Trust interno e liberalità non donativa
Trust interno e liberalità non donativa
di Saverio Bartoli
Avvocato in Firenze

Inquadramento del trust interno fra le liberalità non donative; forma e struttura del negozio

La funzione in concreto svolta dall'attribuzione in favore del beneficiario prevista dal disponente nell'atto istitutivo di un trust inter vivos (e quindi, in definitiva, la causa di essa) può essere la più varia, a seconda del modo di atteggiarsi dei rapporti giuridici fra costoro: a titolo meramente esemplificativo, tramite essa il disponente può, infatti, adempiere ad una propria obbligazione nei confronti del beneficiario, garantirne l'adempimento ovvero effettuare una liberalità [nota 1].

Interessa in questa sede soffermarsi proprio su quest'ultima ipotesi, nella quale il trust viene correntemente qualificato come "trust liberale" [nota 2] e ben può essere inserito all'interno dell'ampia categoria delle liberalità non donative, la quale (menzionata nell'art. 809 c.c.) include - com'è noto - le ipotesi nelle quali l'impoverimento di un soggetto ed il correlato arricchimento di altro soggetto si producono per effetto non già di un tipico contratto di donazione, bensì di un diverso meccanismo negoziale [nota 3].

Più precisamente, appare corretta la diffusa qualificazione del trust liberale in termini di donazione indiretta [nota 4] (categoria quest'ultima costituente species del genus liberalità non donativa) [nota 5], poiché in esso l'arricchimento di un soggetto (il beneficiario) viene realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee) [nota 6] il titolare del quale (titolare, altresì, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust) dovrà far pervenire al beneficiario i vantaggi patrimoniali che l'atto istitutivo prevede [nota 7].

Questa è la ragione per la quale, da un punto di vista formale, appare corretto ritenere che in un trust liberale (ferma l'esigenza dell'adozione, per esso, di una forma non solo scritta, come impone l'art. 3 della Convenzione de L'Aja, ma anche idonea a consentire la pubblicità del vincolo e, con essa, l'opponibilità ai terzi) [nota 8] non sia necessaria la forma prescritta dagli artt. 782 c.c. e 48 L.N. in tema di donazione, con particolare riguardo alla presenza dei testimoni [nota 9].

è infatti pacifico [nota 10] che le liberalità non donative siano esenti dalle prescrizioni formali proprie della donazione, soggiacendo in punto di forma alle regole proprie del negozio effettivamente utilizzato.

Quanto alla struttura del trust liberale, appaiono utilizzabili le riflessioni che si suole fare con riguardo al trust in generale.

Occorre premettere che, nel suo ordinamento di provenienza (cioè quello inglese), il trust tradizionalmente si atteggia (per ragioni storiche e tecniche che non è possibile riferire in questa sede) [nota 11] quale negozio unilaterale non solo nell'ipotesi di trust autodichiarato, ma anche in quella postulante un trasferimento dei beni ad un trustee.

In tale ottica, infatti, il trust si perfeziona per effetto della sola dichiarazione negoziale del disponente, il quale, al tempo stesso, istituisce il trust, trasferisce i beni al trustee (che ipso jure ne diviene proprietario) ove previsto ed attribuisce la posizione beneficiaria al soggetto da egli individuato (che la acquista ipso jure).

Quanto al trustee eventualmente designato, quindi, la sua accettazione dell'incarico, lungi dal fondersi con la dichiarazione del disponente (come accadrebbe in un contratto fra costoro), rimarrà distinta rispetto ad essa; il rifiuto dell'incarico, invece, implicherà che il trustee perda la titolarità dei beni trasferitigli dal disponente.

Quanto poi al beneficiario, se egli accetti la posizione beneficiaria si precluderà una successiva rinunzia (così consolidando il suo acquisto), mentre in caso contrario dovrà rinunziare ad essa.

Nel nostro contesto civilistico, se la visione del trust autodichiarato come negozio unilaterale appare incontestata, nel caso di trasferimento di beni ad un trustee la ricostruzione della fattispecie come negozio unilaterale piuttosto che come contratto fra disponente e trustee non è del tutto pacifica [nota 12].

Il problema [nota 13] appare comunque di limitata rilevanza pratica, poiché viene sistematicamente superato facendo presenziare il trustee all'istituzione del trust, sì da renderne contestuale l'accettazione dell'incarico.

Parebbe esservi invece sostanziale concordia [nota 14] sul fatto che il beneficiario sia estraneo al trust ed acquisisca ipso jure, salva rinunzia, la posizione beneficiaria [nota 15].

Ciò non parrebbe, comunque, dover suscitare soverchie perplessità, ove si consideri che la dinamica dell'acquisto ipso jure da parte di un soggetto estraneo al negozio, salva sua accettazione (che consolida l'acquisto) ovvero rinunzia (che importa perdita di quanto acquistato) appare analoga a quella che, nel nostro diritto, si verifica in altri istituti, come il contratto a favore di terzo (cfr. art. 1411 comma 2° c.c.) ed il legato (cfr. art. 649 c.c.) [nota 16].

Il problema delle clausole del trust liberale

Come si è altrove osservato [nota 17], sin dall'entrata in vigore in Italia della Convenzione de L'Aja (avvenuta il 1° gennaio del 1992), la gran parte degli studi dottrinali e degli interventi giurisprudenziali in tema di trust interno si è occupata essenzialmente di due temi, l'ammissibilità o meno di tale istituto alla luce dell'art. 13 e l'ammissibilità o meno della sua pubblicità ai fini dell'opponibilità ai terzi alla luce dell'art. 12.

Trattasi di temi su cui non è possibile soffermarsi in questa sede, ma che dottrina e giurisprudenza ormai dominanti risolvono in senso positivo [nota 18].

Ben più trascurato risulta invece il tema del rispetto, da parte di un trust interno, delle norme imperative del foro, tema la cui disamina è palesemente imposta dall'art. 15 paragrafo primo della stessa Convenzione.

Troppo spesso, infatti, coloro che si occupano di trust interni appaiono affidarsi al sillogismo che segue:

in base alla Convenzione, il trust interno è regolato dalla legge straniera prescelta;

tale legge regolatrice straniera ammette la clausola che, nel caso di specie, si vorrebbe inserire nell'atto istitutivo di un trust interno;

la clausola in questione è pertanto da considerarsi ammissibile anche nell'atto istitutivo di un trust interno.

La fallacia (e quindi la pericolosità) di un siffatto ragionamento discende dal fatto che esso non tiene alcun conto del citato art. 15 paragrafo primo.

Il problema si pone in tutta la sua gravità per il trust liberale: è noto, infatti, che le liberalità non donative tendenzialmente soggiacciono alle norme materiali in tema di donazione [nota 19] e che fra queste ultime vi sono numerose norme imperative.

Nel prosieguo di questa indagine, pertanto, si esamineranno (senza alcuna pretesa di completezza) sia alcune clausole che, pur diffusamente utilizzate dalla prassi dei trusts interni liberali (anche perché sovente suggerite da formulari [nota 20]), destano serie perplessità proprio alla luce di dette norme imperative, sia alcune clausole l'utilizzo delle quali, pur probabilmente ammissibile, non appare ad oggi esser stato munito in dottrina di un qualche fondamento di diritto positivo [nota 21].

Clausole incidenti sulla designazione di beneficiari del trust liberale

I problemi posti dal trust liberale che inizialmente non individua i beneficiari ed in cui il disponente

riserva a se stesso o ad un terzo il potere di designarli

A) Problema della nullità (o comunque del mancato perfezionamento) della fattispecie istitutiva

Nei trusts ora in esame il disponente ha omesso di individuare ab initio dei beneficiari: trattasi quindi di trusts "in incertam personam".

Autorevole dottrina [nota 22] ha ritenuto validi siffatti trusts in quanto gli stessi si convertirebbero in altrettanti resulting trust aventi quale beneficiario il disponente, ovvero (se costui sia deceduto) i suoi eredi [nota 23].

L'osservazione però non persuade, non tanto perché l'ammissibilità del resulting trust nel nostro ordinamento è (visto il tenore degli artt. 3 e 20 della Convenzione) discussa [nota 24], quanto e soprattutto perchè il resulting trust è un trust distinto dal trust negoziale a suo tempo istituito dal disponente: esso ha infatti fonte in una sentenza che, in applicazione di una regola di equity, accerta l'esistenza di un obbligo restitutorio del trustee quale conseguenza – appunto – dell'invalidità o della sopravvenuta impossibilità di detto trust di fonte negoziale.

Affermare che un trust negoziale non è nullo perché si converte in resulting trust, pertanto, significa in realtà ammettere che detto trust negoziale è ab initio improduttivo di qualunque effetto.

A tutto concedere, un trust in cui il disponente si riserva il potere di individuare in seguito i beneficiari potrebbe essere inteso (invece che come negozio nullo) come una fattispecie a formazione progressiva non ancora perfezionatasi: come tale, comunque, fino al momento del suo perfezionamento (cioè fino a quando non vengano identificati i beneficiari) esso non parrebbe in grado di produrre il caratteristico effetto finale del trust, dato dalla separazione patrimoniale [nota 25].

Tale ipotesi ricostruttiva (mossa da un indubbio "favor" nei confronti del negozio) pare percorribile anche per un trust liberale in cui il potere di individuare in seguito i beneficiari venga dal disponente attribuito ad un terzo: in tal caso, però, tale clausola dovrà fare altresì i conti – per le ragioni che si esporranno in seguito – con il cosiddetto "principio della personalità della volizione liberale".

B) Problema del rispetto del cosiddetto "principio di personalità della volizione liberale"

Come detto, il problema in oggetto parrebbe porsi allorché il disponente, oltre a non individuare beneficiari, demandi ad un terzo il compito di farlo [nota 26]: in tema di donazione, infatti, vige il principio della personalità della volizione liberale [nota 27].

Viene al riguardo in questione l'art. 778, comma 1°, c.c., il quale vieta [nota 28] l'attribuzione a terzi del potere di individuare il beneficiario o l'oggetto della liberalità [nota 29].

I temperamenti al divieto sono contenuti (rispettivamente: quanto al beneficiario e quanto all'oggetto) nei due successivi commi della norma citata: è possibile, infatti, attribuire al terzo il potere di scegliere il beneficiario all'interno di una "rosa" di soggetti o enti ovvero fra gli appartenenti a determinate categorie di persone indicate dal donante [nota 30], come pure il potere di scegliere l'oggetto della liberalità all'interno di una "rosa" di oggetti indicati dal donante ovvero entro i limiti di valore dal donante stesso fissati [nota 31].

Appare ragionevole ritenere che, come del resto è stato precisato da autorevole dottrina, l'art. 778 c.c. si applichi in via analogica - si badi - anche alle donazioni indirette [nota 32] [nota 33].

Alla luce di quanto si è osservato, pare possibile così concludere:

a. il principio di personalità della volizione liberale deve ritenersi applicabile, stante la sua natura di donazione indiretta, al trust liberale [nota 34];

b. il trust di cui sub a), ove non individui i beneficiari ed attribuisca ad un terzo il compito di individuarli può – al limite – essere considerato (per le ragioni già esposte) come un negozio in corso di perfezionamento (e non come un negozio nullo) solo nel caso in cui la clausola che attribuisce al terzo il potere in questione si conformi al principio di cui sub a).

In altri termini, detta clausola sarà conforme a detto principio solo se, come si evince dall'art. 778, comma 2°, c.c., il disponente abbia attribuito al terzo il potere di scegliere i beneficiari all'interno di una rosa di soggetti ovvero di una categoria di soggetti [nota 35].

Parrebbero perciò nulle tutte le clausole che fuoriescono dal suddetto schema, con particolare riguardo a quelle attributive al terzo di un cosiddetto general power of appointment, cioè del potere di designare come beneficiario un qualunque soggetto [nota 36].

C) Problema del coordinamento fra principio di personalità della volizione e regole sulla capacità a ricevere per donazione

Occorre precisare che, se anche la clausola attributiva al terzo del potere di individuare i beneficiari si conformi al principio di personalità della volizione liberale, la selezione dei beneficiari all'interno della categoria indicata dal disponente parrebbe dover essere effettuata dal terzo nel rispetto, altresì, del principio di capacità a ricevere per donazione [nota 37].

In base all'art. 784, comma 1°, c.c., infatti, possono ricevere per donazione i nascituri concepiti ed i nascituri non concepiti, ma in quest'ultimo caso è necessario che costoro siano figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione.

Non sembra quindi possibile dubitare dell'applicabilità dell'art. 784, comma 1°, c.c. al trust liberale, stante la sua natura di donazione indiretta: ove infatti si consideri che tale norma è nata dall'esigenza di contemperare l'apprezzabile interesse del disponente ad effettuare la liberalità anche a favore di soggetti non ancora nati (ed addirittura neppure concepiti) con l'esigenza – di indubbia natura pubblicistica e per certi versi affine a quella che giustifica il divieto di fedecommesso – di non tenere troppo a lungo in sospeso la titolarità dell'attribuzione (come accadrebbe se potessero esserne beneficiari senza limiti di sorta i non concepiti) [nota 38], appare evidente come le donazioni indirette non possano sottrarsi all'applicazione della medesima.

Il problema si pone, ad esempio, ove l'atto istitutivo abbia indicato come categoria «i discendenti del disponente nati e nascituri nel periodo di durata del trust» ovvero «i discendenti del soggetto X nati e nascituri nel periodo di durata del trust» [nota 39].

Si immagini allora che Tizio, disponente di un trust liberale regolato dalla legge inglese e destinato a durare 80 anni, abbia attribuito ad un terzo il potere di individuarne i beneficiari fra i discendenti dello stesso Tizio e che, al tempo dell'istituzione del trust, Tizio abbia un figlio Caio ed un nipote ex filio Sempronio.

Si immagini altresì che, nel corso del trust, Sempronio generi un figlio Mevio, il quale a propria volta generi un figlio Lucio.

Pare a chi scrive che il terzo non possa scegliere, quali beneficiari del trust, né Lucio né suoi eventuali discendenti: Lucio, infatti, è nato da una persona (Mevio) che non era vivente al tempo dell'istituzione del trust da parte di Tizio.

L'unica possibilità di sottrarsi a tale conclusione parrebbe quella di sostenere - allo scopo di dilatare la cerchia dei discendenti di Tizio "selezionabili" dal terzo - che in questo caso l'espressione "determinata persona vivente al tempo della donazione" (contenuta nell'art. 784, comma 1°, c.c.) vada interpretata come «determinata persona vivente al tempo in cui il terzo individua il beneficiario», poiché quello è il momento in cui concretamente viene effettuata la liberalità indiretta in questione.

Ad una siffatta lettura dell'art. 784, comma 1°, c.c. parrebbe, però, opporsi la sopra accennata ratio pubblicistica della norma, che sembra sottrarla a tale interpretazione estensiva.

Trust liberale che inizialmente indica i beneficiari, ma in cui il disponente riserva a se stesso

o ad un terzo il potere di modificarli

1. Premessa

In questo caso, l'atto istitutivo del trust individua inizialmente dei beneficiari, ma prevede la possibilità che costoro vengano successivamente [nota 40] mutati.

Tale modifica ex post potrà assumere, secondo la volontà del disponente, le configurazioni più varie: essa infatti potrà comportare l'eliminazione, la sostituzione o l'aggiunta di uno o più beneficiari [nota 41].

2. I problemi posti dal trust liberale in cui la modifica dei beneficiari inizialmente individuati - risolvendosi nell'eliminazione o sostituzione di uno o più di costoro - comporta la revoca di disposizioni beneficiarie

A) Premessa

Il problema oggetto di questo § si pone nel caso di trust liberale in cui il disponente o il terzo possano eliminare ovvero sostituire, con una semplice dichiarazione di volontà, un beneficiario in precedenza individuato, poiché il concreto esercizio di tale potere implica la revoca della disposizione beneficiaria a favore, rispettivamente, del soggetto eliminato ovvero sostituito.

B) Ipotesi in cui il potere di revoca della disposizione beneficiaria compete al disponente

Nel caso in cui il potere di eliminazione o sostituzione spetti al disponente [nota 42], occorre in primo luogo evidenziare che ad una clausola siffatta parrebbe potersi alternativamente attribuire la natura giuridica di condizione risolutiva meramente potestativa (in quanto la pura e semplice volontà del disponente [nota 43] può porre nel nulla, ex post, la disposizione beneficiaria) ovvero di clausola attributiva di un potere di recesso (in quanto il disponente ha il diritto potestativo di porre nel nulla, ex post, la disposizione beneficiaria).

Più precisamente, ove la disposizione beneficiaria si riferisca ad un beneficiario di reddito e sia strutturata in modo tale che costui, nel momento in cui il disponente pone nel nulla detta disposizione, ha già iniziato a godere di redditi del trust [nota 44], la clausola pare inquadrabile (concernendo un rapporto di durata) o come condizione risolutiva meramente potestativa che, ai sensi dell'art. 1360, comma 2°, c.c., produce effetto ex nunc, ovvero come clausola di recesso ex art. 1373, comma 2°, c.c., parimenti operante ex nunc.

Nell'ipotesi, invece, in cui la disposizione beneficiaria si riferisca ad un beneficiario di reddito che, nel momento in cui il disponente la pone nel nulla, non ha ancora iniziato a godere di redditi del trust [nota 45], come pure nell'ipotesi di disposizione beneficiaria relativa ad un beneficiario finale [nota 46], la clausola parrebbe aver natura (concernendo un rapporto che non ha ancora avuto ancora un principio di esecuzione) o di condizione risolutiva meramente potestativa che, ai sensi dell'art. 1360, comma 1°, (cioè alla luce della volontà del disponente o comunque della natura del rapporto: è il caso del beneficiario finale) e comma 2° c.c. (è il caso del beneficiario di reddito) c.c. opera ex tunc, ovvero come clausola di recesso ex art. 1373, comma 1°, c.c., parimenti operante ex tunc.

A prescindere dalla qualificazione che si decida di dare alla clausola [nota 47], appare comunque possibile concludere per la sua validità, per i motivi che si vanno qui di seguito ad esporre.

Ove si opti per la tesi della condizione risolutiva meramente potestativa, occorre dare preliminarmente conto del fatto che – com'è noto – si discute se essa rientri o meno nella previsione dell'art. 1355 c.c., che tace sul punto e dichiara nullo il negozio sottoposto, invece, a condizione sospensiva meramente potestativa.

Secondo parte della dottrina [nota 48] la risposta dev'essere affermativa ed il negozio sottoposto ad una condizione siffatta è nullo, anche alla luce di quanto previsto dall'art. 1354, comma 1°, c.c. in tema di condizione risolutiva illecita.

Secondo altro orientamento dottrinale [nota 49], invece, la nullità colpisce soltanto la clausola condizionale, ma non il negozio nel suo complesso.

La giurisprudenza [nota 50], però, appare costante nel ritenere valida la clausola in questione, sia perché l'art. 1355 c.c. non la menziona, sia perché l'art. 1373 c.c. ammette il recesso convenzionale, il quale parimenti consente alla parte di sciogliersi dal vincolo negoziale con una mera dichiarazione unilaterale di volontà [nota 51].

Ferme queste preliminari osservazioni, occorre però considerare che, nel caso in esame, la condizione risolutiva meramente potestativa concerne non già un qualsiasi negozio inter vivos, bensì un negozio (il trust liberale) avente natura di donazione indiretta.

In tale contesto, infatti, fermo il divieto della condizione sospensiva meramente potestativa [nota 52], il problema dell'ammissibilità della condizione risolutiva meramente potestativa [nota 53] dev'essere oggetto di una valutazione particolarmente attenta, alla luce della controversa questione relativa alla residua portata, nel codice vigente, del tradizionale principio d'irrevocabilità della donazione.

Un dato di fatto appare certo: detto tradizionale principio (donner et retenir ne vaut), proveniente dal diritto consuetudinario francese e - fra l'altro - derivato da un'erronea interpretazione di fonti romanistiche [nota 54], venne riprodotto nell'art. 1050 del codice civile italiano del 1865 [nota 55], ma è scomparso dalla nozione di donazione fornita ora dall'art. 769 c.c. [nota 56]

A dispetto di tale dato testuale, un primo orientamento dottrinale [nota 57] ha ritenuto che alla donazione non possa apporsi una condizione risolutiva siffatta per le seguenti ragioni:

a. l'eliminazione del riferimento all'irrevocabilità lascerebbe comunque ferma l'applicabilità alla donazione dell'art. 1372 c.c. (che escluderebbe che un'iniziativa unilaterale possa sciogliere un vincolo contrattuale) [nota 58];

b. vi sarebbe equivalenza funzionale fra tale condizione e la condizione sospensiva meramente potestativa vietata dall'art. 1355 c.c. [nota 59];

c. non potrebbe ricavarsi argomento contrario dal fatto che l'art. 790 c.c. (relativo alla donazione con riserva di disporre) consente al donante, con propria unilaterale iniziativa, di riappropriarsi di parte dei beni donati, in quanto, anche a voler ammettere che si trattasse di clausola condizionale, si tratterebbe di condizione risolutiva potestativa, e non meramente potestativa [nota 60];

d. la clausola non potrebbe essere ricostruita come clausola di recesso, stante l'inammissibilità del recesso nella donazione [nota 61].

Pare però preferibile l'orientamento favorevole a tale peculiare condizione risolutiva [nota 62], secondo il quale:

a. l'avvenuta eliminazione - nell'art. 769 c.c. - di qualunque riferimento all'irrevocabilità della donazione implica che un siffatto negozio sia ora soggetto alle regole generali in tema di contratto, cioè - nel caso di specie - all'art. 1355 c.c., che vieta soltanto la condizione sospensiva meramente potestativa [nota 63];

b. l'ammissibilità di detto tipo di condizione si evince anche dall'art. 790 c.c., in quanto la donazione con riserva di disporre di parte dei beni donati altro non è [nota 64] che una donazione sottoposta - per una porzione del suo oggetto - ad una condizione risolutiva meramente potestativa [nota 65] [nota 66].

La preferibilità della tesi favorevole a siffatta condizione risolutiva emerge con ancor maggiore evidenza ove si consideri che, come subito si vedrà, pare difficile escludere [nota 67] l'ammissibilità di una clausola di recesso, la quale parimenti consentirebbe al donante di sciogliersi unilateralmente dal vincolo negoziale.

Nel caso in cui si intenda - appunto - attribuire alla clausola in esame la natura di clausola di recesso, occorrerà parimenti domandarsi se (stante la natura liberale del trust e la controversa residua portata del principio d'irrevocabilità della donazione) una clausola del genere sia ammissibile.

Secondo un orientamento [nota 68], la soluzione dev'essere negativa in quanto:

a. l'avvenuta eliminazione dall'attuale art. 769 c.c. del riferimento all'irrevocabilità della donazione renderebbe comunque applicabile la norma generale di cui all'art. 1372 c.c., che vieta di sciogliersi unilateralmente da un contratto;

b. l'art. 1373 c.c., prevedente appunto la clausola di recesso, sarebbe inapplicabile perché incompatibile con la sussistenza dello spirito di liberalità del donante e di un arricchimento del donatario [nota 69].

Parebbe però preferibile l'orientamento favorevole alla clausola di recesso [nota 70], perché l'eliminazione nel codice vigente del riferimento all'irrevocabilità fa sì che detto negozio sia sul punto soggetto alle regole generali, fra le quali figura appunto l'art. 1373 c.c. (cui fa implicito rinvio lo stesso art. 1372 c.c., allorché afferma che un contratto può sciogliersi, oltre che per mutuo consenso, per «cause ammesse dalla legge»).

Questa impostazione più liberale, d'altro canto, è stata accolta anche da un lontano (e, a quanto consta, unico) precedente della Suprema Corte [nota 71]: essa infatti, posta di fronte ad una donazione revocabile dal donante ad nutum, premesso che una siffatta liberalità «sotto il codice civile del 1865 (e, secondo taluni, anche secondo il codice vigente) era ritenuta di nessuna efficacia giuridica perché la donazione definita nell'art. 1150» del previgente codice «era caratterizzata dalla irrevocabilità», conclude affermando che si tratta di liberalità non incompatibile con il negozio di donazione.

Inutile evidenziare che una siffatta impostazione liberale, sposata dalla Corte di legittimità, pare fornire supporto anche alla tesi che ammette la condizione risolutiva meramente potestativa, ché anche in quest'ultimo caso trattasi di ammettere, in definitiva, che il donante possa sciogliersi dal vincolo negoziale con una mera iniziativa unilaterale.

Al termine dell'articolata analisi che precede pare pertanto possibile, in estrema sintesi, ammettere la validità di una clausola che attribuisca al disponente il potere di eliminare o sostituire beneficiari [nota 72].

C) Ipotesi in cui il potere di revoca della disposizione beneficiaria compete ad un terzo

Nel caso in cui il potere di eliminazione o sostituzione di beneficiari di un trust liberale spetti, invece che al disponente, ad un terzo [nota 73], finiscono per intrecciarsi due problematiche intimamente connesse: quella della condizione meramente potestativa si voluerit [nota 74] nella donazione e quella (già esaminata) della personalità della volizione liberale.

Se è vero che autorevole dottrina ha ritenuto di escludere l'illiceità della condizione si voluerit nella donazione [nota 75], resta il fatto che la soluzione contraria parrebbe più prudente [nota 76], in quanto in tale contesto esiste, come si è detto, il principio della personalità della volizione liberale.

Dall'eventuale illiceità della clausola discenderebbe quindi la nullità non solo della condizione, ma anche della disposizione cui essa accede: a siffatte conclusioni conduce sia l'art. 778 c.c., che delimita in modo preciso l'ambito di possibile intervento della volontà di un terzo in una donazione, sia l'art. 1354, comma 1°, c.c., che dichiara nullo il negozio cui è apposta una condizione illecita [nota 77].

Alla luce di quanto si è fin qui osservato, parrebbe a prima vista necessario concludere che la clausola di un trust liberale la quale, dopo aver individuato i beneficiari, attribuisca ad un terzo il potere di eliminarli o di sostituirli (in tutto o in parte), sia sempre affetta da nullità, implicando l'attribuzione a detto terzo di un potere di revoca di disposizioni beneficiarie che le rende sottoposte ad una sorta di condizione si voluerit [nota 78].

A ben guardare, però, la clausola in oggetto parrebbe poter sfuggire alla sanzione di nullità ove sia strutturata in modo tale da non confliggere con il principio di personalità della volizione liberale, cioè nel caso in cui - sulla falsariga di quanto si è a suo tempo osservato - essa sia in pratica equiparabile ad una clausola che conferisce al terzo il potere di scegliere i beneficiari all'interno di una rosa di soggetti ovvero di una categoria di soggetti.

Tanto per fare degli esempi, una clausola che individua Tizio, Caio e Sempronio come beneficiari ed attribuisce a Mevio il potere di eliminare uno o più di costoro (ma non tutti), parrebbe valida in quanto assimilabile ad una clausola in base alla quale il terzo ha il potere di scegliere i beneficiari all'interno di una rosa di soggetti individuata dal disponente; al contrario, se detta clausola attribuisce al terzo il potere di eliminare tutti i beneficiari in questione [nota 79], essa difficilmente potrà sottrarsi alla sanzione di nullità [nota 80].

Quanto poi alle clausole attributive al terzo di un potere di sostituzione (in tutto o in parte) di beneficiari, parrebbero doversi ritenere nulle quelle in cui detto potere di sostituzione è illimitato (esempio: i beneficiari sono Tizio, Caio e Sempronio, ma Mevio potrà sostituire costoro, in tutto o in parte, con altri soggetti) e valide quelle in cui il terzo può, invece, scegliere i sostituti all'interno di una categoria o di una rosa di soggetti (esempio: i beneficiari sono Tizio, Caio e Sempronio, ma Mevio potrà sostituire costoro, in tutto o in parte, con un soggetto da egli scelto fra Lucio e Filano).

Occorre altresì precisare che in certe ipotesi, per ragioni analoghe a quelle viste in precedenza, se anche la clausola attributiva al terzo del potere di individuare i beneficiari-sostituti si conformi al principio di personalità della volizione liberale, la selezione di detti beneficiari all'interno della categoria indicata dal disponente parrebbe dover essere effettuata dal terzo nel rispetto del principio di capacità a ricevere per donazione.

Si pensi all'esempio che segue: i beneficiari sono Tizio, Caio e Sempronio, ma Mevio potrà sostituire costoro, in tutto o in parte, con un soggetto da egli scelto fra i discendenti del disponente.

In un caso del genere, il terzo dovrebbe poter selezionare, quale beneficiario-sostituto, esclusivamente un discendente che sia figlio di una persona vivente al tempo dell'istituzione del trust.

Trust liberale e capacità di ricevere per donazione

Il principio di capacità a ricevere per donazione, sancito dall'art. 784, comma 1°, c.c., è già venuto in questione con riferimento a fattispecie in cui il soggetto che istituisce il trust individua una categoria di possibili beneficiari avente determinate caratteristiche (esempio: "i discendenti del disponente") ed attribuisce ad un terzo il potere di selezionare, all'interno di essa, beneficiari del trust: si sono infatti esaminate le ipotesi in cui ciò accade in un trust che inizialmente non individua alcun beneficiario ed in un trust che individua beneficiari ma consente al terzo di sostituirli.

In casi del genere, come si è visto, tale potere attribuito al terzo parrebbe doversi conformare a detto principio.

Il principio in esame viene però in questione anche in un contesto diverso, cioè in presenza di un trust in cui il disponente si limiti ad indicare come beneficiari i soggetti appartenenti ad una categoria siffatta: anche in questo caso, infatti, l'interpretazione della clausola dovrà conformarsi al principio in oggetto.

In altri termini, se ad esempio colui che istituisce un trust liberale ha individuato come beneficiari, ab initio oppure ex post, "i discendenti del disponente", potranno considerarsi come beneficiari soltanto:

a. i discendenti del disponente nati o concepiti al tempo dell'istituzione del trust;

b. quanto ai discendenti del disponente non ancora concepiti nel momento indicato sub a), coloro che siano figli del disponente ovvero coloro che siano figli di un discendente del disponente vivo al tempo dell'istituzione del trust [nota 81].

Il trust discrezionale quanto all'erogazione dei redditi ed il principio di personalità della volizione liberale

Premessa

Interessa esaminare in questa sede quei trusts "discrezionali" [nota 82] in cui il disponente indica una certa categoria o una certa rosa di beneficiari e conferisce ad un terzo (di solito trattasi del trustee):

a. il potere di decidere a chi di essi e/o in quale misura fra essi distribuire il reddito dei beni in trust;

ovvero

b. il potere di decidere se distribuire o meno a costoro il reddito dei beni in trust e, in caso affermativo, a chi di essi e/o in quale misura fra essi distribuirlo.

Nel caso di trust liberale, occorre chiedersi se le clausole in questione siano o meno conformi al principio di personalità della volizione liberale: in quella sub a), infatti, la volontà di un soggetto diverso dal disponente è destinata ad incidere sull'individuazione del destinatario e/o sull'oggetto della liberalità, mentre in quella sub b) tale volontà è idonea altresì a condizionare, a monte, lo stesso "an" dell'erogazione liberale.

Analisi della clausola sub a)

La clausola sub a) appare conforme a detto principio per quanto attiene al profilo dell'individuazione del destinatario della liberalità: il terzo è infatti chiamato a selezionare uno o più soggetti all'interno di una categoria indicata dal disponente.

Maggiori perplessità sorgono per quanto invece attiene al profilo dell'individuazione dell'oggetto della liberalità: da una norma come l'art. 778, comma 3°, c.c., infatti, emerge (per quanto rileva nella presente sede) che la disposizione inter vivos è valida solo se al terzo è conferito il potere di sceglierne l'oggetto o la quantità in conformità ai criteri direttivi o entro i limiti di valore indicati dal disponente.

Ne discende che la clausola sub a), laddove il disponente non abbia espressamente limitato - mediante appunto l'indicazione di criteri direttivi [nota 83] o di limiti di valore [nota 84] - la discrezionalità del trustee concernente l'erogazione dei redditi del trust, appare di dubbia validità.

Analisi della clausola sub b) [nota 85]

La clausola sub b), nella parte in cui affida ad un terzo la decisione "se" l'erogazione debba o meno essere effettuata, parrebbe far dipendere da costui la stessa efficacia del negozio liberale posto in essere dal disponente.

Sembrerebbe in tal modo porsi nuovamente il problema della liberalità sottoposta a condizione si voluerit [nota 86] (e della nullità della relativa clausola), che merita approfondito esame.

Nel caso in cui il trustee abbia il potere di decidere se erogare o meno (in tutto o in parte) il reddito del trust, ciò significa che egli, laddove opti (in tutto o in parte) per la non erogazione, potra decidere se "accumulare" ovvero "accantonare" detto reddito non erogato.

Nel primo caso, il reddito non erogato in quanto "accumulato" diviene "capitalizzato", cioè entra a far parte dei beni-capitali oggetto del trust [nota 87] e, come tale, diviene destinato (unitamente agli altri beni-capitali in trust) ai beneficiari finali [nota 88].

Una considerazione preliminare s'impone: laddove il trust non preveda, per ragioni originarie o sopravvenute, beneficiari finali, si verificheranno i presupposti di un resulting trust ed il reddito accumulato spetterà agli eredi o legatari del disponente.

Pare pertanto difficile negare che, in tal caso, la clausola contenga una liberalità in favore dei beneficiari di reddito sottoposta a condizione si voluerit: avvalendosi del suo potere di accumulazione, infatti, il trustee è arbitro dell'an dell'erogazione in favore di costoro [nota 89].

Se invece il trust preveda beneficiari finali, appare necessario distinguere a seconda che vi sia o meno coincidenza fra i soggetti beneficiari di reddito e quelli beneficiari finali.

Nella prima ipotesi, la clausola in esame finisce per attribuire al terzo-trustee il potere non già di decidere l'an dell'erogazione del reddito, bensì di differire detta erogazione.

Se ciò pare sufficiente per escludere la natura di condizione si voluerit della clausola (e dunque la sua nullità sotto tale profilo), è dubbio che valga a sottrarla - altresì - alla nullità per violazione del più generale principio della personalità della volizione liberale: l'art. 778 c.c., infatti, non prevede che l'autore della liberalità possa attribuire ad un terzo un siffatto potere di differimento.

Nel caso, invece, in cui i beneficiari di reddito ed i beneficiari finali siano soggetti diversi, la clausola in esame parrebbe a prima vista svolgere la pratica funzione di una condizione si voluerit apposta all'erogazione del reddito in favore dei beneficiari di reddito: esercitando il potere di accumulazione, infatti, il trustee esclude costoro dal beneficio.

A ben guardare, però, poiché la scelta di accumulare il reddito implica, altresì, la scelta di attribuirlo ai beneficiari finali invece che ai beneficiari di reddito, si deve da un lato escludere che ricorra una condizione si voluerit e dall'altro evidenziare che la clausola appare conforme anche al principio di personalità della volizione liberale: vi è infatti una rosa di soggetti (beneficiari di reddito e beneficiari finali) individuata a monte dal disponente ed all'interno della quale il trustee è chiamato ad effettuare la sua scelta.

Quanto poi al reddito non erogato dal trustee in quanto "accantonato", occorre osservare che esso conserva la sua natura di reddito, cioè continua ad essere destinato, sia pure in un momento successivo [nota 90], ai beneficiari di reddito [nota 91].

Ne discende che, in tal caso, la clausola sub b) attribuisce al terzo-trustee il potere non già di decidere l'an dell'erogazione del reddito, bensì di differire detta erogazione: a tale riguardo vale pertanto quanto si è riferito in relazione all'analogo potere di differimento attribuito al trustee dalla clausola a) [nota 92].

La clausola b), infine consente al trustee di decidere di erogare ai beneficiari di reddito, in tutto o in parte, il reddito del trust: ove il trustee decida in tal senso, pertanto, la clausola gli consente anche di decidere a chi ed in quale misura erogare tale reddito e, come tale, essa appare porre le stesse problematiche viste per la clausola sub a).

Clausola mirante a privare il rappresentante legale o il curatore di un soggetto incapace d'agire della possibilità di amministrare la posizione beneficiaria di costui

Premessa

Non è infrequente reperire in un trust interno una clausola del genere [nota 93], la quale è generalmente ammessa da varie leggi straniere regolatrici del trust.

Un caso eclatante al riguardo è rappresentato dall'art. 100, comma 2°, di una legge di Cayman Islands [nota 94], secondo il quale - appunto - i diritti dei beneficiari possono essere esercitati nei confronti del trustee esclusivamente dal soggetto all'uopo designato dal disponente [nota 95].

La validità di una clausola siffatta, la quale parrebbe esser fonte di una sorta di "rappresentanza atipica", desta serie perplessità.

Nel caso di beneficiario del trust totalmente incapace, vi sarebbe infatti un soggetto che agisce in sua vece il quale è diverso dal suo legale rappresentante e la cui investitura ha fonte in una dichiarazione di volontà proveniente da un soggetto "privato" (il disponente).

Analoghe sono poi le perplessità suscitate dalla clausola nel caso del beneficiario del trust rientrante in tipologie di incapacità meramente parziale, poiché essa mira ad "esautorare" sia lo stesso beneficiario del trust (quanto agli atti che egli potrebbe compiere di persona), sia il soggetto che dovrebbe assisterlo (quanto agli atti per i quali tale assistenza sarebbe prevista).

L'esigenza di affrontare il problema in questione si evince con chiarezza dal tenore dell'art. 15 paragrafo primo lettera a) della Convenzione (secondo il quale un trust non può violare le norme imperative in tema di «protezione di minori e di incapaci») [nota 96].

Ipotesi di beneficiario del trust totalmente incapace

L'ipotesi da esaminare è quella in cui il disponente, avendo designato quale beneficiario un soggetto totalmente incapace, abbia inserito nel trust liberale una clausola prevedente che i diritti di costui siano esercitati, in sua vece, non già dal suo legale rappresentante, bensì da altro soggetto.

La questione si pone non solo per le tradizionali figure del minore e dell'interdetto, ma anche per la nuova figura del soggetto che, pur versando in condizioni tali da poter essere interdetto, è stato invece sottoposto ad un'amministrazione di sostegno [nota 97] di contenuto tale che l'amministratore, analogamente ad un tutore, svolge funzioni di sua totale rappresentanza legale [nota 98].

Una norma utile per la disamina della clausola in oggetto appare essere l'art. 356 c.c., secondo il quale il donante può prevedere che i beni donati al minore saranno amministrati non già dal legale rappresentante di costui, bensì da un curatore speciale a tal fine designato nell'atto liberale.

Tanto nell'ipotesi di trust ora in esame quanto in quella descritta nella norma codicistica, infatti, un atto di autonomia privata compiuto dal disponente mira ad esautorare il legale rappresentante del beneficiario e ad investire della rappresentanza legale di quest'ultimo, limitatamente ai beni oggetto della liberalità, un soggetto diverso.

Occorre premettere che l'art. 356 c.c., pur riferendosi solo al minore, può ritenersi applicabile sia all'interdetto che al soggetto sottoposto alla peculiare e discussa ipotesi di a. di s. sopra menzionata.

Quanto al primo soggetto, l'applicabilità dell'art. 356 c.c. è pacifica, visto il generale rinvio alle norme sulla tutela dei minori contenuto nell'art. 424, comma 1°, c.c. [nota 99]

Quanto poi al secondo soggetto, se è vero che l'art. 411, comma 1°, c.c. non rinvia all'art. 356 c.c., quest'ultima norma potrebbe applicarsi o in virtù di un apposito provvedimento giudiziario ex art. 411, ultimo comma, c.c. oppure, in difetto, in via analogica.

Parebbe pertanto, a prima vista, doversi ammettere la validità della clausola in esame, poiché la norma codicistica si applica alla donazione - cioè ad un negozio liberale inter vivos - ed il trust liberale rientra in tale categoria (più precisamente: fra le donazioni indirette).

A ben guardare, però, parrebbe invece non potersi escludere la nullità della detta clausola: secondo una decisione della Suprema Corte [nota 100], infatti, avendo l'art. 356 c.c. natura di norma eccezionale (in quanto esso integra una deroga ai principi in tema di legale rappresentanza), lo si deve ritenere applicabile solo alla donazione diretta e non anche (stante l'impossibilità di una sua interpretazione analogica) alla donazione indiretta.

Beneficiario del trust parzialmente incapace

In questo caso ci si riferisce non solo alle tradizionali figure dell'inabilitato e dell'emancipato, ma anche alla nuova figura del soggetto sottoposto ad un'a. di s. che lo ha privato solo in parte della capacità.

Con riguardo all'inabilitato ed all'emancipato parrebbe imporsi una soluzione contraria alla validità della clausola, stante la pacifica inapplicabilità a tali soggetti dell'art. 356 c.c.

Un discorso più articolato pare invece meritare colui che è sottoposto ad un'a. di s. che lo ha privato solo in parte della capacità, poiché se di regola a costui risulta inapplicabile l'art. 356 c.c. [nota 101], ben può ipotizzarsi un provvedimento ex art. 411, ultimo comma, c.c. che preveda detta applicazione.

Tanto premesso, se nel primo caso vale la medesima conclusione contraria alla clausola vista per inabilitati ed emancipati, nel secondo caso paiono estensibili alla clausola le stesse conclusioni viste in tema di beneficiario del trust totalmente incapace e pertanto:

se si opta per l'inapplicabilità dell'art. 356 c.c. alle donazioni indirette, la clausola sarebbe nulla;

se invece si opta per la tesi contraria a quella sub a), la clausola dovrebbe aver l'effetto di validamente sostituire l'amministratore individuato dal disponente all'a. di s. solo per gli atti in cui quest'ultimo, in base al provvedimento giudiziale, svolge il ruolo di legale rappresentante dell'incapace e non anche per quelli in cui egli svolge la mera funzione di assistente legale del medesimo.

Clausola di trust liberale in cui il disponente incapace individua, quali beneficiari, soggetti ulteriori rispetto a se medesimo

Premessa

Pur se è ben più frequente l'ipotesi di trust in cui il soggetto incapace riveste solo il ruolo di beneficiario, nella prassi si registrano anche ipotesi di trust istituiti da un incapace [nota 102].

Qualche perplessità già desta l'istituzione da parte dell'incapace (ovviamente con le forme abilitative previste dalla legge) di un trust liberale nel quale l'unico beneficiario sia l'incapace stesso [nota 103] (e destinato normalmente a durare fino alla sua morte ovvero fino all'eventuale cessazione della sua incapacità): in casi del genere, infatti, appare difficile individuare una causa del negozio che possa utilmente distinguersi dall'effetto tipico di qualunque trust, cioè l'attuazione di un meccanismo di separazione patrimoniale [nota 104].

Né pare possibile obiettare che, in tali casi, la causa del negozio è data dalla protezione del patrimonio dell'incapace, poiché quest'ultimo è già protetto dall'ordinamento mediante gli istituti della rappresentanza o assistenza legale: è vero che in questi casi il trust appresta un meccanismo di protezione ulteriore, dato dalla separazione patrimoniale, ma appare dubbio che l'istituzione di un trust possa trovare giustificazione nel mero intento di creare detta separazione.

Si può comunque osservare che la particolare meritevolezza di tutela dell'interesse sotteso ad una siffatta operazione (cioè la protezione del patrimonio di un incapace) potrebbe porla al riparo da una censura siffatta, così come dalla tipica censura che si suol muovere (in ispecie in ambiente civilistico) nei confronti di un trust in cui disponente e (unico) beneficiario coincidano, cioè quella secondo la quale il trust sarebbe simulato o comunque dovrebbe esser riqualificato in termini di mandato.

I maggiori problemi parrebbero comunque sorgere allorché l'incapace disponente istituisca un trust liberale in cui siano designati, quali beneficiari, soggetti ulteriori rispetto all'incapace stesso [nota 105].

Occorre infatti considerare - al solito - che un trust liberale siffatto realizza una donazione indiretta dell'incapace a favore di detti beneficiari e che alle donazioni indirette devono applicarsi, per l'opinione dominante [nota 106], le norme dettate in tema di capacità a donare per le donazioni dirette.

Tanto premesso, l'art. 15 paragrafo primo lettera a) della Convenzione impone di verificare se un trust siffatto violi o meno – appunto – le norme suddette.

Si anticipa fin d'ora la soluzione prescelta: l'incapace potrà istituire un trust del genere soltanto se il medesimo rientri in una delle (normalmente assai limitate) ipotesi di donazione a costui consentite dal nostro ordinamento.

Al di fuori di dette ipotesi, pertanto, unico beneficiario del trust parrebbe poter essere lo stesso incapace-disponente: nel frequente caso in cui il trust debba aver fine alla morte di costui, pertanto, non potranno esser previsti beneficiari residuali (sì da lasciare operare un resulting trust) ovvero, a tutto concedere, l'atto istitutivo dovrà limitarsi a prevedere che, alla fine del trust, i beni spetteranno agli eredi o legatari del disponente (in tal modo altro non facendo che imprimere ai beni il medesimo indirizzo previsto dal resulting trust).

Ipotesi di disponente minore

è noto che l'art. 774, comma 1°, prima parte, c.c. vieta di effettuare donazioni ai soggetti privi della piena capacità di disporre dei propri beni.

Ne discende che il minore non può compiere donazioni e che le stesse sarebbero annullabili (in ossequio ai principi generali) se poste in essere da lui personalmente, ma addirittura nulle se compiute dal suo legale rappresentante [nota 107].

La seconda parte dello stesso art. 774, comma 1°, c.c., però, prevede che il minore possa effettuare una donazione nel proprio contratto di matrimonio (quindi, in definitiva, una donazione obnuziale) ai sensi dell'art. 165 c.c.

Quest'ultima norma, dal canto suo, si limita ad affermare che il minore ammesso a contrarre matrimonio può anche stipulare «le relative convenzioni matrimoniali», senza fare menzione alcuna della possibilità di effettuare, altresì, donazioni.

Il difetto di coordinamento fra le due norme è dovuto al fatto che nel 1975 il legislatore della riforma del diritto di famiglia modificò il testo dell'art. 165 c.c. (appunto espungendo il precedente riferimento alle donazioni) e non anche quello dell'art. 774, comma 1°, seconda parte, c.c.: è pertanto oggetto di discussione se, dopo detta riforma, il minore possa o meno effettuare donazioni nel contesto qui considerato.

Secondo un primo orientamento [nota 108] la soluzione dev'essere negativa, dovendosi attribuire peso decisivo all'innovazione apportata nel 1975 al testo dell'art. 165 c.c.

Un'altra impostazione, che parrebbe invece assolutamente maggioritaria [nota 109], risponde al quesito in senso positivo, essenzialmente facendo leva sul fatto che il testo dell'art. 774, comma 1°, seconda parte, c.c. è rimasto invariato e prevede l'ipotesi di donazione in questione.

Dai fautori di quest'ultima tesi è stato poi precisato che la norma consente al minore solo donazioni a favore del coniuge e/o dei figli nascituri dal matrimonio, con esclusione quindi di donazioni a favore di qualunque altro soggetto.

Quanto infine all'espressione «nel contratto di matrimonio» usata dall'art. 774, comma 1°, seconda parte, c.c., secondo un primo orientamento [nota 110] essa andrebbe interpretata alla lettera, mentre secondo altra impostazione [nota 111], che pare preferibile, essa consentirebbe sia la donazione fatta nel contratto di matrimonio, che quella fatta separatamente ma pur sempre in occasione del matrimonio.

Tanto premesso, sembra potersi formulare la seguente conclusione:

a. il minore può istituire un trust liberale designando beneficiari ulteriori rispetto a se stesso soltanto in occasione del proprio matrimonio;

b. detti beneficiari possono essere solo il suo coniuge e/o i figli nascituri dalle loro nozze.

Ipotesi di disponente minore emancipato

Dall'art. 774, comma 2°, c.c. si evince che la capacità di donare di tale soggetto ha (anche nell'ipotesi in cui egli sia stato autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale) la stessa limitata estensione di quella del minore: si rinvia pertanto al paragrafo precedente.

Ipotesi di disponente inabilitato

Come il minore, anche l'inabilitato è di regola privo della capacità di donare, stante il disposto dell'art. 774, comma 1°, prima parte, c.c.

In virtù del combinato disposto degli artt. 774, comma 1°, seconda parte e 166 c.c., però, egli può in primo luogo stipulare donazioni nel proprio contratto di matrimonio: per tale ipotesi si rinvia a quanto detto per il minore.

In secondo luogo egli può, in virtù dell'art. 777, comma 2°, c.c., effettuare donazioni ai propri discendenti in occasione delle loro nozze.

Tanto premesso, sembra potersi formulare la seguente conclusione:

a. l'inabilitato può istituire un trust liberale designando beneficiari ulteriori rispetto a se stesso soltanto in occasione del proprio matrimonio o di quello dei propri discendenti;

b. nella prima delle ipotesi sub a), detti beneficiari possono essere solo il coniuge dell'inabilitato e/o i figli nascituri dalle loro nozze;

c. nella seconda delle ipotesi sub a), detti beneficiari possono essere solo i discendenti dell'inabilitato che contraggono le nozze cui la donazione si riferisce.

Ipotesi di disponente interdetto

Visto l'art. 774, comma 1°, prima parte, c.c., l'interdetto, come il minore, non può donare [nota 112].

Unica eccezione si ha in occasione delle nozze dei suoi discendenti, poiché l'art. 777, comma 2°, c.c. consente in tal caso all'interdetto (analogamente a quanto accade per l'inabilitato) di effettuare donazioni in favore di costoro.

Se ne deduce quindi che l'interdetto potrà istituire un trust liberale designando beneficiari ulteriori rispetto a se stesso soltanto in occasione delle nozze dei suoi discendenti e che detti beneficiari ulteriori potranno essere unicamente i discendenti dell'interdetto che contraggono le nozze cui la donazione si riferisce.

Ipotesi di disponente sottoposto ad amministrazione di sostegno

1. Premessa

Il problema in oggetto si pone pertanto solo per coloro che hanno subito un provvedimento di apertura dell'a. di s. anche solo parzialmente ablativo della loro capacità.

Occorre premettere che i commi 2° e 3° dell'art. 411 c.c. non parrebbero avere alcuna attinenza con il tema che stiamo trattando.

Il comma 2° di tale norma [nota 113], infatti, rinvia all'art. 779 c.c., dal tenore del quale si evince con chiarezza che la donazione ivi prevista viene posta in essere non già durante l'a.di s., ma dopo la sua cessazione e quando vi sono ancora pendenze contabili fra il beneficiario di a. di s. e l'a. di s.: in tal caso, pertanto, il donante non è più nella condizione di beneficiario di a. di s., trattandosi di soggetto tornato ad essere pienamente capace.

Quanto poi al comma 3° dell'art. 411 c.c., che consente al beneficiario di a. di s. "in ogni caso" di effettuare "convenzioni" (termine all'interno del quale ben potrebbero - in ipotesi - rientrare le donazioni) a vantaggio di un a. di s. che sia suo parente entro il quarto grado o coniuge ovvero persona con lui convivente in modo stabile, esso a prima vista parrebbe porsi quale norma derogatrice speciale rispetto alla norma proibitiva generale di cui all'art. 774, comma 1°, c.c. (cioè quale norma che consente al beneficiario di a. di s., sia pure nei limiti da essa imposti, di effettuare donazioni).

Occorre però considerare che il comma 3° in questione è immediatamente successivo al già esaminato comma 2°, sì che appare ben più plausibile che esso intenda semplicemente derogare allo specifico divieto di cui al combinato disposto del detto art. 411, comma 2°, c.c. e dell'art. 779 c.c. (al quale - come si è detto - la prima norma rinvia), cioè consentire eccezionalmente [nota 114], pur se vi siano pendenze contabili, la donazione a vantaggio di chi è stato a. di s. del donante, a patto che il donatario sia suo parente entro il quarto grado o coniuge ovvero persona con lui convivente in modo stabile.

In tale ottica, pertanto, anche l'art. 411, comma 3°, c.c. (come il precedente comma 2° della stessa norma) non ha attinenza alcuna con il tema della capacità di donare del beneficiario di a. di s., concernendo un atto liberale compiuto da chi, non essendo più sottoposto ad a. di s., ha ormai recuperato la piena capacità d'agire [nota 115].

Ferme queste precisazioni preliminari, il problema della capacità di donare del beneficiario di a. di s. parrebbe dover essere affrontato distinguendo fra soggetto totalmente incapace o parzialmente incapace.

2. Beneficiario di a. di s. totalmente incapace

Con riguardo a tale soggetto, parrebbe inevitabile escludere in linea di principio la capacità di donare: trattandosi infatti di soggetto che avrebbe potuto essere interdetto, il tenore dell'art. 774, comma 1°, prima parte, c.c. parrebbe non lasciar dubbi al riguardo [nota 116].

In contrario non pare possibile invocare l'art. 409, comma 1°, c.c.: se è infatti vero che tale norma dichiara il beneficiario di a.di s. capace di compiere ogni atto che non sia stato oggetto del provvedimento giudiziale di nomina dell'a. di s., non è men vero che nel caso considerato la totale incapacità del soggetto fa sì che egli venga dal giudice sottoposto alla sistematica rappresentanza legale dell'a. di s.

Occorre comunque chiedersi se tale soggetto possa effettuare donazioni almeno nelle limitate ipotesi in cui ciò è consentito a soggetti incapaci.

Vengono al riguardo in questione le già esaminate fattispecie:

a. di cui agli artt. 774, comma 1°e 165 c.c. (dettata per il minore);

b. di cui agli artt. 774, comma 1° e 166 c.c. (dettata per l'inabilitato);

c. di cui all'art. 777, comma 2° c.c. (dettata per l'interdetto e per l'inabilitato).

L'applicabilità delle ipotesi sub a) e sub b) postula che si affronti la preliminare questione della capacità o meno di contrarre matrimonio di un tale beneficiario di a. di s.

La tesi positiva [nota 117] potrebbe far leva sul fatto che, non essendo l'art. 85 c.c. (il quale vieta all'interdetto di sposarsi) menzionato dall'art. 411, comma 1°, c.c., l'ampio disposto dell'art. 409 c.c. consentirebbe il matrimonio a tale figura d'incapace, salvo che intervenga un provvedimento ex art. 411, ultimo comma, c.c. il quale gli estenda l'applicazione dell'art. 85 c.c.

Appare però preferibile la tesi negativa, poiché essendo il beneficiario di a. di s. che si sta esaminando totalmente incapace, non può escludersi l'applicabilità in via analogica dell'art. 85 c.c.

Ad ogni modo, ove si ritenga di ammettere che tale soggetto possa sposarsi, si pone la questione dell'applicabilità degli artt. 165 e/o 166 c.c.

Quanto alla prima norma, dovendosi escludere la possibilità di un provvedimento estensivo ex art. 411, ultimo comma, c.c. (l'art. 165 c.c., infatti, non è norma dettata per interdetti o inabilitati), l'unica via ipotizzabile appare quella di ritenere la norma (essendo essa parimenti dettata per un soggetto totalmente incapace – il minore – e che può sposarsi) applicabile in via analogica.

Quanto poi all'art. 166 c.c., esclusane l'applicabilità in via analogica (essendo essa dettata per un soggetto solo parzialmente incapace), appare possibile solo la sua applicazione ope iudicis ex art. 411, ultimo comma, c.c.

Minori problemi pone invece l'ipotesi sub c): l'art. 777 secondo comma c.c. potrebbe infatti applicarsi per analogia e comunque potrebbe essere oggetto di un provvedimento estensivo ex art. 411 ultimo comma c.c.

3. Beneficiario di a. di s. parzialmente incapace

Con riguardo a tale soggetto, si potrebbe far leva sull'art. 409 c.c. [nota 118] e quindi concludere nel senso che egli è capace di effettuare donazioni, salvo che un provvedimento ex art. 411, ultimo comma, c.c. preveda l'applicabilità a costui del divieto di cui all'art. 774, comma 1°, c.c.

Tale tesi, però, non persuade, poiché il tenore dell'art. 774, comma 1°, c.c. appare decisivo per escludere la capacità di donare di un tale soggetto [nota 119].

Occorre comunque - al solito - chiedersi se egli possa almeno effettuare donazioni nelle limitate ipotesi di cui agli artt. 774, comma 1°e 165 c.c., agli artt. 774, comma 1°e 166 c.c. ed all'art. 777, comma 2°, c.c.

L'applicabilità delle prime due ipotesi postula come sempre che egli possa sposarsi: in questo caso, la risposta parrebbe affermativa, poiché l'art. 85 c.c. non è applicabile ad un soggetto solo parzialmente incapace.

Resta fermo che un provvedimento ex art. 411, ultimo comma, c.c. potrebbe però estendere a tale soggetto l'applicazione della norma in esame.

Se dunque il soggetto in questione può sposarsi, l'art. 165 c.c. parrebbe inapplicabile sia in via analogica (essendo dettato per un soggetto totalmente incapace) che ope iudicis ex art. 411, ultimo comma, c.c. (non trattandosi di norma dettata in tema di interdizione o inabilitazione); risulta invece applicabile l'art. 166 c.c., sia in via analogica (essendo dettato per un soggetto parzialmente incapace) che ex art. 411, ultimo comma, c.c. (essendo norma relativa all'inabilitazione) [nota 120].

Quanto, infine, all'art. 777, comma 2°, c.c., esso potrebbe essere applicato sia analogicamente che ex art. 411, ultimo comma, c.c.: ciò per le stesse ragioni appena viste con riguardo all'applicabilità dell'art. 166 c.c.

4. Conclusioni

In virtù di quanto si è osservato, pare quindi possibile concludere nel senso che, laddove all'a. di s. siano stati dal giudice impressi contenuti tali che la stessa risulta aver privato il soggetto, in tutto o anche solo in parte, della capacità, un trust liberale del genere parrebbe istituibile solo nelle suddescritte e limitate ipotesi in cui è ammessa la donazione da parte del soggetto incapace, e con l'adozione delle opportune forme abilitative.

è questa la ragione per la quale desta perplessità il provvedimento del Giudice Tutelare di Genova [nota 121] che, in una vicenda in cui non ricorreva alcuna delle suddette limitate ipotesi, ha autorizzato un soggetto totalmente incapace sottoposto ad a. di s. ad istituire, legalmente rappresentato dall'a. di s. stesso, un trust il quale designa, quale beneficiario ulteriore rispetto al disponente, il figlio del disponente stesso.

Se (e nella misura in cui) l'attribuzione al figlio del disponente avesse natura liberale, infatti, ci troveremmo di fronte ad un'ipotesi di donazione indiretta compiuta dall'incapace al di fuori dei casi consentiti.

Premesso che per dare una risposta precisa a tale quesito sarebbe necessario esaminare l'atto istitutivo del trust e che ciò non è stato possibile, si possono comunque fare talune congetture.

Un indizio per escludere la natura liberale di detta attribuzione potrebbe essere rappresentato dal fatto che il figlio del disponente risulta essere "disabile": si potrebbe infatti tentare di sostenere che l'attribuzione in suo favore non ha natura liberale ma "solutoria", in quanto è funzionale al suo mantenimento (cui il disponente, in quanto padre del disabile, è evidentemente obbligato).

Una siffatta conclusione parrebbe condivisibile, però, solo nel caso in cui le prestazioni del trustee consistano effettivamente nel mantenimento del disabile [nota 122] (circostanza questa addirittura ovvia) ed abbiano, altresì, inizio e fine mentre è in vita il disponente (profilo questo che merita, invece, di essere approfondito).

Secondo alcuni autori [nota 123], un trust nel quale le prestazioni a favore del figlio disabile si protraggano anche nel periodo successivo alla morte del genitore disponente conserverebbe pur sempre la sua natura solutoria (nel senso dianzi specificato), sì che se ne dovrebbe escludere la natura liberale [nota 124]: ciò - si argomenta in particolare - sulla base di un'intepretazione evolutiva degli artt. 433 e 443 c.c. alla luce degli artt. 2 e 30 Cost.

Appare evidente quindi che, ove si optasse per la tesi esposta, si dovrebbe concludere nel senso che il trust oggetto del provvedimento genovese è ammissibile in quanto l'incapace, istituendolo, non ha affatto realizzato una donazione indiretta a favore del figlio disabile.

Occorre però evidenziare [nota 125] che detta tesi (per quanto animata dal lodevole intento di evitare soluzioni pregiudizievoli per il disabile) [nota 126] appare difficilmente condivisibile alla luce dell'attuale diritto positivo, in quanto:

l'obbligo di mantenimento del disabile sussiste a carico del genitore-disponente solo finché quest'ultimo sia in vita, sì che dopo la sua morte appare difficile escludere la natura liberale dell'attribuzione [nota 127];

se è vero che dal combinato disposto degli artt. 742, comma 1° e 564, ultimo comma, c.c., i quali dichiarano esenti da collazione e da riduzione le "spese di mantenimento", si evince la natura non liberale di attribuzioni del genere, non è men vero che le spese cui tali norme si riferiscono non si limitano ad aver fonte in un atto inter vivos, ma sono state altresì materialmente effettuate dal de cuius durante la propria vita (in adempimento – appunto – del proprio obbligo legale di mantenimento dei figli).

Ne discende che, laddove il trust in esame prevedesse attribuzioni in favore del figlio disabile del disponente incapace le quali, pur se non eccedenti la misura di quanto necessita per il mantenimento del beneficiario, sono destinate a protrarsi anche dopo la morte del disponente, sarebbe difficile escluderne la natura liberale e, con essa, l'invalidità della correlata donazione indiretta effettuata dal disponente incapace.

Clausola che designa i beneficiari di reddito in ordine successivo

Premessa

Non è infrequente che un atto istitutivo di trust attribuisca ad un soggetto A finché vive, dopo la sua morte ad un soggetto B, e via dicendo, il diritto di godere dei beni in trust (o parte di essi) e/o il diritto di ricevere dal trustee delle somme di denaro (d'importo fisso o variabile), prevedendo poi che i beni, una volta che il trust sia venuto a scadenza, spetteranno ai beneficiari finali [nota 128].

Non meno frequente è, altresì, la previsione che i suddetti diritti dei beneficiari di reddito abbiano durata non già vitalizia, bensì per un certo periodo di tempo: si pensi al caso in cui le erogazioni di somme debbano essere effettuate dal trustee in favore di un soggetto A per 10 anni e, una volta decorso detto periodo, in favore di un soggetto B per ulteriori 10 anni, e via dicendo.

Alla luce del consueto art. 15 della Convenzione, le clausole suddette appaiono meritare, una disamina alla luce dei divieti di fedecommesso e di attribuzioni successive di cui agli artt. 795 e 796 c.c. [nota 129]

Considerata, però, la stretta affinità fra detti divieti e quelli posti, rispettivamente, dagli artt. 692 e 698 c.c., pare indispensabile che tale disamina prenda le mosse dall'ambito testamentario.

I divieti ex artt. 692 c.c. e 698 c.c. ed il trust testamentario prevedente beneficiari di reddito in ordine successivo

1. Cenni sulla portata del divieto di fedecommesso testamentario ex art. 692 c.c.

Com'è noto, il termine "fedecommesso" individua la disposizione testamentaria con cui il de cuius impone all'erede o legatario A (detto "istituito") l'obbligo di conservare i beni ricevuti onde restituirli, alla propria morte, ad altro soggetto B (sostituito).

Per effetto della riforma del diritto di famiglia del 1975, l'unica forma di fedecommesso consentita è, come risulta dall'art. 692 c.c., quella "assistenziale", nella quale l'istituito A è un soggetto interdetto o interdicendo che è figlio, discendente o coniuge del de cuius ed il sostituito B è la persona fisica o giuridica che gli abbia prestato assistenza; in ogni altra ipotesi, pertanto, la sostituzione dovrà considerarsi nulla.

L'avvenuta introduzione dell'istituto dell'a. di s., però, porta a ritenere che il giudice possa, con un provvedimento ex art. 411 ultimo comma c.c., estendere l'applicabilità dell'art. 692 c.c. anche ad un siffatto incapace, sì da consentire al suo genitore, ascendente in linea retta o coniuge, di predisporre un fedecommesso assistenziale in suo favore [nota 130].

Si tende a ravvisare la ratio del divieto nell'intendimento di evitare la creazione di un ostacolo considerato eccessivo alla libera circolazione dei beni.

La struttura giuridica del fedecommesso è oggetto di discussione, ma secondo l'opinione che pare preferibile [nota 131], una volta apertasi la successione del de cuius, tanto l'istituito quanto il sostituito sono immediatamente destinatari di una vocazione ereditaria (cioè di una chiamata a succedere).

Mentre però l'istituito è, altresì, destinatario di una delazione ereditaria, la quale implica per costui l'immediata possibilità di accettare l'eredità, il sostituito è titolare di un'aspettativa giuridica alla delazione, cioè di una delazione sospensivamente condizionata (e trattasi di condicio iuris) in cui l'evento condizionante è dato dalla premorienza dell'istituito, nonché dall'assenza di una revoca dell'interdizione dell'istituito e dall'avvenuta prestazione di assistenza a costui da parte del sostituito.

Una volta accettata l'eredità, l'istituito ne diviene proprietario risolubile, nel senso che gli eventi appena descritti e sospensivamente condizionanti la delazione del sostituito svolgono, altresì, il ruolo di eventi risolutivamente condizionanti (e si tratta – al solito – di condicio iuris) la situazione proprietaria dell'istituito; quest'ultimo – appunto in considerazione della sua qualità di titolare risolubile dell'asse – pur potendo godere dei beni e compiere sui medesimi ogni atto di ordinaria amministrazione (cfr. art. 693 c.c.), deve munirsi dell'autorizzazione giudiziale (stante l'esigenza di tutela dell'interesse del sostituito) per gli atti di straordinaria amministrazione (cfr. art. 694 c.c.).

Se alla morte dell'istituito potrà dirsi avverata la condicio iuris risolutiva affettante la proprietà da lui vantata, si sarà parallelamente avverata anche la condicio iuris sospensiva concernente la delazione del sostituito; tale fenomeno di cessazione della pendenza della condicio juris implicherà al tempo stesso, con effetto irretroattivo, il venir meno della proprietà a suo tempo acquistata mortis causa dall'istituito e l'insorgere della possibilità di accettare l'eredità, divenendone titolare, per il sostituito; ove quest'ultimo accetti effettivamente l'erdità, infine, dovrà ritenersi che abbia anch'egli acquistato mortis causa (ma – ripetesi – con effetto ex nunc dal testatore e non già dall'istituito).

Gli elementi costitutivi del fedecommesso risultano pertanto essere i seguenti [nota 132]:

a. la duplice chiamata a succedere dell'istituito e del sostituito;

b. l'ordine successivo fra le due chiamate (nel senso che il sostituito succederà mortis causa al testatore una volta morto l'istituito);

c. il cosiddetto «obbligo di conservare e restituire» a carico dell'istituito [nota 133];

d. nell'unica forma di fedecommesso attualmente consentita, la cura dell'istituito incapace da parte del sostituito.

è stato precisato [nota 134] che, nel caso in cui un soggetto A sia istituito erede con l'obbligo di conservare e restituire i beni ad altro soggetto B non già al momento della propria morte, ma dopo un certo periodo di tempo, non si ha fedecommesso, ma istituzione d'erede a favore di A sottoposta a termine finale ed a favore di B sottoposta a termine iniziale: alla luce dell'art. 637 c.c., pertanto, tali termini dovranno considerarsi come non apposti ed A e B saranno considerati chiamati in parti uguali [nota 135].

L'esistenza di un fedecommesso è stata altresì esclusa [nota 136] nel caso in cui il soggetto A dell'esempio sia un mero legatario e non un erede: si è parlato al riguardo, infatti, della configurabilità di due validi legati a termine, rispettivamente finale (quanto ad A) ed iniziale (quanto a B) [nota 137].

2. Cenni sulla portata del divieto di legato di attribuzioni successive ex art. 698 c.c.

A) Il legato di usufrutto successivo

Il nostro ordinamento vieta, all'art. 698 c.c., il legato di usufrutto successivo [nota 138], cioè la disposizione testamentaria con cui A, dopo aver legato l'usufrutto su un bene a B, stabilisce che alla morte di B l'usufrutto sul bene spetterà a C: in casi del genere, il legato a favore di C sarà nullo.

La ratio del divieto, come risulta dalla Relazione al codice civile, è data dal fatto che «un seguito di più usufrutti, che potrebbero durare lunghi anni, annullerebbe praticamente il valore della proprietà, costituirebbe un ostacolo a miglioramenti fondiari e la renderebbe di fatto incommerciabile».

Si tratta, quindi, di una ratio affine a quella che giustifica il divieto di fedecommesso non assistenziale previsto dall'art. 692 c.c.

A quest'ultimo riguardo occorre evidenziare che, pur se taluno identifica lo schema dell'usufrutto successivo con quello del fedecommesso [nota 139], l'opinione dominante [nota 140] evidenzia le differenze strutturali fra i due istituti: in estrema sintesi, infatti, se è vero che - come accade nel fedecommesso - il dante causa del secondo legatario C è il testatore A (e non il primo legatario B), non è men vero che - a differenza di quanto accade nel fedecommesso - il secondo legatario C acquista non già il medesimo diritto di cui in vita era titolare il primo legatario B, bensì un diritto diverso, poiché l'usufrutto di B, evidentemente, si estingue alla morte di B stesso.

Stante il rinvio alle norme in tema di usufrutto contenuto nell'art. 1026 c.c., non si dubita dell'applicabilità del divieto anche al legato di diritti di uso o di abitazione successivi [nota 141].

Il divieto si applica solo se i soggetti designati in via successiva sono tutti capaci di succedere ex art. 462 c.c. (in quanto trattasi di soggetti nati, concepiti o quanto meno figli di una determinata persona vivente) al tempo della morte del testatore: se ciò non accade [nota 142], infatti, il divieto ex art. 698 c.c. non ha ragione di operare, poiché la disposizione è a monte già nulla - in relazione ai soggetti beneficiari privi di detta capacità - per violazione del citato art. 462 c.c. [nota 143]

Si tende ad escludere [nota 144] che incorra nel divieto in questione l'ipotesi dei cosiddetti "legati d'usufrutto successivi a termine", che si ha allorché il testatore leghi l'usufrutto ad A per un certo periodo di tempo, a B per un certo periodo di tempo successivo, e così via: ciò in quanto, trattandosi di periodi di tempo ben determinati e non (come invece accade nell'usufrutto successivo) incerti, non ricorre in tali fattispecie la ratio del divieto.

è stato comunque precisato [nota 145] che, nel caso in cui l'autore della liberalità abbia previsto termini di durata dei singoli usufrutti complessivamente così lunghi che possa ritenersi presente l'intento di eludere il divieto, una disposizione siffatta dovrà ritenersi in frode alla legge e, come tale, sarà colpita da nullità ex art. 1344 c.c.

B) Il legato di rendite o annualità successive

L'art. 901 del codice civile del 1865 vietava «la disposizione con la quale è lasciato l'usufrutto o altra annualità a più persone successivamente».

Di fronte a tale dettato normativo (peraltro improprio, visto che l'usufrutto non è un'annualità [nota 146]), se era pacifica l'applicabilità del divieto al legato di annualità reali [nota 147], si discuteva se esso si riferisse, altresì, alle annualità obbligatorie: se la dottrina prevalente era orientata per la soluzione positiva [nota 148], la tesi negativa (cioè la tesi della validità di legati siffatti) tendeva a trovare accoglimento presso la giurisprudenza [nota 149].

L'art. 698 del codice civile vigente vieta ora «la disposizione con la quale è lasciato a più persone successivamente l'usufrutto, una rendita o un'annualità»: la Relazione al codice precisa il mutamento di formulazione della norma rispetto a quella dell'art. 901 del codice previgente intende porre fine al suddetto dibattito, poiché tale mutamento è stato effettuato «per chiarire che la norma riguarda tutte le disposizioni consistenti nella prestazione di rendite o annualità e non le rendite che abbiano carattere reale, come talvolta si è sostenuto senza plausibile ragione».

In altri termini, com'è stato osservato [nota 150], l'avvenuto inserimento - fra l'usufrutto e le annualità - delle "rendite", cioè di un istituto che ha sicuramente una configurazione obbligatoria e non reale, ha fatto sì che debba ormai ritenersi pacifica l'applicabilità del divieto alle rendite obbligatorie [nota 151].

Resta comunque il fatto che, com'è stato osservato [nota 152], il divieto appare di difficile ed incerta giustificazione, stante l'inapplicabilità al riguardo sia della ratio del divieto d'usufrutto successivo (cioè l'intento di non svuotare di ogni contenuto economico il diritto di proprietà), sia (stante la natura meramente obbligatoria della rendita) di quella sottesa al divieto di fedecommesso [nota 153].

C) La deroga al divieto ex art. 698 c.c. prevista dall'art. 699 c.c.

L'art. 699 c.c., che ammette la disposizione testamentaria prevedente «l'erogazione periodica, in perpetuo o a tempo, di somme determinate … per … fini di pubblica utilità», costituisce un eccezione al divieto ex art. 698 c.c. [nota 154], la quale si giustifica soltanto – appunto – alla luce del fine di pubblica utilità dell'erogazione stessa [nota 155].

3. I divieti ex artt. 692 e 698 c.c. ed il trust testamentario

A) Premessa

Appaiono a questo punto disponibili elementi sufficienti per affrontare il tema del rapporto fra i divieti in questione e le clausole di un trust testamentario che individuano beneficiari di reddito in ordine successivo descritte al § "Clausola che designa i beneficiari di reddito in ordine successivo. Premessa".

S'impongono, però, alcune precisazioni preliminari in relazione alle caratteristiche di detto trust.

In primo luogo, occorre ipotizzare che i beneficiari individuati dal testatore in via successiva siano tutti soggetti provvisti della capacità di succedere per testamento ex art. 462 c.c., poiché in caso contrario (come si è detto) si porrebbe, a monte, il problema della violazione di quest'ultima norma [nota 156].

In secondo luogo, si deve ipotizzare che il trust sia fonte di un diritto di credito dei beneficiari di reddito nei confronti del trustee, cioè che il trust sia fixed [nota 157] ovvero che, se trattasi di trust discrezionale, la discrezionalità del trustee sia in esso congegnata in modo tale da poter incidere non già sull'an dell'attribuzione, bensì, soltanto sul quantum di essa [nota 158].

B) Analisi delle clausole alla luce del divieto di fedecommesso ex art. 692 c.c.

Tanto premesso, si pensi al caso in cui il testatore A istituisca un trust nel quale B svolge il ruolo di trustee e vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima C, poi (alla morte di C) D, mentre E è il beneficiario finale.

Com'è stato osservato [nota 159], una tale fattispecie non è affatto assimilabile ad un fedecommesso.

In primo luogo, infatti, non sussiste fedecommesso nel rapporto fra beneficiari di reddito e beneficiario finale, essenzialmente perché fa difetto fra costoro sia il requisito l'ordine successivo sia quello dell'obbligo di conservare e restituire: i beneficiari di reddito, infatti, sono titolari non già della proprietà dei beni, bensì di un diritto di credito nei confronti del trustee a conseguire i redditi; per tacere del fatto che tanto i beneficiari di reddito quanto il beneficiario finale acquistano dal trustee e non dal testatore.

In secondo luogo, non è ipotizzabile un fedecommesso neppure nel rapporto fra trustee e beneficiario finale [nota 160], essenzialmente in quanto:

a. non sussiste l'ordine successivo, provenendo l'acquisto del beneficiario - al solito - dal trustee e non dal testatore;

b. mentre l'istituito, come risulta dall'art. 693, comma 1°, c.c., gode dei beni, è esclusa qualunque forma di godimento dei beni da parte del trustee, pena la configurabilità di una breach of trust con la connessa responsabilità.

Più in generale, si è osservato come un trust non violi alcuna delle rationes legis sottese al divieto di fedecommesso: non quella fondata sull'esigenza di evitare di comprimere la libertà di testare dell'istituito, perché i beni in trust sono per definizione estranei alla successione mortis causa del trustee [nota 161]; non quella riposante sull'esigenza di evitare limiti intollerabili alla circolazione dei beni, poiché il trustee normalmente ha il potere di alienare i beni e comunque le leggi regolatrici dei trusts di solito prevedono una durata massima di essi [nota 162].

La clausola in esame appare così distante dal fedecommesso che le brevi notazioni che precedono risultano sufficienti ad escludere qualsiasi assimilazione a tale istituto esso [nota 163].

D'altro canto, la differenza fra trust e fedecommesso, che era già chiara alla dottrina [nota 164] e ad almeno parte della giurisprudenza [nota 165] addirittura prima dell'entrata in vigore dell'attuale codice civile, è stata ulteriormente approfondita e messa in luce anche in epoca successiva [nota 166].

C) Analisi delle clausole alla luce del divieto di attribuzioni successive ex art. 698 c.c.

è a questo punto necessario analizzare se la clausola indicata all'inizio della lettera B) contrasti o meno con il divieto di cui all'art. 698 c.c.: si immagini altresì - onde avvicinare la clausola quanto più possibile alla fattispecie vietata - che l'attribuzione al beneficiario finale E debba avvenire alla morte del beneficiario di reddito vitalizio D.

Occorre infatti chiedersi se, in tal caso, sussista un parallelismo fra il primo legatario d'usufrutto successivo ed il primo beneficiario di reddito vitalizio C e fra il secondo legatario d'usufrutto successivo ed il secondo beneficiario di reddito vitalizio D, poiché in caso affermativo l'attribuzione a D dovrebbe considerarsi nulla in virtù della norma citata.

La dottrina che si è occupata della questione [nota 167] ha ritenuto di rispondere negativamente, essenzialmente per tre ragioni.

In primo luogo, si è osservato [nota 168] come il divieto sia posto a tutela di un soggetto (il nudo proprietario) che non esiste in un trust siffatto: non lo sono, infatti, né il beneficiario finale (il quale, ad avviso dell'opinione dominante, è titolare non già di un diritto reale, bensì di un diritto di credito nei confronti del trustee - per quanto opponibile erga omnes - a vedersi attribuiti i beni alla fine del trust) né il trustee (il quale è titolare di una proprietà priva della facoltà di godere i beni perché trattasi di proprietà non già "nuda", bensì affetta da un vincolo di destinazione [nota 169]); per tacere del fatto che i beneficiari di reddito designati in via successiva (nell'esempio: C e D) non risultano assimilabili a degli usufruttuari (costoro vantano infatti - come si è detto - un diritto di credito nei confronti del trustee).

Si è poi evidenziato [nota 170] che sia il primo che il secondo beneficiario vitalizio di reddito (cioè sia C che D) acquistano non già dal disponente, bensì dal trustee.

Se da un punto di vista strutturale le osservazioni che precedono appaiono tutto sommato convincenti, resta il fatto che, dal punto di vista funzionale, la clausola in esame sembrerebbe comunque creare una situazione affine a quella propria dell'usufrutto successivo, poiché per la durata di due vite umane (quelle di C e di D) essa esclude qualunque facoltà di godimento dei beni in trust da parte di soggetti diversi dai beneficiari di reddito.

L'affinità funzionale appare poi particolarmente marcata nel caso in cui i beneficiari di reddito non vantino un mero diritto di ricevere somme, bensì un più ampio diritto di godere delle utilità economiche dei beni in trust [nota 171].

Occorre infine chiedersi se la clausola in esame violi o meno il divieto (parimenti previsto dall'art. 698 c.c.) di rendite successive, poiché in caso affermativo la validità della disposizione beneficiaria in favore di D ne risulterebbe inficiata.

La dottrina, dopo essersi limitata a porre la questione senza prendere posizione in merito [nota 172], ha finito per adombrare, se pure in termini assolutamente generici e senza scendere in dettagli, la configurabilità di una violazione del detto divieto [nota 173].

Tale conclusione appare senz'altro condivisibile nelle ipotesi in cui i beneficiari vitalizi di reddito individuati in ordine successivo vantino un credito a conseguire periodicamente una somma di denaro o una certa quantità di beni fungibili: in tal caso, infatti, la contiguità della figura all'istituto della rendita vitalizia costituita per testamento [nota 174] appare evidente.

Maggiori perplessità destano, invece, l'ipotesi in cui la somma di denaro o la quantità di beni fungibili periodicamente spettanti a costoro siano non già fisse, ma variabili (normalmente in relazione alle esigenze del beneficiario), nonché l'ipotesi caratterizzata da una continuità di prestazioni economiche a vantaggio di costoro [nota 175].

Nel primo caso, fermo che la variabilità della prestazione periodica fa fuoriuscire la prestazione dal concetto di rendita in senso tecnico, parrebbe difficile escludere su questa sola base argomentativa la violazione del divieto.

Il secondo caso presenta affinità con il vitalizio alimentare e con il vitalizio di mantenimento, negozi che la più recente giurisprudenza non qualifica più come species del genere "rendita vitalizia" [nota 176], ma come negozi atipici [nota 177]: resta da vedere, però, se ciò basti a sottrarre detta ipotesi all'applicazione del divieto.

Occorre poi evidenziare che un illustre autore [nota 178], allo scopo di tentare di ridurre la portata del divieto di rendite successive in relazione al trust, ha affermato che il termine "rendite" andrebbe impiegato "in senso tecnico-giuridico" e che, in tale ottica, non violerebbe detta norma un trust secondo il quale le rendite di un immobile saranno corrisposte prima a Tizio ed alla sua morte a Caio, poiché in tal caso la parola "rendita" significa "proventi della locazione".

La tesi, però, non persuade, poiché se è vero che i canoni locatizi non rientrano nel concetto di rendita [nota 179], ciò nel nostro caso parrebbe soltanto implicare che essi non costituiscono rendita per l'immediato percettore di essi (cioè per il trustee, che li riceve dal conduttore), mentre costituiscono rendita per i beneficiari di reddito (in quanto trattasi di somme determinate di denaro loro erogate dal trustee e non dal conduttore).

In sintesi e per concludere, l'attuale incertezza in ordine all'ambito di applicabilità del divieto di usufrutto e (soprattutto) di rendite successive al trust testamentario parrebbe consigliare un'estrema prudenza nella predisposizione di beneficiari di reddito vitalizi in ordine successivo e di prendere in debita considerazione, quale possibile alternativa, la designazione di beneficiari di reddito in ordine successivo il cui diritto è destinato a durare non già a vita, bensì per periodi di tempo determinati: si è visto infatti che si tende ad escludere la violazione dell'art. 698 c.c., salvo che in concreto ricorra una fattispecie di frode alla legge, laddove il testatore abbia predisposto una serie di usufrutti a termine o di rendite a termine.

I divieti ex artt. 795 e 796 c.c. ed il trust liberale prevedente beneficiari di reddito in ordine successivo

1. Cenni sulla portata del divieto di fedecommesso nella donazione ex art. 795 c.c.

La norma in esame vieta il fedecommesso non assistenziale anche se contenuto in una donazione.

La struttura giuridica del fedecommesso è ovviamente diversa da quella, in precedenza esaminata, del fedecommesso testamentario.

Com'è noto, infatti, si discute [nota 180] se ci si trovi di fronte ad una donazione da A a B sottoposta ad un'obbligazione modale (il cui contenuto è conservare e restituire il bene a C) gravata da una condizione sospensiva, ovvero se debba piuttosto parlarsi di due donazioni, una a favore di B e risolutivamente condizionata, l'altra a favore di C e sospensivamente condizionata [nota 181].

Il parallelismo instaurato dal legislatore con il fedecommesso testamentario consente di estendere a quello contenuto in una donazione le conclusioni raggiunte con riguardo al primo: risulta quindi vietato anche il fedecommesso de residuo [nota 182], mentre risulta ammissibile la donazione prevedente che il donatario A debba conservare e restituire i beni ad altro soggetto B non già al momento della propria morte, ma dopo un certo periodo di tempo [nota 183].

2. Cenni sulla portata del divieto di attribuzioni successive ex art. 796 c.c.

A) La donazione di usufrutto successivo

Come l'art. 795 c.c. costituisce il pendant dell'art. 692 c.c. in tema di fedecommesso, altrettanto può dirsi dell'art. 796 c.c. [nota 184] rispetto all'art. 698 c.c.: anche in tema di donazione, infatti, la predisposizione di un usufrutto vitalizio successivo è vietata.

La ratio del divieto è analoga a quella giustificante il divieto di fedecommesso (evitare l'ostacolo alla circolazione dei beni creato da un vincolo di durata indeterminata) [nota 185] e riposa, altresì, sull'esigenza che la durata dell'usufrutto non ecceda quella di una vita umana.

L'unica ipotesi di usufrutto successivo ammessa dall'art. 796 c.c. è quella in cui la catena degli usufruttuari vitalizi si compone di due soli anelli ed il primo degli usufruttuari vitalizi è lo stesso donante (che si è - appunto - riservato l'usufrutto in occasione della donazione della nuda proprietà) [nota 186].

Se dunque A dona l'usufrutto su un bene a B stabilendo che, dopo la morte di B, l'usufrutto spetterà a C, la donazione a favore di C sarà affetta da nullità.

La norma consente invece ad A di donare la nuda proprietà di un bene a B, riservandosene l'usufrutto e stabilendo che, alla sua morte, detto usufrutto spetterà a C per tutta la durata della vita di costui; se però A ha stabilito che alla morte di C l'usufrutto spetterà a D per tutta la durata della vita di costui, la donazione a favore di D sarà colpita da nullità.

Valgono, per il resto, considerazioni analoghe a quelle effettuate con riguardo all'art. 698 c.c.

In primo luogo, il divieto di applica anche ai diritti di uso [nota 187] e di abitazione, stante il generale rinvio alla normativa in tema di usufrutto contenuto nell'art. 1026 c.c.

In secondo luogo, quanto all'ipotesi di donazione dell'usufrutto su un bene ad A per un certo periodo di tempo, a B per un certo periodo di tempo successivo, e così via, la dottrina tende ad escludere [nota 188] che essa sia vietata dalla norma in questione: ciò per le stesse ragioni viste in precedenza in tema di legati di usufrutto a termine [nota 189].

è stato comunque precisato [nota 190] che, nel caso in cui l'autore della liberalità abbia previsto termini di durata dei singoli usufrutti complessivamente così lunghi che possa ritenersi presente l'intento di eludere il divieto, una disposizione siffatta dovrà ritenersi in frode alla legge e, come tale, sarà colpita da nullità ex art. 1344 c.c.

Deve infine tenersi presente che, se gli usufruttuari vitalizi individuati in via successiva sono soggetti incapaci a ricevere per donazione ex art. 784 c.c. (in quanto soggetti non nati, né concepiti, né figli di un soggetto vivente al tempo della donazione), la disposizione porrà, prima ancora del problema della violazione dell'art. 796 c.c., quello della violazione dell'art. 784 c.c.

B) La donazione di rendite successive

L'art. 796 c.c., a differenza dell'art. 698 c.c., non contiene un divieto di rendite successive.

La scarsa dottrina che si è occupata della questione [nota 191] ha escluso che possa farsi applicazione analogica del divieto ex art. 698 c.c., stante il carattere eccezionale di esso: ne discende, pertanto, che la donazione di rendite successive parrebbe ammissibile.

3. I divieti ex artt. 795 e 796 c.c. ed il trust liberale

A) Premessa

Appaiono a questo punto disponibili elementi sufficienti per affrontare il tema del rapporto fra i divieti in questione e le clausole di un trust liberale che individuano beneficiari di reddito in ordine successivo descritte al § "Clausola che designa i beneficiari di reddito in ordine successivo. Premessa".

S'impongono le consuete precisazioni preliminari relative alle caratteristiche di detto trust: i beneficiari di reddito individuati in via successiva dovranno essere capaci di ricevere per donazione ex art. 784 c.c. ed il trust dovrà essere fixed o, se discrezionale, esser comunque fonte di un diritto di credito - per quanto incerto nel quantum - per detti beneficiari.

B) Analisi delle clausole alla luce del divieto di fedecommesso ex art. 795 c.c.

Tanto premesso, si pensi al caso in cui un soggetto A istituisca un trust liberale in cui B svolge il ruolo di trustee e vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima C, poi (alla morte di C) D, mentre E è il beneficiario finale.

Si è osservato in dottrina [nota 192] che una siffatta disposizione non è assimilabile ad un fedecommesso, rinviando alle varie motivazioni viste in tema di trust testamentario.

Appare comunque opportuno precisare che, nel caso in cui si opti per la tesi che vede nel fedecommesso ex art. 795 c.c. non già una doppia donazione, bensì una sola donazione da A a B sottoposta ad un'obbligazione modale (il cui contenuto è conservare e restituire il bene a C) gravata da una condizione sospensiva, si avrà che il dante causa del secondo donatario C è il primo donatario B (e non il donante A).

Questo appare essere un punto di contatto fra il fedecommesso ex art. 795 c.c. e la struttura del trust liberale sopra esemplificato, poiché anche quest'ultima ipotesi il dante causa del beneficiario di reddito vitalizio C è il trustee B (e non il disponente A).

Poiché, però, restano valide tutte le altre considerazioni che si sono effettuate per distinguere il fedecommesso dal trust testamentario, tale punto di contatto non appare sufficiente a rendere assimilabile ad un fedecommesso la disposizione in esame.

C) Analisi delle clausole alla luce del divieto di attribuzioni successive ex art. 796 c.c.

è a questo punto necessario analizzare se un trust liberale che individua beneficiari vitalizi di reddito successivi contrasti o meno con il divieto di cui all'art. 796 c.c.

Una precisazione preliminare s'impone: la risposta dovrebbe essere senz'altro negativa nel caso in cui il disponente sia il primo anello della catena di detti beneficiari vitalizi di reddito successivi e dopo di lui sia designato un solo ulteriore beneficiario vitalizio di reddito [nota 193].

In tale ipotesi, infatti, appare esservi un'indubbia affinità con l'unica fattispecie di usufrutto successivo ammessa dalla norma in esame, cioè quella in cui il donante si riserva l'usufrutto sul bene e stabilisce che, dopo la sua morte, ne sarà usufruttuario un altro soggetto.

Un problema di contrasto con il divieto di cui all'art. 796 c.c. si pone, pertanto, in ogni altra ipotesi, cioè:

a. quando il primo anello della catena di beneficiari vitalizi di reddito successivi è occupato dallo stesso disponente, ma egli non si è limitato ad individuare un solo ulteriore beneficiario vitalizio, avendo previsto altri beneficiari vitalizi dopo la morte di costui [nota 194];

b. quando il primo anello della catena di beneficiari vitalizi di reddito successivi non è occupato dallo stesso disponente.

Tanto premesso, si pensi al caso in cui un soggetto A istituisca un trust liberale in cui B svolge il ruolo di trustee e vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima C, poi (alla morte di C) D, mentre E è il beneficiario finale [nota 195].

Occorre infatti chiedersi se, in tal caso, sussista un parallelismo fra il primo donatario d'usufrutto successivo ed il primo beneficiario di reddito vitalizio C e fra il secondo donatario d'usufrutto successivo ed il secondo beneficiario di reddito vitalizio D [nota 196].

A tale riguardo appare possibile rinviare a tutte le considerazioni che si sono svolte in relazione all'analogo tema del rapporto fra divieto ex art. 698 c.c. e trust testamentario: in estrema sintesi, le differenze strutturali appaiono così consistenti da far dubitare dell'esistenza di una violazione del divieto, pur se ingenerano perplessità di segno contrario le affinità funzionali che le due figure presentano in certe ipotesi.

A differenza di quanto accade in tema di testamento (stante il tenore dell'art. 698 c.c.), per il trust liberale non pare invece porsi un problema di violazione del divieto di rendite successive: si è visto infatti che l'art. 796 c.c. non prevede un divieto siffatto e che parrebbe da escludersi un'applicazione analogica di quello previsto, invece, dall'art. 698 c.c.

Considerato che - come si è visto in tema di art. 698 c.c. - appare proprio quest'ultimo divieto (più che quello di usufrutti successivi) a suscitare le maggiori perplessità con riguardo ai trusts prevedenti beneficiari vitalizi di reddito in ordine successivo, quest'ultima osservazione dovrebbe -riterrei - costituire per il disponente un incentivo ad istituire un trust siffatto con atto inter vivos piuttosto che mediante testamento [nota 197].


[nota 1] Ciò suggerisce un parallelismo con quanto avviene in tema di contratto a favore di terzo: anche in tal caso, infatti, la funzione in concreto svolta dall'attribuzione al terzo voluta dallo stipulante può essere la più varia.

[nota 2] Tale espressione, in realtà, viene spesso utilizzata anche per il trust testamentario. Il che appare però esatto solo allorché esso realizzi una liberalità, poiché - com'è noto - una disposizione testamentaria non necessariamente ha natura liberale: si pensi al legato di debito, previsto dall'art. 659 c.c. (sul punto cfr. per tutti G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 1982-1983, p. 784). Preciso che, visto il tema assegnatomi, la presente relazione si occupa solo del trust liberale istituito con atto inter vivos.

[nota 3] Sulla nozione di liberalità non donativa cfr. per tutti G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 879-880. L'inquadramento fra le liberalità non donative appare corretto anche con riferimento alla nuova figura del negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c., laddove la stessa realizzi una liberalità: anche in tal caso (come si espone nel testo relativamente al trust liberale) l'arricchimento del beneficiario viene infatti realizzato dal disponente non già mediante un contratto di donazione, bensì mediante il peculiare strumento dato dalla creazione di un patrimonio allo scopo. Ciò vale non solo per l'ipotesi di negozio di destinazione con trasferimento dei beni ad un terzo gestore (ipotesi che è allo stato controversa: per la prevalente tesi affermativa cfr. per tutti M. LUPOI, «Gli atti di destinazione nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di trust», in Trusts e attività fiduciarie - d'ora in avanti, per brevità: Taf - 2006, p. 170; S. BARTOLI, «Riflessioni sul "nuovo" art. 2645-ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust», in Giur. it., 2007, p. 1303-1304; per quella negativa cfr. F. GAZZONI, Osservazioni, in AA.VV., La trascrizione dell'atto negoziale di destinazione. L'art. 2645-ter c.c., a cura di M.Bianca, Milano 2007, p. 217 e 221-227), ma anche per quella del negozio di destinazione autodichiarato (con riferimento a quest'ultima cfr. altresì quanto esposto alla nota 6 per il trust autodichiarato). è comunque necessario evidenziare come le caratteristiche del nuovo istituto codicistico, che pure è dotato di indubbie affinità con il trust, divergano da quelle proprie del trust sotto svariati profili (per una prima ricognizione al riguardo cfr. M. LUPOI, «Gli atti di destinazione…», cit.; S. BARTOLI, «Riflessioni…», cit.; D. MURITANO, «Il c.d. trust interno prima e dopo l'art. 2645-ter c.c.», in Negozio di destinazione: percorsi verso un'espressione sicura dell'autonomia privata, I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 1/2007, p. 18 e ss.).

[nota 4] Su tale qualificazione cfr. ad esempio G. DE NOVA, «Trust: negozio istitutivo istitutivo e negozi dispositivi», in Taf, 2000, p. 162; S. BARTOLI, Il Trust, Milano, 2001, p. 647; D. PARISI, «Trust e comunione ereditaria», in Taf, 2006, p. 208.

[nota 5] Sul punto cfr. ancora G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 879-880.

[nota 6] Per la qualificazione della posizione del trustee in termini di ufficio di diritto privato cfr. ad esempio S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 206.

[nota 7] Quanto riportato nel testo appare consentire l'inserimento fra le donazioni indirette (e comunque nel più ampio genus delle liberalità non donative) anche del cosiddetto trust autodichiarato, nel quale il disponente, restando titolare dei beni, imprime su di essi il vincolo di destinazione proprio del trust (su tale peculiare figura cfr. S. BARTOLI, «Il trust autodichiarato nella Convenzione de L'Aja sui trust», in Taf, 2005, p. 355 e ss.). Se è vero infatti che, in tal caso, laddove l'attribuzione liberale al beneficiario avvenga mentre il disponente ricopre il ruolo di trustee, l'arricchimento di costui avviene direttamente ad opera del disponente e non per il tramite di un terzo, resta il fatto che il meccanismo prescelto dal disponente per attuare la liberalità non è quello proprio della tipica donazione.

[nota 8] E quindi, laddove il trust abbia ad oggetto immobili e/o mobili registrati, la forma indicata dall'art. 2657 c.c.

[nota 9] Fermo che il notaio ben potrebbe decidere, per mere ragioni di prudenza, di utilizzare per il trust liberale la stessa forma prescritta per la donazione. Un analogo problema si pone altresì, laddove esso realizzi una liberalità, con riguardo al negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c., per il quale è comunque testualmente imposta la forma dell'atto pubblico [non è chiaro, comunque, se ai soli fini della trascrizione ovvero, come parrebbe preferibile, ad substantiam: cfr. nel primo senso M. BIANCA - M. D'ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L'atto notarile di destinazione. L'art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, p. 35-36; G. PETRELLI, «La trascrizione degli atti di destinazione», in Riv. dir. civ., 2006, § 2; in obiter dictum, Trib. Reggio Emilia decr. 23 marzo 2007, reperibile in www.filodiritto.it; nel secondo senso S. BARTOLI, «Riflessioni…», cit., c. 1300; G. OBERTO, «Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze», Contr. e impr. Europa, 2007, § 13]. La tesi che ritiene necessaria la presenza dei testimoni (cfr. F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 220, il quale fra l'altro parrebbe ritenere, assai discutibilmente, che il nuovo istituto realizzi sempre una liberalità; C. PRIORE, Strutturazione e stesura dell'atto negoziale di destinazione, in AA.VV., La trascrizione…, cit., p. 97), operando una sostanziale equiparazione fra negozio di destinazione liberale e donazione, non persuade per le stesse ragioni esposte nel testo relativamente al trust.

[nota 10] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 880.

[nota 11] Cfr. sul punto F.W. MAITLAND, L'equità, Milano, 1979, p. 37-41 e 71-72; M. LUPOI, «Riflessioni comparatistiche sui trusts», in Eur. e dir. priv., 1998, p. 425 e ss.; S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 117 e ss.

[nota 12] Prevale comunque, nettamente, la tesi dell'unilateralità: cfr. per tutti M. LUPOI, Milano, 2001, passim; S. BARTOLI, Il Trust, cit. passim. Per un'autorevole opinione nel senso della natura contrattuale di tale trust, cfr. invece G. DE NOVA, «Trust: negozio istitutivo…», cit., p. 166 e ss.

[nota 13] La soluzione del quale implica, evidentemente, l'individuazione di un differente momento perfezionativo del negozio stesso (ove si tratti di negozio unilaterale: l'emissione della dichiarazione negoziale del disponente ovvero, se si ipotizza – come pare preferibile – il carattere recettizio di detta dichiarazione, l'avvenuta ricezione di essa da parte del trustee; ove si tratti di contratto: il momento in cui l'accettazione del trustee pervenga al proponente-disponente).

[nota 14] Cfr. per tutti S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 310 e ss.

[nota 15] Ben riflette tale concezione il fatto che nella prassi il beneficiario, a differenza del trustee, normalmente non presenzi alla costituzione del trust.

[nota 16] Ben maggiori sono invece, stante l'assoluta vaghezza della norma, le discussioni sorte relativamente alla struttura del negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c. In estrema sintesi, si può affermare che nel caso di vincolo autodichiarato prevale largamente la tesi del negozio unilaterale (cfr. per tutti G. PETRELLI, «La trascrizione…», cit., § 3), mentre un orientamento minoritario ipotizza l'esistenza di un contratto fra disponente e beneficiario (cfr. per tutti F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 217 e 221-227); quanto poi all'ipotesi (come si è visto, di discussa ammissibilità: vedi nota 2) di vincolo implicante trasferimento dei beni ad un gestore, prevale (pur con svariate sfumature) la tesi del contratto fra disponente e gestore (cfr. per tutti G. PETRELLI, «La trascrizione…», cit., § 3), mentre tesi minoritarie ipotizzano ora un contratto fra disponente e beneficiario (cfr. per tutti G. BARALIS, «Prime riflessioni ni tema di art. 2645-ter c.c.», in Negozio di destinazione…, cit., p. 145-146), ora la combinazione fra un negozio unilaterale - idonea a produrre a destinazione - ed un contratto di mandato fra disponente e gestore - idoneo a trasferire a quest'ultimo il bene destinato (cfr. in tal senso, se bene si è inteso il suo pensiero, P. SPADA, «Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta», in Negozio di destinazione…, cit., p. 125).

[nota 17] Cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Riflessioni su talune clausole utilizzate nei trusts interni, in S. BARTOLI - M. GRAZIADEI - D. MURITANO - L.F. RISSO, I Trust interni e le loro clausole, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma 2007 (ediz. fuori commercio), p. 89 e ss. La presente relazione si fonda essenzialmente su tale più ampio contributo.

[nota 18] Per ampie citazioni al riguardo cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Riflessioni…, cit., note 3 e 4 alle p. 90-91.

[nota 19] Principio generale anche questo pacifico (cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 880), pur se vi è talora divergenza di vedute in ordine all'applicabilità o meno di singole norme (come emergerà in alcuni luoghi del presente scritto).

[nota 20] Valga, senza alcun intento polemico, riferirsi a M. LUPOI, L'atto istitutivo di trust, Milano 2005; G. PETRELLI, Formulario notarile commentato, III, t. I, Milano 2003, p. 897 e ss.

[nota 21] Appare poi utile evidenziare come questo tipo di indagine sia di estrema utilità non solo per l'operatore che abbia intenzione di attuare finalità destinatorie mediante lo strumento del trust interno, ma anche per chi intenda, invece, utilizzare a tale scopo (o perché ritiene inammissibile il trust interno, o perché preferisce ad esso il nuovo istituto codicistico), la nuova figura negoziale prevista dall'art. 2645-ter c.c., cioè l'atto di destinazione regolato (non già da una legge straniera, bensì) dal diritto interno. Appare infatti evidente come l'operatore, in sede di redazione delle clausole di tale atto di destinazione, debba comunque fare i conti (si ispiri egli o meno al contenuto delle clausole reperibili in un atto istitutivo di trust interno) con le nostre norme imperative.

[nota 22] Cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 75.

[nota 23] L'autore di cui alla nota precedente si riferisce a quella peculiare ipotesi (detta anche "trust di ritorno") che si verifica allorchè, pur essendovi stato un valido ed efficace trasferimento dei beni dal disponente al trustee, il negozio istitutivo presenti carenze tali che la volontà del disponente non può dirsi compiutamente manifestata. In fattispecie del genere, nel diritto inglese il giudice emette una sentenza (fondata sull'equity ed avente natura dichiarativa) secondo la quale il trustee del trust negoziale a suo tempo istituito dal disponente deve considerarsi trustee di un diverso trust (che è - appunto - il resulting trust) avente quali beneficiari lo stesso disponente o, se deceduto, i soggetti cui spetterà il suo asse.

[nota 24] Sul punto cfr. per tutti S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 521 e ss.

[nota 25] Merita, però, ulteriore riflessione la clausola in base alla quale il disponente può esercitare un siffatto potere anche mediante testamento, stante il divieto dei patti successori indiretti: sul tema cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Riflessioni…, cit., p. 95 e ss. e 118.

[nota 26] Per clausole di tale tipo cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 467-468 ("art. 1"), 491 ("art. 3").

[nota 27] Su questo tema cfr. A. TORRENTE, La donazione, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu -F. Messineo, Milano, 1956, p. 351 e ss. e 417; B. BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, Torino 1961, p. 135 e ss.; G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 801-802 e 846-847; U. CARNEVALI, Le donazioni, in Tratt. dir. priv. a cura di P. Rescigno, Torino, 1984, vol. 6, p. 455-458 e 463-464. Poiché si sta esaminando una clausola che incide sull'individuazione dei beneficiari, sarebbe a rigore sufficiente trattare di tale principio solo con riguardo al profilo dei soggetti destinatari della liberalità. Nel presente paragrafo, invece, per ragioni di completezza si esporranno anche le implicazioni del principio sul piano dell'oggetto della liberalità: a tempo debito, infatti, detti profili verranno parimenti in questione.

[nota 28] Analogamente a quanto dispone, in tema di liberalità mortis causa, l'art. 631, comma 1°, c.c.

[nota 29] L'art. 778 c.c. altro non ha fatto che elevare al rango di diritto positivo le analoghe conclusioni cui giurisprudenza e dottrina già erano pervenute sotto il vigore del codice civile del 1865 (cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 351-352).

[nota 30] Cfr. comma 2° della norma citata, il cui dettato è analogo a quello dell'art. 631, comma 2°, c.c.

[nota 31] Cfr. comma 3° della norma citata, che fissa un principio analogo a quello desumibile a contrario dall'art. 632, comma 1°, c.c., nonché dall'art. 665 c.c.

[nota 32] Nel senso di cui al testo cfr. U. CARNEVALI, Le donazioni, cit., p. 534; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 65-66; B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 929-930. In senso contrario cfr. Cass. 12 novembre 1992, n. 12181, in Giur. it., 1993, I, 1, p. 114, secondo la quale «l'art. 778 c.c. è una delle norme regolanti la donazione … che, per non essere richiamata dall'art. 809 c.c., non è applicabile agli atti, diversi dal contratto di donazione, dai quali risultino liberalità». Occorre però considerare che detta pronunzia è stata emessa in relazione ad una ipotesi di negozio misto con donazione (trattavasi, per la precisione, di una vendita a prezzo inferiore a quello di mercato), fattispecie questa difficilmente assimilabile alla liberalità attuata mediante trust, nella quale, a fronte dell'impoverimento subito dal disponente, manca una qualunque controprestazione (sia pure inidonea – come accade nel negozio misto con donazione – a conferire un equilibrio economico al negozio) a suo favore. Non è pertanto certo che la Suprema Corte, posta eventualmente di fronte ad un trust liberale inter vivos debordante dai limiti di cui all'art. 778 c.c., adotterebbe identica soluzione (salva, forse, l'ipotesi di trust in cui il disponente figuri, altresì, fra i beneficiari: in detta ipotesi, infatti, una qualche assimilabilità con il negozio misto con donazione – s'intende: da un punto di vista meramente economico – parrebbe possibile).

[nota 33] Connesso al tema della personalità della volizione liberale è altresì l'art. 777 c.c., il quale vieta al rappresentante legale di un minore o di un interdetto di stipulare donazioni in vece di costoro, salva la limitata ipotesi prevista - in tema di interdetti - nel comma 2°: quest'ultimo tema, però, essendo intimamente connesso a quello della capacità a donare, sarà oggetto di più diffusa disamina nel prosieguo.

[nota 34] A tale conclusione non pare d'ostacolo (ove la si ammetta) la natura unilaterale (e non contrattuale) del negozio istitutivo del trust inter vivos: l'art. 1324 c.c., infatti, pare consentire di applicare anche al trust i principii imperativi fissati dal nostro ordinamento in materia contrattuale, ché ritenere il contrario significherebbe ritenere il trust esentato dal rispetto dei medesimi, in aperto contrasto con quanto invece previsto dall'art. 15 della Convenzione. Questa osservazione vale anche per tutte le norme imperative in tema di contratti che saranno oggetto della parte successiva di questo scritto, e non sarà perciò ogni volta ripetuta. Non pare costituire ostacolo alla conclusione di cui al testo neppure il fatto che, nella previsione dell'art. 778 c.c., il terzo cui è deferita l'individuazione dell'oggetto e/o del beneficiario della liberalità possa essere configurato come un rappresentante o - quanto meno - come un mandatario del donante, mentre il trustee non è - propriamente - né l'uno né l'altro (per le differenze fra trustee e mandatario, con o senza rappresentanza, cfr. infatti, per tutti, S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 343 e ss.). Com'è stato osservato, infatti, i limiti all'arbitrio del terzo individuati dall'art. 778 c.c. si devono considerare applicabili a qualunque terzo, quale che sia la fonte negoziale del suo potere di incidere sul contenuto della liberalità (cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 351 e 417).

[nota 35] Cfr. in tal senso M. LUPOI, Trusts, cit., p. 641 (nt. 260); S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 695; E. MOSCATI, «Trust e vicende successorie», in Eur. e dir. priv., 1998, p. 1114-1115.

[nota 36] Appare dunque condivisibile solo se interpretata nel senso di cui al testo quella autorevole dottrina (cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 82) la quale si limita ad affermare che una clausola siffatta non viene utilizzata nella prassi dei trusts interni, in considerazione dell'ampiezza di poteri che, in tal modo, il disponente attribuirebbe al terzo. Parrebbe infatti più appropriato sottolineare che tale clausola "non deve essere utilizzata", stante la sua probabile nullità.

[nota 37] Segnala l'esigenza del rispetto di dette norme nell'individuazione dei beneficiari del trust, sia pure senza scendere in dettagli, S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 696. La questione si pone anche in tema di negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c. (cfr. G. PETRELLI, «La trascrizione…», cit., §§ 6 e 7 ; S. BARTOLI, «Riflessioni…», cit., nota 88 c. 1304).

[nota 38] Chiaro in questo senso appare B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 249 e 622. Per l'accostamento fra la ratio dell'art. 784 c.c. e quella del divieto di fedecommesso cfr. invece A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 363.

[nota 39] Per clausole siffatte cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 450 ("art. 2" del par. 4), 451 ("art. 5" e "art. 7"), 452 ("art. 3"), 457-458 ("art. 3", "art. 4"), 458-459 ("art. 6" e "art. 7"), 459 ("art. 1"), 460-461 ("art. 1"), 461 ("art. 2"), 462 ("art. 3"), 465-466 ("art. 1", "art. 2", "art. 3" e "art. 4"), 467 ("art. 2"), 477 ("art. 8"i), 480-481 ("art. 5"), 490-491 ("art. 2-A-b-i" e "art. 3-A-b-ii"), 546 ("art. 6" dell'atto istitutivo n. 4), 575 ("art. 4" dell'atto istitutivo n. 6). Con riferimento a quest'ultima clausola, va segnalato come dalle premesse dell'atto istitutivo (alle p. 572-573) si ricavi che tale trust è destinato al "mantenimento" dei beneficiari, il che potrebbe ingenerare il dubbio che si tratti di trust solutorio e non liberale. In contrario può rilevarsi, anzitutto, come il concetto di "mantenimento" sia diverso da quello di "alimenti"; in secondo luogo, che la circostanza non parrebbe rilevante al fine di escludere il carattere liberale del trust, tenuto conto che esso ha durata di 120 anni e che l'obbligazione alimentare si estingue a seguito della morte del disponente. Per clausole siffatte cfr. anche G. ROTA - F. BIASINI, Il trust e gli istituti affini in Italia, Milano 2007, p. 168 ("art. 7") e 178 ("art. 4").

[nota 40] In tutto o in parte ed in una o più volte, a seconda di quanto stabilito dal disponente.

[nota 41] Per clausole siffatte cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 452 ("art. 2" ), 468 ("art. 4" e "art. 5").

[nota 42] Per una clausola del genere cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 156.

[nota 43] è evidente che nel caso in cui il disponente possa, invece, esercitare il potere in oggetto solo ove si verifichino determinati presupposti e comunque con una discrezionalità limitata, siamo al di fuori dell'ambito della condizione risolutiva meramente potestativa.

[nota 44] Si pensi al beneficiario di reddito che abbia diritto a redditi del trust sin dalla sua istituzione.

[nota 45] Si pensi al beneficiario di reddito minorenne che dovrebbe iniziare a ricevere detti redditi all'età di 18 anni, ma viene eliminato o sostituito dal disponente prima di detta età.

[nota 46] Appare interessante osservare che, con riferimento al negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c., la vaghezza del disposto normativo ha fatto sì che, se è pacifica l'ammissibilità di beneficiari di reddito, si discute in ordine alla configurabilità di beneficiari finali: in senso negativo cfr. F. GAZZONI, Osservazioni, cit., p. 226-227; G. OBERTO, «Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust…», cit., § 11; per la prevalente tesi positiva (la quale, per lo più, non motiva sul punto) cfr. ad esempio PETRELLI, «La trascrizione…», cit., § 7.

[nota 47] Detto problema di qualificazione giuridica subisce, d'altro canto, un drastico ridimensionamento ove si aderisca alla tesi dottrinale (cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1987, p. 521-522) secondo la quale la condizione risolutiva meramente potestativa altro non sarebbe, in realtà, che una clausola di recesso.

[nota 48] Cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, p. 199.

[nota 49] Cfr. P. RESCIGNO, voce Condizione (dir. vig.), in Enc. dir., vol. VIII, s.d. ma Varese 1961, p. 796; D. BARBERO, voce Condizione, in Nuov. Dig. it., dir. civ., vol. III, Torino, p. 1103.

[nota 50] Cfr. ad esempio Cass. 18 novembre 1981, n. 6107, in Mass. Giur. it., 1981; Cass. 16 novembre 1985, n. 5631, in Mass. Giur. it., 1985; Cass. 25 gennaio 1992, n. 812, in Riv. not., 1993, p. 489; Cass. 15 settembre 1999, n. 9840, in Giur. it., 2000, p. 1161 (la quale comunque precisa che la parte dovrà avvalersi di una clausola condizionale siffatta «senza dar luogo ad abuso del diritto», cioè senza «violazione dei principi di correttezza, affidamento e buona fede»).

[nota 51] Poco convincente appare, però, l'affermazione di quelle pronunzie (cfr. ad es. Cass. 2504/74) che ritengono di distinguere la condizione risolutiva meramente potestativa dal recesso alla luce dell'asserito effetto sistematicamente irretroattivo di quest'ultimo: a parte, infatti, la considerazione che anche una condizione risolutiva può operare ex nunc (come risulta dall'art. 1360, comma 1°, c.c.), occorre evidenziare che l'art. 1373, ultimo comma, c.c. sancisce il carattere meramente dispositivo delle norme sul recesso, il che rende ipotizzabile sia un recesso ex tunc da un contratto di durata, in deroga al comma 2° della norma, sia addirittura un recesso ex tunc da un contratto non di durata che ha già avuto un principio di esecuzione, in deroga al comma 1° della norma (in quest'ultimo senso cfr. Cass. 27 febbraio 1990, n. 1513, in Mass. Giur. it., 1990; Cass. 25 gennaio 1992, n. 812, in Riv. not., 1993, p. 489; Cass. 15 settembre 1999, n. 9840, in Giur. it., 2000, p. 1161).

[nota 52] Tale divieto era presente nel codice del 1865 sia per il contratto in generale (art. 1162) che con specifico riferimento alla donazione (art. 1066). Nel codice attualmente vigente, invece, questa duplicazione di norme è venuta meno, essendovi la sola previsione generale dell'art. 1355 c.c., di pacifica applicabilità anche alla donazione (cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 496 e ss.; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 460).

[nota 53] Problema, a quanto consta, mai affrontato dalla giurisprudenza sotto l'impero del codice civile vigente, salvo quanto si dirà nel prosieguo a proposito di Cass. 10 ottobre 1970, n. 1933, in Riv. not., 1971, p. 268.

[nota 54] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 61 e ss.; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 308 e ss.

[nota 55] Per il quale «La donazione è un atto di spontanea liberalità, con il quale il donante si spoglia attualmente ed irrevocabilmente della cosa donata in favore del donatario che l'accetta».

[nota 56] In detta norma, infatti, non figura più l'espressione «attualmente ed irrevocabilmente». La Relazione al codice giustifica la soppressione con la considerazione che il principio di irrevocabilità della donazione è ormai un inutile relitto del diritto consuetudinario francese (cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 66).

[nota 57] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499 e 858-859.

[nota 58] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499.

[nota 59] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499.

[nota 60] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499. Come subito si vedrà, però, la tesi prevalente attribuisce alla clausola la natura di condizione risolutiva meramente potestativa.

[nota 61] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499, 518-519 e 858-859. Sul problema dell'ammissibilità o meno di una clausola di recesso nella donazione si avrà, però, modo di soffermarsi più ampiamente nel prosieguo.

[nota 62] Cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 308 e ss. e 465.

[nota 63] Si è visto, del resto, come la Suprema Corte escluda la riferibilità dell'art. 1355 c.c. anche alla condizione risolutiva meramente potestativa.

[nota 64] In tal senso si pronunzia, del resto, la dottrina prevalente: cfr. ad es. U. CARNEVALI, Le donazioni, cit., p. 475.

[nota 65] In tale ottica, l'autore in esame non ha difficoltà a ritenere ammissibile anche una donazione con riserva di disporre della totalità dei beni donati (cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 465 e ss.). A suo avviso, infatti, se sotto il codice civile del 1865, nel quale figurava il principio dell'irrevocabilità della donazione (art. 1050), l'art. 1069 (antenato dell'attuale art. 790 c.c.) poteva esser ritenuto un'eccezionale deroga ad un generale principio che vietava al donante di sciogliersi unilateralmente dalla donazione (deroga, come tale in suscettibile di interpretazione estensiva o analogica), nel codice vigente, scomparso dall'art. 769 c.c. qualunque riferimento all'irrevocabilità, all'art. 790 c.c. non resterebbe che la funzione di mera norma interpretativa di una clausola (quella - appunto - di riserva parziale) che il legislatore ha ritenuto potesse ricorrere con una certa frequenza. Contrario alla riserva di disporre totale, invece, B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 858 e ss., che nell'art. 790 c.c. vede una norma eccezionale, in coerenza con la sua impostazione secondo la quale permane nel sistema del codice vigente, pur se l'art. 769 c.c. non contiene più il riferimento all'irrevocabilità della donazione, l'impossibilità per il donante di sciogliersi unilateralmente da essa (impostazione che porta detto autore ad escludere sia - come si è visto - la condizione risolutiva meramente potestativa, sia -come già si è accennato - il recesso). Nello stesso senso cfr. U. CARNEVALI, Le donazioni, cit., p. 475; BALBI, La donazione, in Tratt. dir. civ. diretto da Grosso–Santoro Passarelli, Milano, 1964, p. 56.

[nota 66] Si evidenzia che la tesi favorevole alla condizione risolutiva meramente potestativa si lascia preferire anche alla luce di quanto subito si dirà in tema di recesso.

[nota 67] Anche alla luce di quanto affermato, come si vedrà , da Cass. 1933/1970, cit.

[nota 68] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 499, 518-519 e 858-859.

[nota 69] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 518.

[nota 70] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 857 e ss. Nello stesso senso, implicitamente, A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 308 e ss.

[nota 71] Cfr. Cass. 1933/1970, cit.

[nota 72] Al solito, merita però ulteriore riflessione la clausola in base alla quale il disponente può esercitare un siffatto potere anche mediante testamento, stante il divieto dei patti successori indiretti: sul tema cfr. S. BARTOLI - D. MURITANO, Riflessioni…, cit., p. 95 e ss. e 118.

[nota 73] Per una clausola del genere cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 454 ("art. 9").

[nota 74] In quanto, in ipotesi siffatte, il disponente effettua una liberalità la cui efficacia finisce per dipendere (poco importa - come si vedrà - se la condizione è congegnata come sospensiva ovvero come risolutiva) dalla mera volontà di un terzo.

[nota 75] Cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 355, per il quale la tesi dominante dell'illiceità della condizione si voluerit in materia testamentaria sarebbe di dubbio fondamento e comunque sarebbe inestendibile alla donazione, poiché l'art. 778 c.c. vieterebbe solo «che un terzo si sostituisca al donante nella formazione della sua volontà o nella determinazione di elementi che, essendo fondati su una sua valutazione personale, non possono promanare che dal donante medesimo», sì che «subordinare la donazione all'approvazione di un terzo significa soltanto subordinare l'efficacia ad una condizione dipendente dalla volontà di un terzo, il che non è vietato (art. 1355 c.c.)».

[nota 76] Su questa linea parrebbe muoversi, implicitamente, B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 135.

[nota 77] Nel testo si aderisce così implicitamente alla tesi, del resto dominante (cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 818 e ss.; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 478-479; B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 504-505), secondo la quale alla donazione cui è apposta una condizione illecita può applicarsi non già la cosiddetta regola sabiniana di cui agli artt. 634, 647 e 794 c.c. (la quale implicherebbe la nullità della sola condizione, con salvezza del negozio, salva l'ipotesi prevista dall'art. 626 c.c.), bensì - appunto - la regola generale ex art. 1354 c.c. valevole per tutti i negozi affetti da condizioni illecite. Tale orientamento precisa che, pur se il codice civile vigente non contiene più (a differenza del codice del 1865: cfr. art. 1065) una norma che dichiara nulla la donazione sotto condizione illecita, non può desumersi da ciò una volontà innovativa del legislatore, stante la presenza di una norma generale di tenore analogo (l'art. 1354 c.c.). Per la tesi minoritaria secondo la quale dovrebbe, invece, applicarsi la regola sabiniana (e precisamente lo stesso trattamento normativo riservato, dall'art. 794 c.c., alla donazione con modus illecito), cfr. P. RESCIGNO, Manuale del diritto privato, Napoli, 1977, p. 562.

[nota 78] Poco importa, fra l'altro, che la clausola sia congegnata in modo tale da far operare la condizione si voluerit ex nunc invece che retroattivamente (si pensi al caso del beneficiario di reddito che, nel momento in cui il terzo si avvale del suo potere di eliminarlo o sostituirlo, già ha iniziato a godere dei redditi del trust): come si evince dall'art. 1360, comma 1°, c.c., infatti, un siffatto effetto irretroattivo non è incompatibile con la natura di condizione della clausola. F. ROTA - G . BIASINI, Il trust e gli istituti affini in Italia, cit., p. 58, ritengono che la modifica delle posizioni soggettive dei beneficiari abbia natura di condizione risolutiva e sia valida, ma con motivazione che ci pare insufficiente.

[nota 79] Così che, ove il potere in oggetto venga esercitato dal terzo, diverrà operativo un resulting trust.

[nota 80] Il problema di cui al testo non dovrebbe invece porsi laddove il disponente abbia già individuato dei beneficiari per l'eventualità che il terzo si avvalga del potere di eliminare la totalità di quelli designati "in prima battuta": in questo caso, infatti, parrebbe esservi equivalenza funzionale con una clausola che dà al terzo il potere di scegliere se beneficiari saranno costoro ovvero quelli designati "in seconda battuta".

[nota 81] Non pare invece tener conto dell'art. 784, comma1° c.c. chi (cfr. G. PETRELLI, Formulario…, cit., p. 938-939 e 942) propone clausole di un trust liberale secondo le quali alla fine del trust ne saranno beneficiari, rispettivamente, «i discendenti del disponente … che saranno in quel momento in vita» ed i discendenti dei fratelli del disponente.

[nota 82] Sui trusts discrezionali cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 216 e ss.; S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 278 e ss.; M. GRAZIADEI, Diritti nell'interesse altrui, Trento, 1995, p. 403 e ss.; A. UNDERHILL - D.J. HAYTON, Law relating, cit., p. 63 e ss.; P.H. PETTIT, Equity and the law of trusts, Londra-Dublino-Edimburgo, 1993, p. 68 e ss.

[nota 83] Si pensi ad un trust secondo il quale: «Sono beneficiari del reddito del trust Tizio, Caio e Sempronio. Il trustee dovrà, a sua scelta, erogare detto reddito ad uno ovvero a più dei detti soggetti. In quest'ultimo caso, la misura dell'erogazione dovrà tener conto dell'entità dei bisogni economici di ciascun destinatario della medesima».

[nota 84] Esempio: «Sono beneficiari del reddito del trust Tizio, Caio e Sempronio. Il trustee dovrà, a sua scelta, erogare detto reddito ad uno ovvero a più dei detti soggetti. In quest'ultimo caso, l'erogazione avverrà in parti uguali fra i destinatari della medesima».

[nota 85] Appaiono rientrare in questa tipologia le clausole [reperibili in M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 308-309, 474 ("art. 3" e "art. 4") e 480 ("art. 2")] secondo le quali «nel corso della durata del trust il trustee può versare reddito del fondo in trust a quei beneficiari che ritenga», ovvero «nel corso della durata del trust il trustee può: 1. Nel corso del periodo di accumulazione, accumulare reddito del fondo in trust, in tutto o in parte, incrementando il fondo in trust; 2. Versare reddito del fondo in trust a quei beneficiari che ritenga».

[nota 86] Problema già affrontato, con riguardo all'ipotesi in cui il disponente attribuisce ad un terzo il potere di eliminare e/o di sostituire beneficiari del trust.

[nota 87] Per questa nozione di "reddito accumulato" cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 56 e 291-293.

[nota 88] La durata del periodo di accumulazione consentito al trustee dipende, in estrema sintesi, da due fattori: le previsioni della legge regolatrice del trust (poiché l'art. 8 paragrafo secondo lettera f) della Convenzione include - appunto - il power to accumulate the income of the trust fra le materie da tale legge disciplinate) e la volontà del disponente, il quale può fissare una durata del periodo in questione inferiore a quella massima eventualmente prevista dalla legge regolatrice.

[nota 89] Irrilevante al riguardo appare la circostanza che il reddito capitalizzato debba essere attribuito dal trustee, in adempimento del resulting trust, al disponente o, se deceduto, ai suoi eredi o legatari (che di detto resulting trust sono i beneficiari): trattasi infatti - come si è detto - di un effetto restitutorio derivante da un provvedimento giudiziale di natura dichiarativa ed estraneo agli effetti negoziali (cioè riconducibili alla volontà del disponente) del trust discrezionale.

[nota 90] A differenza di quanto sovente accade per l'accumulazione del reddito (cfr. precedente nt. 183), l'accantonamento di esso non soggiace a limiti legislativi di durata (cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 293).

[nota 91] Per questa nozione di "reddito accantonato" cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 56 e 293-294. Quanto alle modalità di distribuzione di detto reddito ai beneficiari di reddito, la clausola b) prevede che il trustee possa decidere a chi ed in quale misura erogarlo e tale potere crea le medesime problematiche descritte per l'analogo potere previsto dalla clausola a).

[nota 92] Se poi i beneficiari di reddito esistenti nel momento in cui il trustee decide di accantonare il reddito non coincidono con quelli esistenti allorché egli decide finalmente di erogarlo, la clausola b) non pare porre problemi perché - al solito - essa implica l'esistenza di un potere del trustee di selezionare i beneficiari di reddito all'interno della classe a suo tempo indicata dal disponente.

[nota 93] Per un esempio cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 125 e 464 ("art. 1"). Di solito la clausola mira ad operare per un periodo di tempo determinato (ad esempio, fino al compimento della maggiore età da parte del beneficiario minorenne).

[nota 94] Più precisamente, trattasi della Trust Law Revision del 2001, nella cui parte VIII sono confluite le disposizioni di una precedente legge del 1997 (intitolata "Special Trust Alternative Regime").

[nota 95] Si tratta di una delle disposizioni più significative del cosiddetto "S.T.A.R. Trust" (la sigla sta per "Special Trust Alternative Regime", che è poi il titolo della legge del 1997 di cui alla nota precedente).

[nota 96] Per un breve accenno all'esistenza del problema cfr. anche M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 12-13, 125 e 306-308 (il quale, però, parrebbe escludere che la clausola in esame violi l'art. 15 della Convenzione); V. VIGORITI, «Trustee e beneficiari: l'arbitrato difficile», in Taf, 2002, p. 508 e ss.

[nota 97] D'ora in avanti, per brevità, all'interno dei vari paragrafi si userà la sigla "a.di s." per indicare sia "amministrazione di sostegno" che "amministratore di sostegno".

[nota 98] Occorre comunque accennare al fatto che l'ammissibilità di quest'ultima figura è molto discussa. Basti brevemente ricordare al riguardo che, se la giurisprudenza di merito appare divisa (con prevalenza della tesi positiva), per la tesi negativa si è pronunziata Corte Cost. 9 dicembre 2005, n. 440, in FD, 2/2006, p. 121 (che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità del nuovo art. 404 c.c., nella parte in cui – secondo la tesi del giudice a quo – esso renderebbe l'a.di s. uno strumento fungibile rispetto all'interdizione, poiché in nessun caso l'ambito di detta procedura può coincidere con quello dell'interdizione), mentre una recente decisione della Suprema Corte (cfr. Cass. 12 giugno 2006, n. 13584, in Corr. giur., 2006, p. 1529) parrebbe tendere, invece, ad una composizione del conflitto interpretativo affermando, in estrema sintesi, quanto segue: a) l'a. di s. può essere disposta anche con riguardo ad un soggetto totalmente incapace, ma solo a patto che, nel caso concreto, tale misura appaia più idonea dell'interdizione a soddisfare le esigenze del soggetto; b) tale maggiore idoneità sussiste allorché si tratti di compiere, nell'interesse dell'incapace totale, una «attività minima, estremamente semplice, e tale da non rischiare di pregiudicare gli interessi del soggetto, vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione) e per l'attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell'attività di sostegno nei suoi confronti»; c) deve invece procedersi all'interdizione se si tratta «di gestire un'attività di una certa complessità … ovvero nei casi in cui appaia necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti pregiudizievoli per sé, eventualmente anche in considerazione della permanenza di un minimum di vita di relazione … ovvero in ogni altra ipotesi in cui il giudice di merito … ritenga lo strumento di tutela apprestato dall'interdizione l'unico idoneo» per la protezione di quel dato soggetto; d) il criterio del tipo di attività (semplice o complessa) da compiersi «non esclude, peraltro, la necessità della considerazione, in via concorrente, di quelli concernenti la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell'impedimento».

[nota 99] In tal senso cfr. ad esempio A. GUERRA, «Il curatore speciale per l'amministrazione dei beni donati o lasciati ad incapaci», in Riv. not., 1960, p. 173.

[nota 100] Cfr. Cass. 5 febbraio 1975, n. 423, in Mass. Giur. it., 1975, secondo cui «introducendo una deroga alla regola generale per cui la rappresentanza dei minori e l'amministrazione dei loro beni competono al genitore esercente la potestà, l'art. 356 c.c. integra una norma eccezionale di stretta interpretazione e non è, pertanto, applicabile alle donazioni indirette, riguardo alle quali le norme sulle donazioni dirette sono applicabili unicamente nei limiti di cui all'art. 809 c.c. (...) (nella specie, è stato escluso che il genitore potesse nominare, in base alla citata norma, un curatore speciale ai figli minori, autorizzandolo a riscuotere, dopo la sua morte, il premio di un contratto di assicurazione a favore dei superstiti di cui i minori stessi erano stati designati come beneficiari, avendo il giudice di merito escluso che tale designazione costituisse una donazione diretta o una disposizione testamentaria)».

[nota 101] L'art. 411, comma 1°, c.c., infatti, non rinvia all'art. 356 c.c.

[nota 102] In tali casi è stato ovviamente necessario richiedere, in sede di volontaria giurisdizione, le autorizzazioni previste dalla legge: cfr. Trib. Perugia - Giudice Tutelare (decr.) 16 aprile 2002, in Trusts, 2002, p. 584 (disponente minore che, conferendo propri beni, aderisce ad un trust preesistente istituito dalle sorelle); Trib. Bologna - Giudice Tutelare (decr.) 3 dicembre 2003, in Taf, 2004, p. 254 (disponente minore; il relativo atto istitutivo è in Taf, 2004, p. 477); Trib. Firenze - Giudice Tutelare (decr.) 8 aprile 2004, in Taf, 2004, p. 567 (disponente minore); Trib. Modena - Giudice Tutelare (decr.) 11 agosto 2005, in Taf, 2006, p. 581 (disponente beneficiario di a. di s.); Trib. Ferrara (decr.) 28 febbraio 2006, inedito (disponente interdetto); Trib. Genova - Giudice Tutelare (decr.) 14 marzo 2006, in Taf, 2006, p. 415 (disponente beneficiario di a. di s.).

[nota 103] Tali sono il trust oggetto del provvedimento autorizzativo emesso da Trib. Bologna - Giudice Tutelare (decr.) 3 dicembre 2003, cit. e quello oggetto del provvedimento autorizzativo emesso da Trib. Modena - Giudice Tutelare (decr.) 11 agosto 2005, cit., come si ricava dall'art. 5.1 del relativo atto istitutivo [Beneficiario principale del presente trust è il signor C.P. (il disponente: n.d.r.), come sopra meglio identificato].

[nota 104] Un analogo problema si pone (e viene risolto per lo più nel senso dell'inammissibilità) per il negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c. in cui il disponente sia l'unico beneficiario (cfr. ad esempio, P. SPADA, «Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta», in Negozio di destinazionecit., p. 124; M. BIANCA - M. D'ERRICO - A. DE DONATO - C. PRIORE, L'atto notarile di destinazione…, cit., p. 29).

[nota 105] Tali erano i trusts oggetto dei provvedimenti autorizzativi Trib. Firenze - Giudice Tutelare (decr.) 8 aprile 2004, cit. e da Trib. Ferrara (decr.) 28 febbraio 2006, cit. Non a caso, a quanto consta, dopo aver conseguito le dette autorizzazioni giudiziali i professionisti incaricati hanno deciso nel primo caso di non procedere all'istituzione del trust e nel secondo caso di richiedere un parere sulla fattibilità dell'operazione al Consiglio Nazionale del Notariato (non è noto a chi scrive quale sia poi stato l'esito di quest'ultima vicenda). Tale era altresì il trust oggetto del provvedimento autorizzativo Trib. Genova - Giudice Tutelare (decr.) 14 marzo 2006, cit., il quale è stato invece regolarmente istituito. Non essendo stato possibile visionare l'atto istitutivo del trust oggetto del provvedimento autorizzativo Trib. Perugia - Giudice Tutelare (decr.) 16 aprile 2002, cit., non è possibile a chi scrive stabilire se anche detto trust rientrasse o meno in questa tipologia. Il trust istituito dal beneficiario dell'a. di s. in forza del provvedimento autorizzativo emesso da Trib. Modena - Giudice Tutelare (decr.) 11 agosto 2005, cit., è invece un trust che non prevede beneficiari ulteriori rispetto al disponente stesso. L'art. 5.2. dell'atto istitutivo infatti prevede che beneficiari finali del trust siano «gli eredi individuati secondo il diritto successorio italiano» del disponente.

[nota 106] Cfr. per tutti G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 883; U. CARNEVALI, Le donazioni, cit., p. 532; A. NATALE, La donazione, in Trattato diretto da G. Bonilini, I, Torino, 2001, p. 339; C. SCOGNAMIGLIO, La capacità di disporre per donazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 291; in senso contrario cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 320, secondo il quale la capacità di porre in essere una donazione indiretta dovrebbe invece essere regolata dalle norme applicabili, in materia, al negozio-mezzo impiegato.

[nota 107] Secondo la costante dottrina (cfr. per tutti G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 873; B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 150 e ss.), infatti, la violazione dell'art. 777, comma 1°, c.c. determina non la mera annullabilità, ma la radicale nullità del negozio, che si giustifica per il carattere personale dell'animus donandi e per l'effetto particolarmente pregiudizievole del negozio in oggetto.

[nota 108] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 846-847.

[nota 109] Cfr. G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, p. 801; A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, 1984, p. 785-786; V. DE PAOLA - F. MACRì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978; p. 31; F. SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, in Comm. cod. civ., Torino, 1983, p. 107.

[nota 110] Cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 323.

[nota 111] Cfr. G. AZZARITI, Le successioni…, cit., p. 801.

[nota 112] Come si è visto con riferimento al minore, mentre la donazione fatta personalmente dall'interdetto sarà annullabile, quella fatta dal suo tutore sarà, visto l'art. 777, comma 1°, c.c., radicalmente nulla.

[nota 113] Il quale, rinviando all'art. 779 c.c., dichiara nulla la donazione fatta a favore di chi è stato a. di s. del donante, ove essa sia anteriore all'approvazione del conto o all'avvenuta prescrizione dell'azione di rendiconto (la materia è regolata dagli artt. 386-388 c.c., cui rinvia l'art. 411, comma 1°, c.c.).

[nota 114] Così come fa, in tema di testamento, l'art. 596, comma 2°, c.c. (che consente al beneficiario di a. di s., pur se vi siano ancora pendenze contabili, di testare a favore di chi è stato suo a. di s., se quest'ultimo sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore) rispetto al precedente comma 1° della stessa norma (che invece vieta di testare a favore di chi è stato a. di s. del testatore finché vi siano pendenze contabili). Si noti, infatti, che anche l'art. 596 c.c., come l'art. 779 c.c., è richiamato dall'art. 411, comma 2°, c.c.

[nota 115] Parrebbero implicitamente muoversi nella stessa linea ermeneutica A. JANNUZZI - P. LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004, p. 330.

[nota 116] Si noti che, se appare certa la sanzione dell'annullabilità per un'eventuale donazione compiuta da un tale beneficiario di a. di s. (stante il disposto dell'art. 412 c.c.), meno certo è il tipo di sanzione per la donazione compiuta dall'a.di s. munito dal giudice del potere di sua legale rappresentanza: in quest'ultimo caso, infatti, potrebbe applicarsi sia l'art. 412 c.c. sia (come parrebbe più corretto) l'art. 777, comma 1°, c.c. (norma che – come si è visto – colpisce una donazione siffatta con la più radicale sanzione della nullità) in via analogica.

[nota 117] Per la quale cfr. ad esempio F. MASCOLO - G. MARCOZ, «L'amministrazione di sostegno e l'impianto complessivo del codice civile», in Riv. not., 2005, p. 1333-1334.

[nota 118] Così come fanno G. BONILINI - A. CHIZZINI, L'amministrazione di sostegno, Padova, 2004, p. 256.

[nota 119] Cfr. in tal senso per tutti A. JANNUZZI - P. LOREFICE, Manuale…, cit., p. 322. Ai sensi dell'art. 412 c.c. l'eventuale donazione dovrebbe esser colpita con la sanzione dell'annullabilità sia nel caso in cui venga compiuta dall'incapace, sia nel caso che venga compiuta dall'a. di s.: in quest'ultimo caso, infatti, non appare esservi spazio per l'applicazione analogica dell'art. 777, comma 1°, c.c. (dettato per un soggetto totalmente incapace) e per la correlata sanzione della nullità.

[nota 120] Ritengono applicabile l'art. 166 c.c. anche A. JANNUZZI - P. LOREFICE, Manuale…, cit., p. 322; F. MASCOLO - G. MARCOZ, «L'amministrazione di sostegno…», cit., p. 1335-1336.

[nota 121] Trattasi di Trib. Genova - Giudice Tutelare (decr.) 14 marzo 2006, cit.

[nota 122] Cioè non eccedano la misura di quanto è effettivamente necessario per il mantenimento del disabile.

[nota 123] Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 645-646; P. AMENTA, «Trust a protezione del disabile», in Taf, 2000, p. 619-620; G. GARRONE, «Soggetti deboli in famiglia e trust quale tutela etica», in Taf, 2004, p. 310 e ss.

[nota 124] Gli autori citati alla nota precedente partono da tale premessa per escludere che l'attribuzione a favore del disabile sia, nel caso considerato, soggetta ad azione di riduzione da parte di eventuali legittimari.

[nota 125] Cfr. in tal senso S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 664-666.

[nota 126] Tale tesi, infatti, sottrae l'attribuzione al disabile all'azione di riduzione da parte di eventuali legittimari e nell'ipotesi esaminata nel testo (in cui l'autore dell'attribuzione è un incapace) evita ad essa la sanzione dell'invalidità. Una siffatta tesi, inoltre, potrebbe forse sottrarre l'attribuzione al disabile anche all'azione revocatoria da parte di creditori del disponente, stante la previsione di cui all'art. 2901, comma 3°, c.c.

[nota 127] Appare in linea con questa affermazione F. VIGLIONE, Vincoli di destinazione nell'interesse familiare, Milano 2005, p. 109.

[nota 128] Per clausole siffatte cfr. M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 104, 464-465 ("art. 2" e "art. 4"), 477 ("art. 6", "art. 7" e "art. 8"), 478 ("art. 9", "art. 10", "art. 11", "art. 12" e "art. 13"), 480-481 ("art. 5"), 485-486 ("art. 5"), 551 (art. 20 dell'atto istitutivo di trust) e 571-588 (atto istitutivo di trust n. 6); G. PETRELLI, Formulario…, cit., p. 952.

[nota 129] Il problema dei beneficiari di reddito successivi si pone anche per il negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c., pur se ad esso non è stata ad oggi dedicata un'attenzione particolare: per la tesi favorevole cfr. ad esempio, ma solo implicitamente, G.A.M. TRIMARCHI, «Gli interessi riferibili a persone fisiche», in Negozio di destinazione…, cit., p. 269-270; per un'impostazione dubitativa cfr. C. PRIORE, «Redazione dell'atto di destinazione: struttura, elementi e clausole», in Negozio di destinazione…, cit., p. 189; per la tesi contraria cfr. invece G. OBERTO, «Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust…», cit., § 12.

[nota 130] Cfr. in tal senso F. MASCOLO - G. MARCOZ, «L'amministrazione di sostegno…», cit., p. 1349-1350. Ove si ammetta che un soggetto totalmente incapace possa esser beneficiario di a. di s., inoltre, non può escludersi che, in difetto di un siffatto provvedimento giudiziale estensivo ex art. 411, ultimo comma, c.c., l'art. 692 c.c. possa comunque applicarsi analogicamente ad un incapace siffatto.

[nota 131] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 575 e ss.

[nota 132] Cfr. per tutti G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 574.

[nota 133] Com'è stato osservato (cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 574), tale espressione è in realtà tecnicamente impropria. Non vi è infatti, in primo luogo, alcun obbligo di conservare, poiché vi è piuttosto un vincolo d'indisponibilità di carattere reale sui beni: l'eventuale alienazione in spregio all'art. 694 c.c., infatti, non comporta un mero obbligo risarcitorio, ma è colpita da una sanzione "reale". Non vi è neppure, in secondo luogo, un obbligo di restituire i beni al sostituito: alla morte dell'istituito, infatti, ove ricorrano gli altri presupposti di fatto descritti nel testo, si verificano ipso jure il venir meno della situazione proprietaria di costui e l'avveramento della condizione sospensiva affettante la delazione a vantaggio del sostituito. Si evidenzia infine che è parimenti vietato, salvo che ricorra l'ipotesi di fedecommesso assistenziale, anche il cosiddetto "fedecommesso de residuo", che si caratterizza per il fatto che l'istituito non ha l'obbligo di "conservare" i beni, ma solo di "restituire" al sostituito, al momento della propria morte, quanto ne resterà (cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 588-589).

[nota 134] Cfr. Cass. 26 marzo 1943, in Rep. Foro it., 1943-1945, voce Sostituzione fedecommissaria, n. 3.

[nota 135] è stato comunque precisato (cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna, 1980, p. 316 e ss.) che ricorrerà fedecommesso vietato (stante la frode alla legge perpetrata dal de cuius) nel caso in cui il termine individuato sia destinato a scadere dopo la morte dell'istituito, ovvero nel caso in cui si accerti che esso è stato individuato poiché coincide presumibilmente con la morte dell'istituito.

[nota 136] Salva, al solito, la sussistenza di termini individuati dal de cuius in frode alla legge [cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 406 (nota 1), nonché la nota precedente].

[nota 137] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 587; M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., 405-ter-407. Quest'ultimo autore risolve positivamente la preliminare questione dell'ammissibilità o meno, alla luce del principio di tipicità dei diritti reali, della situazione di proprietà temporanea creata da siffatte disposizioni testamentarie.

[nota 138] Su tale istituto cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 592-594; M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 413-429.

[nota 139] Cfr. in tal senso, F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1952-1963, VI, p. 524 e ss. Con riguardo alla donazione, B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 290, secondo il quale sussisterebbe «quell'ordo successivus che caratterizza il fedecommesso: prima uno e dopo l'altro».

[nota 140] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 593; M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 413-415.

[nota 141] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 594.

[nota 142] Si pensi al caso in cui il testatore leghi l'usufrutto su un bene, in via successiva, a favore dei suoi discendenti in linea retta.

[nota 143] Cfr. C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano 1952, II, p. 325-326.

[nota 144] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 594; M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 419.

[nota 145] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 817; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 403. Detti autori si riferiscono all'analogo divieto di donazione di usufrutti successivi ex art. 796 c.c., ma le loro considerazioni appaiono estendibili anche al divieto ex art. 698 c.c.

[nota 146] Cfr. in tal senso C. GANGI, La successione…, cit., II, p. 325.

[nota 147] è stato comunque precisato che detto tipo di annualità, più che essere poche come spesso si affermava, in realtà «non esistevano, dato che il termine non poteva riferirsi ad altri diritti reali tipici» (cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 421-422).

[nota 148] Cfr. in tal senso, ad esempio, C. GANGI, I legati nel diritto civile italiano con riguardo alla giurisprudenza, al diritto romano ed alle moderne legislazioni. Parte generale, Padova, 1932-1933, I, p. 258 (nt. 1). Com'è stato precisato (cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 421-422), la correttezza della tesi in esame viene confermata dal fatto che il successivo art. 902 del codice civile del 1865, il quale costituiva un'eccezione all'art. 901, si riferiva esclusivamente ad annualità obbligatorie.

[nota 149] Cfr. Cass. Napoli 12 maggio 1880, in Foro it., 1881, I, c. 17; Cass. Roma 18 maggio 1893, in Foro it., 1893, I, c. 764; Cass. 17 ottobre 1924, in Giur. it., 1925, I, 1, p. 59; Cass. 9 dicembre 1924, in Giur. it., 1925, I, 1, p. 1057; Cass. 3 luglio 1926, in Foro it., 1926, I, c. 1156.

[nota 150] Cfr. M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, cit., p. 422.

[nota 151] Conformi in dottrina G. CARAMAZZA, Delle successioni testamentarie. Artt. 587-712, Commentario teorico-pratico al cod. civ. diretto da V. De Martino, Roma 1982, p. 549-550; in giurisprudenza Cass. 1171/1954, in Giust. civ., I, p. 878-881.

[nota 152] Cfr. A. MARINI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, 13, Torino, 1986, p. 41; A. TORRENTE, Della rendita vitalizia, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1955, p. 55.

[nota 153] Ciò non toglie che sia priva di giustificazione e difficilmente condivisibile la tesi di chi (in sostanza effettuando un'interpretazione abrogatrice della porzione dell'art. 698 c.c. che si riferisce alla rendita) ritiene valido il legato di rendite successive (per tale tesi cfr. VALSECCHI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu - F. Messineo, Milano, 1961, p. 174).

[nota 154] Essa trova il suo antecedente storico nell'art. 902 del codice civile del 1865, che consentiva al testatore di «stabilire annualità da convertirsi in perpetuo o a tempo … in … oggetti di pubblica utilità».

[nota 155] G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 594.

[nota 156] Si pensi all'ipotesi in cui il testatore A abbia trasferito al trustee B un bene già locato o da locare a terzi, individuando quali beneficiari vitalizi dei canoni i propri discendenti in linea retta: alla morte di A potranno beneficiare del legato soltanto i discendenti di costui che siano, in quel momento, già nati o almeno concepiti.

[nota 157] Cfr. in tal senso M. LUPOI, Trusts, cit., p. 661 (nt. 309).

[nota 158] Le riflessioni che seguiranno appaiono quindi valide sia per il beneficiario di prestazioni d'importo fisso, sia per il beneficiario di prestazioni d'importo variabile.

[nota 159] Cfr. E. MOSCATI, «Trust e vicende…», cit., p. 1106-1110; P. PICCOLI, Trusts, patti successori, fedecommesso, in AA. VV., I trusts in Italia oggi a cura di I. Beneventi, Milano 1996, p. 139-143.

[nota 160] E ciò vale - si badi - anche nel caso in cui l'attribuzione al beneficiario finale debba aver luogo (analogamente a quanto accadrebbe in un fedecommesso) alla morte del trustee.

[nota 161] Cfr. ad esempio M. LUPOI, Trusts, cit., p. 661; P. PICCOLI, Trusts, patti successori…, cit., p. 143.

[nota 162] Cfr. ad esempio M. LUPOI, Trusts, cit., p. 661-662. Quest'ultima osservazione, però, non persuade: se è vero, infatti, che il trustee può di regola alienare i beni in trust, non è men vero che ciò determina non già la cessazione del vincolo di destinazione, ma il suo spostamento sul ricavato dell'alienazione; quanto poi al fatto che per i trusts siano normalmente previste durate massime, esso appare privo di rilievo, perché il legislatore considera inaccettabile il vincolo nascente da fedecommesso per il solo fatto che esso è destinato a protrarsi per la durata di una vita umana (quella dell'istituito), cioè per un periodo tendenzialmente più breve di quello di durata massima di un trust.

[nota 163] Più somigliante ad un fedecommesso (ma pur sempre non assimilabile ad esso) sarebbe un trust testamentario in cui il de cuius A trasferisca i propri beni ad un trustee B e designi C quale beneficiario finale, cui detti beni dovranno esser trasferiti alla morte del trustee. Trattasi comunque, all'evidenza, di una clausola del tutto estranea al tema dei beneficiari di reddito designati in via successiva.

[nota 164] Cfr. G.M. PALLICCIA, «Trusts testamentari inglesi riferentisi a beni siti in Italia», in Foro it., 1933, IV, c. 30-32.

[nota 165] Cfr. Cass. Napoli 29 marzo 1909, in Giur. it., 1909; I, 1, p. 649 (per un analisi di essa cfr. S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 730 e ss.). Assimilarono il trust al fedecommesso, invece, App. Cagliari 12 maggio 1898, in Giur. it., 1898, I, 2, p. 612; Cass. Roma 21 febbraio 1899, in Giur. it., 1899, I, 1, p. 216 (per un analisi di esse cfr. S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 725 e ss.).

[nota 166] Per la dottrina cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 657-663; S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 668 e ss.; per la giurisprudenza cfr. Trib. Oristano 15 marzo 1956, in Foro it., 1956, I, c. 1021; Trib. Lucca 23 settembre 1997, in Foro it., 1998, I, c. 2007.

[nota 167] Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 660 e ss.; S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 676 e ss.; P. PICCOLI, Trusts, patti successori..., cit., p. 142 e ss.; E. MOSCATI, «Trust e vicende…», cit., p. 1109 e ss.; C. BRUNETTI, «Il testamento dello zio d'America. Il trust "testamentario" », in Foro it., 1998, I, c. 2008.

[nota 168] Cfr. ad esempio P. PICCOLI, Trusts, patti successori…, cit., p. 142.

[nota 169] Ciò è tanto vero che il trustee, ove ciò non contrasti con le finalità dell'atto istitutivo, ben può alienare la piena proprietà dei beni in trust, facendo così divenire oggetto del patrimonio separato, in loro vece, il corrispettivo di tale alienazione.

[nota 170] Cfr. ad esempio S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 677.

[nota 171] Si pensi all'ipotesi in cui i beneficiari di reddito designati in via successiva abbiano il diritto di abitare nell'immobile costituente oggetto del trust. Non si dimentichi - fra l'altro - che il divieto ex art. 698 c.c. vale, come si è visto, anche per il diritto di uso e per il diritto d'abitazione.

[nota 172] Cfr. M. LUPOI, voce Trusts, – I) Profili generali e diritto straniero; II) Convenzione dell'Aja e diritto italiano, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1995, § 3.1.4.

[nota 173] Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 660; ID., «La sfida dei trusts in Italia», in Corr. giur., 1995, p. 1208; P. PICCOLI, Trusts, patti successori..., cit., p. 142 (nt. 197).

[nota 174] Cfr. artt. 1872, comma 2° e – per la nozione di rendita – 1861 c.c.

[nota 175] Quest'ultima ipotesi parrebbe ricorrere nella clausola reperibile in M. LUPOI, L'atto istitutivo…, cit., p. 104, viste la genericità ed ampiezza della sua formulazione.

[nota 176] Cfr. in tal senso, ad esempio, Cass. 4539/1986.

[nota 177] Così ad esempio Cass. 7033/2000.

[nota 178] Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 660 (nt. 308).

[nota 179] Ciò pare risultare con chiarezza dall'art. 820, comma 3°, c.c., che nel definire il concetto di "frutti civili" menziona separatamente "le rendite vitalizie" ed "il corrispettivo delle locazioni".

[nota 180] Per tale dibattito cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 814 e ss., il quale opta per la prima delle due soluzioni riferite nel testo.

[nota 181] L'evento che svolge il ruolo di condizione, al solito, è dato dalla premorienza del primo donatario B, dalla mancanza di una revoca dell'interdizione di B e dalla prestazione di assistenza a B da parte del secondo donatario C.

[nota 182] Cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 397.

[nota 183] Cfr. A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 396; B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 288. Tale soluzione positiva dovrà ovviamente fare i conti con fattispecie in cui la predisposizione dei termini da parte del donante sia tale da costituire frode alla legge, cioè tale da determinare lo stesso risultato di un fedecommesso.

[nota 184] L'antenato della norma è l'art. 1074 del codice civile del 1865.

[nota 185] L'opinione dominante (cfr. per tutti A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 402) evidenzia comunque le differenze strutturali fra le due figure (tende invece ad identificarle B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 290 e ss.).

[nota 186] Ciò si spiega con la considerazione che solo in tale ipotesi può affermarsi che non sono stati costituiti sul bene più usufrutti vitalizi successivi, ma un solo usufrutto vitalizio: quello che il donante si è riservato, infatti, già faceva parte del patrimonio di costui.

[nota 187] Del diritto di uso, fra l'altro, parlava espressamente il già citato art. 1074 del codice civile del 1865.

[nota 188] G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 816-817; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 403.

[nota 189] In senso contrario cfr. però B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 293, secondo il quale «attraverso sostituzioni temporanee, opportunamente congegnate, si arriverebbe alla perpetuazione dell'usufrutto» che il divieto mira appunto ad evitare.

[nota 190] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni…, cit., p. 817; A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 403.

[nota 191] Cfr. B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 296; A. MARINI, La rendita…, cit., p. 41.

[nota 192] Cfr. M. LUPOI, Trusts, cit., p. 661; S. BARTOLI, Il Trust, cit., p. 675-676.

[nota 193] Esempio: il soggetto A istituisce un trust liberale inter vivos in cui B svolge il ruolo di trustee e vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima lo stesso disponente A, poi (alla morte di A) il soggetto C, mentre D è il beneficiario finale. Al solito, si immagini altresì – onde avvicinare la clausola quanto più possibile alla fattispecie vietata – che l'attribuzione al beneficiario finale D debba avvenire alla morte del beneficiario di reddito vitalizio C. Quest'ultima precisazione vale anche per l'esempio di cui alla nota successiva.

[nota 194] Esempio: il soggetto A istituisce un trust liberale inter vivos in cui B svolge il ruolo di trustee e vengono designati quali beneficiari vitalizi di reddito prima lo stesso disponente A, poi (alla morte di A) il soggetto C, poi (alla morte di C) il soggetto D, mentre E è il beneficiario finale. In questo caso il problema della violazione dell'art. 796 c.c. si pone per l'attribuzione al soggetto D. Per una clausola del genere cfr. G. ROTA - F. BIASINI, Il trust e gli istituti affini in Italia, cit., p. 168 ("art. 5", nella parte in cui prevede che alla morte di Tizia e Livia le rendite debbano essere attribuite in parti uguali ai loro nipoti viventi di sesso maschile e successivamente ai loro discendenti).

[nota 195] Al solito, si immagini altresì che l'attribuzione al beneficiario finale E debba avvenire alla morte del beneficiario di reddito vitalizio D.

[nota 196] I soggetti C e D – pare opportuno precisarlo – sono in questo caso destinatari di altrettante donazioni indirette.

[nota 197] Per una clausola in tal senso cfr. G. PETRELLI, Formulario…, cit., p. 952.

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