Le liberalità non donative nell'imposizione diretta
Le liberalità non donative nell'imposizione diretta [*]
di Salvatore Sammartino
Ordinario di diritto tributario, Università di Palermo
Considerazioni introduttive
Il trattamento fiscale delle liberalità non donative ai fini delle imposte sui redditi non si presenta uniforme. Occorre operare delle distinzioni a seconda delle qualifiche dei soggetti interessati, l'erogante e il beneficiario.
Mentre nell'ottica civilistica, in presenza di liberalità, il soggetto erogante subisce un depauperamento o comunque non utilizza l'opportunità che gli viene offerta di incrementare il proprio patrimonio, e quindi in nessun caso può sostenersi che abbia prodotto un reddito, cioè una ricchezza nuova che si va ad aggiungere a quella di cui già dispone, non è così ai fini fiscali. In dipendenza della qualifica del soggetto che la pone in essere, e in presenza di talune circostanze, può verificarsi che la liberalità concorra a formare positivamente il reddito imponibile in capo al soggetto erogante.
Il beneficiario della liberalità sotto il profilo civilistico realizza un arricchimento, senza corrispettivo, voluto dall'erogante, e quindi un incremento, per fatti sopravvenuti, del suo patrimonio. Non sempre, tuttavia, anzi raramente, la ricchezza nuova, di cui diviene titolare, costituisce reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi.
Se così è, e lo si vedrà meglio in seguito, il concreto realizzarsi delle diverse circostanze può dar luogo al verificarsi delle seguenti ipotesi:
1. emerge reddito imponibile soltanto in capo al soggetto erogante;
2. il reddito tassabile si manifesta esclusivamente in capo al soggetto beneficiario;
3. la liberalità dà luogo ad una doppia tassazione, sia a carico dell'erogante che del beneficiario;
4. nessuno dei due soggetti realizza reddito imponibile.
Nel rispetto del principio di riserva di legge che opera in materia fiscale ai sensi dell'art. 23 della Costituzione e in considerazione del metodo casistico che informa la disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e dell'imposta sul reddito delle società, con la conseguente presenza di norme di dettaglio, è da ritenere che le liberalità non donative, alla stregua di quelle donative, rilevano ai fini delle imposte sui redditi solo se ed in quanto vi sia una norma che lo preveda espressamente ovvero dalla quale, in via interpretativa, possa desumersi una tale rilevanza.
Di certo mancano, ai fini dei tributi diretti, norme simili a quelle contenute negli artt. 809 e 737 c.c., sulla base delle quali è possibile tentare una definizione di donazione indiretta. Né può farsi ricorso alle disposizioni in tema di imposta sulle donazioni, atteso che rispondono ad una logica completamente diversa.
Può affermarsi, in via generale, che con riguardo all'imposizione sui redditi la distinzione tra donazioni dirette ed indirette, tra liberalità donative e liberalità non donative è destinata a sfumarsi sino a scomparire, se non per taluni profili legati alla fase dell'accertamento di cui si dirà appresso.
Il legislatore, in materia di imposte sui redditi, conosce il termine "erogazioni liberali", più volte utilizzato nell'art. 51 del D.P.R. n. 917/1986, che disciplina la determinazione del reddito di lavoro dipendente, nell'art. 10, destinato ad elencare gli oneri deducibili dal reddito complessivo lordo per determinare il reddito imponibile ai fini dell'Irpef, nell'art. 15, dedicato agli oneri che danno diritto alla detrazione del 19% dall'imposta lorda, e nell'art. 100, che elenca gli oneri di utilità sociale che costituiscono componenti negativi del reddito d'impresa.
Tali norme non verranno prese in esame, atteso che spesso si tratta di erogazioni in denaro, è ben difficile che abbiano per oggetto immobili e comunque le erogazioni liberali rilevano ai fini dell'abbattimento della base imponibile o dell'imposta da versare e non in quanto espressive di materia tassabile.
Lo stesso legislatore conosce il termine "liberalità" con riguardo al reddito d'impresa, sia come componente positivo (art. 88, comma 3, lett. b), che come componente negativo (art. 95, comma 1).
In quest'ultima norma è prevista la deducibilità, ai fini della determinazione del reddito d'impresa, delle spese per prestazioni di lavoro dipendente comprese quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori. Alla deducibilità di tali liberalità in capo a chi svolge attività produttiva di reddito d'impresa corrisponde la tassazione a carico del lavoratore: le liberalità di cui all'art. 95, comma 1, coincidono con le erogazioni liberali di cui all'art. 51, comma 1, fatte salve le deroghe contenute per il datore di lavoro nell'art. 100 e per il prestatore nell'art. 51, comma 2.
Nel prosieguo l'attenzione verrà rivolta alle liberalità che incidono positivamente sulla determinazione del reddito tassabile di cui all'art. 88, comma 3, lett. b).
Altra espressione usata dal legislatore, nella quale si può ricomprendere la cessione a titolo di liberalità, è quella di destinazione "a finalità estranee" all'esercizio dell'impresa (art. 85, comma 2 e art. 86, comma 1, lett. c) o all'esercizio dell'arte o professione (art. 54, comma 1-bis). Tali norme prevedono che la liberalità concorra a formare il reddito imponibile e pertanto saranno prese in esame.
è appena il caso di osservare che, perché si abbia la tassazione, è necessario quantificare la liberalità in termini monetari. Traducendosi il prelievo in una frazione, normalmente una percentuale, del reddito prodotto, si rivela imprescindibile l'attività di quantificazione della liberalità. In assenza di un corrispettivo, al di fuori del caso in cui si tratti di denaro, per il quale ovviamente non si pone alcun problema, occorre procedere alla quantificazione utilizzando la nozione di valore normale.
Ai sensi dell'art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, per valore normale si intende il prezzo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui l'operazione è avvenuta e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Nello stesso comma si precisa che per la determinazione del valore normale vanno utilizzati, ove sia possibile, i listini e le tariffe del soggetto che fornisce i beni o i servizi (cioè i prezzi praticati dallo stesso soggetto in caso di cessione a titolo oneroso di beni della stessa specie o similari ovvero di prestazioni di servizi a fronte di un corrispettivo) e, in mancanza, le mercuriali, i listini delle camere di commercio e le tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso.
Nel comma 4 dello stesso art. 9 sono dettate regole particolari con riguardo alla determinazione del valore normale per le azioni, le quote di partecipazione in società non azionarie, le obbligazioni e altri titoli.
Si fa rilevare che la nozione di valore normale ai fini delle imposte sui redditi è sostanzialmente identica a quella di valore normale ai fini dell'Iva, contenuta nell'art. 14, commi 3 e 4, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, istitutivo del tributo. Mancano, ovviamente, nella disciplina dell'Iva, le disposizioni sul valore normale di azioni, quote sociali, obbligazioni e altri titoli, atteso che le relative operazioni sono esenti da Iva ai sensi dell'art. 10, comma 1, n. 4) del citato decreto e quindi non si pone il problema, ai fini del prelievo, della quantificazione del loro valore.
Appare utile accostare la nozione di valore normale a quella di valore venale in comune commercio utilizzata dal legislatore ai fini delle imposte indirette sui trasferimenti immobiliari. L'espressione «valore venale in comune commercio» è contenuta nell'art. 14, comma 1, lettera a), del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in materia di imposta sulle successioni e donazioni, oggi applicabile, per rinvio, ai sensi dell'art. 2, comma 47 del D.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito nella L. 24 novembre 2006, n. 286, nonché nell'art. 51, comma 2, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in tema di imposta di registro.
Mentre per il valore normale ai fini delle imposte sui redditi il legislatore non indica uno specifico criterio da adottare in sede di controllo da parte dell'Amministrazione finanziaria, lasciando così a quest'ultima ampi margini di manovra, lo stesso non avviene per le imposte indirette sugli affari. Infatti, sia per l'imposta di registro (art. 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986) che per l'imposta sulle successioni e donazioni (art. 34, comma 3, del D.lgs. n. 346/1990), sono previsti criteri ben determinati da utilizzare (trasferimenti, divisioni e perizie giudiziarie anteriori di non oltre tre anni; reddito netto capitalizzato al tasso di interesse praticato per gli investimenti immobiliari; ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di indicazioni fornite dai comuni).
Ne consegue che, pur presentando elementi comuni, le nozioni di "valore normale" e di "valore venale di comune commercio" possono condurre a risultati diversi. Trattandosi di valore, come tale non dotato del carattere di oggettività, che è proprio del prezzo, non è difficile prevedere diversità di posizioni tra Fisco e contribuente, destinate ad essere risolte in sede contenziosa.
La diversa ratio che informa la disciplina delle imposte sui redditi rispetto a quella delle imposte sui trasferimenti induce a ritenere che i limiti previsti per queste ultime, sia in termini di determinazione della base imponibile in misura pari al valore tabellare (è il caso dei trasferimenti di case di abitazione tra privati), sia in termini di paralisi del potere di accertamento ove il valore dichiarato sia superiore a quello tabellare (è il caso delle donazioni di immobili), non si applichino ai fini delle imposte sui redditi. Ed invero, disposizioni simili a quelle che introducono tali limiti sono state e sono tuttora assenti nei provvedimenti normativi in materia di imposte dirette.
Ne consegue che, nelle ipotesi di liberalità con applicazione delle imposte sui redditi di cui si dirà appresso, si potranno avere due diverse quantificazioni, una ai fini dei tributi diretti, coincidente con quella da utilizzare per il calcolo dell'Iva, e una ai fini delle imposte indirette sui trasferimenti (imposta di registro, imposta sulle donazioni, imposta ipotecaria e imposta catastale).
Non resta che soffermarsi su ciascuna delle quattro ipotesi sopra prospettate con riguardo alla produzione o meno di reddito imponibile in capo all'erogante e al beneficiario della liberalità.
La tassazione in capo al soggetto erogante
La liberalità dà luogo a tassazione in capo all'erogante, ai fini delle imposte dirette, se quest'ultimo produce reddito d'impresa ai sensi degli artt. 55 e seguenti e 81 e seguenti del D.P.R. n. 917/1986, ovvero reddito di lavoro autonomo, più precisamente reddito derivante dall'esercizio di arti e professioni, ai sensi degli artt. 53 e 54 dello stesso decreto.
Come è noto, producono reddito d'impresa:
a. le persone fisiche che esercitano un'impresa commerciale nell'accezione fiscale del termine di cui al citato art. 55; sono tali, quindi, anche coloro che svolgono attività di allevamento di animali o di trasformazione e commercializzazione di prodotti ottenuti dalla coltivazione del fondo, se tali attività eccedono i limiti di cui all'art. 32 del D.P.R. n. 917/1986;
b. le società in nome collettivo e in accomandita semplice, le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative, le società di mutua assicurazione e gli enti commerciali di cui all'art. 73, comma 1, lett. b) dello stesso decreto, residenti in Italia, per tutte le attività svolte;
c. le società e gli enti commerciali non residenti, compresi i trust, che abbiano una stabile organizzazione in Italia, per tutte le attività svolte;
d1. le società e gli enti commerciali non residenti, compresi i trust, che non abbiano una stabile organizzazione in Italia, e gli enti non commerciali residenti e non residenti in Italia, limitatamente alle attività commerciali svolte.
Producono reddito di lavoro autonomo nell'esercizio di arti e professioni le persone fisiche nonché le società tra professionisti e le associazioni costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni.
Posto che il reddito di tali soggetti è di natura differenziale, nel senso che si determina sottraendo dai componenti positivi i componenti negativi, la liberalità non costituisce immediatamente reddito tassabile, bensì componente positivo di reddito.
Considerazioni distinte vanno formulate a seconda che si tratti di un soggetto erogante che produce reddito d'impresa ovvero reddito di lavoro autonomo.
Per i titolari di reddito d'impresa, ai sensi dell'art. 85, comma 2, rientra tra i ricavi, che costituiscono un componente positivo di reddito, il valore normale dei beni destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa.
L'erogazione per spirito di liberalità rientra di certo tra le finalità estranee all'esercizio dell'impresa.
Più precisamente si tratta dei beni elencati alle lettere a), b), c), d) ed e), del primo comma del citato art. 85: 1) beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa, cioè beni che costituiscono l'oggetto specifico dell'impresa; 2) materie prime e sussidiarie, semilavorati e altri beni mobili, diversi da quelli strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione; 3) azioni, quote di partecipazioni, strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e altri titoli in serie o di massa, purché non costituiscano immobilizzazioni finanziarie. Deve trattarsi, cioè, di titoli figuranti nel bilancio alla voce "attivo circolante", destinati alla cessione in tempi brevi in vista di un guadagno non costituito dall'utile di partecipazione o dall'interesse, bensì dalla differenza tra il costo di acquisto e il prezzo di vendita.
è facile osservare che tra i beni di cui al n. 1 possono figurare gli immobili: si pensi, ad esempio, al costruttore edile che trasferisca gratuitamente un immobile da lui costruito per spirito di liberalità.
Si fa rilevare che in nessun caso le prestazioni di servizio rese a titolo di liberalità concorrono a formare i ricavi.
Altra ipotesi in cui la liberalità dà luogo a tassazione in capo al soggetto erogante è quella prevista dall'art. 86, comma 1, lettera c) del citato D.P.R. n. 917/1986. Si tratta della destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa, e quindi anche a titolo di liberalità, di beni diversi di quelli che danno luogo a ricavi di cui al comma 1 dell'art. 85. Si ricomprendono tra tali beni quelli strumentali, cioè quelli suscettibili di fornire un'utilità ripetuta nel tempo, nonché i beni, diversi da quelli strumentali e diversi da quelli di cui al citato comma 1 dell'art. 85, che siano comunque relativi all'impresa ai sensi dell'art. 65 dello stesso decreto.
Ai sensi del citato art. 86, comma 1, lettera c), e comma 3, la cessione del bene a titolo di liberalità può dar luogo ad una plusvalenza patrimoniale, che è un componente positivo del reddito d'impresa e che a sua volta è un dato differenziale che si ottiene sottraendo dal valore normale del bene la parte non ancora ammortizzata del costo d'acquisto. Va osservato, per completezza che, mentre in caso di differenza positiva si realizza una plusvalenza, in caso di differenza negativa, cioè quando il costo non ammortizzato del bene ceduto per liberalità supera il valore normale, non si realizza in capo all'erogante una minusvalenza, che è componente negativo di reddito, ai sensi dell'art. 101, comma 1. In quest'ultima norma, infatti, si fa rinvio all'art. 86, comma 1, ma soltanto alle lettere a) e b), non alla lettera c) che riguarda la destinazione dei beni a finalità estranee all'esercizio dell'impresa.
Tra i beni, la cui cessione gratuita può dar luogo a plusvalenze, possono figurare anche gli immobili: si pensi al commerciante di tessuti che trasferisca a titolo di liberalità l'immobile adibito allo svolgimento della sua attività.
La plusvalenza, ai sensi dell'art. 86, comma 4, concorre a formare il reddito interamente nell'esercizio in cui viene realizzata, cioè nell'anno in cui viene effettuata la cessione del bene strumentale, ovvero, a scelta del contribuente, sempre che i beni ceduti a titolo gratuito siano stati posseduti per un periodo non inferiore a tre anni, in quote costanti nell'esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto, cioè in un arco di tempo comunque non superiore a cinque anni. La scelta va operata in seno alla dichiarazione dei redditi e, ove quest'ultima non venga presentata, la plusvalenza concorrerà a formare il reddito d'impresa per l'intero ammontare nell'esercizio in cui è stata realizzata.
Per un'esplicita previsione normativa contenuta nell'art. 58, comma 1, dello stesso D.P.R. n. 917/1986, il trasferimento di un'azienda o di un ramo aziendale per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze in capo al soggetto erogante. In questo caso l'azienda o il ramo aziendale va assunto dal soggetto beneficiario ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. In definitiva la continuità dei valori nella contabilità del soggetto erogante e in quella del soggetto beneficiario finisce col rinviare la tassazione al tempo in cui i beni aziendali saranno ceduti ad opera del beneficiario.
Per gli esercenti arti e professioni, ai sensi dell'art. 54, comma 1-bis, lettera c), concorre a formare il reddito, come componente positivo, la plusvalenza realizzata in caso di destinazione di beni strumentali (esclusi gli oggetti d'arte, d'antiquariato o da collezione) a finalità estranee all'esercizio dell'arte o della professione. Tale destinazione si concretizza, ovviamente, anche in caso di liberalità.
La plusvalenza è costituita dalla differenza tra il valore normale del bene e la parte del costo non ancora ammortizzata. In caso di differenza negativa, cioè quando il costo non ammortizzato del bene ceduto per liberalità supera il valore normale, non si realizza in capo all'erogante una minusvalenza deducibile.
Lo stesso art. 54, comma 1-bis 1, infatti, rinviando alle sole lettere a) e b) del precedente comma 1-bis, prevede che sono deducibili le minusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso o mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, in caso di perdita e di danneggiamento dei beni, ma nulla dispone con riguardo alle minusvalenze in caso di destinazione di beni strumentali a finalità estranee all'esercizio dell'arte o della professione.
Tra i beni strumentali, la cui cessione gratuita da parte dell'artista o professionista può dar luogo a plusvalenza, figurano anche gli immobili destinati allo svolgimento dell'attività, ove acquistati nel periodo che va dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2009, sempre che vengano effettuati gli ammortamenti. Una tale conclusione è legata all'interpretazione dei commi 334 e 335 dell'art. 1 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, che hanno modificato la disciplina degli ammortamenti nei confronti degli esercenti arti e professioni. Ne consegue che, ove si tratti di immobili strumentali acquistati anteriormente al 1 gennaio 2007 o dopo il 31 dicembre 2009, ovvero acquistati entro tale triennio, ma per i quali non vengano dedotte le quote di ammortamento, la cessione a titolo gratuito non potrà dar luogo a plusvalenze nei confronti dell'esercente arti o professioni.
Per completezza si conclude rilevando che la cessione a titolo di liberalità della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all'attività artistica o professionale, in nessun caso può concorrere a formare il reddito di lavoro autonomo, così come non vi concorre la prestazione di servizi resa a titolo gratuito. Ciò si desume dall'art. 54, comma 1-quater, secondo cui concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti: in assenza di un corrispettivo, la norma è destinata a non operare. Peraltro è lecito dubitare della sua concreta applicazione, con riguardo alla cessione della clientela, ove si consideri come sia difficile, se non impossibile, configurare la cessione di un cliente, che in nessun caso può essere costretto a giovarsi delle prestazioni di un professionista diverso da quello al quale si era affidato.
L'imposizione nei confronti del soggetto beneficiario
La liberalità dà luogo alla tassazione in capo al soggetto beneficiario ai fini delle imposte dirette, se quest'ultimo produce reddito d'impresa.
Con riguardo all'individuazione dei soggetti che producono redito d'impresa si rinvia alle considerazioni svolte nel paragrafo precedente. Così come avviene per il soggetto erogante, la liberalità non costituisce immediatamente reddito tassabile bensì componente positivo di reddito.
Per i titolari di reddito d'impresa sono considerati sopravvenienze attive, e quindi componenti positivi di reddito, i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di liberalità. In tal senso dispone l'art. 88, comma 3, lett. b), del D.P.R. n. 917/1986.
Tali proventi concorrono a formare il reddito nell'esercizio in cui sono stati incassati o, a scelta del contribuente, nell'esercizio in cui sono stati percepiti e nei successivi ma non oltre il quarto. è consentito, quindi, distribuire la sopravvenienza attiva in un arco temporale che non può comunque superare i cinque anni.
Vale la regola della cassa in deroga al principio di competenza che normalmente presiede alla determinazione del reddito l'impresa.
Se la liberalità è in natura, si farà riferimento, ai fini della quantificazione, alla nozione di valore normale.
Una considerazione particolare merita l'ipotesi in cui beneficiario della liberalità sia una persona fisica che produca reddito d'impresa. Può verificarsi, infatti, che il denaro o il bene venga acquisito dal beneficiario al di fuori dell'esercizio di impresa ovvero nell'esercizio di impresa. Mentre nel secondo caso la liberalità costituisce componente positivo del reddito d'impresa, nel primo caso, mancando una norma che lo preveda, non concorre a formare il reddito del beneficiario. è sufficiente che quest'ultimo, per escludere la tassazione, provi che la liberalità, sia essa in denaro o in natura, non sia stata annotata nelle scritture contabili dell'impresa.
Si fa infine rilevare che, in assenza di una espressa previsione normativa, non concorre a formare il reddito di lavoro autonomo una liberalità che abbia come beneficiario l'esercente un'arte o una professione.
La tassazione a carico del soggetto erogante e del soggetto beneficiario
La duplice tassazione, sia in capo al soggetto erogante che in capo al soggetto beneficiario, si realizza tutte le volte in cui quest'ultimo, titolare di reddito d'impresa, consegua una sopravvenienza attiva costituita da un provento percepito a titolo di liberalità, di cui si è scritto nel paragrafo precedente, e nel contempo il soggetto erogante sia esercente un'impresa ovvero un'arte o una professione e ricorrano le ipotesi, già esaminate, di cui all'art. 85, comma 2, all'art. 86, comma 1, lett. c), e all'art. 54, comma 1-bis, lett. c).
Di certo non è frequente che una tale ipotesi si realizzi e possono sorgere dubbi circa la compatibilità di una tale conclusione con il divieto di doppia imposizione, a livello giuridico e non economico, di cui all'art. 67 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, recante disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi.
Va tuttavia osservato che manca l'identità di presupposto richiesta dal citato art. 67 ai fini dell'operatività del divieto di doppia imposizione.
In capo all'erogante, infatti, il fatto significativo consiste nella cessione, sia pure a titolo di liberalità, di un bene relativo all'impresa o all'arte o professione, che si traduce in un mancato introito atteso che, ove fosse stato trasferito a titolo oneroso, avrebbe dato luogo a un componente positivo di reddito; per il beneficiario, invece, il fatto rilevante è costituito dalla percezione di un provento a titolo gratuito destinato ad incrementare la sua disponibilità di ricchezza.
L'irrilevanza della liberalità sia per il soggetto erogante che per il soggetto beneficiario
Si è già precisato che, ai fini della rilevanza della liberalità in sede di applicazione delle imposte sui redditi, è necessario che vi sia una norma che la preveda espressamente ovvero dalla quale, in via interpretativa, possa desumersi una tale rilevanza.
Sono state già prese in esame talune norme in virtù delle quali le liberalità concorrono alla formazione del reddito da sottoporre a tassazione.
Lo spazio di operatività di tali norme è sempre legato alla presenza di specifiche qualifiche in capo all'erogante o al beneficiario: l'uno o l'altro, o entrambi, devono essere soggetti che producono reddito d'impresa ovvero reddito di lavoro autonomo nell'esercizio di un'arte o professione.
Si tratta a questo punto di chiedersi se vi siano norme che consentano di attribuire rilevanza alle liberalità, ancorché sia l'erogante che il beneficiario operino al di fuori dell'esercizio di imprese, arti e professioni.
La risposta è negativa e quindi può concludersi nel senso della irrilevanza delle liberalità ai fini dell'imposizione diretta.
Se si prendono in considerazione le diverse ipotesi di liberalità non donative, in presenza di attività sia negoziali che non negoziali, è agevole rilevare che le disposizioni in materia di tributi sul reddito ignorano tali ipotesi e quindi esse sono da considerare irrilevanti ai fini della determinazione del reddito imponibile.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla remissione del debito, alla rinunzia ai diritti ereditari, fatta gratuitamente, con conseguenze favorevoli per tutti coloro ai quali si può devolvere la quota del rinunziante, all'adempimento di un obbligo altrui ai sensi dell'art. 1180 c.c., cui non faccia seguito alcuna attività di rivalsa ovvero segua una esplicita rinunzia a tale rivalsa, al contratto a favore di terzo, alla transazione manifestamente favorevole all'altra parte, al trust, alla costruzione su suolo altrui accompagnata da intento di liberalità, alla volontaria mancata interruzione, ad opera del proprietario, dell'altrui usucapione.
Si tratta, a ben vedere, di atti che incidono sul piano della consistenza patrimoniale dei soggetti interessati, ma dai quali non consegue la produzione di un reddito tassabile, rientrante in una delle categorie di cui all'art. 6 del D.P.R. n. 917/1986 (redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e diversi).
Lo stesso può dirsi per l'ipotesi, più frequente, di intestazione di beni a nome altrui, che si verifica quando un soggetto acquista un bene con proprie risorse e lo intesta per liberalità ad altro soggetto, che ne diviene quindi proprietario, nonché per il conferimento in società di denaro o di beni con intestazione della partecipazione sociale ad altro soggetto.
Anche in questi casi, che interessano più da vicino i trasferimenti di immobili, la circostanza che sia l'erogante che il destinatario operino al di fuori dell'esercizio di imprese, arti e professioni esclude la produzione di materia imponibile.
Né può invocarsi, a sostegno della tassazione in capo al beneficiario, l'art. 6, comma 2, del citato decreto, secondo cui i proventi conseguiti in sostituzione di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
La percezione di proventi in sostituzione di redditi presuppone che il reddito, in assenza del fatto che ha dato luogo alla sostituzione, si sarebbe prodotto e sarebbe stato tassato. Nei casi sopra indicati, in assenza della liberalità, nessun reddito si sarebbe prodotto in capo al beneficiario e quindi non può realizzarsi l'ipotesi del provento in sostituzione di redditi che, ai sensi della norma sopra citata, darebbe luogo alla tassazione.
Allo stesso modo la liberalità non può tradursi in un reddito tassabile ai sensi dell'art. 67, lettera l), dello stesso decreto, secondo il quale rientrano tra i redditi diversi quelli derivanti dall'assunzione di obblighi di fare, di non fare e di permettere. Se, a fronte della scelta dell'erogante, di intestare, ad esempio, un immobile al beneficiario, si dimostrasse che quest'ultimo abbia assunto un obbligo di fare, di non fare o di permettere, saremmo di fronte ad un corrispettivo di tale assunzione, tassabile ai sensi della citata norma, ma in questo caso non si tratterebbe più di una liberalità non donativa.
In tema di accertamento sintetico
Osservazioni di carattere generale
Una significativa conseguenza della liberalità non donativa, consistente nell'intestazione ad un soggetto (beneficiario) di un immobile acquistato con risorse di un altro soggetto (erogante) ovvero nel conferimento in società di denaro o di beni con intestazione ad altro soggetto della partecipazione sociale, è data dalla possibilità offerta dalla legge all'Agenzia delle Entrate di procedere ad accertamento sintetico nei confronti del soggetto beneficiario.
Ai sensi dell'art. 38, comma 4, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l'ufficio, ferma restando la possibilità di procedere ad accertamento analitico ai sensi dei commi precedenti e dell'art. 39, «può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato».
Appare utile operare talune distinzioni e soffermarsi poi sui caratteri dell'accertamento sintetico.
L'accertamento si dice analitico quando ha per oggetto le singole categorie di reddito, di cui all'art. 6, comma 1, del D.P.R. n. 917/1986, e quindi consente di pervenire alla determinazione del reddito complessivo netto che costituisce la base imponibile dell'Irpef, ai sensi dell'art. 3, comma 1, solo attraverso due successivi passaggi costituiti dalla somma dei redditi delle singole categorie e dalla successiva sottrazione degli oneri deducibili di cui all'art. 10 dello stesso decreto.
L'accertamento è invece sintetico quando non ha per oggetto le singole categorie di reddito bensì direttamente il reddito complessivo netto: non assumono quindi alcuna rilevanza né l'appartenenza del maggior reddito, rispetto a quello dichiarato, ad una o più categorie, né la presenza o meno di spese che potrebbero configurarsi come oneri deducibili.
Altra e diversa distinzione è quella tra accertamento deduttivo e induttivo. L'accertamento è deduttivo quando è fondato su prove certe e dirette, dalle quali in modo univoco può farsi derivare il maggior reddito, esattamente quantificato, rispetto a quello dichiarato, ovvero su presunzioni gravi, precise e concordanti. L'accertamento si dice induttivo quando si fonda su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza: in questi casi il dato quantitativo non emerge con esattezza dalla circostanza di fatto presa in considerazione, ma è frutto di un'approssimazione, tipica di un percorso logico non rigido.
L'accertamento analitico può essere deduttivo (art. 38, commi 2 e 3, e art. 39, comma 1) o induttivo (art. 39, comma 2). L'accertamento sintetico è sempre induttivo (art. 39, comma 4). Il primo può essere operato nei confronti di qualsiasi soggetto, e quindi ai fini dell'Irpef e dell'Ires; il secondo può essere adottato solo nei confronti delle persone fisiche.
La norma in tema di accertamento sintetico detta due precisi limiti: 1) che il reddito complessivo netto accertabile sia superiore rispetto a quello dichiarato per un ammontare di almeno un quarto di quest'ultimo; 2) che siano presenti elementi e circostanze di fatto, la cui esistenza sia indubitabile e dai quali si possa desumere in via induttiva il reddito complessivo del soggetto.
Il legislatore non specifica rigidamente quali debbano essere gli elementi e le circostanze di fatto dai quali desumere il reddito complessivo del soggetto: ne consegue che può farsi ricorso a qualsiasi dato di fatto, purchè, ovviamente, espressivo, in via diretta o indiretta, di disponibilità di ricchezza.
Le norme si limitano, a titolo esemplificativo, a indicare due fatti significativi:
1. la presenza degli elementi indicativi di capacità contributiva individuati con decreto del Ministro delle Finanze, costituenti il c.d. redditometro (disponibilità di autoveicoli, di collaboratori familiari, di residenze secondarie e principali, ecc.);
2. la spesa per incrementi patrimoniali.
In entrambi i casi l'attenzione è rivolta alla spesa sostenuta per fruire dell'indice di agiatezza.
Nell'ipotesi sub 1 il reddito è indirettamente determinato dai decreti ministeriali con riferimento a ciascun elemento indicativo di capacità contributiva e si può fare ricorso all'accertamento sintetico solo in presenza di un'ulteriore condizione consistente nella circostanza che il reddito dichiarato non sia congruo, rispetto a quello desumibile induttivamente da tali elementi, per almeno due periodi d'imposta consecutivi.
Nell'ipotesi sub 2 il reddito complessivo coincide con l'intera spesa sostenuta per incrementi patrimoniali e non è richiesto, ai fini del ricorso all'accertamento sintetico, che il reddito dichiarato non sia congruo per almeno due periodi d'imposta. Il reddito complessivo si presume prodotto, salvo prova contraria a carico del contribuente, in quote costanti, nell'anno in cui è stata sostenuta la spesa per incrementi patrimoniali e nei quattro precedenti: in tal modo, distribuendosi il reddito in più periodi d'imposta, considerata la progressività dell'Irpef, si riduce il prelievo a carico del contribuente.
Ne consegue che in presenza di spesa per incrementi patrimoniali, alla quale unicamente si farà riferimento in seguito, l'Agenzia delle Entrate emetterà cinque distinti avvisi di accertamento, uno per ciascuno dei cinque anni interessati, tutti motivati con riferimento alla spesa sostenuta. Se il contribuente ha realizzato più incrementi patrimoniali nello stesso anno o in anni diversi, verranno emessi più avvisi di accertamento nei quali, per ciascun anno interessato, si terrà conto di un quinto delle spese sostenute nello stesso periodo d'imposta o nei diversi periodi d'imposta.
L'onere della prova contraria a carico del contribuente
è pacifico che il contribuente può liberamente fornire la prova contraria volta a sostenere che la spesa affrontata per incrementi patrimoniali non è riconducibile a un reddito imponibile ai fini Irpef da lui prodotto e sottratto alla tassazione.
In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 283 del 23 luglio 1987, che, nel rigettare l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973, per contrasto con l'art. 24 della Costituzione, ha precisato, con riguardo a tutte le ipotesi nelle quali è possibile fare ricorso all'accertamento sintetico, che «nessun limite è posto dalla normativa impugnata alla prova della insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l'accertamento induttivo».
La previsione contenuta nel comma 6 dell'art. 38, secondo la quale il contribuente ha facoltà di fornire la prova contraria anche prima della notificazione dell'avviso di accertamento, induce a ritenere che l'Agenzia delle Entrate, prima di emettere l'atto impositivo, è obbligata ad invitare il contribuente a fornire le proprie giustificazioni. In assenza di tale invito, l'avviso di accertamento sintetico è viziato per aperta violazione di norme procedimentali ed è quindi suscettibile di essere annullato in sede contenziosa.
Né ovviamente la mancata risposta all'invito impedisce al contribuente di fornire la prova contraria nel corso del processo a seguito del ricorso avverso l'avviso di accertamento: l'esercizio del diritto di difesa, di cui all'art. 24 della Costituzione, va comunque garantito.
Una considerazione merita di esser fatta con riguardo alla previsione contenuta nel comma 6 dell'art. 38, secondo la quale il contribuente ha facoltà di dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, cioè da redditi, in entrambi i casi, da non indicare nella dichiarazione ai fini dell'Irpef. è da ritenere che tale facoltà sia espressamente prevista dal legislatore a mero titolo esemplificativo: il soggetto passivo del tributo può fornire qualsiasi prova contraria sia nella fase, obbligatoria, del contraddittorio anticipato sia in sede contenziosa.
Le conseguenze della liberalità non donativa avente per oggetto beni immobili
Si pensi all'intestazione di beni a nome altrui, che si realizza con l'acquisto di un bene immobile effettuato da un soggetto con denaro, per liberalità, fornitogli da altro soggetto o direttamente versato da quest'ultimo al venditore.
è un tipico caso di spesa sostenuta per conseguire un incremento patrimoniale, costituito dall'acquisizione di un immobile a titolo di proprietà (o di altro diritto reale).
Va subito rilevato che in realtà è impropria l'espressione «incremento patrimoniale» usata dal legislatore nell'art. 38, comma 5. L'acquisto dell'immobile, di per sé, tranne il caso in cui nulla sia stato pagato dal compratore, esprime non un incremento del patrimonio bensì una mera trasformazione della forma della ricchezza disponibile: in luogo della liquidità presente nel suo patrimonio, ad esempio depositata presso una banca, il soggetto, a seguito dell'acquisto, diventa titolare del diritto di proprietà su un immobile. Sarà l'immobile e non più la liquidità a far parte del suo patrimonio.
La norma va interpretata nel senso che l'indagine va rivolta alla formazione della liquidità in capo all'acquirente. Se non viene fornita una prova adeguata circa l'origine della disponibilità di tale liquidità, si assume che quest'ultima, per presunzione legale relativa, sia costituita da redditi prodotti, in quote costanti, nell'anno in cui è stato effettuato l'acquisto e nei quattro precedenti.
Per contrastare l'accertamento sintetico, il contribuente potrà dimostrare, a titolo esemplificativo, che la liquidità necessaria per l'acquisto è riconducibile a redditi prodotti dallo stesso soggetto, regolarmente indicati nella dichiarazione annuale o esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, ovvero che deriva da dismissione di beni preesistenti nel suo patrimonio, o comunque che ne abbia la legittima disponibilità per averla acquisita in dipendenza di un finanziamento, per successione, per atto di liberalità o per vincite.
In assenza della prova, si assume che la liquidità sia riconducibile a redditi prodotti dall'acquirente, imponibile ai fini dell'Irpef, per i quali si è perpetrato il tentativo di evasione.
Non è necessario che la prova venga fornita in seno all'atto pubblico (o alla scrittura privata autenticata) con il quale si realizza il trasferimento dell'immobile, e ciò neppure nell'ipotesi in cui la liquidità, a titolo di liberalità, sia stata fornita al venditore direttamente da un terzo.
Pur essendo prevedibile che l'Agenzia delle Entrate, in presenza di una situazione reddituale inadeguata in capo all'acquirente, si attivi con l'accertamento sintetico, è da ritenere che non rivesta utilità fornire la prova contraria in seno all'atto pubblico.
Ove si segnalasse, infatti, che la liquidità è stata fornita da un terzo e che quindi si tratta di una liberalità non donativa, pur non dovendosi applicare l'imposta sulle donazioni per l'espressa previsione contenuta nell'art. 1, comma 4-bis, del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, e successive modificazioni (in atto vigente a seguito dell'istituzione dell'imposta sulle successioni e donazioni secondo le norme del citato decreto legislativo, disposta dall'art. 2, comma 47, della L. 24 novembre 2006, n. 286), la futura circolazione dell'immobile, in quanto pervenuto all'acquirente a titolo di liberalità, potrebbe subire degli intralci di natura civilistica.
Né la mancata indicazione del soggetto che ha provveduto al pagamento del prezzo, sia esso lo stesso acquirente o un terzo a titolo di liberalità o per altro titolo, comporta la violazione della norma contenuta nell'art. 35, comma 22, del D.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248. La dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, che le parti, in virtù di tale norma, hanno l'obbligo di rendere in seno all'atto pubblico di trasferimento dell'immobile, attiene alla «indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo», non alla provenienza della liquidità, né in ordine al soggetto, né con riguardo alle origini della sua formazione.
è appena il caso di rilevare, per completezza, che l'esistenza stessa di liquidità in capo ad un soggetto costituisce circostanza di fatto certa, ai sensi dell'art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973, su cui l'Agenzia delle Entrate può fondare l'attivazione della procedura per l'accertamento sintetico a prescindere dal manifestarsi di tale liquidità in occasione dell'acquisto di un immobile. Anche a seguito di un'indagine bancaria, ad esempio, il soggetto attivo del tributo può venire a conoscenza di disponibilità liquide in capo al contribuente e potrà procedere ad accertamento sintetico, sempre che tali disponibilità siano sorte in periodi d'imposta per i quali sono ancora aperti i termini per emettere l'atto impositivo ai sensi dell'art. 43 del citato decreto. Proprio il fatto che l'esistenza stessa della liquidità può legittimare la procedura dell'accertamento sintetico, spiega perché, nell'ipotesi in cui sia stato il terzo a fornire il denaro all'acquirente dell'immobile a titolo di finanziamento o di liberalità, l'Agenzia delle Entrate possa procedere, a catena, con la stessa tipologia di accertamento nei confronti dello stesso terzo, che, per contrastare l'atto impositivo, deve a sua volta fornire la prova contraria.
La prova a carico del contribuente per contrastare l'accertamento sintetico dovrà essere documentale ed adeguata sotto il profilo quantitativo in relazione alle disponibilità liquide di cui si è acclarata l'esistenza. Tra le prove documentali, a sostegno della circostanza che la liquidità non è riconducibile a redditi imponibili per i quali il contribuente avrebbe tentato di evadere l'Irpef, vanno ricompresi, a titolo esemplificativo, gli assegni circolari intestati al venditore dell'immobile, rilasciati all'istituto di credito su richiesta di un terzo e coperti con fondi di quest'ultimo, e gli assegni bancari tratti sul conto corrente del terzo e utilizzati per l'acquisto dell'immobile.
L'orientamento della giurisprudenza
Appare utile richiamare talune sentenze sia della Corte di Cassazione che dei giudici di merito.
Non è sufficiente per contrastare l'accertamento sintetico, «una mera affermazione non sostenuta da prova idonea» e quest'ultima deve essere fornita dal contribuente «essendo onere dell'ufficio impositore solo la dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa» (nella specie, l'avvenuto acquisto oneroso di un bene immobile). In tal senso si è espressa la Cassazione, sez. tributaria, con sentenza n. 23250 del 27 ottobre 2006.
La Commissione Tributaria regionale dell'Umbria, sez. VI, con le sentenze n. 562 del 24 ottobre 2000 e n. 728 del 29 novembre 2000, si è espressa nel senso che costituiscono prove idonee le dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà rese da terzi attestanti la fornitura di liquidità al futuro acquirente dell'immobile a titolo di finanziamento o di liberalità.
è da ritenere che in questi casi, molto verosimilmente, l'Agenzia delle Entrate attiverà la procedura dell'accertamento sintetico nei confronti dei terzi che hanno reso le dichiarazioni.
Un'interessante fattispecie è quella su cui si è pronunziata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8665 del 17 giugno 2002. Il contribuente intendeva contestare l'avviso di accertamento sintetico, assumendo che l'atto pubblico di acquisto dell'immobile, nel quale era contenuta la dichiarazione di avvenuto pagamento del prezzo, fosse simulato, intendendo le parti porre in essere un atto a titolo gratuito. La Corte, pur ammettendo la possibilità che l'acquirente possa provare la simulazione del contratto di compravendita e così rendere inoperante la presunzione su cui si fonda l'accertamento sintetico, ha respinto il ricorso del contribuente considerando inadeguata la prova da quest'ultimo fornita consistente nella circostanza che dalla documentazione bancaria dei danti causa non risultasse l'accredito della somma corrispondente al prezzo indicato nell'atto pubblico, ben potendosi ipotizzare che il pagamento sia avvenuto con altre modalità.
Giova precisare che la stessa stipula di un contratto di mutuo può essere ritenuta una circostanza di fatto rilevante ai fini dell'accertamento sintetico, atteso che presupporrebbe la capacità di estinguerlo e quindi sarebbe di per sé rivelatrice di una potenzialità economica. Fermo restando che tale potenzialità verrebbe meno ove si dimostrasse che le rate di mutuo non siano state pagate, è da rilevare che il contenuto induttivo della stipula del contratto di mutuo non può superare, per ciascun anno, l'ammontare delle rate effettivamente pagate.
Sempre in tema di mutuo è ritenuto che non possa essere indicata coma prova per contestare l'accertamento sintetico la stipula di un contratto in un periodo anteriore a quello cui si riferisce l'atto impositivo, tanto più se le somme ricevute a mutuo non erano più presumibilmente nella disponibilità del contribuente già nel periodo precedente a quello oggetto dell'accertamento.
Tale orientamento della Commissione Tributaria regionale della Lombardia, sez. VII (sentenza n. 15051 del 27 gennaio 2005, di cui si conosce solo la massima) suscita delle perplessità nella parte in cui si respinge la linea difensiva del contribuente, fondata sull'esistenza del mutuo, in presenza di presunzioni, e non di prove, circa la mancata disponibilità delle somme prese in prestito già nell'anno precedente a quello oggetto dell'accertamento. è da considerare che, non sussistendo limiti alla possibilità offerta al contribuente di fornire la prova a suo discarico, egli può anche documentare un contratto di mutuo stipulato in tempi precedenti. In tal caso incombe sull'Agenzia delle Entrate l'onere di dimostrare, con prove precise, che la liquidità derivante dal mutuo non sia più nella disponibilità del soggetto al tempo in cui egli ha effettuato le spese prese in considerazione ai fini dell'accertamento sintetico.
Va ricordato che anche l'Agenzia delle Entrate, nel dettare le linee guida in tema di accertamento sintetico (circolare n. 49/E del 9 agosto 2007), invita gli uffici periferici a tenere conto di atti da cui si evinca la disponibilità di somme di denaro, tra i quali i mutui, stipulati «in un arco temporale ragionevole antecedente l'anno cui si riferiscono le spese-indice e gli esborsi», anche se poi nell'allegato 2 alla stessa circolare si fa riferimento, pur mancando qualsiasi limite normativo, ad un periodo antecedente di dodici mesi .
Merita infine di essere richiamata la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Puglia – sez. XXVIII (n. 12 del 30 ottobre 2002), nella quale viene attribuita rilevanza, ai fini dell'annullamento dell'accertamento sintetico in capo ad uno dei coniugi in regime di comunione legale, ai risparmi riconducibili al reddito complessivo di entrambi, prodotto ed assoggettato a tassazione in un lungo arco di tempo. è da ritenere che il regime patrimoniale scelto dai coniugi non sia rilevante, ben potendosi ipotizzare che, anche in caso di separazione dei beni, l'indice di agiatezza possa essere espresso da uno dei coniugi utilizzando il reddito prodotto dall'altro.
Nella sentenza viene citato l'orientamento dell'Amministrazione Finanziaria (peraltro confermato nella citata circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 49/E del 9 agosto 2007), secondo il quale va attribuita rilevanza, al fine di escludere l'emissione di un avviso di accertamento sintetico, al reddito complessivo di tutti i componenti del nucleo familiare.
Notazioni conclusive
Le considerazioni suesposte consentono di trarre alcune conclusioni.
Operando in materia fiscale il principio di riserva di legge di cui all'art. 23 della Costituzione, le liberalità possono dar luogo a materia imponibile ai fini delle imposte sui redditi se ed in quanto vi sia una norma che lo preveda.
Il metodo casistico che informa la disciplina delle imposte sui redditi impone che la liberalità possa essere rilevante sempre che concorra alla produzione di un reddito tassabile, rientrante in una delle sei categorie di cui all'art. 6 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi d'impresa e redditi diversi).
Se la liberalità è in natura, occorre procedere alla quantificazione utilizzando la nozione di valore normale di cui all'art. 9, comma 3, del citato D.P.R. n. 917/1986.
In assenza di specifiche previsioni normative le liberalità non donative sono irrilevanti ai fini delle imposte sui redditi se l'erogante cede i beni al di fuori dell'esercizio di imprese, arti e professioni e il beneficiario li acquisisce anch'esso al di fuori dell'esercizio di tali attività.
Se l'erogante produce reddito d'impresa ed effettua la liberalità nell'esercizio della relativa attività, concorre a formare i suoi ricavi il valore normale dei beni ceduti gratuitamente, ai sensi dell'art. 85 comma 2 del citato D.P.R. n. 917/1986. Si tratta di quegli stessi beni, compresi gli immobili, che, se fossero stati ceduti a titolo oneroso, avrebbero dato luogo a ricavi, cioè a un componente positivo di reddito.
Sempre in capo all'erogante che produce reddito d'impresa ed effettua la liberalità nell'esercizio della relativa attività, la cessione a titolo gratuito di un bene strumentale o di un altro bene relativo all'impresa, diverso da quelli che danno luogo a ricavi, può dar luogo, ai sensi dell'art. 86, comma 1, lett. c) del citato decreto, ad una plusvalenza patrimoniale, che è un altro componente positivo di reddito, sempre che il valore normale di tale bene, che può anche essere un immobile, superi la parte non ancora ammortizzata del costo di acquisto.
Se l'erogante produce reddito di lavoro autonomo ed effettua la liberalità nell'esercizio dell'arte o della professione, la cessione a titolo gratuito di un bene strumentale, sia esso mobile o immobile, può dar luogo, ai sensi dell'art. 54, comma 1-bis, lettera c), ad una plusvalenza patrimoniale, che è un componente positivo di tale reddito, sempre che il valore normale del bene superi la parte non ancora ammortizzata del costo di acquisto.
La plusvalenza non si realizza se la cessione a titolo gratuito ha per oggetto un immobile strumentale acquistato anteriormente al 1° gennaio 2007 o dopo il 31 dicembre 2009 ovvero acquistato entro tale triennio ma per il quale non sono state dedotte le quote di ammortamento.
Se il beneficiario della liberalità produce reddito d'impresa ed acquisisce il bene a titolo gratuito nell'esercizio della relativa attività, il valore normale del bene ricevuto costituisce sopravvenienza attiva, che è un componente positivo di tale reddito, ai sensi dell'art. 88, comma 3, lett. b), del citato decreto.
Al di fuori dell'esercizio di impresa, la liberalità non donativa, espressa attraverso l'intestazione ad un soggetto di un immobile acquistato con risorse di un altro soggetto, può dar luogo ad un accertamento sintetico nei confronti del beneficiario, ai sensi dell'art. 38, comma 4, del citato decreto, ove quest'ultimo non abbia dichiarato redditi sufficienti a giustificare la somma che formalmente risulta da lui pagata al venditore.
Il puntuale funzionamento dell'anagrafe tributaria consente all'Amministrazione finanziaria di conoscere una pluralità di dati e notizie attinenti alla situazione reddituale e patrimoniale del contribuente.
Tale conoscenza, che ovviamente ricomprende anche le operazioni immobiliari, nonché quelle bancarie, facilita l'attivazione della procedura di accertamento sintetico in presenza di redditi dichiarati in misura inadeguata rispetto agli indici di agiatezza manifestati.
Nel caso prospettato si tratta di una spesa per incrementi patrimoniali, espressamente prevista come indice di agiatezza dall'art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 917/1986.
Ricade sul contribuente l'onere di fornire la prova contraria volta a sostenere che la spesa affrontata per incrementi patrimoniali non è riconducibile a un reddito imponibile ai fini dell'Irpef da lui prodotto e sottratto alla tassazione. L'Agenzia delle Entrate è tenuta soltanto alla dimostrazione della circostanza di fatto posta a base dell'accertamento sintetico, che, nella specie, consiste nell'acquisto a titolo oneroso del bene immobile.
Potrà essere fornita liberamente qualsiasi prova contraria sia nella fase del contraddittorio anticipato a seguito dell'invito a fornire chiarimenti, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del decreto (fase obbligatoria a pena di illegittimità dell'avviso di accertamento per vizio procedimentale), sia in sede contenziosa.
Il contribuente, quindi, potrà contrastare l'accertamento sintetico limitandosi a dimostrare che la liquidità necessaria per l'acquisto dell'immobile gli è stata fornita da un terzo a titolo di liberalità. Tale dimostrazione potrà essere, ad esempio, fornita attraverso gli assegni circolari intestati al venditore dell'immobile, rilasciati dall'istituto di credito su richiesta del terzo e coperti con fondi di quest'ultimo, ovvero gli assegni bancari tratti sul conto corrente del terzo e da quest'ultimo intestati al venditore.
è possibile (non è necessario né opportuno per via delle conseguenze di natura civilistica sulla futura circolazione dell'immobile) che la prova sia contenuta nell'atto pubblico o nella scrittura privata autenticata con cui si realizza il trasferimento dell'immobile, indicando e dimostrando che la liquidità è stata fornita da un terzo a titolo di liberalità.
La prova dovrà essere in ogni caso documentale e adeguata sotto il profilo quantitativo in relazione all'ammontare della liquidità la cui esistenza si è manifestata in occasione dell'acquisto dell'immobile.
è appena il caso di rilevare che, ove venga segnalata la provenienza della liquidità da un terzo, l'Agenzia delle Entrate, ove ne ricorrano i presupposti, potrà ricorrere all'accertamento sintetico nei confronti di quest'ultimo, atteso che la disponibilità della liquidità costituisce, da sola, circostanza di fatto idonea, ai sensi dell'art. 38, comma 4, a consentire l'attivazione di tale procedura.
[*] La relazione viene pubblicata ancorché, per motivi di salute dell'autore, non sia stata svolta nel corso del Convegno.
|
|
|