Atti ricognitivi di liberalità non donative nella prassi notarile
Atti ricognitivi di liberalità non donative nella prassi notarile
di Giuseppe Antonio Michele Trimarchi
Notaio in Gragnano (NA)

Considerazioni introduttive

Ogni ragionamento sul tema del rapporto tra ricognizione, accertamento, e liberalità, per ora poco importa se donativa o non donativa, necessita di una puntuale premessa di metodo, ancorchè la complessità della materia correlata allo scopo del presente lavoro, nel contesto di una giornata di studi dedicata all'"attività notarile", imponga di chiarire immediatamente che l'approccio al tema non può che avvenire dal punto di vista squisitamente pratico ed applicativo. Tanto immediate, quindi, quanto doverose, si ritiene debbano essere le scuse al lettore per l'inevitabile peccato di sintesi in cui incorre chi avvicini un tema così ampio percorrendone, almeno in prevalenza, il solo profilo pragmatico. Nel collaborare alla stesura della presentazione di questo Convegno s'è condivisa l'idea secondo la quale l'area delle "liberalità non donative" sembra essere refrattaria ad una ricostruzione unitaria: non sfugge a chi ha frequentazione pratica la tendenza ontologicamente pluralista del fenomeno della liberalità in senso lato "indiretta", o non donativa, che è tale da indurre chi analizzi il fenomeno a «coglierne le caratteristiche differenziali non meno che i tratti unificanti» [nota 1]. Non è mancato, in tempi recenti, il tentativo di una ricostruzione unitaria del sistema della liberalità non donativa [nota 2] per il quale s'è fatto ricorso alla centralità dell'oggettivo arricchimento del destinatario della disposizione liberale. A quest'idea si contrappone l'ingiustificata sottovalutazione della direzione dell'atto di autonomia come manifestazione di un volere diretto al conseguimento di quell'arricchimento e non ad altri fini economico-giuridici. è risalente, infatti, la considerazione secondo la quale, ad esempio, la rinunzia ad un credito che oggettivamente produce l'effetto dell'arricchimento del debitore "liberato" possa essere parte di un programma negoziale, nel quale, esso arricchimento non è, di certo, lo scopo che il rinunziante persegue [nota 3]. In questo contesto il mondo dell'impresa offre spunti d'empirica evidenza utili alla coerenza dogmatica del sistema: quando la società controllante paga il debito della società controllata evitandone la decozione con il sistema dell'adempimento del terzo, l'evidente effetto dell'arricchimento (della società controllata) appare del tutto inadeguato al profilo causale della liberalità che si vorrebbe inferito nell'ipotesi al vaglio.

Per questa ragione, s'è messo in evidenza che, alla tendenza unitaria, si pagherebbe, peraltro, anche lo scotto di un ingiustificato ampliamento delle ipotesi di liberalità indirette o non donative con conseguente estensione dell'area applicativa dell'articolo 809 c.c., che com'è noto assoggetta le liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall'articolo 769 c.c. alle medesime norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d'ingratitudine e sopravvenienza dei figli, e soprattutto a quelle sulla riduzione delle donazioni allo scopo di integrare la quota dovuta ai legittimari. Con quali ripercussioni sulla certezza della circolazione giuridica è talmente evidente da non meritare nessuna ulteriore considerazione.

Più adeguata si mostra la ricostruzione pluralista del fenomeno che impone di rintracciare i tratti comuni in fattispecie, tra loro sovente, assai distanti: rinunzia al credito, negozio misto con donazione, contratto a favore di terzo, adempimento del terzo, intestazione di beni a terzi, attribuzione gratuite di società ad altre società, assegnazione di partecipazioni non proporzionali ai conferimenti, trusts, prestazioni di garanzie senza corrispettivo, acquisti in comunione sibbene con danaro rinveniente dallo scambio o dal trasferimento di beni personali (con omissione, quindi, della dichiarazione di cui all'articolo 179 lett. f) del codice civile), cointestazione di contratti bancari con provviste rinvenienti da uno solo dei cointestatari, mandato senz'obbligo di rendiconto, remissione del debito, solo per fare alcuni degli esempi di maggiore frequenza nelle attività negoziali [nota 4].

è compito di altre relazioni tentare la ricostruzione di un sistema coerente di fronte all'ampiezza ed al pluralismo delle esemplificazioni appena indicate; giova, tuttavia, sottolineare ai fini quivi in rilievo, che, in punto applicativo, la complessa equivalenza tra liberalità e atto diverso dalla donazione diretta, assicurata - sembra - dalla rilevanza della volontà attributiva priva d'ogni altro carattere [nota 5] che non sia l'effetto dell'attribuzione stessa, rinviene nell'articolo 809 c.c., appunto, il momento unificante della disciplina. Quest'ultima norma non può che costituire, in uno alla disciplina dell'articolo 737 c.c., il profilo qualificante, in punto di diritto positivo, con cui l'operatore, ed in particolare il notaio, si confronta nel delicato trattamento delle liberalità al vaglio.

Il che val quanto dire che le liberalità non donative se hanno come beneficiari figli (legittimi e naturali), discendenti (legittimi e naturali) o coniuge, vanno collazionate. Ed inoltre che esse restano assoggettate alla rilevanza interna ed esterna della c.d. tutela dei legittimari:

- interna nel senso che di esse deve tenersi conto dal legittimario al fine del computo della sua quota di legittima (imputazione ex articolo 564 2° comma c.c. [nota 6]);

- esterna nella diversa angolazione concernente il rapporto tra legittimario e beneficiario della liberalità non donativa, restando inteso che quest'ultimo, secondo diffusa ricostruzione, resterà esposto all'azione del legittimario nè più, nè meno di come non resti esposto il destinatario di una donazione "diretta" ex art. 769 c.c. [nota 7]

è intuitiva, tuttavia, una difficoltà operativa: come si coordinano quelle fattispecie tra loro, già così diverse con una disciplina concepita, in tutta evidenza, per ipotesi connotate da una rigorosa unicità schematica? Più empiricamente, è agevole percepire che mentre non si rilevano particolari problemi ad individuare la donazione diretta al fine della collazione del suo oggetto, o della imputazione del medesimo, ben diversa si palesa, sul piano pratico, la collazione (dell'oggetto) di una liberalità atipica. Si pensi all'intestazione di un bene al figlio da parte del padre che stipula il preliminare e che, al momento del definitivo, adempia l'obbligo del prezzo senza comparire in atto. A prescindere dalla vexata quaestio concernente - per tal caso - l'oggetto della liberalità (se il danaro o il bene), non v'è chi non rilevi l'oggettiva difficoltà di procedere ad imputazione o a collazione dell'oggetto de quo in un contesto negoziale in cui si scontrano contrastanti esigenze: quelle rinvenienti dalla formulazione letterale del negozio, che nell'ipotesi, taccia sull'expressio causae, quelle derivanti dal diritto positivo che impone, come visto, la collazione di donazioni "indirette" o l'imputazione delle stesse. Nè si trova giovamento, al fine della soluzione del dilemma, nel ricorso alla disciplina (patologica) della simulazione. Questa, infatti, appare del tutto insoddisfacente al fine di contemperare il conflitto di che trattasi: giacchè l'atto simulato (assolutamente o relativamente) presuppone la teleologica irrilevanza dell'effetto giuridico rispetto all'atto d'autonomia, laddove, al contrario, nella liberalità atipica nulla è "finto", e l'effetto è assolutamente corrispondente a quello voluto dalle parti. Nell'esempio fatto, dal genitore che adempie per il figlio.

In questo contesto è agevole intuire che tanto l'idea di configurare la necessità dell'expressio causae in ogni ipotesi di liberalità atipica, quanto quella volta a considerare come immanente, salva diversa disposizione, la causa liberale in schemi che ragionevolmente non possono che contenerla [nota 8], appaiono soluzioni in evidente affanno rispetto al problema. Infatti, non v'è norma che imponga, nell'utilizzazione di uno degli schemi negoziali sopra indicati come esemplificazioni possibili di liberalità non donative, il richiamo alla causa liberale o donativa al fine della qualificazione degli effetti e della relativa disciplina. Così come è di tutta evidenza che appaia petizione quella di considerare autentica presunzione la presenza della causa liberale ogni qualvolta che si ricorra ad uno degli schemi supra esemplificati per la considerazione che questi schemi "ragionevolmente" siano idonei a contenere la causa liberale di che trattasi [nota 9].

Queste le considerazioni che sul piano pragmatico introducono al tema. Ed in particolare viene all'evidenza dell'operatore la necessità di una riflessione sulla legittimità, utilità ed ampiezza di atti ricognitivi e\o di accertamento concernenti liberalità atipiche. L'ipotesi dell'intervento dell'autonomia privata di seguito alla stipula di un atto liberale, talora anche di seguito ad una donazione diretta, è tutt'altro che sconosciuta agli operatori. E, l'area applicativa spazia dall'inutile ricorso ad atti di rinunzia all'esercizio dell'azione di riduzione da parte di eventuali aventi diritto in vita del donante, viziata dalla nullità derivante dal disposto del secondo comma dell'articolo 557 c.c., agli accordi tra donante (o autore di una liberalità indiretta) e beneficiario (beneficiari) della stessa aventi ad oggetto "precisazioni" sul valore degli oggetti della o delle liberalità ovvero aventi ad oggetto l'individuazione stessa di liberalità atipiche sprovviste d'expressio causae. Nè manca casistica concernente l'assoggettamento volontario a collazione di beni rinvenienti da liberalità non donative sprovviste di expressio, magari intervenuti tra i soggetti obbligati alla collazione dopo la morte dell'autore della liberalità, oppure di accordi di collazione volontaria in vita dell'autore della liberalità non donativa, accordi in cui talora si rinviene, e talaltra manca, l'evidenza dell'intervento dell'autore della liberalità stessa. Chiarito il contesto di massima, è di tutta evidenza che l'area entro la quale l'operatore è chiamato ad intervenire sia quella complessa, discussa e scivolosa dell'atto ricognitivo e\o dell'accertamento posto in stretta connessione con la liberalità non donativa, all'interno del quadro della disciplina delle stesse, cui, ora è opportuno dedicare le osservazioni che seguono.

Atto ricognitivo e atto di accertamento nelle liberalità indirette

Constatata la dinamica giuridica in cui matura la casistica delle liberalità non donative sembra opportuno ribadire, in astratto, l'innegabile l'utilità di un atto di accertamento o ricognitivo che le possa riguardare. Così, per fare un esempio, valga considerare l'ipotesi dell'intestazione del bene direttamente a nome del figlio da parte del padre che, di fatto, paghi il prezzo di vendita senza che tale suo adempimento (di terzo) emerga in alcun modo nell'atto. è superfluo evidenziare che un atto successivo con il quale si evidenzi la circostanza dell'adempimento del terzo in funzione di liberalità giovi alla correttezza della disciplina applicabile. Non v'è chi non veda, infatti, che nel difetto di tale atto, il rapporto giuridico scaturisca da un'apparenza fondata su di un acquisto eseguito direttamente dal figlio. Costui, nel contesto formale del suo atto, non risulta obbligato ad imputazione (d'alcunchè) allorchè abbia necessità d'agire in riduzione verso altri legittimari, nè appare tenuto alla collazione. Insomma si sottrae alla disciplina sopra sinteticamente elevata a paradigma di riferimento delle liberalità non donative. A risultati non dissimili, ancorchè non identici, si deve pervenire nel caso in cui il padre abbia acquistato a favore del figlio (contratto a favore di terzo) allorchè nel relativo atto nulla sia detto a proposito dell'expressio causae. Anche in questa ipotesi, infatti, muovendo dal presupposto secondo cui non è affatto detto che quello schema implichi presunzione di liberalità, meno che meno presunzione assoluta, il terzo beneficiario (figlio) si trova nelle condizioni di sottrarsi alla disciplina della collazione e riduzione. All'apertura della successione del padre, infatti, a tacer d'altro, v'è incertezza in ordine alla sorte della disciplina giuridica dell'effetto a suo favore deviato dall'agere negoziale del padre. Lo stesso dicasi per l'ipotesi in cui il padre paghi un debito del figlio o il marito quello di un coniuge. Insomma, condivisa la tesi secondo cui nella liberalità non donativa l'elemento soggettivo inferisce l'atto di autonomia non meno di quello oggettivo dell'arricchimento non v'è chi non veda che esso coincida con la sovrapposizione tra volontà dell'attribuzione ed attribuzione stessa intesa come effetto del volere: adempio perchè desidero che tu ti "arricchisca" per effetto dell'adempimento; contratto a tuo favore per la medesima ragione; rinunzio ad un mio diritto o rimetto il debito in analoga condizione e così via [nota 10].

In questo contesto si comprende allora come l'assenza di corrispettivo per l'attività negoziale di un soggetto (si pensi all'adempiente, allo stipulante, al rinunziante per rimanere nelle corde delle esemplificazioni che precedono) nemmeno legittima, in astratto, l'idea della liberalità (non donativa) dovendosi volta per volta studiare ed indagare il complesso degli interessi, ed il programma in cui quella attività (negoziale) - sprovvista di corrispettivo - s'insinua.

Due conclusioni, quindi, di carattere generale condizionano l'intero approccio:

a. non v'è alcun obbligo d'esplicitare la causa liberale in queste attività negoziali [nota 11];

b. la mancanza d'esplicitazione dell'intento liberale, e l'evidente assenza di corrispettivo, non includono, per ciò stesso, i negozi all'attenzione tra le liberalità non donative con applicazione della corrispondente disciplina.

Occorre, ora, dare seguito ad una prima considerazione d'ordine applicativo: è possibile che l'esplicitazione di cui s'è finora discusso sia contenuta in atto successivo all'attività negoziale di che trattasi? In altri termini, è possibile che avendo il padre acquistato per il terzo (figlio), successivamente all'atto, desideri [nota 12] che il notaio riceva un atto nel quale si voglia esplicitare l'intento liberale prima taciuto? Oppure è possibile che chi abbia adempiuto ad un debito altrui consideri l'ipotesi notarile di un atto successivo che abbia ad oggetto la dichiarazione per cui l'adempimento sia avvenuto in esecuzione di "spirito di liberalità "? O ancora, è ricevibile un atto in cui chi abbia rinunziato (precedentemente) ad un credito, ovvero ad un diritto reale (si pensi ad un usufrutto) desideri evidenziare, successivamente, che tanto accadde per spirito di liberalità?

Insomma è lecita la richiesta di un documento notarile successivo all'atto "liberale" che contenga l'esplicitazione dello spirito di liberalità e dissolva ogni dubbio in ordine alla sua (futura) disciplina?

La risposta al quesito sul piano degli interessi e dei valori in gioco non può che essere positiva: ciò che era possibile al momento dell'atto non può che essere legittimo anche successivamente. Non v'è ragione d'inibire l'esplicitazione successiva, dal momento che essa, sul piano della disciplina conseguente, si considera addirittura auspicabile al momento della stipulazione originaria. La conclusione, però, impone di considerare natura, momenti e disciplina dell'atto di cui si tratta, e, come si vedrà occorre anche rifuggire da facili generalizzazioni.

Per comprendere fino in fondo la questione soccorre l'idea del c.d. negozio ricognitivo e di quello di accertamento in ordine ai quali, è noto, è aperto un dibattito tra gli studiosi tutt'altro che sopito il quale tuttavia ha prodotto significative ricadute applicative.

Senza voler minimamente entrare nel complesso problema, che tocca il sistema della ricostruzione del negozio nella teoria generale del diritto civile [nota 13], è utile cogliere, dalla querelle, taluni spunti utili alla soluzione del tema all'attenzione. «il ri-conoscere implica un giudizio di esistenza, attraverso una rappresentazione narrativa, un riportare al presente un fatto del passato» [nota 14], quando, dunque, si chiede al notaio di ricevere un atto di ri-conoscimento o ricognitivo gli si chiede di ricevere un atto che contenga una dichiarazione che rechi la rappresentazione di un fatto passato. In uno dei nei nostri esempi, quindi, un'espressione del tipo: «riconosco che ho adempiuto un debito di mio figlio allo scopo di arricchirne il patrimonio (o per spirito di liberalità)». L'eco del conflitto tra chi sostiene che la ricognizione [nota 15] nel senso di cui si sta dando conto sia, o meno, negozio sembra assorbito dalle considerazioni secondo cui la dichiarazione rappresentativa (unilaterale) ha quanto meno la funzione di irrobustire il rapporto preesistente impedendone la prescrizione e comunque rendendo più solida sul piano giuridico la posizione di chi vorrà, in futuro, avvalersi del rapporto sottostante [nota 16]. In altri termini sembra che il riconoscere abbia un'idonea causa giustificatrice che declina la negozialità della dichiarazione quand'anche ad essa si assegnasse valenza probatoria in termini di confessione [nota 17]. Se ne può trarre, in punto applicativo che:

a. è lecito che l'autore della liberalità non donativa riconosca con atto successivo che il suo adempimento, la sua rinunzia, il suo essersi costituito in un atto quale stipulante a favore di un terzo, abbia integrato, appunto, liberalità;

b. che tale atto sia atto ricognitivo nel senso dianzi (assai) sinteticamente evidenziato, giacchè l'autore della liberalità altro non fa che rappresentare un fatto passato attraverso una dichiarazione, con ogni probabilità negoziale, che avrebbe già legittimamente potuto rendere al momento originario, e che "rafforza" una posizione giuridica: il "disvelamento" dell'animus, infatti, rafforzerà le posizioni dei soggetti nell'interesse dei quali è dettata la disciplina giuridica di cui è menzione negli artt. 809 c.c. e 737 c.c. e ss.

Attesa la sua cittadinanza in termini di legittimità derivante, in fondo, dal substrato della sua idoneità causale, ci si può domandare quale sia la struttura di un negozio di tal fatta, ed in particolare se esso sia unilaterale o bilaterale, e, nel primo caso chi debba rendere la dichiarazione del "ri-conoscere". Quindi, sempre per restare nell'ambito applicativo degli esempi all'attenzione, in caso di contratto a favore di terzo se la dichiarazione successiva ricognitiva dell'animus liberale la debba rendere lo stipulante, ovvero se la possa rendere anche altri, ed in particolare il terzo beneficiario. Così come relativamente all'adempimento del terzo, ovvero ad un caso di remissione, essa detta dichiarazione la debba rendere l'autore dell'atto originario (rectius l'adempiente) e quindi l'autore della liberalità, oppure anche il beneficiario.

A dire il vero non può esservi dubbio che la ricognizione spetti innanzitutto all'autore dell'atto liberale che ha il potere di svelare il proprio animus liberalis fin dall'atto che dà luogo alla liberalità non donativa. Potere che non può ritenersi precluso per effetto della mancata expressio nella sede originaria. Ciò premesso, va anche sottolineato che le (poche) ipotesi di atti ricognitivi che l'ordinamento positivo ha disciplinato hanno caratteristica unilaterale e si concentrano in ipotesi in cui la dichiarazione promana da soggetto che ha interesse, in qualche modo, contrario al fatto riconosciuto:

- così è per la ricognizione d'enfiteusi (art. 969 c.c.) la cui ratio trova giustificazione nell'esigenza che il concedente (proprietario) abbia d'ottenere dall'altra parte (l'enfiteuta–possessore) dichiarazione, appunto, con cui quest'ultimo, riconoscendo il diritto dell'altro impedisca che il decorso del tempo possa, ad esso dichiarante, giovare per la usucapione;

- analogamente, nella ricognizione del debito (art. 1988 c.c.) il debitore che si riconosce tale dispensa l'altra parte dall'onere di provare il rapporto fondamentale;

nella confessione stragiudiziale (art. 2735 c.c.) il dichiarante rende dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli che il giudice apprezzerà liberamente.

Se le ipotesi ora espresse fanno "sistema" ci si potrebbe chiedere se la dichiarazione concernente la ricorrenza dell'animo liberale possa essere contenuta in un atto ricognitivo proveniente dal beneficiario, nel quale si può intravedere una certa analogia con la posizione di chi, in generale, ha interesse contrario al disvelamento de quo, non fosse altro per il rischio del trovarsi esposto a revoca per ingratitudine o sopravvenienza di figli dell'autore della liberalità originaria, ovvero di restare travolto dall'esercizio dell'azione di riduzione da parte di eventuali legittimari (dell'autore detto) lesi, appunto, dalla liberalità al vaglio, o dall'obbligo che rinviene al disvelamento della liberalità, a suo carico, per il caso che esso beneficiario debba esercitare azione di riduzione, ovvero ove chiamato a succedere all'autore, e rientrando nelle categorie lì previste, resti obbligato a collazionare ex artt. 737 e ss. c.c.

Pur riconoscendo fascino a questa ricostruzione, si ritiene compatibile con il sistema all'esame una dichiarazione rinveniente dal beneficiario [nota 18], precisando però che essa appare espunta dal novero del negozio ricognitivo, e che debba commisurarsi con il diverso quadro dell'eventuale ammissibilità della dichiarazione d'accertamento da cui deve però tenersi distinta comportando problematiche di diversa natura.

Va, infatti, messo opportunamente in evidenza che l'atto ricognitivo deve tenersi distinto dall'atto di accertamento. Il primo - come visto - presuppone un fatto o un atto in ordine al quale non v'è incertezza (quanto meno soggettiva, come nell'ipotesi al vaglio) e giova al rafforzamento di una posizione giuridica. In altri termini l'autore della liberalità al momento in cui compie un atto di liberalità non donativa, non ha dubbi in ordine agli effetti del proprio agire (vuole arricchire il beneficiario); la dichiarazione successiva, dunque, non elimina incertezza, almeno sul piano subiettivo, ma si limita a rappresentare una circostanza rilevante che, in termini di disciplina giuridica, avrebbe potuto essere rappresentata al momento dell'estrinsecazione della volontà diretta a produrre l'effetto liberale. Insomma si riconosce, ma non si accerta d'alcunchè [nota 19]. Quando, invece, l'expressio causae fuoriesce dalla sfera dell'autore dell'atto di liberalità e si ascrive a quella del beneficiario, lo stesso, non si limita a rappresentare un fatto, un atto o una circostanza incontrastati sul piano della valutazione oggettiva e subiettiva, ma tende ad eliminare un'incertezza il cui piano oggettivo è determinato dall'esistenza di un'attività negoziale che tace sul punto della causa liberale, aggravata dal contestuale e successivo silenzio del suo autore. La dichiarazione del beneficiario risulta compatibile con il sistema nella misura in cui proviene, in generale, da chi ha interesse contrario ai fatti dichiarati (ed alle loro conseguenze); essa finisce per chiarire ogni incertezza concernente l'effetto dell'attribuzione liberale rimuovendo, segnatamente, ogni ostacolo all'applicazione della relativa disciplina.

La distinzione, sembra, non restare priva di conseguenze sul piano applicativo: l'expressio causae rilasciata dal beneficiario dell'atto liberale (negozio d'accertamento) resterà priva di effetti (nullità per mancanza di causa) se il fatto o l'atto su cui si accerta non esisteva (ciò che accade pure all'atto ricognitivo), oppure, quando la situazione preesistente era certa (ciò che, invece, non può accadere all'atto ricognitivo). Si rifletta sul seguente esempio: se Tizio adempie una obbligazione del figlio, e successivamente rende la dichiarazione d'expressio causae, attestando, appunto, che l'atto era diretto all'arricchimento del figlio stesso, e successivamente alla di lui morte si scopre un mandato con cui il padre si obbligava verso il figlio ad eseguire l'adempimento verso la restituzione del tantundem e magari dietro corrispettivo, la circostanza della qualificazione del negozio de quo come ricognitivo determina che l'atto di adempimento del terzo sia avocato al novero delle liberalità non donative con tutte le conseguenze in termini di disciplina. Il mandato scoperto sarà un contratto inadempiuto dal de cuius, ininfluente al piano della valutazione e dell'efficacia giuridica della liberalità al vaglio. Se, invece, l'expressio sia fatta dal figlio (negozio d'accertamento) la successiva scoperta del mandato renderà nulla la funzione d'accertamento della relativa dichiarazione, essendo evidente che la situazione che ne stava a monte (ossia l'adempimento) era atto di esecuzione di un mandato e non liberalità. La situazione accertata era cioè già certa, sicchè la dichiarazione resa dal figlio è casualmente inidonea all'accertamento.

La conclusione conforta l'idea secondo la quale, in fin dei conti, quando si accerta si emette una «… dichiarazione di volontà diretta a realizzare effetti giuridici, [che][n.d.r.] può svolgere i propri effetti anche per il passato, assumendo la natura di negozio di accertamento, il quale può avere anche una struttura unilaterale (Cass. 29 ottobre 1979, n. 5643), assumendo la funzione di fissare il contenuto d'un rapporto giuridico preesistente, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo (Cass. 10 gennaio 1983, n. 161) …» [nota 20]. Il limite dell'accertamento, nel contesto che ne occupa, sta nella costituzione di un rapporto originariamente inesistente [nota 21].

Piuttosto, va ulteriormente chiarito che se l'atto ricognitivo ha struttura funzionalmente unilaterale almeno secondo la disciplina (scarna) ricavabile dal dato positivo, l'atto di accertamento destinato casualmente ad un effetto preclusivo sul piano della rilevanza di un fatto o di un atto determinando perciò stesso l'obbligo ad interpretare quel fatto o quell'atto in un certo modo piuttosto che in altri appare tendenzialmente bilaterale, nel senso che ad esso debbono partecipare i titolari delle sfere giuridiche immediatamente e direttamente coinvolte dall'obbligo preclusivo. Sicchè per le liberalità non donative, all'accertamento, in linea di massima, debbono partecipare autore e beneficiario. Tuttavia non può negarsi la circostanza per cui, nel caso che ci occupa, possa accertare il solo beneficiario come su accennato, in quanto, in tal caso, l'effetto preclusivo inciderebbe nella sfera del dichiarante senza arrecare nocumento ad alcuno, ed inoltre, è noto che l'ordinamento ammetta le c.d. contra se pronunptiationes trattandosi di atti - come sopra indicato - destinati a determinare conseguenze, in qualche modo, "negative" nella sfera del dichiarante.

Se la funzione dell'atto ricognitivo calata nella complessa vicenda delle liberalità non donative allude ad una funzione di rafforzamento delle posizioni di taluni soggetti "avvantaggiati" dalla circostanza del "ri-conoscere" l'esistenza dell'animus liberale (su cui in precedenza s'era taciuto), e se, la funzione dell'atto di accertamento nel dualismo strutturale che, con cautela pure s'è ritenuto possibile, declina certezza in ordine all'esistenza di detto animus precludendo una diversa efficacia dell'atto inferente l'effetto liberale, deve escludersi che questi atti integrino, a loro volta, atti di liberalità, restando così, ovviamente sottratti alla relativa disciplina, ed in particolare a qualsivoglia dubbio in ordine alle prescrizioni formali che li riguardano. Non convince l'idea che per essi sia necessaria una forma particolare nemmeno laddove si faccia ricorso all'abusata idea del principio di simmetria formale o per relationem. Senza qui volere e potere indagare in ordine al c.d. principio di libertà della forma vale sottolineare, in sede applicativa, che la Suprema Corte ha avuto occasione di precisare, proprio al riguardo del negozio di accertamento che «… in difetto di espressa previsione normativa, il negozio di accertamento di per sè non esige la forma scritta e può perfezionarsi, pertanto, anche verbalmente, o mediante attuazione (c.d. comportamento concludente) idonea a realizzare immediatamente la volontà delle parti …» [nota 22], dovendosi, al più, ragionare in ordine all'eventuale circostanza che allorché l'accertamento abbia ad oggetto diritti reali immobiliari e vi sia coincidenza tra l'effetto preclusivo dell'accertamento e un effetto reale derivante dalla preclusione. In tale ultimo caso si potrebbe sostenere che l'effetto reale necessiterebbe di una forma scritta ad substantiam [nota 23]. Calata la questione nell'attività notarile non può che concludersi che l'atto ricognitivo e\o d'accertamento rivestirà - senz'uopo di uno specifico obbligo - la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata secondo le esigenze del caso.

Segue: atto ricognitivo ed atto di accertamento anteriori alla morte dell'autore della liberalità

Chiarito, dunque, che v'è spazio per atti ricognitivi e d'accertamento di seguito a liberalità non donative, e che ricorrono interessi significativi e meritevoli al riconoscimento della loro "cittadinanza" in termini di legittimità e liceità, sembra opportuno distinguere alcune fattispecie di prassi in ordine alla loro cronologica ipotizzabilità, in specie mettendo a discrimen del ragionamento l'evento della morte dell'autore della liberalità non donativa, dal momento che risulta agevole constatare che esso appare destinato ad influire sui risultati dell'indagine ed, in specie, ad avere significative ricadute sui caratteri e sulla disciplina degli atti al vaglio. Non deve trascurarsi, infatti, che una volta effettuata una liberalità (non donativa), qualsiasi interferenza con essa in termini di ricognizione o di accertamento, in vita del suo autore, deve fare i conti con l'intero sistema in cui la liberalità risulta inserita, e segnatamente con il divieto dei patti successori di cui all'articolo 458 c.c., oltre che con il divieto di rinunzia all'azione di riduzione di cui al citato articolo 557 c.c.

Oltre alla riconosciuta rilevanza dell'atto con il quale autore o beneficiario (o talora entrambi) di una liberalità non donativa intendano procedere all'expressio causae di cui s'è dato conto, la prassi sovente s'imbatte nell'esigenza di dare seguito a patti che riguardino "il valore" degli oggetti delle liberalità. è noto che il valore delle liberalità (rectius del loro oggetto) tanto donative che non donative ai fini della collazione, dell'imputazione, della riduzione e della restituzione (ove si tratti d'immobili) vada commisurato a quello che detti oggetti hanno al momento dell'apertura della successione [nota 24]. Si tenga conto, in particolare, che il valore di un immobile oggetto di una liberalità (donativa, e, secondo diffusa ricostruzione, non donativa) è di particolare significato al fine della riduzione della disposizione donatizia lesiva, sol che si pensi alla circostanza secondo la quale ove il beneficiario:

a. non sia legittimario, l'immobile non sia comodamente divisibile, ed il valore del bene stesso non superi di un quarto la porzione disponibile, può "ritenere" tutto il bene compensando in danaro i legittimari (art. 560 secondo comma c.c.);

b. sia legittimario ed il valore dell'oggetto della liberalità (l'immobile) non superi il valore della disponibile e della quota allo stesso riservata dalla legge, può ritenere l'immobile senz'altri obblighi .

Si tenga conto, peraltro, che le norme in tema di collazione le quali rappresentano il nucleo del sistema sia per valutare i beni immobili che per i mobili prendono in considerazione il valore delle migliorie effettuate dal donatario, come dei peggioramenti allo stesso imputabili, ovvero le spese straordinarie (cfr. art. 748 c.c.), come pure considerano l'incidenza del deterioramento (art. 750 c.c.). Il che vale a sottolineare quanto la materia risulti, in fatto, complessa e non priva di rischi concernenti la certezza dei rapporti che ne derivano, che si aggiungono alle note questioni incidenti sulla commerciabilità dei beni di provenienza donativa e, secondo i più, di provenienza da liberalità non donativa.

In questo contesto, l'idea di un atto nel quale i beneficiari di più disposizioni liberali non donative [nota 25] si diano reciprocamente atto del valore dei beni (mobili o immobili) ricevuti in momenti diversi ed anteriori e con strumenti giuridici diversi tra loro, non appare né inutile, né immeritevole. La sua utilità rinviene nello sgomberare il campo dalle incrostazioni di cui il tempo, e la scarsa attitudine delle parti all'ordine documentale, avvolgeranno le varie posizioni: si pensi all'immobile acquistato dal padre per il figlio [nota 26] molti anni prima della morte dello stesso padre e nel quale il figlio esegua, nel corso degli anni molte spese straordinarie, ovvero, significativi miglioramenti. La mancata conservazione dei documenti civili e contabili concernenti queste spese esporrebbe il figlio ad una delicata sottovalutazione del suo contributo al valore dell'immobile al tempo dell'apertura della successione, cui potrebbe supplire in funzione di riequilibrio ed in perfetta armonia assiologica con il disposto delle norme testè richiamate, proprio l'accordo di cui si sta dando conto. Donde la sua stessa meritevolezza, dal momento che l'accordo appare coincidere con lo scopo delle norme al vaglio le quali mirano ad evitare indebiti arricchimenti, ovvero depauperamenti privi di causa. Ancora una volta la materia dell'impresa e la significatività degli interessi che, lì, appaiono sottesi sembra aiutare il ragionamento: se si osserva la disposizione dell'articolo 768-quater c.c. in materia di patto di famiglia, al di là delle molte questioni (irrisolte) che la norma introduce, vale la pena riflettere sulla circostanza per cui il legislatore presuppone un accordo su di un "valore", anzi, con ogni probabilità su più valori: quello dell'azienda o delle partecipazioni sociali in assegnazione, su cui si ritaglia il valore delle quote spettanti agli altri "legittimari" da liquidare, ovvero quello dei beni assegnati ai partecipanti non assegnatari dell'azienda. Al di là di ogni considerazione sul patto di famiglia non appare addirittura serio non considerare come l'accordo sul "valore", nel patto de quo, sia uno dei perni centrali dell'intera disciplina, ancorché, evidentemente, non l'unico.

Senza volere, per questo, amplificare la complessa (e peraltro sofferta) portata della norma ultima citata in materia di patto di famiglia, certo, risulta avvalorata la meritevolezza di una convenzione tra i beneficiari di più liberalità non donative che assegnino un valore, in un certo tempo, agli oggetti da ciascuno ricevuti.

Per completezza di ragionamento non può, al riguardo, non tenersi conto della circostanza per cui la giurisprudenza guarda a situazioni del tipo di quella ipotizzata con sospetto. L'unico precedente che può considerarsi riferito alla nostra fattispecie s'è espresso come di seguito: «… configura un patto successorio vietato, ed è pertanto affetto da nullità, l'atto di accettazione proveniente dai legittimari con cui questi ultimi, ricevendo dal de cuius, prima della morte, la donazione delle quote di legittima, manifestino la volontà di non contestare la stima eseguita da un terzo, così rinunciando implicitamente all'azione di riduzione …» [nota 27]. La conclusione del ragionamento pretorio appare già scarsamente condivisibile se si considera che l'atto di adesione alla stima può rappresentare, al più, accettazione incondizionata del giudizio che un terzo farà del valore dei beni al tempo dell'apertura della successione (arbitrium merum, articolo 1349 secondo comma c.c.) la quale, tuttavia, avrà nella mala fede dell'arbitratore il suo limite specifico, e, eventualmente nella frode al divieto di cui all'articolo 557 c.c. quello generale, ancorchè, risulti evidente che, in astratto, la clausola esaminata dalla giurisprudenza, di per sé non fosse preclusiva dell'esercizio dell'azione di riduzione. La rinunzia a contestare la stima del terzo, infatti, implica l'accettazione delle valutazioni, ma non esclude che, in conseguenza delle stesse non si possa agire in riduzione! Per questa considerazione sembra corretto considerare che la rigorosa conclusione della sentenza ora rassegnata mal si adatti all'ipotesi che qui va prendendo corpo, ossia al caso in cui più beneficiari di disposizioni liberali si diano reciprocamente atto in ordine al valore degli oggetti degli atti di liberalità non donative di cui sono stati destinatari. Questo accordo, infatti, giammai può precludere l'esercizio dell'azione di riduzione, né appare congegnato per conseguire questo risultato: all'apertura della successione, infatti, non soltanto occorrerà assegnare a quei beni il valore che gli stessi avranno in quel momento, ma dovrà in base a quest'ultimo commisurarsi il diritto derivante al titolare dell'azione di riduzione. Rispetto a quest'ultima vicenda nella quale sola risultano coinvolti gli interessi sottratti alla disponibilità delle parti, l'accordo pregresso lungi dal perseguire uno scopo in conflitto con quello della norma, addirittura ne facilita le realizzazione, dal momento che esso mira a rendere più chiari i rapporti tra i beneficiari evitando le difficoltà probatorie che il tempo o il disordine, inevitabilmente, possono comportare. Non si favorisce la rinunzia all'azione di riduzione, al più si ottiene l'uso corretto e non strumentale del relativo esercizio.

La natura della convenzione con cui i beneficiari si danno reciprocamente atto del valore di quanto ricevuto in liberalità non donative, magari spiegando quali sono stati i contributi di ciascuno ai mutamenti di valore originari (dei beni) in termini di spese, miglioramenti ecc., appare essere di negozio d'accertamento, risultando patente la sua funzione preclusiva d'intendere reciprocamente il fatto dei valori delle liberalità di che trattasi secondo le conclusioni rassegnate nell'accordo e non in altro modo. A ciò consegue, in linea generale, la non riconducibilità della pattuizione al vaglio nell'alveo dei patti successori dispositivi, proprio per l'assenza di un contenuto astrattamente dispositivo dell'accordo in questione, ciò, in punto descrittivo, in specie per l'assenza di una disposizione su diritti concernenti una successione non aperta. I diritti il cui valore viene accertato, infatti, appartengono ai soggetti che procedono alla convenzione e non ad altri della cui successione (non aperta) si tenterebbe di disporre [nota 28]. Vale, in ogni caso, qui ricordare che l'accordo in questione deve fare i conti anche con quella tendenza interpretativa che ricostruisce il divieto del patto dispositivo come quel patto che contenga in sé il "disvalore" del considerare l'altrui morte ad evento fondante l'interesse a contrarre, e ciò anche nella prospettiva del poter acquistare «in virtù del decesso altrui … la libera disponibilità …» di un bene [nota 29]. Lì dove, per l'appunto, il disvalore che assurge a ragione della nullità - affermandone appieno il dirompente effetto patologico - riposa nell'insensibilità rispetto all'altrui morte che diventa base dell'apprezzamento negoziale e di valutazione in termini di beneficio economico. La condivisione del rigoroso orientamento ora sinteticamente riportato non impedisce di considerare l'assenza, nel negozio concernente "l'accordo sul valore" di ogni valutazione di una disponibilità rinveniente dall'altrui morte. In altri termini, mentre ogni pattuizione concernente la deduzione di un bene o la disponibilità del medesimo in dipendenza dell'altrui morte rischia d'incorrere nelle maglie dell'esegesi estensiva di cui s'è, ora, dato conto per l'incombenza del disvalore spiegato (si pensi al contestato caso di un contratto preliminare di vendita, per intiero, di un bene in comunione legale, nel contratto, tuttavia, dedotto in ragione dell'attesa della sua piena disponibilità per effetto della "ipotizzata" morte del coniuge contitolare [nota 30]), al contrario l'accordo sul valore qui preso in considerazione allude ad un accertamento concernente beni già nella disponibilità dei contraenti. Rispetto a detta disponibilità dunque, l'evento dell'altrui morte viene in considerazione, al più, al fine dell'esercizio dei diritti "successori" correlati all'originaria disposizione del bene, del cui valore s'accerta, da parte dei contraenti medesimi.

Difficile non cogliere il discrimen: nell'"accordo sul valore" non rileva il freddo calcolo dell'altrui morte quale evento in condizione d'assicurare una disponibilità [nota 31]. Piuttosto, l'evento morte rappresenta l'inevitabile momento in cui ciascheduno sarà libero di far valere i propri diritti, ed attiverà le situazioni giuridiche soggettive che ne conseguono in ordine alle quali dovrà tener conto dell'accertamento del valore che sia stato concluso. E, posto che l'accertamento de quo non inibisce le azioni a protezione delle posizioni successorie di cui trattasi (leggasi azione di riduzione) resta da considerare che l'accordo in parola assicura il rispetto delle regole poste a fondamento dei diritti successori protetti. Non v'è, infatti, nessuna ragione - in omaggio ad un'iperfetata applicazione della valenza del divieto del patto dispositivo - per considerare che lo stesso sia destinato ad imporre un risultato contrario alle stesse disposizioni di legge: in molti casi, infatti, il lasso di tempo decorso tra una liberalità ed il momento della morte impedisce l'applicazione delle norme a fondamento del corretto esercizio delle azioni a tutela dei diritti successori, con la conseguenza che l'inibizione del patto d'accertamento sul valore lungi dal garantire il summum ius del rispetto del divieto dei patti successori, determina, al contrario, la summa iniuria di consentire abusi derivanti dalle difficoltà di ragguagliare il valore dei beni di che trattasi. Già diversi anni fa la letteratura notarile evidenziava la diffusione di scritture private "d'accertamento del donatum" volte a mettere "nero su bianco" donazioni di modico valore succedutesi nel tempo, o a quantificare il valore di liberalità indirette [nota 32], epperò ne metteva in dubbio l'idoneità alla soddisfazione degli interessi sottesi, in particolare, per tre ordini di considerazioni: - il difetto d'idoneità novativa del negozio d'accertamento; - la difficoltà di arrivare a posteriori ad una ricognizione attendibile dei valori; - la reticenza delle parti ad esplicitare le modalità attraverso cui si sono disposte liberalità nei loro rapporti. Alla luce di quanto più sopra evidenziato non appare peregrina una riflessione critica sugli spunti problematici all'evidenza. è, infatti, discutibile che giovi - al fine dell'utilità dell'accertamento sul valore delle liberalità indirette (o dirette) - l'efficacia (eventualmente) novativa del negozio de quo. Non v'è alcuna necessità dello scopo novativo nel negozio d'accertamento sul valore: ai fini che qui interessano i contraenti non estinguono nulla per creare una nuova obbligazione o un nuovo rapporto, ma si limitano - nelle esemplificazioni proposte come possibili - talora a riconoscere (o accertare) la ricorrenza della liberalità in uno strumento negoziale che può contenerla senza che ciò sia presunto, talaltra, com'è nel caso della diversa ipotesi dell' "accordo sul valore", ad accertare l'attualità del valore del bene donato (direttamente o indirettamente) allo scopo di mettere in evidenza l'incidenza attuale dei propri apporti (miglioramenti, spese straordinarie, avviamento com'è nel caso di un'azienda ecc.) rispetto al valore originario del donatum, di guisa che, al tempo dell'apertura della successione vengano correttamente applicate le regole a tutela delle posizioni successorie di ciascuno ad evitare locupletazioni prive di giustificazione. Nulla risulta novato dagli atti di che trattasi, giacchè l'unico obbligo nuovo rispetto alla pregressa situazione giuridica appare essere solo quello reciproco di non considerare interpretabile la rappresentazione del valore oggetto dell'accertamento in modo diverso da quello secondo cui è stato dedotto nell'accordo de quo. Nel quale effetto, però, si consustanzia proprio il riconosciuto ambito causale dell'accertamento, e non un'eversiva e discutibile efficacia novativa dello stesso. Né mette in crisi l'utilità del patto all'esame l'ontologica difficoltà di reperire dati per così dire attendibili al fine della fissazione del valore. L'espressione ove infatti esprima l'incertezza della situazione che sta a monte dell'accordo lungi dallo sconfessare l'utilità o la legittimità di codesto accertamento addirittura la rafforza, dal momento che è pacifico che più a monte del negozio d'accertamento stia una res dubia [nota 33]. Ove essa, invece, alluda ad una pratica difficoltà delle parti di reperire dati per procedere alla stima del valore in corso d'accertamento, pare trascurare la significativa circostanza secondo la quale l'accertamento è pur sempre un negozio, nel caso di specie un contratto, nel quale, dunque, le parti - se d'accordo - possono negoziare tutto ciò che è legittimamente negoziabile quand'anche si trattasse di "convenzionalizzare" un "valore" altrimenti difficilmente conseguibile in base ai comuni criteri di stima dei beni.

Consegue, al giudizio di legittimità dell'accordo all'oggetto, pure in vita dell'autore della liberalità, anche un'innegabile utilità dello stesso. Se un padre infatti ha intestato un bene al figlio senza comparire nell'atto di acquisto, la circostanza per la quale il figlio successivamente riconosca (rectius accerti) che il padre abbia proceduto ad un adempimento di terzo (del prezzo di vendita) renderà più agevole la valutazione dell'opportunità negoziale di una successiva donazione, stavolta diretta, dal padre al secondo figlio. Se il padre dell'ipotetico esempio avesse, infatti, i soli due figli della nostra riflessione, l'accertamento da parte del primo dell'adempimento del terzo in funzione di liberalità non donativa nell'attivare i meccanismi (contro il dichiarante) di collazione, imputazione ed eventualmente riduzione, rende più snello il giudizio sulla successiva donazione all'altro figlio. Quest'ultima, infatti, riequilibra il depauperamento patrimoniale che ai fini successori l'adempimento del terzo non disvelato evidenziava, e pur senza eliminare le difficoltà concernenti la circolazione del bene proveniente da donazione (che finiranno, nel caso, all'esame per riverberarsi, con ogni probabilità, anche su quello acquistato dal primo fratello) ne attenuano, in qualche modo, le problematiche connesse. Se, infatti, l'accertamento (dell'adempimento del padre) fosse contenuto in atto notarile (pubblico o scrittura privata autenticata) una banca - che ne fosse informata - probabilmente avrebbe meno difficoltà, a certe condizioni, a concedere un mutuo ipotecario sul bene oggetto della seconda donazione, stante la significativa circostanza sul piano giuridico ed economico che quest'ultima, appare meno "riducibile" di quanto non sarebbe in difetto dell'accertamento di che trattasi.

Parimenti in caso di "contratto notarile" [nota 34] concernente l'accertamento del valore dei beni oggetto di liberalità indirette: se da un lato questi accordi non risolvono il complesso e forse insolubile nodo della difficoltà di circolazione del bene originariamente derivante dalla liberalità (ciò che accade in egual misura per la donazione) [nota 35], è innegabile, d'altro canto, che possano incidere in misura significativa sulle concrete condizioni di valutazione delle c.d. "sistemazioni familiari" arrecando un contributo di non poco conto all'aspetto concernente il rapporto tra costi e benefici derivanti dall'applicazione corretta delle norme. Se i destinatari di più liberalità, dirette e indirette, infatti, accertano con atto notarile il valore dei beni da ciascuno ricevuti [nota 36] "storicizzandolo" al momento dell'atto d'accertamento, appunto, appare di tutta evidenza che detto accertamento inciderà in misura più o meno significativa sulla valutazione che i terzi faranno della situazione familiare complessiva correlata ai beni oggetto dell'accertamento. A costoro viene fornita un'informazione tutt'altro che scarsamente significativa in ordine alla sicurezza dei propri traffici giuridici con i beneficiari delle liberalità al vaglio, ancorché non connotata da caratteri di definitività. Tale ultimo aspetto, peraltro, non sminuisce l'importanza dell'accertamento, è intuitivo e verosimile, difatti, che la posizione dei terzi sia peggiore nel caso di mancato accertamento, il che finisce per riverberarsi sulla commerciabilità del bene. Ora, occorrerebbe chiedersi, l'ordinamento predilige il rispetto con ogni probabilità formale della ricostruzione classificatoria del patto successorio dispositivo o rinunziativo, o, ha in cura maggiore lo stimolo degli scambi? E qui, si badi, non si tratta certo di dare una risposta de iure condendo, né di scardinare un divieto sanzionato a pena di nullità, poiché patti siffatti appaiono assorbiti nella ricostruzione oramai ordinamentale della funzione negoziale dell'accertare, e inidonei ad urtare direttamente o indirettamente con l'inossidabile divieto dei patti successori, o con la significativa realità della tutela del legittimario.

Si tratta di chiarire, ulteriormente, se alla convenzione divisata d'accertamento del valore debba o possa partecipare l'autore della liberalità. La conclusione sembra possa essere negativa. Dopo aver dato vita alla liberalità, infatti, l'autore della stessa risulta, invero, assolutamente estraneo ad ogni questione concernente l'accertamento dei valori che essa ha nel tempo, magari ad anni di distanza dal momento storico in cui la liberalità de qua venne effettuata. Manca, insomma un interesse all'accertamento da parte dell'autore, giacchè detto interesse appare unicamente riferibile alla sfera dei soggetti interessati alle liberalità, ovvero anche agli estranei alle stesse che sono coinvolti, però, nella disciplina successoria connessa. In conclusione all'atto di accertamento potranno partecipare tutti i beneficiari delle liberalità che riconosceranno, ciascuno contra se ed a beneficio degli altri il valore originario della liberalità e l'altrui miglioramento, spesa avviamento arrecato al bene oggetto della stessa. Parteciperanno se concordi anche i soggetti non destinatari delle liberalità riconoscendo, sempre contra se quanto sopra. Né sembra, in linea teorica, da escludersi un negozio unilaterale d'accertamento al fine in esame con il quale taluno degli interessati dichiari di riconoscere ed accertare che il valore del bene oggetto di una liberalità (indiretta) di un altro avente diritto, sia dato dalla sommatoria del valore originario al momento della liberalità e dei miglioramenti dal beneficiario arrecati di cui si riconosce esistenza sino ad un certo ammontare. Anche se la questione da ultimo all'esame merita un approccio ragionevolmente prudenziale sul piano pratico per la significativa interferenza con il delicato tema delle c.d. "prove a futura memoria" del quale, qui, non è dato accennare [nota 37].

Segue: atto ricognitivo ed atto di accertamento successivi alla morte dell'autore della liberalità.

Un cenno alle ipotesi possibili di collazione c.d. "volontaria"

Atteso quanto precede risulta evidente che la morte dell'autore della liberalità disinnesca tutti i meccanismi di compressione dell'autonomia privata i quali hanno imposto un approccio circospetto oltre che circostanziato alle fattispecie sopra trattate.

La morte dell'autore fa cessare ogni dilemma in ordine al divieto dei patti successori: l'azione di riduzione è rinunziabile. Inoltre, sono pacifiche e diffuse pattuizioni relative ai più disparati interessi relativamente alla successione dell'autore della liberalità che qui non è nemmeno il caso di classificare, se non per ricordare, empiricamente, che la classificazione è del tutto inutile: in essi patti, è dato rintracciare, ora, una funzione d'accertamento, in altre si smarca precipuo uno scopo transattivo, in taluni si assiste ad una volontà confermativa di volontà del de cuius altrimenti non attuabili, non possono escludersi accordi integrativi della legittima e così via.

Una delle ipotesi di un certo interesse pratico è quella che corre sotto la dizione di "collazione volontaria". In essa si ricomprendono tuttavia fattispecie diverse, sovente, derivanti da interessi non riconducibili ad unità dei quali appare opportuno dare conto in considerazione dell'incisivo impatto di talune di esse con l'attività notarile, e non solo.

Non è questa la sede per ripercorrere la dibattuta natura giuridica ed il fondamento dell'istituto della collazione [nota 38], valga qui ricordare che la giurisprudenza della Cassazione [nota 39] condivide l'idea secondo la quale il fondamento della stessa riposerebbe nella presunta volontà del testatore. Da qui la Suprema Corte trae argomenti utili al fine di giustificare l'ammissibilità per il disponente d'imporre la collazione anche per liberalità che ne siano esenti ex lege. Segnatamente la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile l'assoggettamento a collazione delle spese di mantenimento e d'educazione, le spese per malattie, abbigliamento o nozze, quelle per l'istruzione artistica o professionale ancorché non eccedenti una "misura ordinaria", le donazioni remuneratorie o i proventi da società contratte "senza frode" tra defunto e alcuno degli eredi soggetti all'obbligo [nota 40].

è opportuno anche ricordare che la collazione sembra inferire un'obbligazione a carico di taluni soggetti che devono dividere una massa comune consistente, di massima, nel tenere in considerazione il valore [nota 41] di quanto ricevuto per liberalità (diretta o indiretta) dal comune dante causa [nota 42], donde la sua considerazione in termini di (pre)legato ex lege a carico di uno o più coeredi (quelli obbligati) ed a favore di tutti gli altri [nota 43]. Peraltro, la dimostrazione del fondamento volontaristico dell'istituto al vaglio suole ricondursi al disposto dell'ultimo comma dell'articolo 737 c.c. che ammette la dispensa dalla collazione seppure nei limiti della quota disponibile. Il che val quanto dire:

a. che l'obbligo esiste all'apertura della successione sia pure in conseguenza di liberalità ovviamente anteriori la morte del loro autore;

b. che all'autore della liberalità la legge consente un limitato potere d'intervento in termini d'esclusione dell'operatività dell'obbligo (la dispensa);

c. che all'autore si può riconoscere la facoltà d'ampliare l'obbligo di che trattasi in considerazione del medesimo fondamento che ne autorizza l'intervento limitativo [nota 44].

Pure è comunemente riconosciuto che la dispensa sia possibile attraverso un negozio unilaterale successivo all'atto di liberalità argomentando principalmente dal letterale tenore dell'ultima parte del primo comma dell'articolo 737 c.c. «salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati» il quale sembra ammettere una dispensa fino a che non si sia defunti, e quindi sia nell'atto che determina liberalità, sia in atto successivo, sia nel testamento [nota 45].

In questo contesto ci si deve innanzitutto chiedere, allora, se l'autore di una liberalità non destinata a collazione (si pensi ad una remuneratoria) possa imporre la collazione allo stesso modo con cui, unilateralmente, possa dispensare. E poi, se in una liberalità connotata da espressa dispensa da collazione, sia possibile, successivamente rimuovere la dispensa ad opera del disponente.

è di tutta evidenza che il quesito dietro la semplicistica innocenza di cui si circonda annida non pochi profili di rilevante difficoltà, ed è evidente che l'operatore pratico, in primis il notaio, debba riguardo alle fattispecie all'esame porre la massima attenzione nella valutazione degli interessi in gioco. Un orientamento anche di carattere generale può desumersi da una nota e recente sentenza, ancora una volta della Cassazione [nota 46] a giudizio della quale «… in tema di divisioni ereditarie, la dispensa dalla collazione, contenuta in una donazione, si configura come una clausola accessoria al contratto che, come tale, non può essere eliminata dal contesto per atto unilaterale di volontà di uno solo dei contraenti. La natura contrattuale di tale clausola non contrasta col divieto dei patti successori, trattandosi di una mera modalità dell'attribuzione, destinata ad avere efficacia dopo la morte del donante, e non di un atto con cui questi dispone da vivo della propria successione ...».

La sentenza, al di là di ogni considerazione di carattere generale che qui non può prodursi vale a sintetizzare alcuni corollari di non poco momento pratico:

a. la dispensa da collazione è clausola accessoria del contratto in cui si realizza la liberalità;

b. non contrasta con il divieto dei patti successori;

c. determina una modalità dell'attribuzione liberale efficace alla morte dell'autore della liberalità;

d. può rimuoversi solo con il consenso di tutti i contraenti protagonisti della struttura contrattuale cui essa inferisce.

Non si tratta tanto di studiare l'evidenza che ne sovviene per l'invocata struttura della dispensa, quanto di esaminare l'implicazione della negazione della sua funzione mortis causa [nota 47] e la conseguente avocazione agli atti tra vivi, ed in particolare alle pattuizioni o norme concernenti le modalità di un'attribuzione patrimoniale. Se in punto operativo si volessero tirare conclusioni in abbrivio con quelle della decisione al vaglio ci si potrebbe chiedere se la negata natura di atto mortis causa della dispensa da collazione non ammanti, siccome dovrebbe coerentemente essere, di natura tra vivi, più in generale, ogni pattuizione concernente l'istituto della collazione e segnatamente se ne possa desumere la piena legittimità ad esempio di accordi tra soggetti in ordine alla collazionabilità di atti che per il loro nomen iuris ne sarebbero esenti. Supponiamo solo per fare un esempio che due fratelli si rechino dal notaio, entrambi consapevoli di non avere oggi un lavoro che consentirebbe loro di acquistare una casa, e chiedano di fare un accordo con cui si obblighino alla collazione rispetto alla successione del comune padre, di ogni compravendita che ciascuno di loro stipulerà nel prossimo quinquennio, con ciò di fatto scoraggiando un eventuale liberalità non donativa avente ad oggetto il pagamento del prezzo del denaro delle compravendite senza expressio causae da parte del genitore che avesse magari intenzione di "favorire" uno di loro.

Se dalla sentenza sulla dispensa dalla collazione ora citata si può ricavare il generale principio secondo cui il negozio che ha ad oggetto la collazione non è patto successorio rappresentando semplicemente una modalità di un'attribuzione a valere, quanto all'effetto, alla morte dell'autore della liberalità, l'accordo potrebbe trovare piena legittimità. Nemmeno la considerazione della pattuizione in vista della morte di taluno (qui del comune genitore) con la forte carica di disvalore che l'accompagnerebbe - come sopra evidenziato - giustificherebbe la tesi negatrice dal momento che la Suprema Corte, pare, consideri validi gli accordi "risolutori" della dispensa da collazione purchè nel rispetto della struttura contrattuale che ne aveva caratterizzato la genesi. Anche la rimozione della dispensa è accordo "risolutorio" di una pattuizione afferente le modalità di un'attribuzione patrimoniale in vista della morte di taluno [nota 48], e qui la Suprema Corte non vi ravvisa alcun disvalore!

Non mancano, insomma, significativi segnali di una tendenziale rivisitazione di impostazioni tradizionali nei casi più dubbi nei quali le norme per la loro necessaria ampiezza, e talora, per la lacunosità che le caratterizza non esprimano, con chiarezza, divieti, né questi ultimi si ricavino con certezza dai principi.

Minori problemi comporta l'area applicativa delle pattuizioni in materia di collazione alla morte dell'autore di una liberalità. Qui, infatti, la questione appare condizionata più da esigenze di ricostruzione dogmatiche e di classificazione, che da questioni, per così dire, d'improcedibilità negoziale : va da sé, infatti che alla morte dell'autore della liberalità non vi sono ragioni per negare all'autonomia privata di poter assoggettare alla disciplina della collazione ciò che ritiene opportuno dovendosi, forse, sciogliere il diverso nodo se pattuizioni siffatte inferiscano la collazione in senso stretto, ovvero si tratti di contratti atipici da assoggettare al giudizio di liceità [nota 49]. Pattuizioni, queste, che darebbero luogo ad una disciplina la quale, convenzionalmente, ritagli la propria area operativa dagli artt. 737 e ss. del codice civile. Questione, quest'ultima, la cui ampiezza impone il rinvio ad una compiuta e specifica trattazione degli argomenti che ne risultano coinvolti.

Un cenno ai profili fiscali e considerazioni conclusive

Non può trascurarsi l'interesse connesso alla disciplina fiscale delle fattispecie al vaglio. è nota, infatti, la vigenza dell'articolo 1 T.U. 346\90, ove, al comma 4-bis si stabilisce che «ferma restando l'applicazione dell'imposta anche alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione l'imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l'atto sia prevista l'applicazione dell'imposta di registro in misura proporzionale o dell'imposta sul valore aggiunto» [nota 50].

Ai fini di del presente lavoro appare significativo sottolineare che la norma fiscale evoca un particolare concetto: quello del collegamento tra le c.d. "altre liberalità " e gli atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti reali immobiliari o il trasferimento d'aziende. Non deve sfuggire che la norma fiscale, infatti, evidenzia che quando esista un rapporto di collegamento tra la liberalità (indiretta) e l'atto di trasferimento non vi sia luogo per l'applicazione dell'imposta sulle donazioni.

è stato osservato che la disciplina da un lato incentiva, senz'altro, la "trasparenza" degli atti d'autonomia privata [nota 51], e da essa sembra possa trarsi non poco giovamento per quanto sin qui esposto: il collegamento tra liberalità e atto implicante il trasferimento di un diritto reale o d'azienda appare essere una scelta demandata alle parti.

Non risulta particolarmente chiaro in che cosa consista il collegamento di cui si tratta, ed in particolare non è specificato se il collegamento debba essere soggettivo e quindi constare da una dichiarazione che contenga l'attestazione della volontà del soggetto inferente il rapporto tra liberalità ed atto di trasferimento, oppure genericamente oggettivo. Quest'ultima soluzione non appare soddisfacente sul piano degli effetti: si è, infatti, avuto modo di chiarire che la pluralità delle fattispecie, in materia di liberalità non donative, è tale da non consentire nessun automatismo ontologico.

Difficile pensare che il Notariato non giochi un significativo ruolo consulenziale che, quanto meno consisterà nell'aver cura di spiegare al o agli interessati che ove non vi sia l'esplicazione del "collegamento", insomma l'expressio causae, si corre il rischio di vanificare il principio di neutralità fiscale delle liberalità, appunto, collegate ad atti di trasferimento. Tale sacrificio, con ogni probabilità verrà scelto quando si vorrà prediligere la speditezza del traffico giuridico e la "maggior" sicurezza della provenienza [nota 52]. L'expressio, al contrario, gioverà al trattamento fiscale, ma sacrificherà al suo conseguimento la "sicurezza" civilistica.

Nel contesto in questione si collocano i negozi ricognitivi e d'accertamento qui esaminati. Non sembra possibile negare che in essi si esprima il collegamento di cui è parola nella norma al vaglio ed il loro trattamento fiscale non può che essere identico a quello proprio del collegamento soggettivo di cui al comma 4-bis ora citato giovando da un lato a neutralizzare il trattamento tributario della liberalità che evidenziano sul piano civilistico, e dall'altro restando assoggettati all'imposta fissa di registro come ogni atto intrinsecamente sprovvisto di contenuto patrimoniale.

In conclusione appare difficile non sottolineare che il delicato tema del rapporto tra atti ricognitivi e liberalità non donative sembra il terreno adatto nel quale esercitare quell'invito, proprio per la materia che ne occupa, formulato da Vincenzo Roppo [nota 53] «all'antica ma sempre nuova sapienza del ceto notarile» cui non sembra concesso arretrare di fronte alle spinte provenienti dalla società, nel rispetto rigoroso ma duttile dell'applicazione degli istituti che viene compulsata dalla prassi.


[nota 1] V. ROPPO, «Le liberalità fra disciplina civilistica e norme fiscali: una sfida per il ceto notarile», in Notariato, 4, 2002, p. 428.

[nota 2] L. GATT, La liberalità, Torino 2000, ed. provv.

[nota 3] Nella direzione evidenziata V. ROPPO, «Le liberalità…», cit. p. 428-429.

[nota 4] Ricco di esempi è l'esordio del lavoro di G. IACCARINO, «Donazioni indirette. Profili tributari e disciplina dell'imputazione e della riduzione», in Notariato, 3, 2007, p. 269 e ss.

[nota 5] Orientato nel senso di negare che le liberalità non donative costituiscano categoria unitaria appare pure F. ALCARO, «Le donazioni indirette», in Vita not., 3, 2001, p. 1062, il quale carica il tratto significante della liberalità non donativa nell'atteggiarsi oggettivo del requisito soggettivo dell'attribuzione, ossia nella necessaria corrispondenza tra il voler attribuire senza la persecuzione di uno scopo che non sia il risultato oggettivo dell'attribuzione medesima. Ivi, a p. 1063, peraltro condivisibilmente nega la coincidenza tra liberalità non donativa e donazione indiretta. A quest'ultimo riguardo cfr., pure, M. CACCAVALE, «La donazione mista: profili ricostruttivi e rilevanza normativa», nota a Cassazione civile, sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642, in Notariato, 6, 2000, p. 514 e ss.

[nota 6] Giova ricordare che la norma all'attenzione letteralmente prevede l'imputazione delle "sole" donazioni e legati. Letteralmente, quindi, prende in considerazione le sole donazioni dirette. Tuttavia è opinione corrente quella secondo cui dall'ultimo comma della norma al vaglio [... ogni cosa che secondo le regole contenute nel capo II del titolo IV di questo libro, è esente da collazione, è pure esente da imputazione ...] si ricava il principio per cui «... le donazioni imputabili sono perciò quelle stesse soggette a riunione fittizia ...», G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II ed., Tomo I, Milano, 2002, p. 313. A tale ultimo riguardo vale pure ricordare che l'articolo 737 c.c. prevede espressamente il "conferimento" di ciò che l'obbligato ha ricevuto indirettamente. Dunque il cerchio sembra destinato a chiusura. Nello stesso senso G. AZZARRITI, Le Successioni e le donazioni, 1982, p. 273, ove si spiega, tra l'altro, che l'assimilazione tra imputazione e collazione per il profilo che ne occupa era letterale nel disposto dell'articolo 820 del previgente codice civile. Se ne può dedurre, quindi, coerentemente con la disciplina in sede di collazione che anche le donazioni "non dirette" rientrino nel disposto dell'articolo 564 c.c.

[nota 7] Valga, ancora, a tale ultimo riguardo ricordare che recentemente la Suprema Corte (Cass. civ. 16 novembre 2000, n. 14864) ha avuto occasione di ribadire espressamente il seguente principio di diritto: «quando gli eredi assumono che il de cuius abbia disposto di tutto il suo patrimonio con una donazione indiretta in favore di un solo erede, la domanda di accertamento che i beni assegnati facevano parte del patrimonio ereditario e la richiesta di determinazione dell'intero asse e della quota spettante a ciascun erede, configura una mera domanda di divisione, non idonea a conseguire il risultato di inficiare la donazione indiretta. A questo fine specifico l'ordinamento prevede l'azione di riduzione ...», in Giust. civ. mass., 2000, p. 2348. Contra S. DELLE MONACHE, «Liberalità atipiche donazioni occulte e tutela dei legittimari», relazione tenuta al Convegno "Famiglie e Convivenze", Milano 6-8 febbraio, Roma 20-22 marzo 2006.

[nota 8] Nel primo senso, recentemente, G. IACCARINO, op. cit., p. 270; per il secondo ragionamento cfr. l'attenta analisi di M. CACCAVALE, op. cit., p. 522 ove, sebbene ad altro fine, si legge «... nella donazione indiretta la liberalità sembra essere, in definitiva, uno tra i possibili esiti raggiungibili con l'atto di rinuncia ma comunque già insito e potenziale nella causa di questo ...».

[nota 9] A tale riguardo, chi scrive, con specifico riferimento al contratto a favore del terzo, aveva già avuto occasione di sottolineare che il rapporto sottostante la contrattazione a favore del terzo potrebbe consistere tanto in una liberalità, quanto in un rapporto assai diverso: si pensi al sollevare il terzo da una incombenza gestoria, come valida alternativa alla rappresentanza e/o al mandato. La conseguenza, sul piano dell'expressio è che essa giova all'evidenza dell'interesse dello stipulante di cui all'articolo 1411 c.c. quale elemento del congegno causale senza che purtuttavia militi a favore dell'emersione detta nessuna ragione che non sia l'opportunità dell'evidenza stessa: G.A.M. TRIMARCHI, «Il contratto a favore del terzo», in Notariato, 6, 2000, p. 578.

[nota 10] Così, per esempio, è agevole intuire perchè taluni, recentemente, hanno messo in dubbio che nelle ipotesi di società che adempie il debito di altra società infragruppo si debba ragionare in termini di liberalità, e ciò in quanto lo scopo perseguito dal programma negoziale lungi dal realizzare in chiave soggettivistica l'arricchimento della società beneficiaria, sembra destinato al perseguimento di uno scopo lucrativo d'impresa: quello della sopravvivenza di un elemento del gruppo ritenuto dalla società adempiente indispensabile all'economia del gruppo medesimo. Sul punto cfr. Cass. 12325\1998 e le considerazioni di A. PALAZZO, Le Donazioni, artt. 769-809, in Comm. cod. civ. diretto da P. Schlesinger, 2000, p. 577 e ss. ove si chiarisce la differenza tra atto gratuito e donazione proprio in ragione della diversità "dell'interesse" che li caratterizza (p. 578).

[nota 11] Come conclude, sia pure nella prospettiva dell'analisi fiscale, V. ROPPO, «Le liberalità fra disciplina civilistica e norme fiscali…», cit., p. 432 che, anzi, assegna al ceto notarile il difficile compito della scelta da modularsi in sintonia con la prevalenza degli interessi all'attenzione dell'operatore.

[nota 12] O magari lo desideri il figlio, o siano entrambi d'accordo.

[nota 13] Solo per dare conto dell'ampiezza del problema si evidenziano solo alcuni dei contributi più noti al dibattito di cui s'è detto: A. CATRICALà, voce Accertamento (negozio di), in Enc. giur. Treccani, I, 1988; R. CORRADO, voce Negozio di accertamento, in Nuoviss. Dig., XI, 1965, p. 196 e ss.; A. FALZEA, voce Accertamento: a) Teoria Generale, in Enc. dir., 1958, p. 205 e ss.; GIORGIANNI M., voce Accertamento (negozio di), in Enc. dir., I, 1958, p. 227 e ss.; E. BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico, Torino, 1960, p. 256 e ss. L.; BOZZI, Accertamento negoziale e astrazione materiale, Padova, 2000; L. DAMBROSIO, Il negozio di accertamento, Milano 1996; C. FURNO, Accertamento convenzionale e confessione stragiudiziale; E. PAOLINI, Il Contratto di accertamento, Padova, 1997; F. CARNELUTTI, «Note sull'accertamento negoziale», in Riv. dir. proc. civ., I, 1940, p. 3 e ss.; E. MINERVINI, «Il problema dell'individuazione del "negozio di accertamento"» in Rass. dir. civ., VII\3, 1986, p. 581 e ss.; F. GAMBINO, «La potenziale efficacia traslativa del negozio di accertamento e la teoria della forma», in Contr. e impr., 1999, p. 1295 e ss.; G. BRANCA, Delle promesse unilaterali, artt. 1960-1991, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1974; C.A. GRAZIANI, Il riconoscimento dei diritti reali - contributo alla teoria dell'atto ricognitivo, 1979.

[nota 14] La frase è riportata da M. ORLANDI, «Note sugli atti di ricognizione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 2003, p. 433 ed attribuita a F. Carnelutti.

[nota 15] Un significativo contributo al riordino delle opinioni in materia di ricognizione ed atti ricognitivi, ed alla loro distinzione con gli atti di accertamento, peraltro arricchito da un'attenta analisi della giurisprudenza che ha affrontato la tematica da varie angolazioni, oltre che da tratti e spunti di significativa originalità si deve a C. CACCAVALE, «Gli atti unilaterali di mutuo nel credito bancario», in Riv. dir. priv., 2\2001, p. 307 e ss. ed in particolare ivi par. II.1, nota 16 e p. 316 e ss., ivi in particolare note 20 e 23.

[nota 16] G. BRANCA, op. ult. cit., p. 425.

[nota 17] Sul punto l'attenta analisi delle opinioni correlate in C. CACCAVALE, op. ult. cit., p. 314. Si ricorda che la Cassazione propende per la natura negoziale: «poiché la ricognizione di debito ha natura di negozio unilaterale recettizio - di modo che il suo effetto si verifica solo se la dichiarazione negoziale sia portata a conoscenza del creditore - non può attribuirsi efficacia di ricognizione di debito alla delibera di un organo interno della P.A. (nella specie Consiglio Comunale) cui non segua l'esternazione ad opera dell'apposito organo (nella specie il sindaco); pertanto, l'arbitro che ritenga sufficiente, ai fini della ricognizione, la sola delibera, incorre in un errore di diritto e la Corte d'appello, che accerta il relativo vizio e dichiara la nullità del lodo, non esorbita dai poteri di controllo riconosciuti dall'art. 829, comma 2, c.p.c. ». Cassazione civile 20 luglio 2000, n. 9530.

[nota 18] Il negare, infatti, la possibilità che il beneficiario possa procedere al "riconoscimento" dell'expressio, implicherebbe coerentemente il rifiuto dell'inclusione della fattispecie tra le c.d. "contra se pronumptiationes". In altri termini, per sostenere che al beneficiario sia preclusa la facoltà al vaglio occorrerebbe dimostrare che la dichiarazione ricognitiva arrechi a chi la emetta un qualche "beneficio" ulteriore rispetto a quello già conseguito per effetto dell'attribuzione liberale. Il che non sembra. Quando, infatti, un beneficiario di una qualsiasi liberalità non donativa (si faccia l'esempio limite, per meglio comprendere, del figlio che si sia visto comprare la casa dal padre adempiente l'obbligo del pagamento del prezzo il quale nulla abbia detto nella relativa compravendita) renda una dichiarazione del tipo «riconosco che mio padre abbia adempiuto il mio debito al pagamento del prezzo di quel trasferimento immobiliare allo scopo esclusivo di arricchirmi», è difficile non accettare l'idea che il dichiarante non consegua, per effetto di codesta dichiarazione, alcun beneficio. Anzi. è evidente, d'altro canto, che sul piano patrimoniale, lo stesso, nulla "guadagni", in quanto l'attribuzione era stata acquisita dal suo patrimonio per effetto della vendita; né s'intravedono benefici dal punto di vista della disciplina giuridica, la quale, al contrario, ricondotta nell'alveo del sistema delle liberalità non donative, sembra esporre il dichiarante ad una serie di conseguenze "negative" cui, prima, almeno apparentemente, sembrava estraneo.

[nota 19] La distinzione risulta particolarmente chiara nelle parole di C. CACCAVALE, op. cit., p. 322 e 323 ove, a proposito dell'atto c.d. "unilaterale di mutuo" si chiarisce che [... l'atto al vaglio non viene posto in essere al ricorrere di una situazione dubbia e\o controversa, e interviene anzi tipicamente, in una fase, quella iniziale dell'operazione di finanziamento, in cui il rapporto giuridico tra banca mutuante e cliente mutuatario non risulta affatto in discussione …].

[nota 20] Cass. civ. 20 maggio 2004, n. 9651.

[nota 21] Qui giova appena accennare che correttamente taluni hanno evidenziato una "certa contraddizione" tra la circostanza secondo cui da un lato l'accertamento determina un effetto preclusivo in ordine ad ogni diversa interpretazione del fatto accertato e la rivendicata idoneità dell'accertamento stesso a produrre effetti nuovi (in particolare nuovi diritti). Sul punto C. CACCAVALE, op. ult. cit., p. 320.

[nota 22] Cass. civ. 05 giugno 1997, n. 4994, in Riv. not., 1998, p. 240 e ss.

[nota 23] Sul punto F. GAMBINO, op. cit., p. 1320.

[nota 24] Argomenta dal combinato disposto degli artt. 556 ultima parte, 747 e 750 c.c.

[nota 25] Ma l'idea risulta compatibile anche con le donazioni "dirette".

[nota 26] Sul presupposto non del tutto scontato ma di cui v'è diffuso convincimento, in specie in giurisprudenza, che sia esso immobile a doversi prendere in considerazione al fine dell'eventuale obbligo di imputazione, e che possa, segnatamente essere oggetto di riduzione.

[nota 27] Corte d'Appello Trento, 08 giugno 2001, in Gius., 2002, p. 107

[nota 28] Piace ricordare per il suo contenuto sintetico dei problemi (non certo per la sua forza di risolverli definitivamente) la massima della S.C. del 1985 n. 1683 che, a proposito dell'individuazione di un patto successorio suggerisce di: «… accertare: 1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione o debbono comunque essere compresi nella stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello ius poenitendi; 4) se l'acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba aver luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato …», in Giust. civ., 1995, I, p. 1501 e ss.

[nota 29] Il corsivo è di C. CACCAVALE, Interferenze, Contratto e Successioni, in Trattato del contratto di V. Roppo, vol. VI, 2006, p. 545.

[nota 30] In ordine alla circostanza si ricorda la pronunzia della S.C. numero 1683 del 16 febbraio 1995, in Notariato, 1995 p. 552 e ss.

[nota 31] Al quale s'ascrive la ratio dell'estensione del patto dispositivo, cfr. C. CACCAVALE, op. loc. ult. cit.

[nota 32] C. CACCAVALE e F. TASSINARI, «Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma», in Riv. dir. priv., 1\97, p. 92.

[nota 33] Qui valga ricordare che la stessa giurisprudenza ha avuto, già molti anni fa, occasione di rimarcare: «… è ammissibile nel nostro ordinamento giuridico, in base al principio di autonomia negoziale, il negozio di accertamento, anche quando è unilaterale: esso ha la funzione di precisare definitivamente il contenuto e l'essenza di un preesistente rapporto eliminandone gli elementi di incertezza …» Cass. civ. 6 maggio 1980, n. 2976, in Giur. it., 1981, I, 1, p. 253.

[nota 34] L'espressione può riferirsi indifferentemente all'atto pubblico o alla scrittura privata.

[nota 35] Il punto delle soluzioni volte ad agevolare o "garantire" la libera circolazione dei beni provenienti da liberalità è sempre stato all'attenzione del giurista e del pratico, al riguardo, tra i contributi più recenti si vedano i lavori di M. IEVA, «Retroattività dell'azione di riduzione e tutela dell'avente causa dal donatario tra presente e futuro», in Riv. not., 1998, p. 1129 e ss.; F. MAGLIULO, «L'acquisto dal donatario tra rischi ed esigenze di tutela», in Notariato, 2002 p. 94. Una compiuta rivisitazione critica delle più diffuse soluzioni elaborate dalla "pratica degli affari" e volte disinnescare il rischio della riduzione del bene oggetto di liberalità è in C. CACCAVALE, Interferenze, Contratto e Successioni, cit. p. 553 e ss. ed ivi a p. 557-561 ove l'autore invita ad una attenta riflessione in ordine alla garanzia evizionale quale fondamento esclusivo, almeno a certe condizioni consistenti nell'estensione della garanzia al caso in cui l'acquirente venga privato successivamente al suo acquisto del bene, di una tutela dell'acquirente che, in mancanza, resterebbe sempre esposto ai rischi connessi alle altre "soluzioni" comunemente prospettate: fideiussione del donante o autore della liberalità, e mutuo dissenso dell'atto liberale con stipula diretta tra titolare e terzo.

[nota 36] Non sembra rivestire alcuna importanza che all'accertamento partecipino o meno legittimari non destinatari di liberalità di qualsiasi tipo.

[nota 37] Sulle applicazioni pratiche concernenti il rapporto tra negozi di accertamento unilaterali, prove a futura memoria, atti di notorietà e verbali di constatazione cfr. la sintesi di G. MANZINI, «Il negozio di accertamento, inquadramento sistematico e profili di rilevanza notarile», in Riv. not., 6, I, p. 1427 e ss., ivi in particolare p. 1431-1433. Il tema risulta approfondito in sede dogmatica e di ricostruzione generale in M. ORLANDI, «Note sugli atti di ricognizione», cit., in particolare al paragrafo 13, non a caso intitolato "Interferenza con altre figure. Riconoscimento, ammissione, confessione". Qui giovi ricordare che recentemente la Corte di Cassazione (Sentenza 11 maggio 2007, n. 13625) ha avuto modo di ribadire che «ai sensi dell'art. 2720 c.c., l'efficacia probatoria dell'atto ricognitivo, avente natura confessoria, si esplica, nei casi espressamente previsti dalla legge, soltanto in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante. Ne consegue che a tale atto non può riconoscersi valore di prova circa l'esistenza del diritto di proprietà o (al di fuori dei casi previsti) di altri diritti reali. (Nella specie, è stato escluso che potesse avere valore confessorio la scrittura con cui il coerede aveva riconosciuto in favore degli attori il diritto di proprietà sui beni caduti in successione) …». è opportuno sottolineare che la Corte lungi dal negare cittadinanza all'atto unilaterale d'accertamento ha ritenuto di intervenire (in scia a consolidato orientamento peraltro) in ordine all'efficacia probatoria ex art. 2720 c.c. (errore nella ricognizione) relativamente all'accertamento unilaterale di un diritto reale. Sul punto già Cass. n. 2088 del 1992 e n. 2611 del 1996. Meno di recente, in argomento, si ricordino le forti affermazioni del Tribunale Roma, del 19 giugno 1991, secondo cui: «la dichiarazione unilaterale astratta, con la quale un soggetto affermi che su beni a lui intestati sussiste il diritto di comproprietà di altro soggetto, non costituisce negozio di accertamento unilaterale, nè confessione, nè atto di ricognizione, ma una semplice opinione giuridicamente non vincolante », in Giur. mer., 1992, p. 1111.

Però sul punto già prima ancora la S.C. secondo cui: «è ammissibile nel nostro ordinamento giuridico, in base al principio di autonomia negoziale, il negozio di accertamento, anche quando è unilaterale: esso ha la funzione di precisare definitivamente il contenuto e l'essenza di un preesistente rapporto eliminandone gli elementi di incertezza. In particolare, il negozio di accertamento di un diritto reale non ha alcun effetto traslativo, e pertanto, per la regolamentazione della situazione giuridica controversa deve farsi capo alla fonte precettiva originaria, che ne costituisce il fondamento», Cass. civ., 6 maggio 1980, n. 2976, cit.

[nota 38] La sintesi delle opinioni è, con il consueto utile schema, in G. CAPOZZI, Successioni e Donazioni, cit., p. 717-722. A conclusioni parzialmente diverse, ma con medesima ampiezza di opinioni, perveniva precedentemente G. GAZZARRA, voce Collazione, in Enc. dir., dir. civ., vol. V, 1966, p. 331-334.

[nota 39] Cass. 2 gennaio 1997, n. 1, in Notariato, 4, 1997, p. 309 e ss., con commento di A.M. CIAMBELLA.

[nota 40] Per quest'ultima ipotesi cfr. il singolare e non sufficientemente approfondito in dottrina disposto dell'articolo 743 c.c.

[nota 41] Salva l'imputazione in natura.

[nota 42] Qui senza nemmeno toccare il dibattito pure significativo sul piano pratico se tale obbligazione vi sia solo nell'ipotesi di relictum, oppure anche in suo difetto. Cfr. FORCHIELLI, Della divisione, artt. 713-768, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1970, p. 236 e ss.

[nota 43] Per tutti G. CAPOZZI, op. ult. cit., p. 721.

[nota 44] A dire il vero non è mancato chi ha correttamente sottolineato come l'intervento dell'autonomia appare legittimo anche nella diversa direzione della disciplina delle modalità della collazione così ad esempio nulla vieterebbe al donante (o all'autore di una liberalità non donativa) d'imporre al beneficiario di beni immobili la collazione per imputazione precludendo la via di quella in natura, cfr. G. CAPOZZI, op. ult. cit., p. 728.

[nota 45] Ancora, per tutti, G. CAPOZZI, op. ult. cit., p. 730.

[nota 46] Cass. civ. 1° ottobre 2003, n. 14590.

[nota 47] Invece dai più invocata, per tutti ancora G. CAPOZZI, op. cit., p. 729.

[nota 48] L'effetto sarebbe: «devi collazionare perché non sei più dispensato».

[nota 49] E\o meritevolezza ex art. 1322 c.c.

[nota 50] Si ricorda che del comma all'esame s'è occupato, tra le altre cose, lo Studio n. 168-2006/T della Commisione Studi Tributaria del Consiglio Nazionale del Notariato, licenziato il 15 dicembre 2006.

[nota 51] V. ROPPO, op. cit., p. 430.

[nota 52] Il silenzio sulla causa liberale impedisce di considerare che quella provenienza sia liberalità non donativa. Cfr. supra al primo paragrafo.

[nota 53] In calce all'intervento e della relazione al Convegno "Liberalità tra disciplina civilistica e norme fiscali" organizzato dal Comitato Notarile II Zona e dal Consiglio Notarile di Genova il 10 febbraio 2001.

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