (intesa come minor pregiudizio) che ne deriva.

L'idea di una causa comune a diversi schemi negoziali tipici trascorre nel pensiero successivo e sfocia nella ricorrente affermazione giurisprudenziale, secondo cui «la causa o funzione economico-sociale della liberalità d'uso non è dissimile da quella del negozio di liberalità in senso ampio», rilevando in tal modo gli usi come semplici motivi [nota 6].

La liberalità viene definita espressamente come "funzione economico-sociale" di un insieme di figure negoziali: e l'identità di causa fornisce la ratio per individuarne la comune disciplina, che va dalle limitazioni di responsabilità per evizione e vizi della cosa donata (art. 797 e 798), o per inadempimento (art. 789), alla nullità del mandato a donare (art. 778), dalla disciplina dell'errore sul motivo (art. 787), al divieto di fare donazioni in nome e per conto del soggetto incapace (art. 777).

La tesi, in apparenza comprensibile e lineare, dà luogo, in realtà, ad aporie e oscillazioni che conducono, a loro volta, a problemi d'ordine applicativo.

Già sul piano del contenuto, essa risulta sostanzialmente indefinita: non si chiarisce, in particolare, in cosa consista l' "intento liberale", che evoca immediatamente la formula normativa dello "spirito di liberalità" (e/o quella dottrinale dell'animus donandi), e dunque riapre la serie infinita di problemi interpretativo-sistematici, che a quella fomula storicamente si ricollegano.

Basti pensare che, di volta in volta, dell'animus donandi:

a. si è tentata una lettura in senso strettamente soggettivo, che finisce per identificarlo con il motivo che induce il donante a disporre [nota 7], ma della quale sì è detto, giustamente, che condurrebbe ad elevare un elemento, di regola irrilevante, a costituente del tipo contrattuale [nota 8];

b. si è fornito un concetto puramente negativo, che lo identifica con la «mancanza di costrizioni» [nota 9], recuperando così, surrettiziamente, l'estremo della "spontaneità" richiesto dall'art. 1050 del codice civile abrogato, ma scomparso dalla norma attuale, e che, proprio perché connota l'essenza stessa dell'autonomia contrattuale (rispetto alla quale il vincolo a disporre non può che costituire eccezione), non può giudicarsi significativo ai fini dell'individuazione di un singolo tipo;

c. lo si è identificato con l'intento di "arricchire", o di «effettuare un'attribuzione senza corrispettivo» [nota 10], quasi una proiezione soggettiva dell'arricchimento cui si riferisce l'art. 769, c.c., dato inappagante, come vedremo, in quanto inidoneo a distinguere (ciò che più rileva ai fini del nostro discorso) contratti liberali e contratti gratuiti;

d. se ne è proposta a dirittura la totale svalutazione, in quanto, si afferma, l'intento liberale (o animus donandi) finirebbe col coincidere con la volontà di donare tout court, rappresentando in definitiva una «superfetazione rispetto al contratto di donazione» [nota 11], o una formula priva di significato [nota 12].

A tale indeterminazione, si aggiunga che la tesi della liberalità come causa negoziale risulta applicata, specie in giurisprudenza, in modo talvolta oscillante, talaltra contraddittorio: così quando si contrappongono causa liberale e causa onerosa, in quanto in tal modo si finisce per smarrire la distinzione tra liberalità e gratuità [nota 13]; o quando si qualifica la donazione remuneratoria, ora come liberalità, ora come negozio oneroso, a seconda della prevalenza dell'animus donandi o dell'intento di remunerare [nota 14], smentendo così la qualificazione espressa della norma (di cui all'art. 770, comma 1°) e rischiando di confondere la causa intesa in senso oggettivo con il motivo finale; o, infine, quando si affronta il tema classico del negotium mixtum cum donatione, il più delle volte ricondotto alla categoria dell'onerosità, ma talora considerato a causa liberale (per altro sul presupposto, assai discutibile, che esso integri una donazione indiretta) [nota 15], o ancora caratterizzato dal concorso di una causa onerosa e di una gratuita [nota 16].

In conclusione: questa prima idea dell'intento liberale (o animus donandi), come causa caratterizzante una categoria ampia di figure negoziali, finisce col risultare o aspecifica (se lo si fa coincidere con la spontaneità dell'atto), o tautologica (laddove lo si identifica con la volontà di donare), o impropria (quando se ne fa un semplice motivo soggettivo).

In ogni caso, essa appare inappagante: sia perché, nel riferirsi a una categoria concettuale (come quella di causa del negozio) di altissimo livello di elaborazione, non si dà carico di giustificarne l'applicabilità alla fattispecie indagata (in parole più semplici, non spiega quale sia il contenuto specifico che consentirebbe allo spirito liberalità di assurgere a profilo causale); e poi perché, proprio con il riferimento al concetto di causa "del negozio" rischia di lasciare scoperta l'intera area fenomenologica corrispondente alle liberalità attuate mediante comportamenti non negoziali [nota 17].

La liberalità come effetto: il problema dell'arricchimento

è semmai nel suo residuo significato, di intento "di arricchire" o di "effettuare un'attribuzione senza corrispettivo", che lo spirito di liberalità fornisce una traccia per valutare la seconda variante ricostruttiva della categoria: quella che concepisce la liberalità come effetto, o come risultato gius-economico degli atti ad essa riconducibili.

Il frammento normativo, da cui la tesi prende le mosse, è rappresentato dal riferimento esplicito presente nella definizione del tipo "donazione", laddove l' "arricchire" appare assunto come risultato raggiungibile attraverso il contratto («con il quale», recita la norma, una parte arricchisce l'altra) e, più in particolare, come conseguenza della "disposizione del diritto" e/o dell' "assunzione dell'obbligazione". Previsione del tutto inconsueta, in sede di individuazione del tipo, in quanto «estranea al contenuto» (inteso come sintesi delle prestazioni essenziali) e «costituita da un effetto economico del contratto stesso» [nota 18].

Attorno a questo dato finalistico, viene formandosi l'idea che la categoria della liberalità, intesa "in senso tecnico", altro non indichi se non l'effetto finale di una serie di atti che possono ad essa ricondursi, in quanto idonei a realizzare un oggettivo incremento del patrimonio del beneficiario [nota 19]. Lo confermerebbe (oltre alla sintassi dell'art. 769) la norma di chiusura del sistema: quell'art. 809, c.c., che dichiara applicabili le norme sulla revocazione per ingratitudine e sopravvenienza di figli, e quelle in tema di riduzione per lesione di legittima, alle liberalità che «risultano da atti diversi» dalla donazione torna, di nuovo, l'idea della liberalità come risultato del compimento di un atto).

L'utilità pratica del concetto (liberalità come "risultato") consisterebbe nel fornire l'indice di riconoscimento di una disciplina uniforme, applicabile in ragione dell'effetto economico, e indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato per conseguirlo: un complesso quindi di norme "materiali" ricomprendente, oltre a revocazione e riduzione, la collazione, l'imputazione ex se, l'obbligazione alimentare a carico del donatario (art. 437), l'incapacità di ricevere (ex art. 779) e il divieto di disporre per conto dell'incapace (di cui all'art. 777).

In questa più vasta accezione, la categoria delle liberalità non donative ricomprenderà tutti i negozi-mezzo (abbiano essi struttura onerosa, o anche corrispettiva, bilaterale o unilaterale), attraverso i quali raggiungere il risultato economico rilevante; salvo chiedersi quale rilievo residuo possa assumere la medesima disciplina, rispetto alle ulteriori fattispecie produttive di un arricchimento liberale (e dunque astrattamente rientranti nella categoria), ma consistenti in comportamenti non negoziali.

L'idea della liberalità-effetto, o risultato economico, solleva tuttavia un dubbio, il confronto col quale costituisce un passaggio decisivo della teoria della donazione: se è vero che la disciplina materiale delle liberalità si giustifica, in massima parte, in ragione dell'effetto economico, preso in considerazione o sotto il profilo dell'arricchimento del beneficiario [nota 20], o sotto quello dell'impoverimento del disponente [nota 21], ci si deve chiedere se l'arricchimento rappresenti un connotato costante della nozione di liberalità.

E se di esso, come generalmente accade, si assume il significato più ovvio di «incremento oggettivo del patrimonio del beneficiario», non v'è dubbio che esso si rivela, da un lato non essenziale, dall'altro non sufficiente a connotare la categoria.

Segue: l'arricchimento come elemento non essenziale alla configurazione della liberalità

Il carattere non essenziale dell'arricchimento in senso economico risulta a chiare lettere dal capoverso dell'art. 793, in cui si prevede che, nella donazione modale, il valore della cosa donata possa essere interamente assorbito dall'adempimento dell'onere.

I tentativi di superare l'ostacolo costruttivo passano per due diverse vie: la prima assume che la norma avrebbe riguardo esclusivo all'ipotesi in cui l'arricchimento, pur presente al momento della donazione, venga meno successivamente per effetto di un incremento di valore della prestazione modale [nota 22]; la seconda configura la donazione modale come tipo contrattuale a sé stante (diverso dalla donazione pura) [nota 23]. Né l'una né l'altra osservazione colgono nel segno: non la prima, in quanto contraria al tenore testuale della norma, e comunque irrilevante, in quanto in ogni caso anche il venir meno successivo dell'arricchimento ne dimostrerebbe il carattere non essenziale ai fini della configurazione del tipo; ma neppure la seconda, che finisce per affermare surrettiziamente una diversità tipologica (tra donazione pura e donazione modale), che nessuna delle norme dedicate alla donazione cum onere sembra in grado di rivelare.

Ulteriore conferma della non essenzialità dell'arricchimento si trae, poi, da quelle ipotesi in cui l'oggetto donato abbia un valore morale, storico o affettivo, più che patrimoniale (come nella donazione di lettere o ricordi di famiglia).

La prima conclusione, cui giunge la dottrina più recente (e che ormai non è più realistico definire minoritaria), è che l'arricchimento, inteso come incremento patrimoniale oggettivo, rappresenti nulla più che un naturale negotii, come tale inidoneo a fornire l'indice di riconoscimento della categoria "liberalità" [nota 24].

Con l'unica conseguenza che, in mancanza di esso, non potrà trovare applicazione quella parte della disciplina materiale fondata sull'arricchimento, ma non verrà meno la qualifica di liberalità e l'applicabilità delle norme residue, facenti parte della medesima disciplina. Per tornare all'esempio, appena prospettato, della donazione avente a oggetto ricordi di famiglia, se sarà difficile che essa possa dar luogo all'obbligazione alimentare del donatario, o che possa essere soggetta a riduzione e collazione, non sembra possibile escludere la persistente operatività, ad esempio, del divieto di donare per conto dell'incapace, o dell'incapacità di ricevere del tutore, o ancora della revoca per ingratitudine o per sopravvenienza di figli [nota 25].

Segue: l'arricchimento come elemento non sufficiente al riconoscimento della liberalità

Nella stessa direzione, il passo ulteriore consiste nel riconoscere che l'arricchimento medesimo, oltre che non essenziale, risulta anche insufficiente a connotare la categoria delle liberalità.

Lo dimostrano due rilievi, l'uno d'ordine testuale, l'altro deducibile dal sistema.

a) L'argomento testuale è fornito, una volta ancora, dalla norma definitoria dell'art. 769, a' sensi del quale la donazione è il contratto con cui una parte arricchisce l'altra, disponendo di un diritto o assumendo un'obbligazione, «per spirito di liberalità».

Già il primo riscontro rende evidente che la struttura lessicale della norma si articola in una triplice distinta enunciazione, riferibile rispettivamente: ad un risultato economico (l'arricchimento), ad uno strumento giuridico (la disposizione di un diritto o l'assunzione di un'obbligazione) e ad un fine, o intento (lo spirito di liberalità), che giustifica l'impiego dello strumento in vista del raggiungimento del risultato. Donazione, dunque, non è il contratto che arricchisce tout court, ma quello che arricchisce «per spirito di liberalità»: e non a caso, anche chi costruisce la liberalità come «un effetto economico … e non invece come una causa» è poi costretto a riconoscere che tale effetto rileva in quanto «vivificato dall'animus donandi» [nota 26].

b) La conferma può trarsi, sul piano logico-sistematico, mettendo a confronto la struttura dell'attribuzione liberale con quella derivante dall'atto gratuito.

Qui, a dire il vero, il discorso rischia di complicarsi, posto che la stessa definizione concettuale di categorie quali la gratuità e l'onerosità non ha ancora trovato, nell'elaborazione civilistica, un sistema comune di riferimenti. Limitando i rilievi a quanto strettamente indispensabile per il nostro tema, si può per altro ritenere sufficientemente condivisa l'idea:

- che "gratuito" sia l'atto il quale comporta sacrifici economici a carico di una sola parte;

- che, viceversa, "oneroso" sia l'atto che comporta sacrifici economici a carico di entrambe le parti.

Se ciò è vero (e l'analisi viene trasferita sul piano dei negozi realizzativi di un'attribuzione patrimoniale), ne discende che l'attribuzione gratuita, in quanto derivante da un atto che, per definizione, comporta un sacrificio economico a carico del solo dante causa, non può che tradursi, per l'accipiens, in un arricchimento (sia pure latamente inteso come vantaggio patrimonialmente valutabile). Con la conseguenza che il profilo dell'arricchimento, in sé considerato, perde qualsiasi capacità distintiva del tipo "liberalità" rispetto alla categoria dell'atto gratuito non liberale [nota 27].

Gli esempi che possono addursi sono quasi di scuola: si pensi all'attribuzione effettuata a scopo promozionale indiretto (il c.d. mecenatismo o patrocinio, consistente in elargizioni volte alla promozione di opere artistiche e culturali, o della ricerca scientifica, poste in essere da imprese al fine di valorizzare la propria immagine), o all'attribuzione di premi a clienti dell'impresa a scopo di fidelizzazione; si pensi, ancora, al mutuo senza interessi, erogato da una banca in favore di una società interamente posseduta o controllata, o, più in generale, alle operazioni gratuite poste in essere dalle società nell'interesse del gruppo al quale appartengono; si pensi, infine, alle attribuzionoi unilaterali esecutive di una precedente obbligazione di dare (il c.d. adempimento traslativo).

In nessuno di tali casi può negarsi la gratuità dell'atto e l'arricchimento che da esso deriva all'accipiens: ma a nessuno potrebbe mai sorgere il dubbio che le attribuzioni in parola siano state disposte dal tradens "per spirito di liberalità".

In realtà, e il dibattito recente in tema di donazione lo ha ampiamente dimostrato, sino a che l'analisi venga mantenuta sul piano della struttura, intesa come insieme di effetti programmati e/o realizzati ex contractu, la possibilità di distinguere l'arricchimento derivante da un atto a titolo gratuito da quello conseguente a una donazione è del tutto compromessa; come compromessa è la comprensione del reale contenuto della formula (la quale, intuitivamente, dovrebbe fornire l'elemento distintivo) dello "spirito di liberalità". S'è detto, analizzando la definizione normativa della donazione, che in essa lo "spirito di liberalità" sembra venire in considerazione come un intento, un fine che qualifica la disposizione del diritto (o l'assunzione dell'obbligo) volta ad arricchire: non è difficile, allora, ricollocare la nozione nel suo esatto ambito, il quale non può che essere quello della funzione dell'atto di autonomia privata.

Liberalità e interesse non patrimoniale del disponente

Singolarmente, l'indagine sembra tornare a quell'idea della liberalità come causa negoziale, di cui s'è già esaminata la prima (e più risalente) variante ricostruttiva (quella, per intendersi, imperniata sulla formula dell'intento liberale, o dell'animus donandi).

Se ne era denunciata l'insufficienza, in quanto essa non dà conto di quale sia il contenuto specifico che consentirebbe allo spirito di liberalità di assurgere al ruolo di causa [nota 28]. Quel contenuto può ora recuperarsi, trasferendo l'analisi (secondo un monito illustre e risalente) dal piano dei concetti a quello degli interessi: e definendo con la dottrina più recente gli atti compiuti per spirito di liberalità come diretti, sì, ad attuare un'attribuzione senza corrispettivo, ma «allo scopo di soddisfare direttamente un interesse di natura non patrimoniale del disponente» [nota 29].

L'interesse specifico perseguito dall'autore della liberalità potrà essere vario (la beneficienza, il riconoscimento di meriti, la conservazione della memoria familiare, l'affetto amicale, e via discorrendo) purché esso resti un interesse non economico. Interesse che, in quanto "oggettivato" nell'accordo (o comunque obiettivamente percepibile dal complessivo comportamento contrattuale delle parti), trascende la sfera dei motivi individuali per caratterizzare la causa concreta dell'operazione negoziale. Ciò non significa che esso debba divenire comune ai contraenti, cioè essere dagli stessi "condiviso" (basti pensare che l'interesse del beneficiario dell'attribuzione liberale sarà normalmente un interesse di natura economica): ma sta a indicare piuttosto che le parti si prospettano e convengono che gli effetti propri dell'atto (disposizione del diritto o assunzione dell'obbligo senza corrispettivo), e il risultato economico dello stesso (l'arricchimento del beneficiario) realizzino (e siano perciò causalmente fondati su) un interesse non patrimoniale del disponente.

Si compie in tal modo la parabola teorica dedicata all'intento liberale, che dalla figura antica dell'animus donandi (come atteggiamento della volontà), attraverso lo spirito di liberalità (pensato come motivo dell'atto) conduce infine all'interesse a donare.

La prospettiva dell'interesse perseguito consente quel duplice regolamento di confini della categoria della liberalità, che ne individua, per così dire, i due archi di orizzonte.

a) Da un lato, essa coglie la distinzione tra liberalità ed atti gratuiti non liberali, in ragione della natura economica dell'interesse che nei secondi sorregge l'attribuzione senza corrispettivo.

Si sono già ricordati i casi del mecenatismo, dei premi alla clientela, delle operazioni gratuite, poste in essere dalle società in favore del gruppo al quale appartengono: tutte ipotesi cui la giurisprudenza nega natura liberale, in base alla presenza di un interesse economico [nota 30]. Per la stessa ragione, quella qualifica viene esclusa negli atti di adempimento traslativo, effettuati solvendi causa, o nelle attribuzioni sorrette da una causa di garanzia (si pensi all'ipoteca su beni personali concessa dal socio all'ente erogatore del finanziamento in favore della società) [nota 31].

Questione più delicata è quella relativa alla possibilità di riconoscere, nei contratti gratuiti (sia tipici, sia, per chi li ammetta, atipici), il profilo dell'arricchimento: si afferma, così, che fattispecie tipiche, quali il comodato, il mandato il trasporto e il deposito gratuiti, la prestazione d'opera gratuita, la fideiussione gratuita, il mutuo senza interessi, non sarebbero idonee a procurare, al beneficiario della prestazione, un arricchimento corrispondente a un simmetrico depauperamento patrimoniale dell'autore di essa [nota 32].

Qui, a dire il vero, sembra opportuno distinguere. è fuor di dubbio che, inteso in senso lato, l'arricchimento può ricomprendere, oltra all'incremento oggettivo del patrimonio, anche il mancato decremento di esso, discendente da un risparmio di spesa (come quello realizzato, attraverso la mancata corresponsione di un compenso, dal comodatario, dal trasportato, dal depositante, dal creditore garantito, dal mutuatario, e da colui che riceve la prestazione d'opera); in questo senso, l'opinione tradizionale che esclude dallo schema donativo i contratti gratuiti tipici (tanto se la gratuità sia essenziale, quanto se sia pattuita dalle parti), per mancanza di arricchimento non risulta, sul piano della logica sostanziale (id est: del civilista) adeguatamente argomentata. Vero è, piuttosto, che di fronte a uno schema legale tipico, la qualifica donativa non potrebbe discendere che dal riconoscimento, di un risultato economico conseguito indirettamente attraverso quello schema e supportato dalla presenza dell'interesse non patrimoniale del disponente: e dunque, solo nei termini del riconoscimento di una liberalità indiretta (che, infatti, parte della dottrina più recente non esclude). Ed è ovvio, poi, (come si è già rilevato) che anche in questo caso resterebbe inoperante quella parte della disciplina materiale delle liberalità che presuppone l'esistenza di un incremento patrimoniale "recuperabile" al patrimonio del disponente o dei suoi eredi.

b) Dall'altro lato, (ed è ciò che più conta ai nostri fini) il criterio dell'interesse non economico fornisce il reale criterio distintivo e l'indice di riconoscimento delle liberalità non donative, ovvero di quegli schemi negoziali che, pur se strutturati secondo moduli onerosi, oppure causalmente neutri, possono ricondursi alla categoria in quanto volti a procurare un vantaggio all'accipiens, esclusivamente in vista della soddisfazione di un interesse non patrimoniale del tradens.

Ci si può chiedere, a chiusura della ricostruzione teorica, quale rapporto intercorra tra tale interesse e il profilo causale: l'interrogativo si giustifica alla luce dell'idea assai nota (e che ha costituito, a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, uno degli esiti più rilevanti della revisione critica del tema), la quale identifica la causa concreta dell'operazione economica direttamente con l'insieme degli interessi regolati. Così che, individuato nell'interesse non patrimoniale del disponente il tratto caratterizzante la categoria della liberalità nel suo insieme, parebbe gioco forza riconoscere, tanto alla donazione tipica, quanto alle liberalità non donative, un'unica medesima causa.

L'impasse si supera utilizzando il risultato ulteriore, cui la rielaborazione dottrinale del concetto di causa ha condotto [siamo ormai nell'ultimo decennio del secolo scorso], e che la costruisce in termini relazionali, ovverossia come rapporto fra gli interessi regolati e le strutture negoziali utilizzate per realizzarli [nota 33]: diviene possibile, allora, a fronte dell'identica natura (non economica) dell'interesse perseguito dal disponente, segnare la differenza causale tra donazione tipica (che quell'interesse realizza mediante la diretta disposizione di un diritto o l'assunzione di un obbligo nei confronti del donatario) e liberalità non donative, che a tal fine impiegheranno strumenti precettivi (quelli che nel linguaggio dell'art. 809 diventano gli "atti") diversi da quelle. Ferma restando, dunque, in entrambe le specie, l'inerenza, ma non la coincidenza dell'interesse rilevante rispetto al profilo causale dell'atto.

Resta così chiarita, se non ci si inganna, la nozione codicistica di liberalità atipiche, la cui formulazione letterale (liberalità che risultano da atti diversi da quelli previsti dall'art. 769) potrà leggersi, in sostanza, come comprensiva di tutte le fattispecie negoziali volte a procurare al beneficiario un vantaggio economico, in vista della realizzazione di un interesse non patrimoniale del disponente, mediante strutture precettive diverse dalla diretta disposizione di un proprio diritto e dall'assunzione di un obbligo da parte del secondo nei confronti del primo.

Liberalità non donative "negoziali" e attività del notaio

La conclusione raggiunta segna un duplice progresso: consente, in primo luogo, di far giustizia della lunga serie di equivoci costruttivi che ha viziato, storicamente, l'elaborazione del concetto di liberalità atipica; nel contempo, individua le linee guida che dovranno ispirare l'intervento del notaio, in tutti i casi in cui una liberalità non donativa si realizzi mediante atti di natura negoziale.

Sul primo versante (che non vi è modo, qui, di esplorare compiutamente), l'aver ricondotto il proprium delle liberalità non donative al piano causale, pur se riguardato in uno dei suoi profili costitutivi, segna il superamento delle difficoltà connesse ad almeno tre costruzioni teoriche, che hanno segnato altrettante stagioni del dibattito sul tema.

a) Quella che, favorita dall'assonanza verbale con la formula (ancor oggi in uso) della "donazione indiretta", ha tentato l'assimilazione della figura allo schema logico [di lunga ma controversa tradizione] del negozio indiretto: con ciò degradando la liberalità a "scopo ulteriore" (e dunque sostanzialmente a motivo) di un negozio, che dovrebbe conservare immutate causa e disciplina, in aperta contraddizione alla norma di chiusura dell'art. 809, ed esponendosi inoltre alle obiezioni sollevate, contro lo stesso schema generale, dalla migliore dottrina (vengono alla mente i nomi di Francesco Santoro Passarelli, Domenico Rubino, o Cesare Grassetti).

b) La seconda tesi (consegnata alle pagine celebri del primo dei due volumi dedicati alla teoria generale del contratto da Gino Gorla) è quella che, risolvendo il profilo della causa del contratto nel problema della cause suffisante della promessa (rappresentata da una controprestazione [o dalla contropromessa di una prestazione] di carattere economico), si vede costretta (dalla mancanza di quest'ultima) ad affermare che nella liberalità la causa viene sostituita dal vestimentum della forma solenne: senza avvedersi che il rilievo del requisito causale viene così ristretto all'ambito dello scambio, al di là del quale il ruolo assegnato alla forma preclude la ricostruzione in concreto degli interessi perseguiti dalle parti.

c) La terza costruzione (rappresentativa di un attegiamento teorico, più che di una singola tesi) è quella che assume lo spirito di liberalità come connotazione di uno stato interiore (in continuità con la formula classica dell'animus donandi), finendo così per dissolverlo nel profilo volitivo dell'atto o, al più, per confinarlo nella sfera dei motivi: negandone, cioè, nell'un caso l'autonomia, nell'altro il rilievo.

Ma ben al di là dei vantaggi, che offre alla costruzione teorica, l'idea dell'interesse non patrimoniale fornisce all'attività del notaio un prezioso criterio euristico.

L'interesse non economico del disponente, come termine del rapporto con lo strumento negoziale impiegato, illumina il profilo funzionale dell'atto, e quindi ne individua il fine: sul piano operazionale, esso segnerà il passaggio decisivo dell'intervento notarile, se è vero che, nel pensiero costante del giudice di legittimità [nota 34], proprio la ricostruzione del risultato perseguito dalle parti costituisce il parametro, alla cui stregua il notaio dovrà orientare le proprie valutazioni tecniche e le connesse scelte redazionali.

Di fronte all'impiego di strutture attributive onerose (come l'intestazione di beni a nome altrui) o anche neutre (come le rinunce, la cessione del credito, il contratto a favore di terzo), il notaio sarà dunque chiamato, in primo luogo, a un'attività ricognitiva degli interessi rilevanti, che condurrà ad enunciarne in atto il carattere non patrimoniale, identificandone così la funzione concretamente perseguita.

Con un'avvertenza.

Si è già precisato che nella donazione tipica non è necessario che l'interesse non patrimoniale del donante sia "comune" al donatario, occorrendo però che le parti si prospettino e convengano che gli effetti tipici dell'atto si fondano su di esso e mirano a realizzarlo (nel che si concreta, per dirla in termini grossolani, l'accordo sulla causa). Ora, nella liberalità atipica, attuata mediante schemi negoziali diversi, che in molti casi (si pensi al contratto a favore di terzo, o alla c.d. intestazione di beni a nome altrui) a dirittura prescindono dalla partecipazione del beneficiario all'atto, l'idea di un simile accordo rischia di rimanere estranea; all'interesse "concordato" si sostituirà, allora, l'enunciazione di esso da parte del disponente, tale da consentirne al beneficiario la percezione e l'eventuale rifiuto (in ossequio al principio generale applicabile ad ogni modificazione incrementativa della sfera giuridica altrui).

La stessa ricerca, finalizzata all'expressio causae, consentirà poi al notaio l'assolvimento di quegli oneri informativi, in ordine alla disciplina applicabile al rapporto, che nel caso delle liberalità non donative assumono tanto maggior rilievo, trattandosi di disciplina non correlata al tipo negoziale impiegato, ma al fine liberale indirettamente perseguito.

Nell'illustrare il sistema delle norme materiali applicabili alle liberalità atipiche (sistema solo in parte evocato dall'art. 809, c.c.), al notaio si propongono difficoltà peculiari, sia in ordine all'operatività di rimedi classici (quali la riduzione, la collazione, la revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli), sia in rapporto a novità normative recenti.

Con riguardo ai primi, il problema nasce dall'idea, ricorrente nella dottrina tradizionale, che quei rimedi incidano necessariamente sull'efficacia dell'attribuzione liberale, talora (come nelle più antiche teorie sulla collazione) in termini assoluti, altre volte (come affermato per la riduzione) nel senso dell'inopponibilità: ciò sulla base dell'irresistibile (e spesso inconsapevole) tendenza a concepire tali rimedi come volti a un risultato recuperatorio del cespite al patrimonio del disponente. Risultato che non ha senso alcuno perseguire in ordine ad attribuzioni che il più delle volte prescindono da un trasferimento diretto. Tant'è che la critica più recente (seguita in ciò dalle applicazioni giurisprudenziali) ha ripensato, con riguardo tanto alla riduzione, quanto alla collazione, il modo di operare degli strumenti nei confronti delle liberalità non donative [nota 35].

Quanto alle riforme recenti, il pensiero sarà già corso alla discussa e discutibile figura dell'opposizione alla donazione, introdotta nel sistema del codice dalla legge n. 80 del 2005, i cui problemi applicativi (già ardui con riguardo alla donazione tipica) rischiano di divenire insolubili rispetto a liberalità realizzate con strumenti diversi da essa: laddove ci si potrebbe chiedere (e lo si potrebbe chiedere al notaio) cosa debba fare il legittimario a fronte del contratto a favore di terzi, o all'intestazione di beni a nome altrui compiuti dal futuro de cuius a titolo di liberalità indiretta. E se dovesse ritenersi necessaria, come taluno ha prospettato, la proposizione di una domanda di accertamento della causa liberale, sottesa allo strumento negoziale atipico, al solo fine di proporre l'opposizione (id est: a fondare l'interesse ad agire in tal senso) ne uscirebbe riconfermata l'opportunità dell'indagine finalizzata all'enunciazione di essa, che s'è poc'anzi individuata come momento essenziale del ruolo del notaio in tal caso.

Postilla: le liberalità atipiche "non negoziali"

Quello sin qui condotto (a dispetto della pazienza che ha richiesto al lettore) è senz'altro, e consapevolmente, un discorso parziale, se è vero che la gamma di strumenti, idonei a realizzare l'interesse non patrimoniale sotteso alle liberalità atipiche, ricomprende (secondo le usuali classificazioni) comportamenti anche "non negoziali" del disponente.

Anche qui l'esemplificazione è poco più che scolastica ed affianca ai casi (residuali) della piantagione o costruzione su terreno altrui, le ipotesi (forse più verosimili) della volontaria mancata interruzione della prescrizione del debito, o dell'usucapione, da parte (rispettivamente) del creditore o del proprietario, o ancora l'acquisto del bene, da parte del soggetto in regime di comunione legale, che ometta di dichiarare (come richiederebbe l'art. 179, alla lettera f) l'impiego a tal fine di mezzi personali, consentendo così il coacquisto in favore del coniuge.

Si noti: si tratta nella quasi totalità dei casi inventariati dalla dottrina, di attribuzioni realizzate attraverso il perfezionarsi di fattispecie legali, da cui discendono altrettante ipotesi di acquisto a titolo originario: e ciò giustificherebbe, di per sé, che un'indagine dedicata all'intervento notarile nelle liberalità atipiche, ne abbia tralasciato l'analisi.

Ma proprio la tendenziale inconciliabilità tra acquisto originario ex lege e causa liberale [nota 36] ha indotto la dottrina a ripensare la presunta "non negozialità" della condotta, ipotizzando, in ciascuna delle fattispecie prospettate, il concorso di un "momento" di autonomia negoziale, volto ad attribuire all'acquisto ex lege significato di attribuzione liberale: in tale intervento, si è detto, potrebbe riconoscersi un'ipotesi ulteriore (accanto alle altre già descritte in dottrina) di "negozio configurativo", mediante il quale le parti provvederebbero non a precostituire la fonte degli effetti (che rimarrebbe in ogni caso la legge), ma a qualificare funzionalmente, attraverso l'enunciazione degli interessi rilevanti, la fattispecie acquisitiva: in una parola, a fungere da expressio causae della liberalità non donativa, da essa realizzata [nota 37].

La prospettiva, oltre a rievocare un ambito tematico dell'autonomia privata che riveste per lo studioso grande suggestione (conducendo direttamente al confronto con l'idea del contratto normativo), restituirebbe, teoricamente, uno spazio logico all'indagine sui rapporti, tra tali c.d. liberalità atipiche "non negoziali", e intervento del notaio: e basterebbe, in tal senso, interrogarsi sugli eventuali requisiti, di forma e/o di pubblicità, di un accordo configurativo che avesse ad oggetto, ad es., un'attribuzione immobiliare.

Ma trattandosi di itinerario che valica di gran lunga i confini tematici assegnati all'indagine, converrà rinviarne il percorso ad altra e più idonea occasione.


[nota 1] Elencazione analoga si ritrova in A. CHECCHINI, voce Liberalità (atti di), in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, ad vocem, p. 1.

[nota 2] Osservazioni in tal senso in G. CONTE, Gratuità, liberalità, donazione, in La donazione, Torino, 2001, p. 2. La più celebre epifania costruttiva di tale atteggamento è rappresentata dalla tesi anticausalista, proposta in origine da G. GORLA, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico, I, Lineamenti generali, Milano, 1954, p. 81e ss., sulla quale v. infra, il n. 7, sub b).

[nota 3] Lo rileva A. CHECCHINI, voce Liberalità (atti di), cit., p. 1.

[nota 4] Si veda il successivo n. 6.

[nota 5] Il primo e più noto riferimento è al pensiero di G. OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 76 e ss.

[nota 6] Il filone giurisprudenziale è anch'esso consolidato da tempo: si veda per tutte, anche se non recente Cass. 3 giugno 1980, n. 3621, in Giust. civ., 1980, I, p. 2138 e ss.

[nota 7] Si tratta, forse, della lettura più risalente; per tutti, si vedano le pagine classiche di F. FERRARA, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p. 135.

[nota 8] A. CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, in Tratt. dir. priv. diretto da M. Bessone, V, Torino 2005, p. 10.

[nota 9] Tra i molti si confrontino: A.C. JEMOLO, Lo "spirito di liberalità" (riflessioni su una nozione istituzionale), in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, Torino, 1960, II, p. 977 e ss.; V. R. CASULLI, voce Donazione in Enc. dir., dir. civ., XIII, Milano, 1964, p. 968; L. GARDANI CONTURSI - LISI, Delle donazioni, in Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 25; A. PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2000, p. 120 e ss.

[nota 10] Si vedano, in epoche diverse, F. MAROI, Delle donazioni, in Comm. cod. civ. diretto da M. D'Amelio, Firenze, 1941, p. 719; A. D'ANGELO, La donazione rimuneratoria, Milano 1942, p. 16 e ss.; G. OPPO, op. loc. ult. cit.; F. M. D'ETTORE, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale, Padova, 1996, p. 23 e ss.; G. VECCHIO, Le liberalità atipiche, Torino, 2000, p. 11.

[nota 11] Così B. BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 1961, p. 98 e 101.

[nota 12] M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 236.

[nota 13] Cass. 6 dicembre 1984, n. 6414.

[nota 14] Cass. 17 marzo 1981, n. 1545.

[nota 15] Cass. 27 febbraio 1986, n. 1266. Sulla distinzione tra negotium mixtum e donazione indiretta si veda, di recente, A. CATAUDELLA, op. cit., p. 60.

[nota 16] Cass. 28 novembre 1988, n. 6411.

[nota 17] Per una prima presa di contatto con tale area, si veda lo studio di V. CAREDDA, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, p. 195 e ss.

[nota 18] A. CATAUDELLA, op. cit., p. 6.

[nota 19] Così U. CARNEVALI, voce Liberalità (atti di), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 215.

[nota 20] Così è, ad es., per la previsione dell'obbligo alimentare a carico del donatario, o per la collazione.

[nota 21] Come avviene nelle norme che assoggettano a riduzione le liberalità che diminuiscono il patrimonio del disponente oltre il limite della disponibile.

[nota 22] L. MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici con particolare riguardo ai contratti, Milano 1942, p. 353 e ss.; E. TILOCCA, «Onerosità e gratuità», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, p. 66; O.T. SCOZZAFAVA, «La funzione del modo nel contratto di donazione», in Temi, 1978, p. 135.

[nota 23] C. GRASSETTI, Donazione modale e fiduciaria, Milano, 1941, p. 9 e ss.

[nota 24] E certamente non può ritenersi opinione minoritaria, se si tien conto che (pur se in tempi assai diversi) hanno negato che l'arricchimento possa dirsi carattere costante e distintivo della donazione: G. BALBI, Saggio sulla donazione, Torino 1942, p. 136 e ss.; G. B. FUNAIOLI, La donazione, Pisa, 1951, p. 127 e ss.; A. CATAUDELLA, La donazione mista, Milano, 1970, p. 110 e ss.; A. MARINI, Il modus come elemento accidentale del negozio gratuito, Milano, 1976, p. 52 e ss. e 67 e ss.; G. BISCONTINI, Onerosità corrispettività e qualificazione dei contratti – Il problema della donazione mista, Napoli, 1984, p. 51 e ss.; G. MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, in Studi in memoria di Gino Gorla, Milano, 1994, III, p. 1952; A. CHECCHINI, voce Liberalità (atti di), cit., p. 3 e ss.

[nota 25] L'esempio è di A. CHECCHINI, op. loc. ult. cit.

[nota 26] Così CARNEVALI, voce Liberalità (atti di), cit., p. 215 e ss.

[nota 27] Per lo stesso rilievo, di recente, A. CATAUDELLA, Successioni e donazioni. La donazione, cit., p. 13.

[nota 28] Cfr. supra, il n. 2 in fine.

[nota 29] Si tratta della felice intuizione di A. CHECCHINI, «L'interesse a donare», in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 262 e ss., poi ripresa da C. MANZINI, «"Spirito di liberalità" e controllo sull'esistenza della "causa donandi"», in Contr. impr., 1985, p. 419 e ss., e in seguito sviluppata ulteriormente dal suo autore in A. CHECCHINI, «Regolamento contrattuale e interessi delle parti (intorno alla nozione di causa)», in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 229 ss.; nello stesso senso, tra i più recenti, A. GIANOLA, Atto gratuito, atto liberale – ai limiti della donazione, Milano, 2002, p. 149; L. PELLEGRINI, La donazione costitutiva di obbligazione, Milano, 2004; A. CATAUDELLA, op. cit., p. 19 e ss.

[nota 30] Dopo Cass. 14 settembre 1976, n. 3150, in Riv. dir. comm., 1978, II, p. 220, con nota di G. FERRI, vanno ricordate, in tempi più recenti, Cass. 11 marzo 1996, n. 2001, in Foro it., 1996, I, c. 1222, con nota di G. LA ROCCA; Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giust. civ., 1999, I, p. 3095; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3615, in Rep. Foro it., voce Fallimento, 1159, n. 390.

[nota 31] Fattispecie analoga è quella decisa da Cass. 26 agosto 1998, n. 8472, in Notariato, 1999, p. 7 e ss., con nota di F. TASSINARI.

[nota 32] Si rivedano le pagine di U. CARNEVALI, voce Liberalità (atti di), cit., p. 217.

[nota 33] Trova qui applicazione un canone euristico già in altra occasione, e ad altro fine, accolto ed illustrato, che proprio nel rapporto tra gli interessi perseguiti e le strutture precettive a tal fine predisposte, individua il concetto tecnico (e, vorremmo dire, la figura logica) di funzione. Sia consentito indicarne i luoghi, rinviando al nostro La condizione di inadempimento. Contributo alla teoria del negozio condizionato, Padova, 1996, p. 11 e ss., nella nota 23, nonché p. 195 e ss., 201 e ss., 206 e ss.). Il criterio, la cui prima compiuta formulazione teorica si deve a A. CHECCHINI, «Regolamento contrattuale e interessi delle parti…», cit., p. 229 e ss. (il quale raccoglie spunti presenti nel pensiero di Redenti, Scalisi e Cataudella, cit. nel primo dei luoghi sopra indicati).

[nota 34] Espresso da ultimo in Cass. 31 maggio 2006, n. 13015, in Corr. giur., 2007, p. 379 e in Cass. 11 gennaio 2006, n. 264, in Giust. civ., 2006, I, p. 1518.

[nota 35] Ma su tale ripensamento il discorso deve arrestarsi, in attesa dei rilievi affidati sul tema a Geremia Romano.

[nota 36] Sul punto l'opinione della dottrina è largamente maggioritaria: si vedano, tra i molti, P. SCHLESINGER, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, I, sub art. 179, Padova, 1977, p. 404; F. GAZZONI, «è forse ammessa la diseredazione occulta dei legittimari?», in Giust. civ., 1993, I, p. 2519, e ss.; A. CHECCHINI, «L'interesse a donare», cit., p. 312.

[nota 37] L'applicazione del paradigma del negozio configurativo alle liberalità atipiche "non negoziali" è proposta e argomentata da V. CAREDDA, op. cit., p. 223 e ss. Sul negozio configurativo, si vedano, in tempi non remoti, le pagine di G. PALERMO, Contratto preliminare, Padova, 1991, p. 101 e ss., in epoca più lontana, i rilievi di Salv. ROMANO, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel diritto privato, Milano, 1961, p. 77 ss.

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