Le soluzioni concordate della crisi d'impresa
Le soluzioni concordate della crisi d'impresa
di Fabrizio Di Marzio
Tribunale di Roma

A dispetto di quanto potrebbe apparire consultando la produzione legislativa, il diritto della crisi d'impresa non si è mai esaurito nel diritto fallimentare; nemmeno bastevole si è rivelato il più ampio spazio del diritto concorsuale, inteso come diritto delle procedure concorsuali. Questi tradizionali settori, infatti, sono prevalentemente dedicati al diritto dell'impresa non semplicente in crisi ma definitivamente insolvente. Inoltre, i sistemi regolamentari che li costituiscono si spiegano esclusivamente in procedure: amministrative e/o giurisdizionali. Dunque, in questi insiemi non può essere esaustivamente ricompresa l'area occupata dalle soluzioni concordate della crisi d'impresa.

Si tratta di una famiglia eterogeneamente composta di accordi e procedure; nella quale accordi e procedure si articolano secondo schemi di successione temporale o di contestualità; in cui l'accordo è isolato dalla procedura, ma concluso in vista della procedura stessa oppure è raggiunto nella procedura, e affiancato a strumenti diversi, come la deliberazione a maggioranza. Infine, ed è quanto più importa, in questa famiglia di accordi e procedure lo stato oggettivo in cui versa l'impresa non è l'irreversibile insolvenza ma la situazione, molto più sfumata, della crisi. Nella sua indeterminatezza e nella minore gravità rispetto all'insolvenza, la crisi si presenta come un problema accusato dall'impresa nel suo svolgersi. La dimensione del 'problema' giustifica l'approccio in termini di 'soluzione'. Il metodo perseguito per attingere al risultato è la negoziazione; la soluzione è nell'accordo.

A differenza di quanto accadeva nella legge fallimentare versione 1942, gli interventi di riforma succedutisi dal 2005 al 2007 hanno riservato grande considerazione alle soluzioni concordate della crisi d'impresa. Si è così realizzato un deciso cambio di prospettiva rispetto al passato. Diviene pertanto attuale la possibilità di una più esaustiva ricostruzione del complesso fenomeno del diritto della crisi d'impresa.

La cronaca del dibattito in corso testimonia di come anche su questa scelta fondamentale si addensino dubbi e critiche. Credo tuttavia che lo spirito che anima la nuova legge fallimentare non possa essere adeguatamente compreso (il che è attività metodologicamente preliminare alla critica) trascurando la vicenda storica che ha interessato la legge: vicenda strettamente conseguente all'altra, epocale, di evoluzione delle strutture del mercato.

Le sintetiche considerazioni che seguono si occupano pertanto, nella prospettiva storica, del tema degli accordi sulla crisi d'impresa alla luce degli ultimi arresti normativi.

Se si riflette che l'attività d'impresa è attività relazionale, che si svolge in un contesto - il mercato - in parte dato e in parte in formazione (perché si arricchisce costitutivamente di quella attività); se si considera inoltre che nel mercato l'attività d'impresa si conduce nel senso della selezione concorrenziale; se si constata pertanto che prosperità e crisi costituiscono evenienze fisiologiche di questa attività, ricorrenti in alternativa e in successione, a prescindere da qualsivoglia univocità di percorso; se si porge attenzione a questi dati preliminari si scorge agevolmente che nella relazione di mercato, tra imprese e tra imprese e consumatori, la crisi dell'impresa condiziona frequentemente la relazione, che assume specifiche conformazioni, si fa incerta e frammentaria o si interrompe del tutto.

Non di rado, inoltre, la crisi può divenire l'oggetto della relazione di mercato: cosicché il dilago tra debitore e creditori si svolge e l'accordo si persegue proprio sulla crisi, concepita come problema.

La legge fallimentare, nella versione del 1942, si disinteressava completamente di questo rilevante fenomeno; ad essere disciplinato era unicamente il diritto delle procedure concorsuali. In quest'ultimo si riassumeva, imperfettamente, il diritto della crisi d'impresa.

Non bisogna credere che il legislatore ignorasse la prassi degli accordi sulla crisi d'impresa; infatti, nelle pieghe della legge si percepisce chiaramente la consapevolezza del fenomeno (basti considerare la disposizione dell'art. 118, n. 1 e 2, sulla chiusura della procedura per mancanza di domande di ammissione al passivo o per estinzione dei crediti 'in altro modo'). Piuttosto, vi era la convinzione che l'accordo sulla crisi d'impresa dovesse esulare dalla legge, infatti dedicata non agli accordi, ma al fallimento e alle altre procedure concorsuali. E che, dunque, la sede appropriata e comunque preferibile di composizione (non della crisi ma) dell'insolvenza dell'impresa dovesse essere processuale.

In tal modo, in forza delle visioni all'epoca imperanti sulla organizzazione pubblica dello spazio economico, il problema sorto nel mercato era sottratto al mercato e gestito dallo Stato. Attraverso il potere di iniziativa d'ufficio per la dichiarazione di fallimento, la drastica soluzione prospettata era l'espulsione dell'impresa insolvente dal mercato.

Il controllo pubblico sull'impresa in crisi era riconfermato dalla disciplina sulla amministrazione controllata (artt. 187 e ss. L. fall.), a cui poteva accedere, su domanda, l'imprenditore non definitivamente insolvente il quale fosse inoltre giudicato meritevole di quello che era definito un 'beneficio'. A seguito dell'ammissione in procedura, l'attività d'impresa era sottoposta al controllo del giudice; finalità del controllo era la tutela dell'interesse dei creditori.

Sempre nell'ottica del beneficio, da riservare all'imprenditore 'onesto e sfortunato', era strutturata la disciplina del concordato preventivo (artt. 160 e ss. L. fall.). Condizione di ammissione alla procedura era lo stato di insolvenza. La definitività del dissesto imponeva grande severità delle condizioni legali in cui poteva articolarsi la proposta, infatti sottoposta all'austera alternativa: pagamento dei creditori in misure minime prestabilite oppure cessione di tutti i beni esistenti nel patrimonio, purché la valutazione di tali beni facesse prevedere che all'esito della liquidazione si potesse conseguire attivo per una soddisfazione dei creditori nelle stesse misure imposte per la soluzione del pagamento.

In particolare, la soddisfazione dei creditori privilegiati non era negoziabile. A prescindere dalla esistenza o meno di concrete possibilità di realizzo della garanzia che assisteva il credito, il debitore era tenuto a offrire l'integrale pagamento. La soddisfazione dei creditori chirografari era negoziabile in termini alquanto ristretti. In primo luogo, non erano previste distinzioni per categorie di creditori, e dunque non era possibile offrire pagamenti in misura differenziata; in secondo luogo, doveva comunque essere offerta una percentuale minima, di misura oggettivamente elevata (il quaranta per cento dell'ammontare del credito).

Infine, qualora la proposta fosse stata approvata dai creditori, occorreva un vaglio finale del Tribunale, sulla convenienza economica del concordato. Questa ultima previsione sottraeva definitivamente il destino dell'impresa dalla decisione del ceto creditorio. L'approvazione costituiva una semplice tappa intermedia della procedura. La vera decisione era assunta dal Tribunale, in sede di omologazione. Cadevano infatti nuovamente in discussione tutti gli aspetti rilevanti: rispetto delle norme di rito e valutazione della proposta nel merito e nella convenienza economica.

In un simile contesto, l'accordo teso a comporre la crisi d'impresa accusava uno statuto inferiore. Questa realtà traspariva nella stessa terminologia adoperata: si discorreva infatti, e ancor oggi si discorre, non di accordi sulla crisi d'impresa ma di accordi e – più spesso – 'concordati' (tuttavia) 'stragiudiziali'.

Dunque: l'intesa sulla crisi d'impresa, collocabile nell'area concettuale del 'contratto', quasi ne sembrava esclusa. Più esattamente, quella collocazione era declinata non in positivo, ma in negativo: l'accordo sulla crisi d'impresa si poneva accanto al concordato, unica via offerta dalla legge per la transazione del debito. Poiché non vi era in effetti alcuna procedura di concordato, ma solo un accordo, questo era singolarmente qualificato come concordato, ma aggettivato come stragiudiziale. In tal modo, la prassi ricercava una vera e propria legittimazione per approssimazione lessicale a quanto ritenuto giuridicamente lecito ed ammissibile.

L'uso linguistico tradiva la realtà delle cose: come è ampiamente noto, l'esperienza dei concordati stragiudiziali si è consumata all'ombra delle procedure concorsuali. Anziché assumere evidenza e rilievo, questa esperienza è stata vissuta all'insegna della riservatezza e, nel maggior numero dei casi, del segreto. In simili condizioni, il negoziato sulla crisi d'impresa è storicamente servito ai creditori 'forti' per acquisire posizioni di prevalenza ulteriore: per massimizzare le prospettive di recupero e per conseguire pagamenti in violazione del principio della parità di trattamento. Il debitore era infatti indotto all'accordo anche a condizioni rovinose, prospettandosi tale intesa come l'unica via possibile per scongiurare o ritardare il ricorso alle procedure giudiziarie di trattamento della crisi e dell'insolvenza.

Per naturale effetto, il superamento della crisi non poteva certo definirsi come l'obbiettivo principale avuto di mira dai protagonisti dell'intesa; piuttosto, poteva scaturire come effetto indiretto e riflesso della transazione del debito.

Dalla stringata sintesi è possibile trarre due considerazioni.

La prima. L'assetto della legge fallimentare, ampiamente dovuto a concezioni superate sul controllo pubblico dell'attività d'impresa, si presentava fortemente distonico rispetto alla cultura del mercato concorrenziale che andava progressivamente maturando non solo nelle coscienze ma anche nei prodotti normativi, specie di matrice comunitaria.

La seconda, e conseguente. In contesti di mercato concorrenziale, l'evento della crisi e dell'insolvenza si presenta come fisiologico e non patologico. La sede primaria di composizione è il mercato. Le procedure giurisdizionali di composizione della crisi debbono conseguentemente strutturarsi valorizzando le voci del mercato (e dunque le istanze del debitore e la risposta dei creditori) ed escludendo - perché fuori luogo - la valutazione del pubblico potere sulla convenienza e opportunità degli assetti transattivi pattuiti oppure approvati all'esito di una deliberazione a maggioranza.

La fondatezza di queste due considerazioni è confermata dalla prassi operativa. Giova infatti puntualizzare che amministrazione controllata e concordato preventivo, già per la estrema farraginosità procedurale ma soprattutto per la rigidità delle condizioni di ammissione, si prospettavano assai raramente come reali opportunità. Ne è prova soprattutto il numero di procedure aperte per anno (sia di amministrazione controllata che di concordato preventivo), ridottissimo se confrontato con il numero dei fallimenti dichiarati nello stesso arco temporale.

Ma ne costituisce prova altrettanto eloquente l'esito usualmente infausto di tali tentativi, sino al formarsi della regolarità sequenziale tra amministrazione controllata prima, concordato preventivo poi e infine fallimento. Regolarità di esiti testimoniata anche dalla casistica giurisprudenziale formatasi al riguardo su molteplici questioni (e soprattutto in tema di revocatoria fallimentare).

I lavori per la riforma della legge 'fallimentare', susseguitisi vanamente per decenni, e culminati nei primi anni del 2000 in molteplici proposte, producono il primo dirompente risultato nel 2005. Si provvede con la tecnica, nel caso alquanto discutibile, della decretazione d'urgenza. è così emanato il decreto n. 35, poi convertito nella legge n. 80. Il primo reca le riforme su azione revocatoria e concordato preventivo; introduce, inoltre, l'istituto dell'accordo di ristrutturazione dei debiti. La seconda, oltre a operare la conversione di tali misure normative in legge, contiene la delega al governo per l'emanazione della riforma organica delle procedure concorsuali.

Il D.lgs. n. 35 si intitola, tra l'altro, alle disposizioni urgenti per lo sviluppo economico. Dell'ampia trama della legge fallimentare vengono presi in considerazione soltanto aspetti strettamente connessi al problema della soluzione concordata della crisi.

In primo luogo, è completamente ridisegnato l'ambito operativo dell'azione revocatoria. I termini del c.d. 'periodo sospetto' subiscono un dimezzamento; la revocatoria degli atti non abusivi è alquanto depotenziata: sono infatti introdotte numerose fattispecie di esenzione. Tra di esse, assume particolare rilievo per il tema in esame l'esenzione degli atti posti in esecuzione di piani di risanamento la cui ragionevolezza sia attestata da un esperto. Con questa disposizione la figura del piano finanziario di ristrutturazione, nota alla prassi, viene contemplata nella legge fallimentare.

In secondo luogo, è ampiamente riformata la procedura del concordato preventivo. L'apporto dell'autonomia privata alle soluzioni della crisi d'impresa è valorizzato sotto molteplici aspetti, così riassumibili.

i. Ammissione alla procedura non soltanto delle imprese definitivamente insolventi ma, più ampiamente, delle imprese semplicemente in crisi (che con il termine 'crisi', introdotto nel testo del novellato art. 160 L. fall., si intenda anche - ma non soltanto - l'insolvenza, è esplicitato nell'ultimo comma della disposizione, appositamente introdotto con D.l. n. 273/2005).

ii. Organizzazione della domanda di concordato intorno a un piano, attestato da un esperto, di ristrutturazione dei debiti o di cessione delle attività.

iii. Previsione della possibilità di suddivisione dei creditori per classi omogenee, con trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.

iv. Limitazione dell'attività del Tribunale - sia in fase di ammissione che in fase di omologazione - a un controllo di mera legalità, con esclusione di ogni potere di valutazione del merito della proposta in generale e della sua convenienza economica in special modo.

In terzo luogo, è introdotto l'istituto dell'accordo sulla ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis L. fall.). In questa peculiare procedura, il debitore che stipuli un accordo di ristrutturazione con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento della somma dei crediti può chiederne l'omologazione al Tribunale. Gli atti esecutivi dell'accordo omologato sono esentati dall'azione revocatoria (art. 67, comma 3, lett. e), L. fall.). Oggetto dell'accordo è la ristrutturazione della finanza. Il debitore predispone un piano, asseverato nella sua attuabilità da un esperto. Il piano deve soddisfare la superiore esigenza di garantire il pagamento regolare dei crediti sui quali non si è raggiunta la transazione.

L'intervento del 2005 contiene, sia pure ad uno stadio iniziale e insufficiente di sviluppo, le fondamentali acquisizioni implementate nei decreti legislativi del 2006 e, soprattutto, del 2007 all'insegna della c.d. 'privatizzazione della crisi d'impresa'.

Le strutture normative attuate nei diversi istituti ruotano intorno al concetto di accordo sulla ristrutturazione della finanza. La ristrutturazione diviene oggetto di negoziato tra debitore e creditori. Essa è progettata in un piano redatto dal debitore e sottoposto al controllo di un esperto, che ne verifica e certifica ragionevolezza e fattibilità: in breve, l'idoneità al superamento della crisi, sia questo ottenuto con il rilancio dell'attività dell'impresa oppure con la liquidazione del suo patrimonio. L'accordo si realizza sul piano, a tal punto condiviso tra debitore e creditori coinvolti.

L'esenzione dalla revocatoria per gli atti esecutivi del piano di ristrutturazione asseverato è descritta senza esplicito riferimento all'accordo, e con esclusiva attenzione al piano. Ma sembra evidente che, attesa la funzione incentivante dell'esenzione, potrà giovarsi di essa soltanto il creditore che abbia aderito al piano del cui atto esecutivo si discute (quel creditore diviene infatti portatore di un affidamento meritevole di tutela sulla ragionevolezza del piano). Dunque, nella figura del piano attestato l'accordo sulla crisi d'impresa è considerato attraverso la disciplina del suo oggetto (il piano) e degli atti esecutivi.

Il riferimento all'accordo - sempre vertente su un piano asseverato - è invece espresso nella disciplina sull'accordo di ristrutturazione dei debiti. Gli effetti ai fini della esenzione dalla revocatoria fallimentare sono assimilabili.

Nel caso del concordato preventivo, il piano di ristrutturazione asseverato - che può anche in tal caso essere oggetto di un accordo raggiunto con parte dei creditori - non è offerto a un consenso, ma a una deliberazione a maggioranza. Lo spazio in cui si manifesta l'autonomia privata non è più quello del contratto inteso in senso stretto; nondimeno, l'amplissimo margine di manovra concesso al debitore nell'organizzare la proposta (e dunque nell'organizzare il piano) testimonia ancora del riconoscimento tributato all'autonomia privata anche in tale contesto.

Questo riconoscimento è confermato dalla riduzione dei poteri di sindacato del Tribunale in sede di omologazione. Infatti, il Tribunale non può più vanificare, con una decisione negativa sulla convenienza del concordato, l'approvazione della proposta da parte dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti.

Per poco che si rifletta sull'assetto strutturale così assunto dal diritto della crisi d'impresa, si scorgono nettamente i profili di un dispositivo semplice e utile a migliorare l'efficienza delle soluzioni operative.

Il nucleo di questo dispositivo è dato dal piano di ristrutturazione. Esso deve essere debitamente asseverato da un esperto. In tal modo, è assicurato un controllo sui dati costitutivi del piano da parte degli osservatori esterni ed interessati. I creditori potranno pertanto verificare il piano alla luce della relazione, ed acquisire facilmente (e senza impegno di risorse significative) elementi essenziali per la decisione se aderire o meno alla proposta. Infatti, come accennato, il piano asseverato è oggetto di un accordo sulla crisi tra debitore e alcuni o tutti i creditori. L'accordo sulla ristrutturazione è la via alla soluzione, appunto concordata, della crisi d'impresa.

L'accordo di ristrutturazione è contenuto offerto agli operatori o in se stesso oppure in quanto chiuso in diversi contenitori procedurali.

In primo luogo, l'accordo può esulare da qualsiasi struttura a esso esterna costituita da una procedura: si tratta, in tal caso, di un vero e proprio contratto sulla crisi d'impresa.

Inoltre, l'accordo può essere inserito in una procedura di omologazione semplificata, nelle forme poste dall'art. 182-bis L. fall.

Infine, l'accordo può essere inserito in una procedura molto più rigida, il concordato preventivo.

La scelta tra queste diverse modalità operative è strettamente connessa alla gravità della situazione di crisi in cui versa l'impresa. Il contratto sulla crisi presuppone infatti la tendenziale unanimità dei consensi, oppure l'attenzione dei creditori aderenti all'adempimento esatto da parte del debitore nei confronti di tutti i creditori estranei all'accordo (i quali potrebbero altrimenti frustrarlo nelle finalità ponendo in essere azioni cautelari o esecutive, oppure chiedendo il fallimento del debitore). Qualora l'accordo sia parziale, ma coinvolga comunque una parte rilevante dell'esposizione, sarà preferibile inserirlo in una 'armatura' procedurale di sostegno: a seconda dei casi, nella struttura a maglie larghe disegnata nell'art. 182-bis L. fall. o in quella molto più stringente del concordato preventivo.

La scelta tra le varie soluzioni possibili può costituire anch'essa una variante frutto del negoziato e dell'accodo tra debitore e parte dei suoi creditori. Anzi, una gestione professionalmente avvertita della crisi non mancherà di sottoporre la questione ai creditori, e di cercare l'accordo anche su questo fondamentale aspetto.

L'opera di privatizzazione delle regole sulla crisi d'impresa trova ulteriore svolgimento nel D.lgs. n. 5/2006. Ad essere investito è il processo fallimentare.

Per quanto qui più interessa, innanzitutto viene eliminato il potere del Tribunale di dichiarare d'ufficio il fallimento. Il nuovo testo degli artt. 6 e ss. L. fall. determina una diversa conformazione dell'intera procedura. Poiché il potere di iniziativa per la dichiarazione di fallimento è rimesso alle parti - essenzialmente, al debitore e ai creditori, in alcuni casi al pubblico ministero - il controllo sulla crisi d'impresa è in prevalente misura affidato al mercato, e alle scelte dei suoi protagonisti.

Nello stesso segno, vengono ridefinite le competenze degli organi della procedura, e ridisegnati i rapporti intercorrenti tra di essi. Alla marginalizzazione delle competenze e responsabilità gestorie del giudice delegato si accompagna l'accrescimento, in tali ambiti, dei poteri del comitato dei creditori e del curatore. In grossolana sintesi, può affermarsi che le funzioni precedentemente attribuite al giudice delegato sono ora in gran parte assegnate al comitato dei creditori; inoltre, sono accentuate le prerogative amministrative del curatore.

Seppur dedicato al processo fallimentare, l'intervento normativo investe materie dell'autonomia privata: così accade per le disposizioni sui contratti in corso di esecuzione. Tuttavia, le regole più significative (contenute nell'art. 124 L. fall.) riguardano il concordato fallimentare. Sono confermate le innovazioni già illustrate in tema di concordato preventivo: atipicità della proposta, che può anche concernere la 'ristrutturazione dei debiti' attraverso qualsiasi forma; possibilità di divisione dei creditori in classi e di trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse; limitazione del controllo del Tribunale alla mera legalità e non anche al merito della proposta.

Un'importante differenza rispetto al concordato preventivo è nella precisazione che la proposta può prevedere un pagamento parziale dei creditori privilegiati, purché in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di vendita. Questa regola, salvaguardando la posizione del creditore privilegiato, ne determina il riequilibrio rispetto a quella degli altri creditori. Il privilegio non è più causa di un vantaggio assoluto, ma di un vantaggio riconosciuto nei limiti della copertura effettiva della garanzia. Pertanto riconosciuto: i) purché nel patrimonio del debitore sia riscontrabile il bene che costituisce oggetto della garanzia e ii) nei limiti del presumibile valore di realizzo del bene medesimo.

La domanda di concordato può essere presentata anche prima della approvazione dello stato passivo a condizione che i dati contabili e le altre notizie disponibili consentano agli organi della procedura di formare un elenco provvisorio dei creditori. In tali casi il fallimento può rivelarsi una breve parentesi, tuttavia importante, giacché utile alla salvaguardia degli apparati produttivi attraverso la loro circolazione e ricollocazione sul mercato.

Infatti, in questa materia la fondamentale novità è data dall'allargamento della schiera dei soggetti legittimati a proporre la domanda: non più il solo debitore, ma anche il curatore, i creditori e i terzi interessati. La domanda del curatore, del creditore o del terzo può essere funzionale all'acquisizione delle attività ai fini non solo della liquidazione, ma anche del reinserimento nel mercato. Il fallito e i soggetti a esso collegati non possono presentare la domanda di concordato prima del decorso di sei mesi dalla dichiarazione di fallimento. Il vantaggio differenziale così attribuito a creditori e terzi non solo costituisce remora per il fallendo, esortato anche sotto questo profilo ad evitare il fallimento e a percorrere tempestivamente vie alternative per la soluzione della crisi d'impresa, ma soprattutto manifesta la chiara apertura della legge verso un vero e proprio mercato per le imprese in crisi.

Ecco dunque che il nuovo concordato fallimentare si mostra istituto diversissimo dal tradizionale, il quale - come evidenziano le statistiche - non aveva mai riscontrato un apprezzabile interesse da parte degli operatori. Va annotato: non solo per le rigidità strutturali dell'istituto quanto, e soprattutto, a causa della riserva di legittimazione a proporre la domanda.

Precedentemente avvertivo sullo stadio iniziale e insufficiente di sviluppo delle innovazioni alla legge fallimentare ora commentate. Profili di incompiutezza e anche di approssimazione caratterizzavano sia la disciplina dell'accordo di ristrutturazione che le regole sul concordato preventivo.

Circa il primo, non apparivano sufficientemente apprezzabili i vantaggi del ricorso a tale procedura piuttosto che a un concordato stragiudiziale.

Certamente, la pubblicità dell'accordo depositato presso il Registro delle Imprese e successivamente omologato portava ad escludere il rischio di responsabilità dei creditori e finanziatori partecipi dell'intesa per concessione abusiva del credito all'impresa poi fallita. Infatti, il sostegno all'impresa non potrebbe ingenerare quella falsa apparenza di solvibilità effettivamente idonea a trarre in errore i terzi, pertanto indotti a relazionarsi economicamente con una impresa apparentemente florida ma in realtà già insolvente. Invece, la mancanza di pubblicità dell'accordo stragiudiziale induceva (e induce) a condividere, al riguardo, l'opposta soluzione.

Nondimeno, in tema di esenzione dall'azione revocatoria, nonostante la maggiore impegnatività della procedura di cui all'art. 182-bis L. fall. rispetto al semplice contratto c.d. di salvataggio, la scelta per la prima opzione non evidenziava vantaggi di alcun tipo.

Inoltre, la mancata previsione di misure a tutela del patrimonio del debitore durante l'istruttoria dell'accordo lasciava tali intese eccessivamente esposte alla iniziativa dei creditori estranei all'accordo, i quali restavano liberi di esercitare la tutela giurisdizionale dei propri diritti. Per conseguenza, nei primi due anni di applicazione delle nuove regole, l'istituto è stato utilizzato soltanto in un ridotto numero di casi.

Anche le innovazioni sul concordato preventivo si erano mostrate insufficienti e scarsamente efficaci.

Da un lato, la perdurante previsione sul pagamento integrale dei creditori privilegiati, a prescindere da ogni considerazione sulla possibilità concreta di realizzo, costituiva un profilo di indebita rigidità, sopravvissuto al processo di innovazione.

Dall'altro, gli evidenti difetti di coordinamento accusati dalla disciplina nel suo complesso (novellata a macchia di leopardo senza curare il raccordo tra le varie disposizioni risultanti) non favorivano di certo la fruizione dell'istituto.

Infine, restava intatto l'automatismo della dichiarazione di fallimento in caso di inammissibilità, improcedibilità o reiezione della proposta concordataria: secondo quanto previsto dalla disciplina del 1942. Cosicché, pur essendo venuta meno (benché solo dal 2006) la possibilità della iniziativa di ufficio per la dichiarazione di fallimento, e pur essendo stata svincolata (sin dal 2005) la proposta di concordato preventivo dalla condizione dell'insolvenza irreversibile del debitore richiedente, paradossalmente il rischio di fallimento sopravviveva più alto nel caso in cui il debitore richiedeva il concordato che nel caso in cui si asteneva da qualsiasi iniziativa giurisdizionale, conducendo sul mercato gli accordi con i creditori.

Soprattutto per queste ragioni (oltre che per la novità dell'istituto, ancora poco familiare agli operatori), anche per il concordato preventivo si registrava un insuccesso nella prassi applicativa.

Della esistenza di numerosi inconvenienti e di vere e proprie imperfezioni non poteva dirsi ignaro il legislatore: come dimostra la previsione sull'intervento correttivo, contenuta nel provvedimento del 2006.

In effetti, l'intervento di correzione e integrazione dell'anno successivo ha investito il complesso normativo, gia intensamente interpolato, in ogni suo aspetto rilevante. La legge è stata nuovamente e in ampia misura riscritta.

Accanto alle correzioni suscitate dalla necessità di armonizzare il testo nelle sue parti vecchie e nuove eliminando inesattezze e refusi (emblematica la correzione delle disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa), si apprezzano correzioni di diversa natura, suscitate dalla necessità di ricondurre per così dire a una dimensione più sistematica la legge nel suo complesso. Piuttosto che correzioni, deve allora discorrersi di modificazioni (emblematica la modificazione della distribuzione di poteri tra organi della procedura in materia di approvazione e autorizzazione del programma di liquidazione).

Di effettiva modificazione si è trattato con riguardo alla questione delle soluzioni concordate alla crisi d'impresa, e degli istituti sopra descritti in cui essa prende corpo: accordi 'stragiudiziali', accordi ex art. 182-bis L. fall., concordati.

Nella stessa tecnica redazionale emerge più chiaramente la natura del fenomeno normativo già descritto: l'accordo di ristrutturazione quale dato costante a volte considerato in se stesso altre volte inserito in contenitori procedurali di diversa consistenza.

Infatti, la disposizione di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), L. fall. è stata parzialmente modificata. Si è definita più chiaramente la figura dell'esperto che attesta il piano. Egli deve essere un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e deve possedere i requisiti per svolgere le funzioni di curatore. Alla stessa figura si riferisce, per richiamo, l'art. 161 L. fall., in tema di attestazione del piano oggetto di domanda di concordato preventivo. Sempre alla stessa figura, e sempre attraverso la tecnica del richiamo, si riferisce l'art. 182-bis L. fall. con riguardo al piano oggetto (implicito) dell'accordo.

Accordi di ristrutturazione e concordati si sono tuttavia avvantaggiati di altre modificazioni, che ne hanno significativamente inciso la configurazione e che conviene riassumere partitamente.

La nuova versione dell'art. 182-bis L. fall. dispone che l'imprenditore in stato di crisi può domandare al Tribunale l'omologazione di un accordo di ristrutturazione (comma 1). Si chiarisce così che soggetto legittimato è non qualsiasi debitore ma qualsiasi imprenditore (non è infatti specificato, a differenza che nell'art. 1 L. fall.: imprenditore non piccolo e commerciale) che - beninteso - versi in stato di crisi. La puntualizzazione accresce la sistematicità del tessuto normativo, consentendo un più armonioso inserimento della disciplina nel contesto della legge sul fallimento e sulle altre procedure concorsuali.

È pure previsto che dalla data della pubblicazione dell'accordo nel Registro delle Imprese e per i successivi sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore (comma 3). In tal modo, il legislatore assicura una sensibile protezione all'accordo nel momento - delicato - della sua formazione e nel mentre della sua omologazione. Questa protezione è concessa per un periodo limitato ma probabilmente sufficiente alla istruttoria dell'accordo. Essa, inoltre, si estende non solo alle azioni esecutive ma anche alle azioni cautelari.

All'art. 182-ter L. fall., sulla transazione fiscale, è aggiunto un ultimo comma, in cui si stabilisce che la proposta di transazione fiscale può essere formulata anche nell'ambito delle trattative sull'accordo di ristrutturazione. Sotto questo aspetto è pertanto accentuata la vantaggiosità dell'accordo di ristrutturazione rispetto al concordato stragiudiziale.

Nel complesso, le innovazioni apportate disegnano più nettamente la figura dell'accordo di ristrutturazione come procedura diversa dal concordato preventivo e come alternativa effettiva rispetto al contratto di salvataggio.

Il tentativo di guadagnare sistematicità ed efficienza delle norme è stato condotto anche con riguardo alle procedure di concordato, preventivo e fallimentare.

In generale, è evidente lo sforzo, in buona misura riuscito, di avvicinare le due discipline, conservando le soluzioni differenti rese necessarie dalla diversità di natura delle due procedure.

Con riferimento al concordato preventivo, può sostenersi che l'intervento correttivo abbia eliminato i principali inconvenienti già segnalati in letteratura ed evidenziatisi nella scarsa prassi applicativa.

Innanzitutto, e conformemente a quanto previsto per il concordato fallimentare, si è stabilita la possibilità di offrire il pagamento parziale dei creditori muniti di privilegio, in considerazione della possibilità di concreto realizzo della garanzia. La previsione, qui come nel concordato fallimentare, è stata estesa anche al privilegio generale.

Inoltre, sono stati ridotti notevolmente, se non eliminati, i difetti di coordinamento della disciplina nel suo complesso. In particolare, è stata esclusa la possibilità della dichiarazione di fallimento di ufficio, conseguente a pronuncia di inammissibilità, improcedibilità e reiezione della domanda di concordato (cfr. specialmente artt. 162 e 173 L. fall.).

Infine, per assicurare un maggior controllo del debitore e dei creditori sulla proposta di concordato, è stato stabilito che in caso di voto sfavorevole in una classe, il giudizio di convenienza della proposta per i creditori appartenenti alla classe medesima dipenda da una domanda di opposizione alla omologazione specificamente sollevata dal legittimato.

Uguale disposizione è stata introdotta anche in tema di concordato fallimentare.

Circa quest'ultima procedura, va segnalato l'aumento del termine (da sei mesi a un anno) stabilito per la proposizione della domanda da parte del fallito e soggetti a esso collegati. Con questa disposizione il legislatore si ripromette di incentivare ulteriormente l'imprenditore in crisi ad avviare iniziative per la soluzione del suo problema onde evitare il fallimento ed eventuali domande di concordato adeguatamente preparate e dunque presentate con elevata probabilità di successo da parte di creditori e terzi (cfr. art. 124 comma 2, L. fall.).

Inoltre, si è preferito escludere la legittimazione del curatore a proporre la domanda, essendo il curatore il pubblico ufficiale che, con terzietà, amministra la procedura di fallimento.

Infine, è stato soppressa la previsione sul parere vincolante del curatore in ordine alla proposta, così rimessa integralmente al vaglio preventivo del comitato dei creditori e all'approvazione dei creditori aventi diritto al voto.

In conclusione, non sembra azzardato affermare che la riforma del diritto fallimentare svoltasi negli ultimi tre anni abbia sancito l'evoluzione dello stesso in un più attuale diritto della crisi d'impresa.

In questo diritto accanto al fallimento si pongono, quali concrete alternative, le soluzioni concordate della crisi d'impresa.

La scelta dell'alternativa è per lo più rimessa al debitore. Il successo dell'iniziativa consiglia però la condivisione della proposta, giudiziale o 'stragiudiziale', con i creditori appartenenti al ceto finanziario.

I creditori finanziari sono pertanto chiamati a un nuovo ruolo di protagonisti nella gestione della crisi d'impresa che affligge il debitore.

Questi creditori sono inoltre incoraggiati ad assumere un ruolo attivo: sia per la minimizzazione dei rischi di azioni revocatorie e di risarcimento danni; sia - con riguardo alle procedure - per la marginalizzazione dell'intervento giudiziario rispetto a ogni profilo gestorio e decisorio sul merito della proposta.

Come infine emerge dalla disciplina del concordato fallimentare, è più in generale stimolata l'attenzione degli operatori finanziari sul fenomeno della impresa in fallimento. Infatti, l'esercizio della libertà di proporre domande di concordato fallimentare può determinare il formarsi di un vero e proprio mercato delle imprese in crisi. E dunque, l'affermazione delle regole del mercato anche nell'ambito, in precedenza non solo estraneo quanto legislativamente precluso, della procedura fallimentare. La possibilità di conseguire vantaggi nella riallocazione delle risorse comunque presenti nell'azienda in liquidazione fallimentare è presente in teoria; è inoltre concretizzabile nella prassi operativa.

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