Con l'auspicio che in italia non tutto sia vietato, specie quel che è permesso: questioni pratiche sul patto di famiglia
Con l'auspicio che in italia non tutto sia vietato, specie quel che è permesso: questioni pratiche sul patto di famiglia [nota 1]
di Giuseppe A.M. Trimarchi
Notaio in Gragnano

Note operative a margine delle più diffuse ricostruzioni del c.d. "Patto di famiglia"

Raramente una novità legislativa è stata affrontata con quantità e vivacità di studi, e d'interventi, analoghe a quelli che hanno salutato l'introduzione, nel codice civile, degli artt. 768-bis e ss.

Forse perché in essa si racchiude una misura per la salvaguardia dell'impresa e della sua produttività nel momento delicato del passaggio generazionale, la cui criticità in Europa è stata evidenziata già diversi anni or sono [nota 2].

Come che sia, una massa così significativa [nota 3] di opinioni, se non disorienta, quanto meno intimidisce l'operatore pratico chiamato a redigere l'atto pubblico con il quale è concesso all'«imprenditore» e\o al «titolare di partecipazioni societarie» di trasferire in tutto in parte l'azienda, o le proprie quote ad uno o più discendenti.

La necessità di andare al nocciolo di alcuni spunti operativi impone, senz'altro, talune considerazioni d'insieme:

a. con il patto di famiglia il legislatore ha dimostrato che nel bilanciamento tra:

1. l'interesse dei successibili "necessari", e

2. l'unità di un complesso produttivo o di una partecipazione societaria,

avuto riguardo al passaggio di detto "oggetto" dall'ascendente al discendente, è incline a considerare prevalente il secondo;

b. pur di cogliere l'obiettivo sopra empiricamente indicato, il legislatore ha declinato finanche l'irrilevanza, quantunque eventuale, del conflitto tra il c.d. "patto di famiglia" ed il divieto dei patti successori, o meglio, ed i "divieti" dei patti successori (cfr. art. 458 c.c. che, ora, esordisce sancendo «fatto salvo quanto disposto dagli art. 768-bis e ss. è nulla … »);

c. è difficilmente contestabile l'esigenza di stabilità che il legislatore connette alla conclusione del patto di famiglia come risulta:

1. dall'evidente finzione dell'anticipazione dell'apertura della successione del disponente, sia pure al solo fine del calcolo delle quote di legittima spettanti ai "legittimari" non assegnatari;

2. dalla rinvenuta necessità di assegnare all'azienda e alle partecipazioni societarie un valore da cui desumere le quote di cui agli artt. 536 e ss.;

3. dall'enunziato secondo cui ciò che i contraenti ricevono resta esente da «riduzione e collazione»;

4. dal ridotto termine di prescrizione delle azioni proponibili avverso il patto di famiglia;

5. dalla circostanza per la quale, all'apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari «che non abbiano partecipato» al contratto possono chiedere soltanto la somma spettante secondo i calcoli effettuati al fine della valutazione dell'oggetto del patto, per i diritti di ciascuno, aumentata degli interessi legali.

Non è scopo di queste brevi note indagare sulla struttura e funzione del patto di famiglia, ma è compito dell'operatore cogliere le ricadute applicative delle più diffuse ed accreditate ricostruzioni. Valga qui ricordare la prospettiva "unitaria" in contrapposizione con quella, per così dire, "atomistica".

Nella direzione della necessaria partecipazione di tutti coloro che sarebbero legittimari del disponente se si aprisse la sua successione al momento della stipula si incamminano quanti sacrificano, all'esigenza della stabilità del patto ed alla sua efficienza in termini economico-giuridici, la necessità di un raccordo con il sistema successorio nel quale si considera poziore, nonostante il patto di famiglia, il principio dell'intangibilità del diritto del legittimario. Del resto è dato cogliere non poca incertezza nello stesso contesto letterale dell'innovazione legislativa: l'articolo 768-quater c.c. segnala che al patto devono partecipare il coniuge e tutti i legittimari che tali sarebbero se si aprisse la successione del c.d. "disponente" al momento della stipula [nota 4].

Si prospetta, in quest'ottica, una valutazione dell'intervento legislativo prudente, con una spiccata vocazione divisoria, peraltro non estranea alla nostra tradizione legislativa [nota 5].

Per completezza pratica si ricorda che si ritiene confortino tale funzione divisoria:

- il richiamo alla finzione d'apertura della successione di cui è parola nell'articolo 768-quater comma primo;

- l'espresso riferimento alla collazione, che è istituto tipico della divisione ereditaria.

Ne deriva, coerentemente l'interpretazione "restrittiva" dell'articolo 768-sexies c.c. relativamente ai "soli" legittimari sopravvenuti (poco importa se coniuge o figli) e che per questa ragione (ossia in conseguenza della loro originaria inesistenza) non poterono partecipare all'originario patto di famiglia. Quest'ultimo, comunque, sarebbe reso "inattaccabile" sul piano reale, in quanto la norma mira semplicemente ad assicurare una tutela obbligatoria.

Va da sé, quindi, che la ricostruzione sintetizzata evoca la necessità:

- della partecipazione al patto di famiglia, di tutti i soggetti legittimari (coniuge e tutti i discendenti, compresi i nascituri concepiti) (questa, in particolare a pena di nullità);

- che vengano individuati uno o più discendenti assegnatari dell'azienda (tutta o di un ramo di essa);

- che sia formulata una valutazione del bene oggetto del patto contestualmente individuando il valore delle quote da attribuire ai legittimari non assegnatari salvo che questi vi rinunzino espressamente;

- che i beni attribuiti ai non assegnatari dell'azienda in forza dell'articolo 768-quater, comma 3, c.c. siano dell'imprenditore giacché si sta procedendo alla divisione di una parte del suo patrimonio e solo rispetto a costui è concepibile «l'imputazione alle quote di legittima» spettanti a costoro.

Né questa opinione mostra di temere l'obiezione "dogmatica" dell'asserita esistenza di una divisione in assenza di una comunione preventiva, dal momento che, si osserva, una comunione preventiva mancherebbe anche nella divisione del testatore di cui all'articolo 734 c.c., e soprattutto in ragione della circostanza per cui la funzione degli atti divisori sarebbe quella di soddisfare l'interesse all'assegnazione e quindi alla tacitazione proporzionale di un diritto spettante ad un soggetto, rispetto alla quale la circostanza della preventiva esistenza "dello stato di indivisione" è fenomeno strumentale, ma non necessario.

Per contro, chi, condivisibilmente, coglie la ratio della novità nel tentativo di rendere più efficiente l'impresa, anche dal punto di vista della sua "capitalizzazione" [nota 6], rendendo appetibile il momento del passaggio generazionale anche in funzione dello sviluppo degli investimenti ad essa riferibili, e comunque afferma che lo scopo della norma consista nell' «evitare la frammentazione di beni ed entità, direttamente o indirettamente produttivi» [nota 7], considera, in buona sostanza, che il patto di famiglia consenta, inter vivos, un accordo tra imprenditore o titolare di partecipazioni sociali ed assegnatario, o più assegnatari, volto ad eleggere questi ultimi alla "successione" nell'azienda e\o nelle partecipazioni sociali in ragione di una scelta rimessa all'ascendente che seleziona la generazione successiva chiamata alla titolarità del bene produttivo.

A codesta ricostruzione, in generale, consegue che:

a. il patto di famiglia consente la deduzione dell'azienda o delle partecipazioni sociali come massa autonoma, isolandola rispetto alla restante massa patrimoniale del disponente fissandone il valore immediatamente, e ciò allo scopo di valutare la quota spettante agli «altri legittimari». Quest'ultima, quindi, è da calcolarsi sulla sola azienda e\o partecipazione sociale;

b. ai legittimari non assegnatari si attribuisce una pretesa creditoria nei confronti dei discendenti assegnatari;

c. è possibile una tendenziale irreversibilità ed inattaccabilità dell'accordo de quo, proprio allo scopo di rafforzare il bene imprenditoriale rispetto ai rischi che il medesimo corre quando ed ove dedotto nella successione dell'imprenditore secondo le comuni regole successorie.

Il corollario applicativo strutturalmente più significativo riposerebbe in ciò:

- che conformemente alla precisa lettera dell'articolo 768-bis, comma 1, c.c., contraenti del patto sono l'imprenditore ed i discendenti assegnatari;

- il coniuge e gli altri legittimari sarebbero meri partecipanti il cui consenso inciderebbe esclusivamente al fine di determinare la valutazione del bene oggetto del patto e segnatamente le quote degli stessi, e ciò a tutela del credito che il legislatore ha inteso loro assegnare con il meccanismo del patto.

Seguirebbe all'impostazione indicata che la posizione dei legittimari non assegnatari sarebbe analoga a quella prevista dalla legge a beneficio dei creditori iscritti e degli aventi causa in forza di atti trascritti anteriormente alla trascrizione dell'atto di divisione i quali, com'è noto (art. 1113 c.c.) devono essere chiamati ad intervenire nella divisione, giacché se non sono chiamati la divisione non produce effetti nei loro confronti [nota 8].

In definitiva, disponente ed assegnatari sono liberi di stipulare il patto di famiglia con l'onere di chiamare ad intervenire tutti coloro che sarebbero legittimari come se si aprisse la successione dell'imprenditore. Tale onere soddisfa l'esigenza di rendere opponibile agli stessi il valore dei beni oggetto del patto e la quantificazione delle quote loro dovute.

Dal punto di vista normativo la tesi in questione:

- apprezza come particolarmente significativo l'articolo 768-bis c.c. che individua i soggetti "protagonisti" del patto nell'imprenditore (o titolare delle partecipazioni sociali) e nell'assegnatario discendente;

- sottolinea la differenza linguistica di cui all'articolo 768-quater, comma 2, c.c., che distingue assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni e altri partecipanti al contratto;

- evidenzia il ruolo dell'articolo 768-sexies c.c., che qualifica terzi il coniuge ed i legittimari che non hanno partecipato al contratto, riservando a costoro una tutela obbligatoria.

La ricostruzione al vaglio, sia pure con sfumature disomogenee, qualifica come liberale la natura dell'attribuzione prevista dalla disciplina del patto di famiglia, così allocando detta fattispecie nel più ampio genus della donazione modale [nota 9].

Nella direzione della natura liberale sembra indirizzato il legislatore fiscale [nota 10].

Giova rimarcare, in punto operativo, comunque, che le ragioni delle due opinioni trovano sufficienti giustificazioni di carattere letterale dovendosi la scelta rimettere piuttosto alla non facile individuazione dell'obiettivo del contemperamento degli interessi in gioco perseguito dal legislatore.

Vale segnalare che a tanta fatica ricostruttiva non ha fatto eco altrettanta attività di stipula, e non sembra per ragioni fondate su mutate esigenze degli imprenditori al governo del passaggio generazionale del bene produttivo.

Occorre considerare, quindi, l'attitudine allo scopo dal punto di vista dell'operatività notarile.

Una prima osservazione induce a considerare che, quale che sia la scelta del notaio chiamato a redigere l'atto pubblico all'esame, cui approccerà con la propria sensibilità giuridica, appare difficile ravvisare nel contratto ipotesi di contrasto con una norma che evochi una nullità manifesta, o un conflitto con un inequivoco principio d'ordine pubblico o di buon costume. Il piano strutturale, in altri termini, appare rifuggire l'applicazione dell'articolo 28 della legge notarile.

Piuttosto la sua complessità esige un'attenta cura del piano valutativo del bene produttivo e delle modalità di formazione dell'accordo che lo riguardano in cui risultano coinvolti posizioni strutturalmente diverse in punto di fattispecie. In altri termini la valutazione del bene produttivo appare, nella dinamica degli interessi in gioco, dal punto di vista pratico uno dei pilastri della stabilità dell'accordo, con la conseguenza che tanto più condivisa e certa essa risulti tanto più stabile sarà l'atto ricevuto.

Né mancano di giocare un ruolo operativo particolarmente significativo le eventuali garanzie che possono apprestarsi vuoi in ordine alle attribuzioni ai beneficiari non assegnatari del bene produttivo, vuoi relativamente ai diritti di coloro che non hanno partecipato al patto. è evidente, infatti, che un accurato uso dello strumento delle garanzie appare significativamente incline, quanto meno, ad attenuare il peso delle eventuali impugnazioni del patto [nota 11].

L'oggetto del patto di famiglia: l'azienda e l'impresa, le partecipazioni sociali, l'azienda altrui, l'azienda futura, gli strumenti finanziari, le obbligazioni e le partecipazioni nelle società cooperative

Il patto di famiglia è definito come il contratto con cui l'imprenditore trasferisce in tutto o in parte l'azienda, o un titolare trasferisce sempre in tutto o in parte partecipazioni sociali ad uno o più discendenti [nota 12].

Uno degli aspetti operativi di maggiore difficoltà è la corretta individuazione del soggetto motore dell'intera operazione: l'imprenditore.

A questo soggetto fanno riferimento tre norme del codice: l'art. 768-bis, c.c., appunto, l'art. 768-quater c.c., che allude alla fictio dell'apertura della successione dell'imprenditore; l'articolo 768-sexies c.c., che si riferisce alla apertura vera della successione dell'imprenditore.

Insomma, sembra che il patto di famiglia possa e debba essere stipulato da chi sia imprenditore.

Tuttavia tale qualità appare essere puntualmente e letteralmente richiesta per il titolare dell'azienda (o di un ramo di essa) - come emerge dal testo dell'articolo 768-bis c.c. - ma non per il titolare di quote sociali, per il quale si prescinde, almeno nel linguaggio usato, da qualsivoglia qualifica.

Dunque, sotto il profilo soggettivo, occorrerebbe immediatamente chiarire se la qualifica al vaglio sia sempre necessaria sia che si voglia disporre di una azienda o di un ramo di essa, sia quando si voglia disporre di una partecipazione sociale.

I dubbi operativi appaiono significativi se si considerino talune rilevanti fattispecie.

Ed in particolare, occorre verificare se sul piano soggettivo la qualifica d'imprenditore si renda in assoluto necessaria, restando, pertanto, preclusa la stipula del patto di famiglia a colui che abbia concesso in affitto o in usufrutto la propria azienda, che, com'è noto, perde la detta qualità che viene assunta, appunto, dall'affittuario o dall'usufruttuario. Oppure, ove tale qualifica si ritenesse pure necessaria per il patto destinato ad avere ad oggetto partecipazioni sociali, varrebbe considerare che non tutte le partecipazioni sociali determinano l'acquisto della qualità di imprenditore, nemmeno - come si dice - "indiretto", essendo, al contrario, considerate inclini a determinare l'assunzione della qualità di che trattasi solo quelle che comportano responsabilità illimitata, peraltro, secondo la più accreditata ricostruzione, soltanto quando essa sia la conseguenza fisiologica dell'acquisto della qualità di socio [nota 13]. Né si sottrae alla problematica al vaglio la pure significativa fattispecie, assai diffusa in punto pratico, di costituzione del diritto di usufrutto o di pegno sulle partecipazioni sociali che lascia - oramai pacificamente nelle c.d. società di capitali e prevalentemente, salvo qualche voce contraria, nelle società di persone - la titolarità delle stesse in capo al nudo proprietario ed al debitore oppegnorato con la conseguenza che costoro, e non altri, potrebbero stipulare il patto di famiglia. Ed infine, avuto particolare riguardo ancora alle partecipazioni sociali come possibile oggetto del patto di famiglia, resterebbe da valutare se la qualifica di imprenditore abbia, o possa avere il senso che debba implicare la necessità per cui la partecipazione sociale debba essere "significativa" sul piano gestionale per potersi desumere a valido oggetto del patto [nota 14].

Ora, ove non bastasse la circostanza secondo la quale accanto al termine "imprenditore" il legislatore abbia indicato l'oggetto del patto nell' "azienda" ovvero nelle "partecipazioni sociali", si dovrebbe altresì considerare che se una nozione ampia d'imprenditore fosse centrale nella ratio del patto di famiglia - e se, quindi, si dovesse riconoscere un ruolo pregnante al soggetto che esercita l'attività mercé l'utilizzazione dell'iniziativa, dei poteri di coordinamento, controllo, decisionali assumendosi, in definitiva le conseguenze del rischio d'impresa - resterebbe, sempre sul piano del mero lessico, da spiegare la ragione per cui, quanto alla morte del disponente, il legislatore abbia considerato solo quella dell'imprenditore e non quella del titolare delle partecipazioni sociali (art. 768-quater c.c.).

Vale, inoltre, considerare che lo scopo del patto di famiglia potrebbe essere quello della centralità dell'oggetto dello stesso, che risulta imperniato sull'azienda o sulle partecipazioni sociali come possibili "destinatari" di una disciplina derogatoria del diritto comune dei trasferimenti mortis causa, quando ricorrano, tuttavia, le cautele introdotte dal legislatore, per l'appunto, agli artt. 768-bis e ss. c.c.

La deviazione dalle comuni regole sarebbe giustificata dalla necessità di assicurare a beni avocati al ciclo produttivo dell'impresa una disciplina più snella ed agevole nell'assegnazione della titolarità anche in sede successoria. Il che si realizza facilitando - quanto all'acquisizione della loro titolarità - quella del designato dal titolare rispetto a quella rinveniente dalla "meccanica" previsione della successione necessaria, senza che, purtuttavia, ciò si traduca nella lesione del credito al "valore" da parte del legittimario.

Il delicato meccanismo introdotto dalle norme al vaglio, se esaminato dal punto di vista oggettivo, più che nel momento del richiamo formale all'imprenditore, mette al centro della disciplina i beni produttivi: l'azienda ed i suoi rami, e tutte le partecipazioni sociali. Al loro titolare è riconosciuto un maggior potere "dispositivo" almeno in ordine alla selezione dei discendenti chiamati al subentro nella titolarità; il che gioverebbe, tra l'altro, ad indurre ad investire in beni produttivi, ove si consideri l'ampliamento dello spazio dell'autonomia negoziale al vaglio come un incontestabile rafforzamento dei poteri, lato sensu, del titolare.

Per queste ragioni risultano poco convincenti le ricostruzioni di quanti escluderebbero dal patto di famiglia:

- l'azienda concessa in usufrutto o in affitto;

- il piccolo pacchetto azionario di società quotate;

- la quota dell'accomandante di Sas (che è privo di poteri decisionali);

- la partecipazioni a società di capitali che non consentano al discendente maggioranze e quindi che non assicurino allo stesso la direzione (almeno de facto) dell'impresa;

- le partecipazioni in c.d. "società di comodo" [nota 15];

In questa lettura si annida un'autentica iperfetazione teleologica del patto avuto riguardo all'indimostrata funzione dello stesso, che consisterebbe nell'assicurare la, per così dire, successione anticipata nella gestione dell'impresa individuale o collettiva.

Laddove, al contrario, appare premiante il ruolo assegnato al bene inserito al ciclo produttivo, ancorché non riconducibile tout court alla gestione dell'attività in senso stretto.

Non si rintraccia, quindi, un elemento di eziologia causale del patto di famiglia nell'assicurare la direzione dell'impresa a beneficio del successore, quanto, piuttosto, nell'impedire la frammentazione del bene produttivo a prescindere da chi abbia il potere, più in generale, del coordinamento e della direzione dell'attività.

È quasi inutile sottolineare, tanto risulta evidente che una ricostruzione di tal fatta assegna al patto di famiglia il ruolo di misura d'incentivazione degli investimenti nell'impresa (in senso lato).

Selezionando, quindi, la soluzione che supera la locuzione asfitticamente letterale di "imprenditore", sono evidenti le ricadute operative riconnesse ai problemi sopra esposti: ogni qual volta, insomma, un soggetto intenda disporre di un azienda o di un ramo di essa di cui sia titolare, a prescindere dalla circostanza che egli sia, in relazione all'azienda o al ramo della stessa, "titolare" dell'attività, può farlo liberamente; e ciò tanto se ne disponga in tutto o in parte, tanto se sia qualificabile o meno imprenditore in senso tecnico rispetto alla azienda de qua. Come pure, avuto riguardo alle partecipazioni sociali, deve riconoscersi analogo potere in relazione a qualsivoglia tipo di partecipazione, a prescindere dalla circostanza per cui essa dia o meno la qualifica di imprenditore, o assicuri o meno il controllo o maggioranze speciali o particolari diritti nell'impresa collettiva cui si riferisca.

Ne consegue che il nudo proprietario di azienda o il concedente in affitto può stipulare patto di famiglia con i propri discendenti avente ad oggetto l'azienda concessa ad altri in usufrutto, o affittata; come può stipularlo il socio accomandante di una società in accomandita semplice, o i soci non amministratori di una società in nome collettivo regolare, o il socio accomandatario ma non amministratore di una Sas, l'azionista o il quotista di minoranza di SpA o di Srl ecc., rivelandosi del tutto inconferente la distinzione tra partecipazione rilevante in termini d'esercizio dell'attività rispetto a quella che profila un "mero" investimento [nota 16].

Dal punto di vista operativo meritano alcune notazioni talune significative questioni.

Vale considerare, per il profilo al vaglio, se si possa dedurre ad oggetto di patto di famiglia un'azienda futura o altrui.

È interessante osservare, in punto operativo, che la risposta al quesito dipende in larga misura dalla ratio assegnata alla disciplina del patto e, al tempo stesso, dalle norme ritenute applicabili. In estrema sintesi si può sostenere che con riferimento all'azienda futura si perviene generalmente a soluzione negativa; e ciò vuoi per la rilevanza, nel caso di applicazione delle norme in materia di donazione, dell'articolo 771 c.c., vuoi sulla scorta della rinvenuta circostanza secondo la quale la lettera della norma sembrerebbe alludere ad aziende esistenti giacché solo a queste si potrebbe ricondurre l'idea del favor del passaggio generazionale [nota 17]. Al contrario, per l'azienda altrui, superato l'ostacolo dell'eventuale applicabilità dell'articolo 771 c.c. [nota 18], non è mancato chi ha sostenuto che la ratio della norma andrebbe, ulteriormente, ravvisata nell'evitare la disgregazione dell'aziende operative, in guisa che anche il patto avente ad oggetto aziende altrui concorrerebbe a favorire la conservazione delle stesse [nota 19].

Quel che non convince nella proposta operativa al vaglio - al di la di ogni dubbio in ordine all'applicazione dell'articolo 771 c.c. che potrebbe fugarsi ove si ritenga che il patto sia atto gratuito non donativo - è il meccanismo tecnico al servizio dell'ipotizzata ratio. Se, infatti, si concedesse all'azienda futura o altrui la possibilità di essere dedotte nel patto, al di là di ogni altra considerazione, sorgerebbe il problema di conciliare l'efficacia meramente obbligatoria di un atto di disposizione avente ad oggetto il bene futuro o altrui (rectius l'azienda) e la necessità di "fingere" che al momento della stipula si apra la successione dell'imprenditore allo scopo di calcolare le quote del coniuge e degli altri legittimari non assegnatari. Resterebbe, infatti, da spiegare come e se la valutazione del bene azienda debba essere fatta. In particolare, appare difficile sostenere che si possa pensare ad un qualsivoglia valore dell'azienda "futura", se non in termini di mera "transazione" tra le parti, con quale ricaduta per la certezza e la stabilità del patto è facile intuire. Parimenti, risulta difficile sostenere che il valore dell'azienda altrui, che pure si eleggerebbe ad oggetto del patto, debba essere determinato nel momento in cui l'effetto traslativo a favore dell'assegnatario non ci sia. Se, poi, si sostenesse che il valore vada determinato nel successivo momento della produzione dell'effetto traslativo all'assegnatario dell'azienda non v'è chi non veda, da un lato, la sostanziale inutilità della stipula anteriore, e dall'altro, comunque, la sua assoluta inadeguatezza sul piano degli interessi in gioco, tra i quali, non bisogna mai trascurare quelli del coniuge e degli altri legittimari che, se pure non parti del contratto de quo, risultano, nella ricostruzione preferita, aventi diritto all'intervento proprio in ragione della tutela, e quindi dell'opponibilità della valutazione del bene-azienda cui commisurare i propri diritti ex art. 768-quater c.c.

Non manca di suscitare interesse la domanda concernente l'eventuale inclusione in un patto di famiglia degli strumenti finanziari di cui all'articolo 2346 ultimo comma c.c., a mente del quale è stabilito che: «resta salva la possibilità che la società, a seguito dell'apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell'assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione».

Vale ricordare che la relazione ministeriale, ha stabilito « ... sempre perseguendo l'obiettivo politico di ampliare la possibilità di acquisizione di elementi utili per il proficuo svolgimento dell'attività sociale, ma con soluzione necessariamente coerente con i vincoli posti dalla seconda direttiva comunitaria che imperativamente vieta il conferimento di opere e servizi, si è espressamente ammessa la possibilità che in tal caso, fermo rimanendo il divieto di loro imputazione a capitale, siano emessi strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o partecipativi: così nell'ultimo comma dell'art. 2346. Ovviamente si apre così un ampio spazio per l'autonomia statutaria per definire i diritti spettanti ai possessori dei suddetti strumenti finanziari, i quali potranno essere i più vari e comprendere pertanto anche il diritto di conversione in altri strumenti finanziari o in partecipazioni azionarie.

In tal modo si è ricercato un punto di equilibrio tra il divieto imposto dall'ordinamento comunitario e l'esigenza di consentire pure l'acquisizione alla società di valori a volte di notevole rilievo; senza però pervenire alla soluzione, che in altri ordinamenti è stata fonte di insuperabili difficoltà applicative e sistematiche, di ammettere l'emissione di "azioni di industria".

La soluzione adottata è in effetti economicamente equivalente a quest'ultima, ma ne supera gli specifici problemi tecnici ed appare perciò di maggiore praticabilità ... ».

Risulta chiaro il fine perseguito dal legislatore che coincide con il più agevole reperimento di risorse al patrimonio sociale, svincolate dal legame rigido del rapporto fissato tra conferimenti e capitale.

Per il profilo al vaglio occorre sciogliere un doppio nodo:

- da un lato, verificare se l'evocazione del termine "partecipazione sociale" contenuta nell'articolo 768-bis c.c. coincida con l'idea del legislatore di commisurare l'oggetto del patto di famiglia alla partecipazione tout court al capitale sociale di società di capitali lucrative;

- dall'altro, conciliare il precedente quesito con il diverso e non facile problema della natura dello strumento finanziario, ed in particolare se esso realizzi un "apporto" a titolo di capitale di rischio ovvero si possa immaginare anche uno strumento finanziario licenziato al solo fine di reperire capitale di credito stabilendo a quale ipotesi, eventualmente si possa riferire l'articolo 768-bis c.c. [nota 20]

Ai fini che qui interessano, giova segnalare che l'opinione che pare prevalente sembra indirizzata verso una sostanziale diversificazione tra la posizione del socio e quella del titolare dello strumento finanziario, imperniando tale conclusione sulla disciplina del divieto dell'attribuzione del voto nell'assemblea generale [nota 21].

Ciò nondimeno, non si può trascurare che si rintracciano nel disegno legislativo ipotesi di strumenti finanziari con carattere partecipativo, ossia muniti di diritti amministrativi. Se a ciò si aggiunge l'ampia autonomia riconosciuta dal legislatore al potere di creare azioni senza voto, con voto limitato a particolari materie, la relazione tra partecipazione sociale (tradizionalmente intesa) e strumenti finanziari con carattere partecipativo mette in crisi il «rapporto tra conferimento e potere di partecipazione alla gestione dell'impresa» [nota 22] e, in fin dei conti, la stessa nozione di partecipazione sociale.

In questo contesto, affermare con sicurezza che la nozione di partecipazione sociale cui faccia riferimento l'articolo 768-bis c.c. sia quella caratterizzata dal rigoroso rapporto tra conferimento e capitale sociale, alla luce dell'evidenziata ratio dell'incentivazione dell'investimento produttivo e nell'impresa, appare osservazione per certi versi discutibile e, comunque, dogma revocabile in dubbio almeno per quegli strumenti finanziari dotati di "valore" partecipativo.

Per ragioni analoghe militano motivi sufficienti per affermare che si possono dedurre in patto di famiglia anche azioni di godimento (art. 2353 c.c.) ancorchè esse non determinino una partecipazione ai valori nominali del capitale sociale, specie ove si condivida l'idea diffusa in dottrina per la quale, le stesse, integrino ipotesi d'autentica partecipazione al capitale sociale .

Parimenti, per le obbligazioni convertibili va sottolineata la loro attitudine ad essere considerate partecipazioni sociali "potenziali", come si evince dalla naturale disciplina del diritto d'opzione spettante ai portatori. Né, in contrario, giova osservare che l'astratta potenzialità della conversione favorisca l'esclusione dal novero degli oggetti del patto di famiglia più di quanto non giovi a sostenerne l'inclusione. Il problema di fondo, infatti, è sempre nell'esatto valore da attribuire al termine "partecipazione" sociale di cui all'articolo 768-bis c.c. Ove si consideri che il valore partecipativo cui la norma allude prescinde dalla attualità del rapporto sociale in quanto tale, assegnandosi al termine adoperato dal legislatore il senso di bene produttivo destinato a determinare un rapporto sociale, non vi sono più ragioni per escludere l'obbligazione convertibile dall'essere valido oggetto di un patto di famiglia, giacché la sua esclusione gioverebbe ad inibire alle potenziali partecipazioni sociali ad essere oggetto di un patto anteriormente alla conversione. Varrebbe, poi, indagare sul valore giuridico della deduzione dell'obbligazione convertibile in patto di famiglia, ed in particolare se esso equivalga a rinunzia al diritto di chiedere il rimborso, ovvero se nel caso in cui non sia configurabile tale rinunzia, se la mancata conversione determini risoluzione parziale o totale del patto di che trattasi.

In ogni caso, non si rinvengono sufficienti ragioni per escludere le obbligazioni convertibili in azioni dai possibili oggetti di un patto di famiglia, rientrando esse nell'ampio novero delle "partecipazioni" cui fa riferimento l'articolo 768-bis c.c., e risultandone, perciò, escluse soltanto le obbligazioni semplici, le quali appaiono asservite ad una causa di finanziamento estranea a tradursi, in alcun modo, in senso partecipativo.

Da ultimo, sembrano escluse dall'oggetto del patto di famiglia le sole partecipazioni al capitale sociale di società cooperative avuto riguardo al capitale sociale formato da soci cooperatori. Ciò perché la partecipazione del socio cooperatore appare destinata alla realizzazione dell'interesse alla mutualità di cui all'articolo 2521, n. 3 e 6, c.c., che - da un lato - costituisce l'id quod plerumque accidit nella relazione tra soggetto e partecipazione, e - dall'altro - appare del tutto estranea alla ratio del patto individuata nella conservazione e nell'incentivazione dell'investimento nell'impresa.

Ad opposta soluzione deve pervenirsi per le partecipazioni dei soci sovventori e\o finanziatori.

In conclusione, sembra meritevole d'accoglimento ed auspicabile una tesi che, con riferimento all'oggetto del patto di famiglia, assegni allo stesso un ruolo ampio e coerente con la dichiarata funzione di valorizzazione dell'autonomia privata riferibile a beni propri del ciclo produttivo dell'impresa che integrino azienda o rami di essa, o in senso ampio, partecipazioni sociali anche "potenziali".

Né convince del contrario la pure circostanziata osservazione secondo la quale una siffatta interpretazione favorirebbe "l'evasione" verso la formazione di società le cui partecipazioni potrebbero essere fraudolentemente utilizzate allo scopo della deviazione dalle comuni regole dei trasferimenti successori. E ciò non soltanto per l'ovvia ragione per la quale la condivisa ricostruzione non circoscrive, affatto, l'incidenza della fraudem legis, con la conseguente nullità del patto di famiglia utilizzato allo scopo censurato; ma soprattutto perché l'assoggettamento di beni al regime dello statuto dell'imprenditore individuale o collettivo, ossia la loro traduzione in un complesso aziendale, difficilmente può divenire strumento utile ad una eversione delle comuni regole successorie, per le conseguenze ricollegabili alla generale applicazione dello statuto dell'impresa sia sul piano civilistico, che fallimentare, che fiscale.

(Segue): qualche osservazione sull'azienda coniugale

Un terreno scivoloso sul quale la prassi è costretta a misurarsi avuto particolare riguardo alla contrazione di patti di famiglia è indubbiamente rappresentato dalla deducibilità in contratto delle aziende c.d. "coniugali", intendendosi per tali le aziende di cui a all'articolo 177 lettera d) del codice civile, e quindi quelle che per l'essere state costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi i coniugi si considerano in comunione legale dei beni in contrapposizione a quelle altre disciplinate dal secondo comma della stessa norma, o a quelle di cui al 178 c.c. che integrano ipotesi di aziende c.d. "personali", ovvero nelle quali il fenomeno della comunione legale si articola in modo complesso, ora relativamente ai "soli" utili ed incrementi, ora colpendo de residuo i beni che reliquano al momento dello scioglimento della comunione legale.

È agevole, infatti, dal punto di vista squisitamente pratico, comprendere che per l'azienda in comunione legale se, da un lato, non si ravvisano ostacoli ad annoverarla tra le aziende idonee a formare oggetto di patto di famiglia, d'altro canto è dato osservare che - al momento della stipula - i coniugi assumono un duplice ruolo: di disponenti il patto, e d'interventori ai fini di cui all'articolo 768-quater c.c.

In generale, infatti, il patto di famiglia si pone come atto di straordinaria amministrazione che esige, avuto riguardo a beni oggetto della comunione del consenso di entrambi i coniugi.

È singolare sottolineare, peraltro, che il rilevato "doppio ruolo" dei coniugi nell'atto ora prospettato non manca di evidenziare talune peculiarità di un patto di famiglia siffatto, la mancata prestazione del consenso da parte di uno di essi, infatti, incide:

- e ai sensi dell'articolo 184, comma 3, c.c. (ossia l'atto è valido avendo ad oggetto il bene mobile "azienda" anche se di esso facciano parte immobili, ma il coniuge che ha stipulato il patto senza il consenso dell'altro, sarà obbligato, su istanza di quest'ultimo, alla ricostituzione della comunione o se ciò, come di frequente accadrà non sia più possibile, al pagamento dell'equivalente);

- e ai sensi dell'articolo 768-quater c.c., con la conseguenza che la valutazione dell'azienda coniugale oggetto del patto non sarà opponibile ai coniugi per quanto sedes materiae prescritto.

La complessa materia dell'azienda coniugale accentua le sue peculiarità, quindi, allorché la sua già non facile disciplina s'intreccia con quella del patto di famiglia. E ciò rileva fin dalla "costituzione" dell'azienda che deve definirsi "coniugale" ai sensi della lettera d) dell'articolo 177 c.c.

Vale, a tale riguardo, ricordare che alle aziende cogestite la legge dedica sostanzialmente due norme.

Con la prima è fissato il criterio della comunione delle aziende, a condizione che esse siano "costituite" dopo il matrimonio e cogestite (art. 177 lettera d) c.c.); con la seconda è stabilito, invece, il criterio della comunione dei "soli" utili ed incrementi, allorché l'azienda appartenga al coniuge anteriormente al matrimonio ma sia, appunto, cogestita (art. 177, comma 2, c.c.).

Il fenomeno, nella pratica, si presenta particolarmente complesso, sol che si pensi che recentemente la Corte di Cassazione [nota 23] ha avuto modo di chiarire che per aversi azienda è sufficiente un complesso di beni organizzato in un contesto produttivo, anche solo potenziale, dall'imprenditore per l'attività d'impresa.

Sotto questo aspetto, dunque, l'azienda risulterà costituita "prima" o "dopo" il matrimonio seconda che il complesso dei beni sia stato, anche in via potenziale, organizzato, appunto, prima o dopo quella data.

Il che val quanto dire, in punto operativo, che il notaio che si appresti al patto di famiglia, oltre ai tradizionali indici rivelatori dell'anteriorità o posteriorità al matrimonio della costituzione aziendale (iscrizione nel Registro delle imprese, data di rilascio di licenze, permessi, autorizzazioni anche sanitarie, atti di locazione di sedi commerciali aventi data certa ecc.), dovrà tenere nella debita considerazione la dichiarazione del disponente, il quale ben potrà assumere, sotto la sua personale responsabilità, adeguatamente informato delle conseguenze civilistiche, di aver apprestato anche potenzialmente l'azienda anteriormente (o posteriormente) al matrimonio. A tale dichiarazione, infatti, si deve riconnettere il presupposto giuridico della "costituzione" di cui è menzione nell'articolo 177 c.c. ora citato, e che determina, unitamente alla cogestione di cui più avanti, lo "status" di bene comune dell'azienda di che trattasi al fine anche della stipulazione del patto di famiglia.

Occorre, poi, quanto alla cogestione, ricordare che essa, intesa come esercizio in comune da parte di entrambi i coniugi dell'attività d'impresa, possa riguardare:

- l'azienda appartenente ad uno solo dei coniugi;

- l'azienda appartenente ad entrambi i coniugi.

Vale, peraltro, ribadire che il criterio della cogestione non risulta idoneo ad interferire con il titolo di acquisto dell'azienda, di tal che deve ritenersi attratta nella prima categoria ogni ipotesi di cogestione riferita ad una azienda personale in ragione, per l'appunto, anzitutto del titolo che la riguarda: azienda ricevuta in successione o in donazione da uno dei coniugi dopo il matrimonio, azienda (comunque) acquistata da uno dei coniugi anteriormente al matrimonio.

Per queste ipotesi, quindi, vale la disciplina del secondo comma dell'art. 177 c.c.: la comunione immediata comprenderà solo gli incrementi e gli utili, mentre l'azienda, come bene unitariamente inteso, è, e resta, personale e, quindi, esclusivo del coniuge che ne è divenuto titolare in forza di legittima provenienza.

La cogestione, invece, diventa assorbente rispetto al titolo se la costituzione (rectius il complesso di atti di aggregazione che creano l'unità funzionale cui retro s'è fatto cenno) avviene dopo il matrimonio.

In tal caso non sembra avere alcuna importanza chi abbia eseguito la costituzione aziendale (se uno solo o entrambi i coniugi), ossia chi abbia posto in essere quel complesso di atti definibili di aggregazione al fine di creare l'unità funzionale idonea a costituire il "bene azienda" ex art. 2555 c.c.

La cogestione è, nell'ipotesi in esame, tale da rendere comune, nell'immediato, l'azienda (art. 177, lettera d) c.c.).

Merita anche qualche cenno l'ipotesi di acquisto di azienda da parte di uno o di entrambi i coniugi dopo il matrimonio; ipotesi, questa, peraltro, assai diffusa nella pratica.

Sembra si possa escludere che il criterio generale dell' "acquisto" di cui all'art. 177, comma 1, prima parte, c.c. possa considerarsi idoneo a risolvere i problemi concernenti la comunione dell'azienda [nota 24]. Non pare, infatti, che il legislatore abbia fatto ricorso alla nozione di acquisto per stabilire quando la comunione, ossia la contitolarità, sia la regola della disciplina della condivisione del diritto su un'azienda "coniugale" da parte dei coniugi, quanto piuttosto il criterio della "costituzione".

In altri termini, solo le aziende costituite dopo il matrimonio e cogestite sono destinate a diventare aziende comuni. Non altre.

In tutte le diverse ipotesi l'azienda è bene personale, se appartiene ad uno dei coniugi, com'è nel caso, pacifico, dell'essere al medesimo pervenuta anteriormente al matrimonio (art. 177, secondo comma, c.c.).

In tali fattispecie la cogestione, al più, determinerà comunione di utili ed incrementi secondo quanto già anticipato.

E, così, se un coniuge acquista a titolo oneroso un'azienda dopo il matrimonio, questa, per la circostanza del non essere stata costituita dopo il matrimonio ma, per il vero, acquistata - circostanza, dunque, assai diversa dalla costituzione sul piano della remunerazione dei valori economico-solidaristici che paiono sostenere la norma dell'articolo 177, lettera d), c.c. – pare destinata ad essere bene personale. Ove vi sia cogestione troverà, per l'ipotesi in commento, applicazione il secondo comma dell'articolo 177 c.c.

Il fatto che quest'ultima norma faccia riferimento alle aziende «appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio» non può essere forzato oltre il suo significato letterale e, dunque, non pare possibile che quest'ultima norma possa interpretarsi in senso eccezionale, precludendosi ad essa ogni estensione analogica.

In questo senso si può segnalare come appaia evidente che se entrambi i coniugi decidono di acquistare congiuntamente l'azienda dopo il matrimonio si tratterebbe di acquisto in comunione ordinaria [nota 25].

Né, in contrario, sembra potersi invocare la lettera dell'art. 178 c.c. [nota 26]: quest'ultima norma, com'è noto, nel disciplinare i beni dell'esercizio d'impresa di uno dei coniugi «costituita dopo il matrimonio», ne fissa la singolare sorte della c.d. comunione de residuo.

Ed infatti, se, da un lato, è vero che la norma si incentra esclusivamente sull'attività esercitata da uno solo dei coniugi per stabilire il criterio ermeneutico esaustivo della personalità temporanea dei beni destinati a quell'attività (salva, quindi, la loro "comunione differita"), d'altra parte, si evidenzia, in maniera innegabile, come la legge abbia precisato che l'azienda in questione debba essere "costituita" dopo il matrimonio.

Per converso pare opportuno pure ricordare che l'azienda acquistata dopo il matrimonio per successione e donazione, al pari dell'azienda appartenente al coniuge da data anteriore al matrimonio è, dunque, e resta, bene personale.

L'art. 178 c.c., non adotta una formula unitaria per la disciplina della comunione de residuo dei "valori economici" relativi all'azienda monogestita, dal momento che, anzitutto, sembra aver fissato una regola più favorevole al coniuge non imprenditore per il caso di azienda "costituita" dopo il matrimonio.

In tale ipotesi la monogestione, se da una parte - coerentemente con il principio fissato nell'art. 177 c.c. - evita la comunione del "bene azienda", d'altro canto non impedisce la comunione de residuo dei beni destinati all'esercizio dell'attività d'impresa individuale e, quindi, di tutti i beni aziendali, sia di quelli destinati al momento della formazione dell'azienda, che di quelli pervenuti al complesso funzionale in data successiva. Il tutto purché l'impresa (rectius l'azienda), sia costituita dopo il matrimonio (art. 178, comma 1, prima parte, c.c.).

Qualora, invece, l'azienda sia stata costituita "anche precedentemente" al matrimonio, la comunione - de residuo - riguarderà i soli incrementi aziendali (art. 178, comma 1, seconda parte, c.c.).

Se, da un lato, dubbio non può esservi che l'ipotesi concernente l'azienda "costituita" [nota 27] rientra nel disposto della prima parte dell'art. 178 c.c. (con conseguente assoggettamento alla comunione de residuo dei beni aziendali, oltre che degli incrementi), restano dubbi sull'azienda acquistata da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gestita da uno di essi.

Anche qui sovviene l'importanza del valore remuneratorio della "costituzione dell'azienda": ad essa, e non ad altre fattispecie, il legislatore riconnette il maggior vantaggio quand'anche non vi sia cogestione.

Il che val quanto dire che l'acquisto di azienda da parte di un coniuge, e la conseguente monogestione della stessa, oltre a determinare personalità del bene azienda, comporta l'inapplicabilità della prima parte dell'art. 178 c.c., determinando la sottoposizione della fattispecie alla regola desumibile dalla seconda parte della stessa norma. Pertanto, vi sarà comunione dei soli incrementi e non anche dei beni, così come accade alle aziende costituite anche precedentemente al matrimonio e monogestite. Non vi sono ragioni di carattere sistematico per adottare soluzioni diverse per ipotesi analoghe.

In conclusione, al fine della stipula del patto di famiglia, oltre alla rilevata singolare emersione del doppio ruolo per le c.d. "aziende coniugali", ossia per le aziende assoggettate al regime della comunione legale dei beni, oltre alla accennata difficoltà d'inquadrare il momento della costituzione alla luce dei più recenti interventi della giurisprudenza, oltre alle insidie esegetiche che si annidano nella disciplina a dir poco laconica del rapporto tra comunione legale ed azienda, giova evidenziare alcuni aspetti di particolare interesse pratico:

- quando l'azienda è in comune il patto deve essere stipulato da entrambi i coniugi (in doppia veste) per quanto sopra evidenziato, salvo, in caso contrario, l'applicazione del terzo comma dell'articolo 184 c.c.;

- quando l'azienda è personale ex articolo 177, lett. d), c.c., il patto va stipulato dal disponente (l'imprenditore nella sofferta configurazione sopra estesa) e, ad esso deve partecipare l'altro coniuge ai sensi dell'art. 768-quater c.c. Il consenso di quest'ultimo, peraltro, non giova a evitare un atto di disposizione degli incrementi e degli utili lesivo del diritto comune, salvo che non sia specificato nell'atto stesso. Non si ravvisano, infatti, divieti per rendere nel patto di famiglia un'autonoma dichiarazione da parte del coniuge avente diritto agli utili e\o incrementi in forza della quale si "autorizza" l'utilizzazione straordinaria dei medesimi evitando, perciò, la responsabilità di cui all'articolo 184 sopra richiamato. Parimenti non si ravvisano ragioni per non suggerire, in sede di stipula, che in quell'azienda non vi sono utili e\o incrementi di cui all'articolo 177, lett. d), c.c., ove ciò, ovviamente, corrisponda al vero;

- quando si deduca in patto di famiglia un'azienda personale ex articolo 178 c.c. la circostanza secondo cui nella sua disciplina sia contenuto il peculiare istituto della comunione de residuo appare del tutto inconferente. Il coniuge, non titolare potrà, quindi, scegliere se partecipare o meno ex art. 768-quater c.c., ma non si renderà necessaria alcuna dichiarazione concernente i beni destinati all'esercizio dell'impresa, o gli incrementi, dal momento che la c.d. comunione de residuo, ammesso che sia autentica comunione e non credito ad un valore, rileverebbe solo per i beni o gli incrementi che residuino al momento dello scioglimento della comunione legale. Ed è evidente che l'atto di disposizione di cui al patto di famiglia interverrebbe ad inibire proprio che essa detta comunione de residuo si realizzi.

Patto di famiglia: preliminare ed effetti differiti

In punto operativo si ritiene, infine, opportuno interrogarsi in ordine agli effetti del patto di famiglia avuto particolare riguardo al momento in cui essi sono destinati a prodursi.

Ancora una volta vale segnalare che non pochi equivoci possono emergere dal diverso inquadramento della ratio del patto stesso.

È appena il caso di sottolineare, infatti, che se si inquadra il patto in uno strumento volto a favorire, tra vivi, un trapasso generazionale nella direzione dell'impresa anche in deroga alle comuni regole dei trasferimenti e dei diritti successori, l'idea di un patto di famiglia ad effetti differiti (ad esempio a termine iniziale) o sotto condizione mette a disagio.

In questo senso non è mancato chi - al fine di corroborare la necessità dell'efficacia immediata del patto - ha celebrato l'uso del tempo presente del verbo trasferire contenuto nell'articolo 768-bis c.c., evidenziando come la locuzione legislativa alluda all'efficacia immediata: « ... è patto di famiglia il contratto con cui ... l'imprenditore trasferisce ... ».

Al contrario, come detto, sembra più probabile considerare che la ratio del patto sia quella di evitare la disgregazione dei beni produttivi consistenti in complessi aziendali o in partecipazioni sociali lato sensu, attraverso la selezione, da parte del titolare, dei soggetti ritenuti più idonei alla successione nella titolarità stessa in deroga alle comuni regole successorie. La diversa impostazione declina una opposta soluzione pratica nella previsione dell'efficacia del patto: non v'è né alcuna norma, né alcun principio che ostacoli l'efficacia differita, come pure l'efficacia sospesa, e forse la stessa risoluzione dell'efficacia.

Anzi, l'esperienza insegna che il titolare sovente preferisca valutare gradatamente nel tempo l'idoneità dei soggetti selezionati alla "successione". D'altra parte, il differimento da termine iniziale, talora, può consentire il reperimento dei fondi o dei beni destinati alla soddisfazione dei "legittimari" non assegnatari.

Insomma, se scopo del patto è evitare la disgregazione e incentivare l'investimento in "beni produttivi" non si ravvisano ragioni ostative all'applicazione delle comuni regole sui contratti in materia di efficacia.

Sia consentita, peraltro, un'osservazione sistematica: dai più, autorevolemente, s'è segnalata l'inclinazione inter vivos del patto di famiglia [nota 28], in guisa che la modifica dell'articolo 458 c.c. - che pure ha accompagnato l'introduzione della disciplina del patto - è stata salutata ora come superflua, ora come indirizzo volto ad evitare qualunque discussione al riguardo della compatibilità del patto di famiglia con il divieto dei patti successori.

Ebbene, a prescindere da qualsivoglia sostegno alle opinioni ora ricordate - peraltro ampiamente condivisibili - ci si potrebbe interrogare della validità di un patto destinato a produrre effetti al momento della morte del disponente, ossia recante un termine certus an, incertus quando coincidente con la morte, appunto, del titolare.

Sebbene la questione esiga spazio e riflessione ben maggiori di quanto qui non sia opportuno mettere in conto, si ritiene di osservare che sarebbe ben strano negare cittadinanza ad un patto siffatto, proprio in relazione all'attuale formulazione dell'articolo 458 c.c., anche se non si può non sottolineare la singolarità della vicenda.

Per queste ragioni, parimenti, si ritiene ben possibile un patto di famiglia con un termine iniziale, ovvero subordinato a condizione sospensiva, o anche caratterizzato dalla pendenza di una condizione risolutiva [nota 29].

Egualmente non può che condividersi l'idea, inferente sempre in qualche modo l'efficacia del patto sia pure in senso lato, secondo la quale sono legittimi quei sistemi che medio tempore - ossia dalla stipula del patto ad un momento successivo - assicurino un potere di "controllo" al disponente, com'è nel caso dell'affidamento a società fiduciaria delle partecipazioni sociali dedotte in patto con una disciplina affidata, appunto nelle more, al c.d. mandato fiduciario [nota 30]. Mediante il c.d. mandato fiduciario, peraltro, oltre alla normale attività di gestione delle quote, potrebbe essere affidato alla società fiduciaria il compito di determinare il valore delle partecipazioni sociali di che trattasi, oltre che l'obbligo di trasferire al proprietario - assegnatario - fiduciante le partecipazioni stesse al momento della morte del disponente [nota 31].

Non si rinvengono ragioni, infine, per negare cittadinanza al contratto preliminare di patto di famiglia [nota 32], la cui utilità potrebbe rivelarsi nella cautela che caratterizzerebbe la fase preparatoria del definitivo, e nel più tradizionale controllo delle sopravvenienze. Il principio di simmetria, ancorché discusso, impone di considerare che esso esigerebbe la forma dell'atto pubblico.


[nota 1] Mi sono permesso di parafrasare in modo, mi auguro non impertinente, il titolo di un noto articolo del Prof. GAZZONI, ovverosia: «In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi) sul trust e su altre bagattelle», in Riv. not., 2001, 6, p. 1247.

[nota 2] Cfr., ad esempio, la Comunicazione della Commissione Cee n. 98/C 93/02 riferita alle piccole e medie imprese.

[nota 3] Ex multis si ricordano qui: AA.VV., ATTANZIO, MASCHERONI, CACCAVALE, AMADIO, FIETTA, MERLO, VALERIANI, DI GIANDOMENICO, TASSINARI, DE ROSA, FRIEDMANN, BASILAVECCHIA, PURI, D'IMPERIO-PEZZETTA-SICILOTTI, BARALIS, RIZZI, PENE-VIDARI, ZOPPINI, MAGLIULO, LA PORTA, PISCHETOLA, BRUNELLI, LUPETTI, OCKL, BUSANI, Patti di Famiglia per l'impresa, in I Quaderni della Fondazione Italiana per il notariato, 2-3, Milano, 2006; CACCAVALE, Appunti per uno studio sul patto di famiglia, consultabile in www.notariato.it; DI MAURO, MINERVINI, VERDICCHIO, Il patto di famiglia, in Le nuove leggi civili, Milano, 2006; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, consultabile in www.judicium.it; DE NOVA-DELFINI-RAMPOLLA-VENDITTI, Il patto di famiglia, Milano, 2006; RIZZI, I patti di famiglia, Padova, 2006; ZOPPINI, Profili di governance del "patto di famiglia": il ruolo del cedente dopo la stipula del patto, 2006; MANES, «Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», in Contr. e impr., 2006, p. 539; PETRELLI, «La nuova disciplina del "patto di famiglia"», in Riv. not., 2006, p. 401 e ss.; DI SAPIO, «Osservazioni sul patto di famiglia, brogliaccio per una lettura disincantata», in Dir. fam., 1, 2007, p. 289 e ss.; BALESTRA, «Prime osservazioni sul patto di famiglia», in Nuova giur. civ., II, 2006, p. 369 e ss.; G. PERLINGIERI, «Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principi e valutazione comparativa degli interessi», in Rass. dir. civ., 1, 2008, p. 146 e ss.; AVAGLIANO, «Patti di famiglia e impresa», in Riv. not., 1, 2007, p. 1 e ss.

[nota 4] Non può del tutto trascurarsi che al momento dell'approvazione del testo normativo in Senato si respingesse un emendamento volto a chiarire che al patto potessero non partecipare taluni dei legittimari e, cionondimeno, si apprezzasse come opponibile il patto stesso.

[nota 5] Vale ricordare, infatti, che il codice del 1865 già conosceva la c.d. "divisio inter liberos" (artt. 1044 e ss.).

[nota 6] L'espressione è di CACCAVALE, op. cit., p. 4.

[nota 7] L'espressione è di AVAGLIANO, op. cit., p. 7.

[nota 8] Quale sia la conseguenza della mancata partecipazione, che, a sua volta sia scelta strategica del legittimario avente diritto, o, conseguenza di un comportamento omissivo delle "parti" del patto di famiglia, resta forte la tentazione di considerare il patto comunque opponibile a costoro, salvo che per la valutazione del bene produttivo ivi dedotto e, quindi, per l'ammontare del credito dei non intervenuti.

[nota 9] Più controversa è la riconducibilità del patto de quo alla fattispecie della stipulazione a favore di terzo. Si ricordi, qui, sinteticamente, che non bisogna trascurare che in essa v'è traccia di favor (per i legittimari non assegnatari) come talora di effetti sfavorevoli! Qui valga richiamare alla memoria che la sovrapposizione alla donazione modale, secondo alcuni, impone, dal punto di vista strutturale, la presenza dei testimoni.

[nota 10] Cfr. comma 78 articolo unico della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e le questioni introdotte dalla circolare ministeriale oggetto d'indagine nelle relazioni esposte in questa giornata di Studi.

[nota 11] Si pensi, ad esempio, all'eventuale impugnazione per "inadempimento" ai sensi dell'articolo 768-sexies, comma 2, c.c.

[nota 12] Considerato l'obiettivo della presente relazione, ci si limita a chiarire che l'inciso: « ... compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle tipologie societarie ... » secondo un diffuso (e condivisibile) orientamento vuol significare che non v'è spazio per l'applicazione del patto di famiglia nelle imprese familiari ove coniugi e discendenti maturino diritti ai sensi e per gli effetti dell'articolo 230-bis c.c., e che, quanto alle partecipazioni sociali, il patto di famiglia dovrà essere rispettoso dei presupposti stabiliti dalla legge per il trasferimento delle stesse (art. 2252 o art. 2322 c.c. per le società di persone; artt. 2355 e 2355-bis c.c. per le società per azioni; art. 2470 c.c. per le Srl ecc.).

[nota 13] Ad esempio l'assunzione della detta qualità in una Snc o di accomandatario di una Sas.

[nota 14] Vale considerare che nei lavori parlamentari risulta che l'obiettivo del patto consisterebbe nell'assicurare al cessionario-assegnatario un potere decisionale simile a quello del cedente, a prescindere dal fatto che si tratti di impresa individuale o collettiva.

[nota 15] Nozione, questa, che andrebbe specificamente sviscerata più di quanto lo scopo di questa relazione non consenta. Se, infatti, s'intende per tale la società che abbia ad oggetto il godimento di immobili, non si comprende perché, ove si consideri lecito un tale oggetto sociale, la relativa partecipazione debba essere sottratta alla disciplina degli artt. 768-bis e ss. c.c.

[nota 16] Non sembra, peraltro, in alcun modo contrastare l'adottata soluzione il disposto di cui all'articolo 78 lett. a) della legge finanziaria 2007 il quale, com'è noto ha inserito il comma 4-ter all'articolo 3 del testo unico imposte delle successioni e donazioni. Com'è noto, infatti, tale norma assicura il beneficio dell'esenzione da imposta per le partecipazioni che (oggetto di patto di famiglia) integrino il controllo sociale ai sensi dell'articolo 2359 c.c. e semprechè gli aventi causa detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni. A tacer d'altro, infatti, vale sottolineare, in questa sede che la normativa ora richiamata allude al regime agevolativo senza interferire con la diversa questione dell'ammissibilità civilistica di un patto di famiglia avente ad oggetto partecipazioni che siano diverse dal controllo. Anzi, a ben vedere assegnando al controllo il ruolo di determinarsi come discrimen dell'agevolazione, la disposizione lascia intendere che il patto di famiglia che contiene partecipazioni sociali che non determinino quel fenomeno lungi dal non potersi configurare, tutt'al più siano assoggettati ad un regime d'imposta ordinario.

[nota 17] PETRELLI, op. cit., p. 423 e ss.; DI MAURO - VERDICCHIO, op. cit., p. 70.

[nota 18] Discusso, com'è noto, già in generale in materia di donazione vera e propria (di beni altrui).

[nota 19] DI MAURO - VERDICCHIO, op. cit., p. 71.

[nota 20] Com'è noto, il punto è controverso. A chi ritiene preminente l'aspetto legato al concetto di apporto, esaltandone, quindi, la funzione propria di capitale di rischio ed attribuendo al titolare dello strumento finanziario lo status di soggetto che rischia una propria ricchezza in vista di un particolare vantaggio collegato all'attività sociale, (cfr. MAGLIULO, Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova SpA, Milano, 2004, p. 28 e 29), si contrappongono quanti ritengono che lo strumento finanziario sia istituto idoneo a realizzare cause tra loro non omogenee; di guisa che si mostra teleologicamente flessibile a soddisfare esigenze connesse al rischio come al finanziamento, oppure volte a realizzare formule improprie di associazione in partecipazione ecc. (Cfr. AA.VV., ABRIANI, CALVOSA, FERRI JR., GIANNELLI, GUERRERA, GUIZZI, NOTARI, PACIELLO, RESCIO, ROSAPEPE, STELLA-RICHTER JR., TOFFOLETTO, Diritto delle società di capitali, Manuale breve, Milano, 2006, p. 47). Giova ricordare che i sostenitori della tesi appena citata ritengono che vi sia sempre differenza tra strumento finanziario con causa di finanziamento e obbligazione, in quanto solo nel primo caso il titolare avrebbe diritti amministrativo-sociali, che restano, invece, preclusi all'obbligazionista.

[nota 21] Così, tra gli altri, MAGLIULO, Le categorie di azioni…, cit., p. 35, il quale espressamente sostiene che l'art. 2346 c.c. appare una delle ipotesi in cui la partecipazione sociale sembra "destrutturata" ossia "smembrata" nelle sua tradizionali componenti. Sul punto si rileva che altra dottrina arriva a conclusioni analoghe nell'esame delle principali novità a proposito delle c.d. "azioni speciali": GIAMPAOLINO, Le azioni speciali, Milano, 2004, p. 8.

[nota 22] GAMBINO, «Spunti di riflessione sulla riforma: l'autonomia societaria e la risposta legislativa alle esigenze di finanziamento dell'impresa», in Giur. comm., 6, 2002, p. 645 e ss.

[nota 23] Cass. 3 gennaio 2007, n. 1913.

[nota 24] Mi sia permesso rinviare al mio: «Il regime patrimoniale della famiglia e l'impresa individuale e collettiva», in Notariato, 1, 2006, p. 92 e ss.

[nota 25] La comunione ordinaria non pare, infatti, preclusa ai coniugi in regime di comunione legale: si pensi al caso di legato di cosa determinata ai coniugi o di donazione ai medesimi.

[nota 26] Come pure è stato autorevolmente ipotizzato da RUSSO, L'oggetto della comunione legale, 2004, p. 90.

[nota 27] Non importa se da uno o da entrambi i coniugi, dopo il matrimonio ma gestita da uno solo di essi.

[nota 28] CACCAVALE, op. cit., p. 4; DI MAURO, op. ult. cit.

[nota 29] Anche se non si può non segnalare la pericolosità del meccanismo risolutorio, avuto riguardo e alle generali esigenze di stabilità che il patto sembra destinato a soddisfare, e alle difficoltà connesse al ripristino dello status quo ante, considerazioni che, già sole, ne sconsiglierebbero l'uso.

[nota 30] L'ipotesi è di MACCHIA - VEDANA, «Il patto di famiglia: caratteristiche del nuovo istituto e possibile ruolo della società fiduciaria», ed è evocata in un sintetico ed interessante articolo: in Trusts ed attività fiduciaria, Prassi negoziale, aprile 2007, p. 314 e ss.

[nota 31] MACCHIA - VEDANA, op. ult. cit., p. 317.

[nota 32] Nemmeno se si accordasse piena adesione alla ricostruzione del patto stesso come donazione modale tout court.

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