Ipotesi dubbie di liberalità non donative
Ipotesi dubbie di liberalità non donative
di Federico Tassinari
Notaio in Imola

Premessa

La nozione di liberalità non donativa, come è emerso dalla relazione che mi ha proceduto, si pone, nella sistematica del codice civile, ad un crocevia di norme ed istituti.

La precisa definizione del perimetro della figura risulta tuttavia fondamentale al fine di stabilire in quali casi si applicano ad una determinata fattispecie o ipotesi, oltre alle norme in tema di revocazione della donazione, le norme di tema di tutela dei legittimari ed azione di riduzione (cfr. art. 809 comma 1 c.c.) e le norme in tema di collazione (cfr. art. 737 c.c., ove si estende l'istituto anche alle donazioni definite indirette).

Il collegamento tra la nozione di donazione indiretta posta dall'art. 737 c.c. e la nozione di atto di liberalità diverso dalla donazione posta dall'art. 809 comma 1 c.c. emerge dallo stesso codice civile, laddove, nell'art. 809 comma 2, si escludono dalla prescrizione dettata dal precedente comma «le liberalità … che a norma dell'articolo 742 non sono soggette a collazione».

Il collegamento rappresenta in realtà una sostanziale identificazione, dal momento che le norme in tema di collazione, nella parte in cui codificano la nozione di "donazione ricevuta indirettamente", risentono dell'elaborazione dogmatica della dottrina italiana degli Anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, secondo cui la liberalità non donativa è in primo luogo un atto negoziale, in secondo luogo un atto riconducibile all'istituto, di elaborazione germanica, del negozio indiretto.

Tramontata, o comunque largamente sfumata, questa posizione dogmatica, resta l'identificazione, ai fini dell'applicazione delle norme sostanziali in tema di liberalità (ex artt. 737 e ss. e 809 c.c.), tra la c.d. liberalità non donativa e la c.d. donazione indiretta.

L'idea di fondo che caratterizza la scelta del vigente codice civile italiano, come è noto, risiede nell'esigenza, storicamente sedimentata fin dal diritto romano, che tutti gli "atti di liberalità", al di là della loro riconduzione allo schema tipico del contratto di donazione, siano considerati, e computati in relazione al rispettivo oggetto e valore, allorquando si tratti di tutelare la posizione dei legittimari, o la parità di trattamento tra discendenti e coniuge in sede di divisione ereditaria.

La tutela di tali interessi resta anche oggi, pure con l'evoluzione del comune sentire e dei legami familiari, assai forte, oltre che sostanzialmente impermeabile, se si escludono alcuni settoriali recenti interventi normativi [nota 1], all'autonomia privata.

L'operatore pratico si trova in difficoltà.

Da un lato, infatti, egli si deve confrontare con una normativa in larga parte inderogabile, posta a tutela di interessi di ordine pubblico di protezione di soggetti considerati deboli, o quantomeno influenzabili, che, pure volendo, non possono rinunciare, né diversamente articolare nel contenuto, la tutela ad essi riservata.

Dall'altro lato, tuttavia, l'interprete si trova dinanzi ad un'elaborazione dell'istituto della liberalità non donativa, ai fini dell'applicazione delle norme in tema di legittimari e delle norme in tema di collazione, che male rispecchia, in numerosi casi, la diffusa sensibilità attuale, delineando, quindi, un perimetro della nozione non solo incerto, ma anche sfuocato rispetto ad una efficiente e moderna tutela di quegli interessi familiari che il legislatore, rendendo in larga parte inderogabile la normativa, ha voluto ribadire come attuali ed imprescindibili.

Le ipotesi dubbie di liberalità non donative rappresentano, come l'esperienza professionale dei notai insegna, uno strumento talvolta formidabile per aggirare, senza ricorrere a strumenti giuridici sofisticati o esotici, i diritti dei legittimari.

In che modo può l'operatore uscire da questa impasse? In che modo può rendere rilevanti, quanto meno ai fini della collazione, ipotesi che la dogmatica tradizionale espunge non solo dalla nozione di donazione ex art. 769 c.c., ma anche dalla nozione di liberalità non donativa ex art. 809 c.c. (o di donazione indiretta ex art. 737 c.c.)?

La risposta non può prescindere dal tentativo di individuare una bussola, un tracciato preciso nel quale l'operatore stesso possa incamminarsi con una certa sicurezza argomentativa.

Due opinioni tradizionali, tesi da mettere da parte

Perché questa sfasatura tra la nozione teorica più tradizionale di liberalità non donativa ed il comune sentire attuale relativamente a ciò che effettivamente costituisce una liberalità?

La ragione fondamentale sembra da rinvenirsi in due opinioni tradizionali accolte dai compilatori del codice civile e dalla maggioranza dei primi interpreti degli artt. 769 - 809 c.c. [nota 2]

Secondo tali opinioni, da un lato, la liberalità è in ogni caso un atto, e non può mai consistere in un semplice fatto, dall'altro lato, poiché la liberalità ricorre soltanto qualora all'arricchimento del beneficiario si accompagni un impoverimento del disponente, non può ipotizzarsi alcuna liberalità in presenza di assunzione di obbligazioni di fare o di non fare.

La prima opinione da mettere da parte

La prima conclusione trova fondamento, sul piano letterale, nel testo dell'art. 809 comma 1 c.c., laddove si ha cura di precisare che la nozione rilevante non è soltanto quella dell'effetto, che bene sarebbe stata individuata riferendosi tout court alla "liberalità", bensì, prima di tutto, quella della volontà dell'agente, trasfusa nel codice con l'impiego dell'espressione "atti di liberalità".

La sensibilità dei compilatori, ed anche di numerosi degli interpreti della nozione che hanno elaborato la dottrina delle donazioni e delle liberalità nel corso del XX secolo, è figlia della pandettistica tedesca e della sua elaborazione del negozio giuridico e, pertanto, è impregnata del dogma della volontà, secondo cui solo ciò che ha natura negoziale, che è voluto anche quanto agli effetti che produce, rappresenta un istituto giuridicamente rilevante.

La volontà degli effetti da parte di un soggetto disponente di un diritto o assuntore di un'obbligazione, diretta all'arricchimento di un terzo mediante proprio impoverimento, diviene il fondamento irrinunciabile per attrarre la donazione, o comunque l'atto di liberalità, nella disciplina della tutela dei legittimari e della collazione.

Senza atto negoziale, nessuno può, in tale ottica, pretendere di addossare all'agente le conseguenze previste dalla legge in merito ad entrambi gli anzidetti istituti.

Tale approccio non sembra in linea con la protezione di quegli interessi in ragione dei quali l'ordinamento dispone per tutte le liberalità diverse dalla donazione ex art. 769 c.c. l'applicazione di determinate norme materiali, quali la collazione o le norme poste a tutela del legittimario.

Affinché quest'ultima tutela sia effettiva, occorre infatti che le norme materiali siano effettivamente tali, in grado cioè di pervenire ad una perfetta chiusura del sistema.

A questo fine, si dovrà evitare, in particolare, che ciò che viene socialmente ed economicamente valutato alla stregua di una liberalità possa ricadere o meno all'interno della tutela disposta dalla legge a seconda che ricorrano specifici elementi giuridici estranei all'idea di liberalità accettata sul piano sociale ed economico.

Anche dal punto di vista giuridico la liberalità deve essere valutata come un effetto, che può verificarsi a prescindere dalle caratteristiche e dalla natura della fattispecie che lo può in concreto generare.

Per aversi spirito di liberalità e, con esso, l'effetto liberale non è necessario che l'agente di cui si tratta compia atti negoziali, potendo essere sufficiente, come si vedrà negli ultimi due paragrafi, un comportamento materiale o, persino, la semplice inerzia.

La ricostruzione giuridica dell'istituto non deve perdere il contatto con il comune sentire e l'analisi economica; se si ha la sensazione, come in questo caso, che ciò avvenga, bisogna procedere ad una rilettura del dato normativo e, in assenza di elementi significativi, non si dovrà esitare, soprattutto quando, come nel caso in esame, non vi sono significativi precedenti giurisprudenziali di segno opposto, ad abbandonare ricostruzioni al servizio più di posizioni ideologiche (la teoria del negozio giuridico ed il dogma della volontà) che degli specifici interessi concreti protetti dal diritto positivo (la par condicio di discendenti e coniugi e la tutela dei legittimari).

Lo spirito di liberalità, dunque, è ricollegabile a specifici comportamenti umani, non necessariamente ad atti formali aventi contenuto negoziale.

La seconda opinione da mettere da parte

La seconda conclusione si fonda su una premessa condivisibile, ovvero che la liberalità può esistere soltanto qualora all'arricchimento del beneficiario si accompagni un impoverimento del disponente.

Tale conclusione, infatti, trova fondamento, sul piano letterale, nell'inciso finale della norma definitoria della donazione contrattuale, l'art. 769 c.c., secondo cui, per aversi donazione (ma anche liberalità diversa dalla donazione), occorre che, a fronte dell'arricchimento del beneficiario, vi sia, da parte del disponente, in più, la disposizione di un proprio diritto o l'assunzione di un'obbligazione.

Quest'ultima precisazione normativa viene correttamente interpretata dalla dottrina consolidata come espressione della volontà del legislatore che vi sia in ogni caso un impoverimento del disponente o assuntore dell'obbligazione.

La necessità di tale impoverimento rappresenta una chiave di lettura fornita indubbiamente di buon fondamento.

Non pare lecito dubitare, invero, che soltanto chi si è impoverito possa sopportare le conseguenze di un'azione di riduzione da parte di uno dei legittimari o la pretesa a titolo di collazione da parte di uno dei familiari coeredi.

Ciò che pare inaccettabile, almeno con la sensibilità del XXI secolo, è l'idea storicamente data di "impoverimento" fatta propria dalla dottrina negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore del codice civile, espressione, a sua volta, di un'economia ancora fondata sulla proprietà e non sul credito, di un'economia, come è stato efficacemente detto [nota 3], in cui «la vera ricchezza era rappresentata dal patrimonio e non dalla capacità di lavoro individuale».

Nell'economia italiana della metà del XX secolo l'assunzione di obbligazioni di fare poteva essere considerata in linea di massima irrilevante per determinare un impoverimento in capo all'assuntore, perché la risorsa scarsa non era il tempo, ma era la proprietà dei beni; nell'economia del XXI secolo, invece, il tempo che occorre per adempiere un'obbligazione di fare può valere di più della proprietà di un bene, risultando inaccettabile concludere che chi dedica il proprio tempo per eseguire una prestazione senza corrispettivo sia un soggetto che non si sta impoverendo [nota 4].

Sul piano sistematico, del resto, la conclusione risulta confermata dal fatto che la dottrina [nota 5] non dubita che si applichi la normativa dell'arricchimento senza causa di cui agli artt. 2041 e ss. c.c. quando l'attribuzione patrimoniale non assistita da una giusta causa deriva da una prestazione di fare.

Arricchimento che, per definizione, presuppone l'altrui impoverimento, che di tale azione costituisce, a sua volta, l'interesse ad agire.

Alla luce di queste considerazioni, che verranno riprese nella successiva parte casistica della relazione, sembra possibile riconsiderare alcune ipotesi tradizionalmente controverse di liberalità non donativa, per riconoscerne finalmente la piena rilevanza ai fini dell'applicazione delle c.d. norme materiali in tema di donazione, come sancito dagli artt. 737 e ss. c.c. e 809 c.c.

Punto di riferimento costante deve essere ritenuto, in tale percorso di rivisitazione, il comune sentire delle persone coinvolte, che l'esperienza professionale del notaio, forse meglio di qualsiasi altra esperienza professionale, sarà in grado di cogliere, di descrivere compiutamente e, se del caso, di regolare con espressa clausola negoziale al fine di evitare il futuro insorgere di contestazioni.

L'assunzione di obbligazioni di fare. Il caso del comodato

L'art. 769 c.c. individua quale possibile oggetto di donazione non l'esecuzione di obbligazioni, che si tratta di atto dovuto, bensì l'assunzione di obbligazione, che si tratta di atto spontaneo (c.d. donazione obbligatoria).

L'opinione tradizionale in dottrina è che l'assunzione di obbligazioni di fare, nonostante la lettera dell'art. 769 c.c. non lo escluda espressamente, sia irrilevante per aversi donazione ex art. 769 c.c.

Oltre al già rilevato aspetto della mancanza di un impoverimento dell'assuntore, si adduce [nota 6] l'argomento secondo cui tali obbligazioni sono già contemplate da numerose norme del codice civile come prestazione tipica di determinati contratti, quali il comodato, il mandato gratuito, il deposito gratuito, con la conseguenza che non sarebbe possibile ammettere da parte dell'ordinamento una doppia qualificazione.

Tuttavia, se si ritiene destituita di fondamento, per le ragioni indicate nel precedente paragrafo, l'affermazione secondo cui, nel caso di specie, non vi può essere alcun impoverimento dell'assuntore, occorre rilevare che l'argomento da ultimo accennato non è comunque spendibile per escludere la qualificazione come donazione di quelle obbligazioni di fare, che, come nell'esecuzione di un'opera, di un servizio o di una prestazione professionale senza corrispettivo, non trovano all'interno del codice civile alcuna diversa qualificazione, per l'essenziale onerosità dei contratti tipici (contratto di appalto anche di servizi, contratto d'opera manuale ed intellettuale) che contemplano e disciplinano tale prestazione.

Occorre precisare che parte della dottrina ha ritenuto di potere individuare altri argomenti per escludere che l'assunzione di simili obbligazioni di fare possa comunque costituire donazione in senso tecnico.

Ci si riferisce, in particolare:

i) alla difficoltà di distinguere tali prestazioni giuridicamente rilevanti dalle numerose prestazioni di tale genere che vengono eseguite, nella pratica degli affari, a titolo amichevole o di cortesia;

ii) alla difficoltà di quantificare l'esatto valore di tali prestazioni e, comunque, di ammettere che, in sede di collazione o di riduzione, il beneficiario sia tenuto a versare una somma di denaro, con la conseguenza di rendere ex post onerose, alla stregua appunto di un contratto di appalto, di lavoro o di opera manuale o intellettuale regolato da codice civile, ed in base ad eventi contingenti non riconducili in alcun modo alla volontà delle parti (esistenza di coniuge e discendenti tenuti alla collazione; legittimari lesi), situazioni che, per volontà delle parti originarie, erano prive di tale caratteristica (in altre parole: vi sarebbe il rischio che il beneficiario di tali prestazioni gratuite diventi per effetto degli artt. 737 e ss. e 809 c.c. un obbligato verso coeredi e legittimari del prestatore defunto);

iii) infine, e soprattutto, alla difficoltà di applicare alcune delle norme formali dettate per la donazione, a cominciare dalla prescrizione della forma pubblica di cui all'art. 782 c.c., a simili prestazioni.

L'elaborazione dottrinale più recente non ha mancato di rilevare l'infondatezza di queste ulteriori obiezioni [nota 7].

Infatti:

i) quanto alla prima obiezione, si è osservato che il dubbio ha ragione di porsi soltanto per prestazioni di valore esiguo, per le quali i rimedi della collazione e dell'azione di riduzione potranno essere disapplicati proprio per la natura amichevole o di cortesia della prestazione, ma non ha alcuna ragione di porsi per prestazioni di valore considerevole, ove invece le suddette tutele devono potere trovare piena applicazione;

ii) di fronte a prestazioni di valore considerevole, il coinvolgimento, successivo al decesso del donante, del beneficiario quale donatario in sede di collazione o di riduzione non vale a trasformare l'originario contratto di donazione in un contratto oneroso, in una sorta, così si è detto, di "scambio imposto", trattandosi, sia in caso di collazione sia in caso di riduzione, del sopraggiungere di una situazione nuova, con un proprio fondamento ed una propria disciplina;

iii) gli inconvenienti che derivano dall'applicazione della prescrizione di forma di cui all'art. 782 c.c. alle ipotesi al vaglio risulta superabile ove si consideri che le prestazioni di modico valore saranno comunque escluse da tale onere vuoi per il carattere amichevole o di cortesia della vicenda, vuoi perchè, in presenza di tale modicità, non vi sono ostacoli a ritenere che, una volta esclusa la natura amichevole o di cortesia del rapporto, la donazione acquisti rilievo di contratto reale, e si perfezioni, come avviene nel caso di cui all'art. 783 c.c., applicabile in via estensiva al caso di specie, non nel momento in cui l'obbligazione viene assunta, ma soltanto nel momento in cui l'obbligazione viene eseguita, con esclusione quindi di ogni onere formale esattamente come avviene, in caso di esiguità del valore, per l'assunzione di obbligazioni di dare [nota 8].

Diversa, invece, è la questione se tali prestazioni, ove riconducibili a tipi contrattuali diversi dalla donazione, possano essere comunque considerate alla stregua di liberalità non donative.

Si è rilevato in dottrina [nota 9] che la compatibilità tra qualificazione di una determinata fattispecie quale contratto tipico ai sensi del libro quarto del codice civile e liberalità non donativa è letteralmente confermata dall'art. 1875 c.c. in tema di rendita vitalizia, secondo cui «la rendita vitalizia costituita a favore di un terzo, quantunque importi per questo una liberalità, non richiede le forme stabilite per la donazione».

Alla fattispecie, come sancito da quest'ultima norma, si applicheranno nel contempo due sistemi di norme, ovvero, da un lato, quelle proprie del tipo secondo cui essa è qualificata (compravendita o permuta a favore di terzo, rendita vitalizia a favore di terzo, comodato, mandato, deposito, ecc.), dall'altro quelle materiali in tema di liberalità, di cui ai già ricordati artt. 737 e ss. e 809 c.c.

Una volta raggiunta la conclusione secondo cui l'assunzione di obbligazioni di fare (soprattutto se di non modico valore) può costituire donazione in senso tecnico ove tali prestazioni non rientrino nei tipi di contratto gratuito espressamente contemplati dalla legge, oppure liberalità non donativa ove tale tipizzazione ricorra, bisogna prendere atto che alcune delle vicende con la quale la prassi notarile è talora chiamata a confrontarsi devono essere individuate secondo tale loro natura giuridica, anche ai fini di una corretta informazione delle parti.

Come esempio di donazione in senso tecnico avente ad oggetto una prestazione di fare, si può menzionare, allora, il caso della concessione, al di fuori di una più ampia vicenda contrattuale a titolo oneroso, di una prelazione volontaria, rispetto al quale troveranno applicazione tutte le norme dettate dal codice civile in materia di donazione, a cominciare dalla prescrizione formale di cui all'art. 782 c.c.

Come esempio, invece, di assunzione di un'obbligazione di fare a titolo di liberalità non donativa, sembra opportuno considerare il caso, assai ricorrente nella pratica, del comodato di cui agli artt. 1803 e ss. c.c.

Che il contratto di comodato, che, secondo la dottrina dominante [nota 10], comporta l'assunzione da parte del comodante di un'obbligazione di fare, possa costituire liberalità non donativa, ove lo stesso sia posto in essere per spirito di liberalità nei confronti del comodatario, è oggi ammesso anche da un precedente giurisprudenziale di merito [nota 11], uno dei pochi che si possono rinvenire in tema di rapporti tra obbligazioni di fare e liberalità, secondo cui, tra l'altro, provato il comodato, lo spirito di liberalità può essere presunto, essendo in re ipsa nella volontà di stipulare quel tipo di contratto [nota 12].

Ai fini dell'attività notarile, sembra altresì opportuno sottolineare alcuni ulteriori spunti offerti in proposito dalla sentenza menzionata, ovvero:

- che il comodato non deve necessariamente risultare da atti formali, potendo desumersi dal semplice comportamento delle parti, anche in assenza di qualsiasi atto scritto;

- che possono essere qualificati alla stregua di una liberalità non donativa soltanto quei contratti di comodato in forza dei quali sia stato concesso al comodatario l'uso gratuito del bene "per un tempo considerevole", così espungendosi dall'ambito delle liberalità non donative tutti i comodati temporanei o occasionali;

- che, ricorrendo l'ipotesi della liberalità non donativa mediante comodato, oggetto della stessa deve ritenersi la somma di denaro, riferita al momento dell'apertura della successione, corrispondente all'insieme dei canoni che il comodante avrebbe percepito, secondo il valore di mercato, ove avesse locato il bene.

Un'ulteriore ipotesi di liberalità non donativa realizzata attraverso contratto di comodato ricorrente nella prassi notarile può essere individuata nel caso dell'usufruttuario che, rinunciando al proprio esclusivo diritto di godimento sul bene, ne consente l'utilizzo esclusivo da parte di un proprio familiare, senza nulla pretendere in corrispettivo.

Per contro, la ricorrenza di una liberalità dovrà escludersi, almeno in linea di principio, laddove il proprietario dell'appartamento condivida con il terzo l'uso del bene, dovendo la mancanza di un uso esclusivo del bene da parte di quest'ultimo orientare verso una qualificazione della vicenda, se non come vicenda attinente - come normalmente sarà - a profili lato sensu familiari o assistenziali, come rapporto amichevole o di cortesia.

L'assunzione di obbligazioni di non fare

Un ragionamento analogo a quello finora fatto per l'assunzione di obbligazioni di fare può essere fatto per l'ipotesi di assunzione di obbligazioni di non fare [nota 13].

La prestazione negativa, più ancora di quella positiva di fare, potrà comportare difficoltà pratiche laddove si tratti, in assenza di atti formali, di dimostrare in che termini le parti hanno assunto l'obbligazione.

Come l'esperienza professionale insegna, le parti, normalmente, anche quando una di esse intende per spirito di liberalità arricchire l'altra mediante assunzione di un'obbligazione di non fare, si limitano ad osservare nei fatti un determinato comportamento negativo, evitando di fare precedere al fatto stesso l'assunzione di formali impegni.

In assenza di tale formalizzazione, può diventare difficile distinguere tra loro le tre ipotesi astrattamente prospettabili, ovvero quella secondo cui ci si trova di fronte ad una donazione in senso tecnico ex art. 769 c.c., quella secondo cui ci si trova di fronte ad una liberalità non donativa posta in essere in esecuzione di un diverso contratto tipico oppure nell'esercizio di un determinato diritto reale, e quella, infine, da presumersi ove non sia offerta la prova della ricorrenza di una delle precedenti ipotesi, secondo cui il non fare rileva alla stregua di un semplice fatto, privo di rilievo ai fini degli artt. 737 e ss. e 809 c.c.

Così, per esempio:

a) quale esempio di assunzione di obbligazione di non fare mediante contratto di donazione in senso tecnico si può pensare all'ipotesi di un proprietario di fondo che intende astenersi dall'utilizzare la futura capacità edificatoria assumendo verso il proprietario del contiguo fondo, per spirito di liberalità e senza costituzione di diritto reale di servitù, la corrispondente obbligazione di non fare;

b) quale esempio di assunzione di obbligazione di non fare mediante liberalità non donativa posta in essere in esecuzione di un diverso contratto tipico, l'ipotesi in cui il mutuante si obblighi a non richiedere interessi sulla somma mutuata, nonostante la diversa clausola a suo tempo pattuita nel contratto di mutuo, così come, più in generale, il c.d. pactum de non petendo tra creditore e debitore;

c) quale esempio di assunzione di obbligazione di non fare mediante liberalità non donativa posta in essere nell'esercizio di un determinato diritto reale, l'ipotesi in cui l'usufruttuario di un immobile si impegni nei confronti del nudo proprietario a non fare proprie le utilità che derivano dal bene per un determinato periodo di tempo [nota 14].

L'edificazione e l'esecuzione di lavori su immobile altrui

La pratica professionale insegna che, assai frequentemente, un genitore esegue a proprie spese interventi edilizi di vario genere su immobili intestati ai figli, si tratti di prima costruzione o di semplice intervento di ristrutturazione o di manutenzione.

Ciò deriva da numerosi fattori sociali, tra i quali sembra rivestire un ruolo preminente il fatto che, per l'allungamento dei percorsi di studio e per la diffusione del precariato nel lavoro, i giovani possono acquistare casa soltanto con il concorso economico dei propri genitori e, più in generale, familiari.

Se la forma tipica di tale concorso è rappresentato dall'intestazione di beni immobili sotto nome altrui in sede di conclusione del contratto definitivo di vendita, che sarà oggetto di attenzione in almeno tre delle successive relazioni a questo convegno, assai rilevante risulta anche quella ipotesi di partecipazione del familiare alle spese che si realizza attraverso l'edificazione (allorché l'intestazione a nome altrui riguarda un'area edificabile) oppure l'esecuzione di lavori di ristrutturazione o di manutenzione (allorché l'intestazione a nome altrui riguarda immobili bisognosi di interventi edilizi).

La rilevanza pratica e l'ampia diffusione di questo tipo di intervento economico confligge con l'incertezza che ne caratterizza i risvolti ai fini sia della qualificazione degli interventi stessi come liberalità non donativa, sia dell'individuazione dell'eventuale oggetto di quest'ultima.

Invero, secondo un'autorevole opinione dottrinale [nota 15], espressione del pensiero sopra riferito secondo cui solo gli atti negoziali possono comportare liberalità non donativa, anche quando un soggetto esegue una costruzione sul suolo altrui, oppure esegue lavori edilizi di manutenzione o ristrutturazione di un altrui edificio per spirito di liberalità, e cioè in piena consapevolezza dell'altruità della cosa, dell'assenza di ogni obbligo o dovere a proprio carico, dell'arricchimento che trae il proprietario dell'immobile a fronte del proprio impoverimento, nessuna liberalità non donativa risulta posta in essere fintantoché non risulti da parte del costruttore un atto negoziale, che normalmente coinciderà con la rinuncia abdicativa, anche nelle forme della remissione del debito ex art. 1236 e ss. c.c., di quel credito che l'ordinamento prevede in capo al costruttore stesso in tale specifica ipotesi, secondo quanto disposto, rispettivamente, dall'art. 936 c.c. (se il costruttore ha impiegato materiali propri) o dall'art. 937 c.c. (se il costruttore ha impiegato materiali altrui).

Oltre che per le ragioni già sopra evidenziate in termini generali, tale conclusione deve essere respinta, nel caso concreto all'esame, in relazione alla considerazione che la tutela obbligatoria introdotta dai citati artt. 936 e 937 c.c. non può considerarsi adeguata al fine di escludere che, finché tale credito permane, non vi sia stata alcuna liberalità da parte del costruttore nei confronti del proprietario.

Tale tutela obbligatoria, infatti:

- da un lato è soltanto eventuale, poiché il proprietario può scegliere, in linea di principio, di imporre al costruttore di togliere le opere eseguite, senza che sorga quindi alcun credito in capo al costruttore stesso, che sarà semmai da considerare debitore di un nuova obbligazione di fare;

- dall'altro lato, essendo dettata in una logica di tutela della proprietà, e, nel contempo, di favor per l'edilizia, logica certamente valida negli Anni Quaranta dello scorso secolo, ma comunque riferita ad aspetti diversi da quelli di tipo familiare che la normativa materiale applicabile alle liberalità non donative intende presidiare, non può in alcun caso ritenersi un idoneo punto di riferimento ai fini degli artt. 737 e ss. e 809 c.c.

A quest'ultimo fine è sufficiente rilevare, in contrasto con l'esigenza di togliere a colui che ha ricevuto la liberalità un'eccessiva discrezionalità nell'individuare il quantum da computare ai fini della collazione e, soprattutto, della futura eventuale azione di riduzione dei legittimari, che l'ammontare del credito può coincidere, a scelta del debitore, vuoi con quanto speso dal costruttore per materiali e manodopera, vuoi con l'aumento di valore che l'opera eseguita ha comportato per l'immobile.

In realtà, la liberalità rilevante ai fini dei citati artt. 737 e ss. e 809 c.c. coincide, una volta dimostrato lo spirito di liberalità in capo al costruttore, con l'esecuzione stessa dell'opera su immobile altrui, valendo le successive vicende di cui agli artt. 936 e 937 c.c., regolate con finalità diverse, si ripete, rispetto a quelle proprie della tutela degli interessi familiari, soltanto al fine di incidere in aumento o in diminuzione sul quantum da computare in sede di collazione o di riduzione.

Mancata riscossione di crediti con decorso del termine di prescrizione

Con l'entrata in vigore, il 4 luglio 2006, della c.d. legge Bersani (D.l. 223/2006, convertito con modificazioni nella L. 248/2006), e con il conseguente obbligo in capo alle parti di qualsiasi atto traslativo di diritti reali immobiliari di dichiarare in via sostitutiva di atto di notorietà le analitiche modalità di pagamento del prezzo, accade sempre più frequentemente di assistere a compravendite in ambito familiare in cui viene dichiarato un prezzo ancora interamente da pagare, con precisazione, talvolta assai larga, dei termini di pagamento concessi al compratore.

L'applicabilità a tale fattispecie del nuovo sistema c.d. prezzo valore, di cui alla L. 266/2005 e successive modificazioni, con la conseguente tassazione sul valore catastale a prescindere dal prezzo dichiarato, unitamente al legittimo desiderio di evitare che l'operazione, per lo scarto tra prezzo dichiarato e valore di mercato del bene venduto, sia suscettibile di essere qualificata come negotium mixtum cum donatione, con le possibili conseguenze in tema di futura circolazione del bene, consentono di ipotizzare, ai fini del tema che ci occupa, e secondo quella che sembra essere la nuova prassi venutasi a creare, che il prezzo dichiarato coincida, nella sostanza, con il predetto valore di mercato del bene.

L'atto di vendita in tale modo perfezionato non sarà seguito, nella maggior parte di casi, da un effettivo pagamento da parte del familiare compratore, ma sarà seguito da una totale inerzia da parte sia del venditore creditore sia dell'acquirente debitore.

Diviene così di fondamentale importanza, anche a fini pratici, riprendere un tema classico affrontato in sede di studio delle liberalità non donative.

Si tratta, più precisamente, di stabilire se, una volta che il credito del familiare venditore si è estinto per prescrizione, sia possibile rinvenire nell'ipotesi al vaglio una liberalità non donativa da parte del venditore-creditore a favore del compratore-debitore.

La tesi tradizionale, già esposta sopra, ritiene che, in assenza di atti negoziali da parte di colui che subisce l'effetto dell'impoverimento, nessuna liberalità possa rinvenirsi laddove la modalità estintiva del credito non sia costituita da un atto negoziale di rinuncia abdicativa o di remissione del debito, ma derivi, ope legis, dal decorrere del termine, normalmente decennale, di prescrizione.

I rilievi già svolti, a loro volta, in proposito inducono a respingere tale conclusone.

In questa sede, fermo restando, ovviamente, che adducere inconveniens non est invenire remedium, sembra opportuno ribadire, che, proprio per l'ampia utilizzazione di tale schema di vendita a prezzo differito seguita da prescrizione del credito, la tesi tradizionale che esclude ogni liberalità non donativa in assenza di atti negoziali consentirebbe alle parti dell'atto di vendita in esame di aggirare agevolmente, solo che il venditore abbia un'aspettativa di vita superiore ai dieci anni dalla conclusione dell'atto, le norme inderogabili dettate a favore dei legittimari dagli artt. 737 e ss. e 809 c.c.

Secondo la diversa tesi prospettata nelle pagine precedenti, invece, può aversi liberalità non donativa anche in assenza di atti negoziali, tutte le volte in cui gli elementi costitutivi della liberalità, intesa quale semplice effetto, sono riscontrabili in un comportamento riconducibile a colui che la effettua, sia questo un comportamento materiale (la costruzione su suolo altrui considerata nel precedente paragrafo) oppure, come nel caso al vaglio, un semplice comportamento omissivo.

Dimostrata la vendita a prezzo differito, sembra ragionevole ritenere che la liberalità, riferibile al prezzo e non all'immobile (a meno che si dimostri che ricorreva un'ipotesi di simulazione negoziale, constando una rinuncia al prezzo da parte del c.d. venditore contestuale al perfezionamento della vendita stessa, nel qual caso dovrebbe ritenersi, una volta dimostrata la simulazione, che oggetto di liberalità sia lo stesso immobile venduto), possa essere presunta, incombendo in capo al compratore beneficiario dimostrare o che il pagamento è effettivamente avvenuto, o che, pure non essendo tale pagamento avvenuto, il venditore ha cercato in maniera effettiva di riscuotere il prezzo prima che si producessero gli effetti della prescrizione.

Tale tesi consente di garantire coerenza al sistema e neutralità degli schemi negoziali civilistici ai fini dell'applicazione delle norme in tema di collazione e tutela dei legittimari.

Con ciò consentendo di affermare che tale tutela, a prescindere da aspetti patologici quali la simulazione negoziale, ed al di là della valutazione di opportunità che ciascuno ritiene di dare in merito all'attualità dell'interesse tutelato, non comporta alcun effetto discorsivo sull'esercizio dell'autonomia privata.


[nota 1] Ci si riferisce alla legislazione del 2005 e del 2006 che ha introdotto da un lato la facoltà di rinunciare al diritto di opposizione di cui all'art. 563 comma 4 c.c., dall'altro alla normativa in materia di patto di famiglia di cui agli artt. 768-bis e ss. c.c.

[nota 2] Cfr., per tutti, OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947.

[nota 3] GIANOLA, Atto gratuito, atto liberale. Ai limiti della donazione, Milano, 2002, p. 69.

[nota 4] Secondo GIANOLA, op. cit., p. 51, «l'impoverimento non deve misurarsi in concreto ma in astratto; la prestazione patrimonialmente valutabile costa all'operatore una fatica, un'attenzione, una cura che hanno, socialmente, un prezzo; il valore di questa prestazione deve valutarsi oggettivamente, così come reciprocamente si suole valutare in modo oggettivo il danno che ci viene recato se qualcuno ci impedisce di godere di una certa prestazione che non aumenta il nostro patrimonio».

[nota 5] TRIMARCHI, L'arricchimento senza causa, Milano, 1962, p. 28; PARDOLESI – DI PAOLA, voce Arricchimento, in Enc. giur., II, Roma, 1989, p. 4.

[nota 6] TORRENTE, La donazione, II ed. agg. da U. Carnevali e A. Mora, Milano, 2006, p. 13 e ss.

[nota 7] La possibilità che anche l'assunzione di un'obbligazione di fare costituisca donazione ex art. 769 inciso finale c.c. è sostenuta, tra gli altri, da MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, IV, Milano, 1954, p. 7; BIONDI, Le donazioni, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, p. 389 e ss.; CATAUDELLA, La donazione mista, Milano, 1970, p. 165 e ss.; BONILINI, La donazione costitutiva di obbligazione, in La donazione, a cura di G. Bonilini, I, Torino, 2001, p. 682 e ss.; LENZI, «La donazione obbligatoria», in Riv. not., 1990, p. 927 e ss.; D'ETTORE, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale. Profili di rilevanza donativa delle obbligazioni di fare gratuite, Padova, 1986; PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Tratt. Sacco, Torino, 2000, p. 157; GIANOLA, «La donazione di fare», in Riv. dir. civ., 2001, p. 385 e ss.; ID., Atto gratuito…, cit.; PELLEGRINI, La donazione costitutiva di obbligazione, Milano, 2004, p. 51 e ss. ; in senso contrario, oltre a TORRENTE, op. cit., p. 13 e ss., CARNEVALI, Le donazioni, in Tratt. Rescigno, VI, 1997, p. 486 e ss.; GARDANI CONTURSI LISI, Delle donazioni, in Comm. cod. civ. Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 47 e ss.; CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 1982, p. 833.

[nota 8] In tale senso, LENZI, op. cit., p. 219, secondo cui nei casi di donazione obbligatoria di modico valore la traditio può essere realizzata materialmente attraverso la consegna del documento rappresentativo del rapporto instaurato animo donandi.

Per la verità, sembra che, nel caso di specie, l'applicazione dell'art. 783 c.c. necessariamente richieda un'interpretazione estensiva della norma, assimilando alla consegna della cosa materiale, più propriamente, l'esecuzione della prestazione da parte del donante per spirito di liberalità, senza necessità di equiparare la consegna del documento che costituisce il titolo dell'obbligazione alla consegna della res nei casi di donazione con effetti reali.

[nota 9] TORRENTE, op. cit. , p. 13.

[nota 10] SCOZZAFAVA, Il comodato, in Tratt. Rescigno, XII, Torino, 1985, p. 619.

[nota 11] App. Milano, 17 dicembre 2004, in Nuov. giur. civ. comm., 2005, I, p. 688 e ss., con nota di A. LEONARDI, «L'uso gratuito dell'appartamento attribuito da de cuius al figlio rientra nell'asse ereditario ai fini della determinazione della porzione disponibile».

[nota 12] La lettura della motivazione porta tuttavia a circoscrivere l'affermazione della massima secondo cui lo spirito di liberalità è in re ipsa nella stipulazione del comodato, inducendo piuttosto a ritenere che il tribunale ammetta nel caso concreto che sia offerta una prova contraria (es. comodato stipulato per esigenze di custodia e conservazione del bene; per favorire la successiva conclusione di una compravendita, ecc.).

[nota 13] La legittimità di tale tipo di donazione obbligatoria è affermata da BIONDI, op. cit., p. 393 e ss.; LENZI, op. cit., p. 219; TAVASSI, La donazione, AA.VV., coordinato da Cataudella, Milano, 1996, p. 211 e ss.; BONILINI, «Donazione obbligatoria di non fare», in Contratti, 1998, p. 195 e ss.

[nota 14] In tale senso, BONILINI, «Donazione obbligatoria …», cit., p. 196.

[nota 15] TORRENTE, op. cit., soprattutto p. 29 e ss.

PUBBLICAZIONE
» Indice
» Approfondimenti
ARTICOLO
» Note