Le novità in materia di SpA
Le novità in materia di SpA
di Piergaetano Marchetti
Notaio in Milano, Ordinario di Diritto commerciale, Università Bocconi
Il tema assegnatomi riguarda le novità (anche, se, a dire il vero, sono ormai passati quattro anni dalla riforma) introdotte nella disciplina dell'aumento di capitale nelle SpA. Mi riferisco ad alcuni punti maggiormente innovativi; sarà inevitabile toccare alcuni aspetti che saranno trattati in maniera qualificata e approfondita dagli altri relatori.
Se volessimo tentare di dare una valutazione generale della riforma delle società sotto il profilo dell'aumento di capitale nelle SpA, dovremmo prendere nota di tre tendenze. Innanzitutto si rileva uno spostamento - ciò che vale per il tema specifico riflette anche una tendenza generale - di poteri verso l'organo amministrativo rispetto all'assemblea, con una sempre più forte centralità del primo rispetto alla seconda. In secondo luogo, richiamo l'attenzione sulla diminuzione del ruolo del capitale come componente "baluardo" del patrimonio netto: ormai il capitale è "una" delle componenti del patrimonio netto e la riforma, come è noto - basti pensare alle tante forme di finanziamento che si possono, tra l'altro, strutturare in strumenti finanziari - incentiva afflussi patrimoniali o di credito con elementi di patrimonialità e di rischio al di là e accanto al capitale sociale. Del resto, che il ruolo del capitale sia in qualche modo in declino (vi è un ampio dibattito in materia) lo si vede nella riforma della riduzione del capitale che è stata svincolata dall'ipotesi tassativa - al di là delle perdite - della restrizione dell'oggetto sociale. In certa misura l'affievolimento del ruolo del capitale sociale si coglie anche dall'ampliamento dei confini della fattispecie del recesso. Infine, si registra una maggiore flessibilità del diritto d'opzione che in taluni casi assume la forma di un affievolimento, mentre per taluni altri aspetti può anche assumere la forma di un rafforzamento lasciato all'autonomia privata. Riepilogando quindi:
a. spostamento di poteri e accrescimento del ruolo del consiglio d'amministrazione;
b. diminuzione del ruolo del capitale;
c. maggiore flessibilità, elasticità e possibilità di plasmare e disciplinare il diritto d'opzione.
Vi sono poi altri tre aspetti della riforma che hanno un peso notevolissimo sui temi di cui ci stiamo occupando, anche se è meno evidente, almeno per la quotidiana pratica notarile. Credo che per almeno due di questi aspetti - di cui fra poco dirò - siamo in presenza di forti modifiche di cui non abbiamo ancora ben compreso la portata e che produrranno effetti tutti da scoprire e che possono portare anche a risultati impensati.
Innanzitutto, mi riferisco alla possibilità della eliminazione dell'indicazione del valore nominale delle azioni, che, come sappiamo (ne abbiamo un saggio nelle Massime milanesi), ha una portata enorme sulle operazioni sul capitale.
Ancora, mi riferisco ad un territorio, per noi "vergine" e che può portarci verso sviluppi inesplorati, cioè all'introduzione obbligatoria o facoltativa dei nuovi principi contabili ed in particolare del principio del fair value che, nel momento in cui porta annualmente alla continua creazione e sparizione di riserve da rivalutazione indisponibili, a mio avviso introduce un concetto di indisponibilità al quale non eravamo abituati. Ad esempio, quando si aveva a che fare con la riserva da rivalutazione monetaria l'indisponibilità non riguardava certo il passaggio a capitale, operazione che, viceversa, nel sistema del fair value non è possibile in quanto la riserva da rivalutazione può esserci un anno e venir meno l'anno dopo. Senza contare poi della disciplina del trattamento contabile delle azioni proprie che fa sì che si discuta dell'utilità di una riserva apposita e mette in dubbio, a ben vedere, gran parte dell'approccio tradizionale al problema.
Un terzo aspetto che ha una certa rilevanza in materia (forse meno visibile per i notai) è la disciplina delle impugnazioni delle delibere di aumenti di capitale in cui si assiste ad una fortissima riduzione - molto maggiore di quanto avvenga normalmente per tutte le invalidità - della cosiddetta tutela reale della delibera, spostandosi perciò tutta l'attenzione sul piano del risarcimento del danno (art. 2379-ter c.c.). Per le delibere di nullità e di annullabilità si pongono dei termini di decadenza precisi e comunque per le società quotate si accoglie la realistica tesi per cui quando ormai sono in circolazione azioni in compendio di un aumento di capitale, ancorché viziato, ci si arrende a questa situazione di fatto e si gioca sul piano del risarcimento secondo la nota tecnica già conosciuta in tema di fusioni e di scissioni. La tutela reale si gioca, a questo punto, tutta su un eventuale provvedimento di urgenza. Ed è evidente il ruolo fondamentale e la responsabilità del notaio, filtro di legalità di delibere che, una volta approvate, anche se viziate, possono prendere comunque la via della pressoché inarrestabile esecuzione.
Un primo problema sul quale voglio soffermarmi, coerentemente con quella linea generale di spostamento di potere verso il consiglio di amministrazione, è quello delle deleghe ex artt. 2443 e 2420-bis.
La delega è sempre introducibile e variabile con modifica statutaria. Sul problema della introduzione della delega e della sua contestuale attuazione, si consolida a livello operativo il saggio orientamento che considera non immediatamente utilizzabile la delega prima della iscrizione della delibera che la introduce perché qui, in deroga al principio dell'acquisto dell'efficacia dell'iscrizione nel Registro della seconda delibera a condizione che venga iscritta la prima (e solo nel momento in cui ciò avvenga), si introduce una competenza nei confronti di un organo che prima dell'iscrizione difettava addirittura della competenza.
Mi chiedo se ciò valga anche nelle ipotesi, ad esempio, di ampliamento dei limiti della delega o perlomeno del suo ammontare. In altri termini, può, in tali casi, il consiglio riunirsi immediatamente dopo la delibera, ma prima che sia iscritta e attuare la delega, salvo che poi questa acquisti efficacia dal momento in cui è iscritta la delibera? Mi sembra che il caso sia un po' diverso da quello che, viceversa, introduce su di un terreno vergine la delega stessa.
La delega è ormai possibile per qualsiasi aumento di capitale: gratuito (sono ormai fugate dalla prassi le perplessità per quanto riguarda l'aumento di capitale gratuito) e a pagamento, con conferimenti in denaro o in natura, ed a pagamento con o senza opzione, come appunto l'art. 2443 c.c. ora stabilisce espressamente.
Questo quadro generale consente senz'altro di ritenere ammissibili le deleghe per gli aumenti riservati ai dipendenti e per deliberare gli aumenti di capitale senza opzione nei limiti del 10% del capitale di cui al secondo periodo del quarto comma dell'art. 2441 c.c. Siamo quindi di fronte ad una generalità di applicazione della facoltà di delega per tutti gli aumenti di capitale.
Resta il problema che la delega deve avere a monte l'autorizzazione ad hoc dell'assemblea speciale quando l'aumento di capitale incida su diritti di categoria non potendosi, senza un'autorizzazione a monte, solo in sede consiliare recuperare in qualche modo il consenso della categoria. Può essere che in certi casi sia sufficiente la assemblea speciale al momento dell'assemblea generale straordinaria di delega, ma tanto maggiore è il grado di discrezionalità lasciato alla delibera delegata, tanto più alta è la probabilità che la delibera dell'assemblea speciale debba intervenire in occasione, appunto, della delibera delegata.
Una assoluta novità è rappresentata dagli aumenti e dalle emissioni delegati nella variante del sistema dualistico (di cui molto si è parlato in questi tempi). Mentre per l'art. 2365 c.c. è previsto che il potere modificativo dello statuto per le fattispecie "minori" previste da tale norma possa essere attribuito al consiglio di sorveglianza o al consiglio di gestione, nulla si dice per le deleghe alle emissioni. A mio parere è possibile che la delega ex art. 2443 o 2420-ter c.c. possa essere attribuita al consiglio di gestione ma anche al consiglio di sorveglianza. E può ben essere che uno statuto preveda - a mio avviso lecitamente - che certe deleghe possano essere rilasciate al consiglio di sorveglianza e altre al consiglio di gestione. Ad esempio, il primo potrebbe essere legittimato agli aumenti di capitale ex art. 2443 c.c. con esclusione del diritto di opzione, mentre appare logico nel sistema che al secondo, in quanto titolare dell'ordinaria gestione, spetti la competenza per eventuali aumenti delegati a favore di dipendenti, e così per operazioni assai vicine, appunto, alla gestione ordinaria. Il consiglio di sorveglianza può essere destinatario di deleghe per effetto della lettera f-bis dell'art. 2409-terdecies che prevede la possibilità che lo statuto assegni al consiglio di sorveglianza poteri di alta amministrazione e cioè il potere di pronunciarsi su delibere strategiche. A mio parere, però, non è necessario né sufficiente che lo statuto attribuisca poteri generali, formulati così come nell'art. 2409-terdecies lettera f-bis, perché l'esercizio della delega rientri nei poteri del consiglio di sorveglianza. Occorrerà una specifica previsione, non potendosi di per sé ritenere che sia operazione strategica - per la quale lo statuto può attribuire competenza al consiglio di sorveglianza - l'essere beneficiario della delega ad aumentare il capitale, senza alcuna previsione e distinzione al riguardo.
In campo applicativo, vi sono statuti in cui, adottato il sistema dualistico, ed affidati poteri di alta amministrazione al consiglio di sorveglianza, ad esso è attribuito l'esercizio delle deleghe ex art. 2443 o 2420-ter. Corretta, al riguardo, mi pare la soluzione che il consiglio di sorveglianza debba esercitare la delega su proposta del consiglio di gestione. Un forte orientamento dottrinario, in effetti, ritiene che gli atti di alta amministrazione ai quali il consiglio di sorveglianza può essere legittimato debbano prevedere un potere d'impulso e quindi svolgersi in concerto con il consiglio di gestione. Si potrebbe, a questo punto, domandarsi se sia necessaria una verbalizzazione per atto pubblico della riunione del consiglio di gestione che fa la proposta sulla quale poi si pronuncia il consiglio di sorveglianza, e, conseguentemente, un'altra verbalizzazione per atto pubblico della delibera del consiglio di sorveglianza o se si possa ritenere sufficiente una verbalizzazione per atto pubblico solo di quest'ultima fase. Io credo che la verbalizzazione per atto pubblico sia sufficiente nel momento di perfezionamento della decisione complessa, e, quindi, solo per la verbalizzazione della delibera del consiglio di sorveglianza.
Un altro problema - su cui in verità pare esaustiva una massima milanese - riguarda le competenze assembleari nelle ipotesi di delega ad aumentare il capitale con esclusione, limitazione non spettanza del diritto di opzione. Per la verità la massima, le cui conclusioni condivido, ci dice che in sostanza all'assemblea spetta necessariamente di pronunciarsi sull'individuazione delle ragioni di interesse sociale che sottendono ad una delega e quindi ad aumenti di capitale in natura con esclusione o limitazione dell'opzione o all'individuazione di tipologie di beni che formeranno oggetto degli aumenti delegati con conferimenti in natura negli aumenti di capitale in natura. Invero l'art. 2443 prevede che l'assemblea (la modifica statutaria di delega da essa adottata) determina "i criteri" cui gli amministratori debbono attenersi. La parola "criteri" nell'art. 2441 c.c. sesto comma è utilizzata in funzione della determinazione del prezzo di emissione; a proposito degli altri elementi si parla di "ragioni" che sottendono l'aumento di capitale in natura, non di "criteri". Quindi, in una lettura strettamente letterale, nel momento in cui l'art. 2443 c.c. presuppone la determinazione dei "criteri" (dato che la norma primaria parla di criteri a proposito del prezzo di emissione) parrebbe che ci si debba riferire ai criteri contabili che devono essere formulati dall'assemblea.
Sicuramente, come afferma la massima, «l'assemblea può indicare dei criteri più specifici di quelli generici del valore del patrimonio … tenuto conto dell'andamento della borsa e dei valori di mercato» dell'ipotesi del sesto comma dell'art. 2444 c.c., però è anche vero che, in definitiva, i criteri sono già dati dalla legge (valore patrimoniale tenuto conto dell'andamento della borsa). Pare singolare allora che in caso di delega si chieda molto di più di quello che si chiede viceversa quando sia l'assemblea a deliberare l'emissione. L'applicazione dei criteri di legge pare un compito che per definizione può svolgersi solo in sede di deliberazione di dar corso ad un aumento di capitale e cioè in sede di delega. Insomma, così come l'assemblea, quando è essa a deliberare l'emissione, applica i criteri di legge, allo stesso modo sarà il consiglio a farlo, salva sempre la facoltà, ma non l'obbligo, per l'assemblea delegante, di fissare i criteri più specifici.
I criteri che l'assemblea delegante deve predeterminare attengono allora al tipo di aumento, ai beneficiari, alle ragioni, alla tipologia di beni da conferire.
Una lettura sistematica, anche alla luce dei principi prima ricordati, conduce necessariamente a spostare pressoché tutti gli adempimenti fondamentali, salvo una relazione sulle ragioni della delega, e quindi sulla tipologia di aumenti di capitale, alla fase consiliare che è, oltretutto, quella più vicina alla emissione dell'aumento di capitale.
Delicato problema è quello di stabilire i confini tra delega deliberativa e c.d. delega esecutiva; dove inizia cioè il campo di applicazione degli artt. 2443 o 2420-ter c.c. e dove finisce viceversa il potere-dovere del consiglio di amministrazione di dare esecuzione alla delibera dell'assemblea. In altri termini, posto che le assemblee molto spesso "delegano" al consiglio di amministrazione ampi poteri, qualificati meramente attuativi-esecutivi della delibera assunta dall'assemblea, si può essere sicuri che tutti questi poteri delegati da un'assemblea che sembra avere essa assolto il compito di assumere la delibera di emissione siano veramente poteri di semplice esecuzione e non siano in realtà poteri che dovrebbero formare oggetto di una delega deliberativa? Si può essere sicuri che se anche non sia richiamato o escluso espressamente l'art. 2443 non si debba essere cauti o astenersi dall'assunzione in consiglio di determinazioni solo in apparenza, ma non nella sostanza, di delega esecutiva?
Sotto il profilo notarile il problema è quello della forma del verbale. In definitiva, l'inclusione nello statuto di una previsione "transeunta" di aumento di capitale, come è prassi, che dovrà poi, in sede di esecuzione, scorrere, per la parte di aumento eseguita, nella cifra del capitale e scomparire, può, se formulata con la previsione di ampi poteri attuativi del consiglio e di un termine di esecuzione potrebbe valere, anche senza il rinvio testuale all'art. 2443 c.c., a delega statutaria.
Ma è necessario quindi deliberare in consiglio nelle forme del verbale per atto pubblico?
Al riguardo, occorre rammentare sul piano sostanziale che se il consiglio sotto il profilo dei poteri può addirittura deliberare un aumento di capitale potrà anche avere una competenza a fare qualcosa in meno nei casi in cui l'assemblea deliberi e poi dia ampi poteri attuativi. Non v'è da preoccuparsi per l'inesistenza di poteri in capo al consiglio, al quale sono attribuiti poteri esecutivi in forza del combinato disposto sia delle norme generali che lo impegnano ad eseguire le delibere dell'assemblea sia dei poteri conferibili con delega che sono molto ampi e possono contenere una zona discrezionale e anche un po' inferiore alla delega piena ex art. 2443 c.c. e possono consentire, pertanto, deleghe decisionali che non necessariamente debbono essere assunte nella forma della verbalizzazione dell'atto pubblico. In altri termini, a me pare che, una volta che l'assemblea abbia determinato e deciso l'aumento di capitale nella misura massima (quindi ciò che serve a modificare lo statuto ed a provvedere alla pubblicità legale) e la struttura dell'operazione (aumento di capitale gratuito, in natura, ecc.) con alle spalle questo pacchetto minimo ci si trova in una zona in cui quello che farà poi il consiglio di amministrazione, pur ampio che sia, è qualcosa che può fare legittimamente senza verbalizzazione per atto pubblico perché non è più in funzione di una modifica statutaria, che, almeno nei suoi termini massimi quantitativi, ha formato oggetto di delibera assembleare. Sotto questo profilo si può sdrammatizzare il problema, tuttavia, con un'avvertenza. è vero che se l'operazione, sia pur limitatamente all'an, cioè aumentare o meno il capitale, è stata deliberata dall'assemblea, si è già posta in essere una delibera che legittima una modifica statutaria, di guisa che, pur delegando ampi poteri al consiglio, non porta quest'ultimo nella zona dell'art. 2443 c.c. Ma, in tal caso, se il consiglio di amministrazione non esegua e non dìa corso all'aumento di capitale e quindi non assuma quelle ampie determinazioni esecutive che pur gli sono state attribuite, ciò richiede necessariamente il passaggio per una revoca della delibera da parte dell'assemblea (a meno che sia decorso il termine, ed in questo caso si evidenzierebbero anche responsabilità), perché nel momento in cui l'assemblea ha deliberato e quindi preso la decisione sull'an - l'aumento di capitale - ci troviamo al di fuori della facoltà del consiglio di eseguirla o meno. Siamo di fronte ad un dovere del consiglio di dare esecuzione. E se non ritenga di procedere all'aumento di capitale dovrà attivarsi per chiedere all'assemblea la revoca della delibera.
È evidente che questi ampi spazi delegabili al consiglio senza che si rientri nel campo dell'art. 2443 o 2420-ter c.c., riguardano, in particolare, il problema del prezzo di emissione perché molto spesso l'assemblea si limita a deliberare l'aumento di capitale e dopo demanda al consiglio di amministrazione di stabilire il prezzo di emissione.
Io credo che l'unica delibera aggiuntiva in tema di prezzo di emissione che debba essere assunta dall'assemblea sia il prezzo minimo nel caso di aumento di capitale con esclusione, limitazione, non spettanza dell'opzione; il prezzo nell' l'aumento in opzione, fermo il limite di emissione che non può essere, se c'è valore nominale, inferiore ad esso, può essere materia ampiamente attribuita al consiglio di amministrazione (anche senza fissazione di minimi e, tanto meno, massimi) che non per questo diventa organo investito della facoltà di cui all'art. 2443 c.c.
Si ritornerà successivamente a queste tematiche in relazione alle azioni senza indicazione di valore nominale. In definitiva, come linea di massima e guida, a mio parere, per poter dire che la delibera che assume l'assemblea non conferisce una delega ex art. 2443 c.c., ma che é essa a decidere l'aumento di capitale, ribadisco che bisogna guardare alla sussistenza di una pronunzia assembleare in ordine alla struttura dell'operazione, alla tipologia, all'ammontare massimo perlomeno di capitale con eventuale scindibilità o meno che essa intende reperire. Questi elementi combinati con la disciplina e con la normativa in termini di esecuzione incidono sulla modifica di statuto e quindi incidono su quella che è funzionalmente la competenza in relazione ai vari adempimenti pubblicitari ed alla forma del verbale.
Riguardo al diritto di opzione, in materia di emissione con limitazione, esclusione, non spettanza sorge un problema in ordine al tempo intercorrente tra delibera e sua esecuzione, problema che riguarda l'obsolescenza del prezzo o, se si preferisce, il termine di perduranza della congruità. L'art. 2441 c.c., come noto, stabilisce che «l'assemblea determina il prezzo di emissione». Se la delibera è delegata in senso proprio ex art. 2443 c.c. sarà il consiglio che delibererà il prezzo di emissione che sarà naturalmente sottoposto a giudizio di congruità. Nella fattispecie ora richiamata, il problema temporale è stato spesso affrontato in relazione al periodo massimo che deve intercorrere tra la delibera e la data di riferimento della perizia di stima del bene che viene conferito in modo da determinare il massimo di valorizzazione che, attraverso il combinato operare della stima e del prezzo di emissione, andrà a capitale e a sovrapprezzo. Invero, pochi si sono invece occupati del problema del lasso temporale massimo che deve intercorrere fra la delibera di emissione con esclusione dell'opzione, limitazione, non spettanza (e quindi la fissazione del prezzo di emissione) e il momento in cui questa emissione in effetti viene eseguita sotto il profilo della congruità del prezzo di emissione.
Poniamo che venga deliberato un aumento di capitale con esclusione o non spettanza dell'opzione (in denaro o in natura) e che il valore congruo del prezzo di emissione delle azioni sia 1 euro. Il valore congruo serve a rispettare l'integrità dell'investimento del vecchio azionista che può, con la sottrazione del diritto di opzione, perdere peso amministrativo ma non deve trasferire ricchezza/ riserve a favore dei soci nuovi entranti. Se l'aumento viene eseguito dopo un anno il valore potrebbe non essere più congruo. Un'indicazione potrebbe forse trarsi da una interpretazione secondo buona fede e correttezza dell'art. 2439 c.c., laddove dispone che dalla deliberazione deve risultare un termine per la esecuzione. La tutela degli interessi sottesi alla congruità del prezzo di emissione potrebbe condurre a ritenere che in ogni caso debba essere individuato un tempo ristretto per far sì che il giudizio di congruità non invecchi. Vi è chi in dottrina, pur non quantificando un tempo determinato, ha affermato che non è ammissibile un'esecuzione dell'aumento di capitale con esclusione, limitazione, non spettanza dell'opzione differita ad un momento in cui la congruità più non sussista. Tale impostazione dovrebbe imporre agli amministratori la verifica della congruità prima di dar esecuzione all'aumento, aprendo comunque delicati problemi in ordine al riscontro anche con l'organo che ebbe a rendere il giudizio di congruità (sindaco o revisore).
Riguardo a questo profilo l'ordinamento giuridico ha aperto due grandi brecce.
1. Le obbligazioni convertibili le quali possono essere emesse con esclusione, limitazione o non spettanza dell'opzione con fissazione, comunque, del rapporto di conversione ab initio. L'elemento caratterizzante dell'istituto è proprio quello di offrire un'alea favorevole all'investitore allorché l'azione si valorizzi e quindi il rapporto di conversione diventi favorevole, consentendo di sottoscrivere un'azione ad un prezzo predeterminato che al momento della conversione diventa obsoleto per difetto rispetto al valore di mercato di tale momento. Sistematizzando il sistema delle obbligazioni convertibili si può individuare una ratio nel senso di favorire l'afflusso di finanziamenti incentivandone l'eventuale possibilità di trasferimento a capitale di rischio proprio con la prospettiva dell'alea favorevole di cui si è detto. Nell'ambito di questo meccanismo, la possibilità di sottoscrivere ad un prezzo più conveniente, rispetto a quello originariamente fissato (che forse non sarà più congruo per i vecchi azionisti) costituisce un elemento essenziale. Pertanto, a mio parere, non v'è motivo per non estendere questo principio, superando il problema dell'invecchiamento del rapporto di congruità, tutta una serie di operazioni che hanno la stessa logica, quali l'emissione di obbligazioni con warrant, ma anche le operazioni di emissione di strumenti finanziari con apporti di capitale eventualmente convertibili successivamente in azioni, ecc. In definitiva, tutte le volte che si è in presenza di finanziamenti che si vogliano incentivare attraverso uno strumento consentito quale la possibile conversione, il problema dell'invecchiamento del rapporto di congruità non sussiste. Non pare, d'altro canto, fondato, perché nessun elemento sussiste per invocare tale tesi, sostenere che siffatto meccanismo di incentivazione basato proprio sulla obsolescenza della congruità del prezzo di emissione potrebbe operare solo nelle emissioni assistite da diritto di opzione. Vero è, probabilmente, che nella valutazione delle ragioni che giustificano l'operazione, con esclusione, limitazione, non spettanza dell'opzione andrebbe soppesato a fronte dei benefici anche il costo della obsolescenza della congruità. Perplessità potrebbe suscitare l'ipotesi in cui si deliberi un aumento di capitale a pagamento con esclusione dell'opzione ad esecuzione differita, cioè senza chiedere l'esecuzione immediata ma concedendo semplicemente un warrant, per l'esercizio (sottoscrizione) successivo, quando il warrant, a sua volta, non è assistito da nessuno strumento finanziario e di finanziamento ponte. Sarei più possibilista nel caso di un'immediata emissione senza opzione di azioni ad un prezzo congruo che attribuisca altresì all'immediato sottoscrittore un warrant per un'ulteriore sottoscrizione successiva, in quanto questa situazione può essere incentivante dell'afflusso immediato di danaro.
2. L'obsolescenza del prezzo di emissione è altresì irrilevante nell'ipotesi (di grande valore sistematico) prevista all'art. 2389 c.c., il quale prevede che i compensi al consiglio di amministrazione ed al comitato esecutivo «possono essere costituiti in tutto o in parte … dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione». Ebbene, visto che non siamo in presenza di emissioni necessariamente in favore di tutti soci o in favore di dipendenti, chiaramente si ammette un'ipotesi che, anche qui per una finalità incentivante, consente di giocare sull'alea rappresentata dall'obsolescenza della congruità del prezzo di emissione a vantaggio del beneficiario. Mi chiedo perché questo principio (per i dipendenti già questo avviene perché non si richiede la congruità del prezzo) non debba essere applicato analogicamente a tutta una serie di soggetti rispetto ai quali c'è la stessa ratio incentivante quali gli amministratori di società del gruppo – (per i quali non sembra sia riconosciuta l'applicazione letterale dell'art. 2389) o per tutto il settore della para-dipendenza (agenti, lavoratori autonomi in qualche modo legati alla società).
Il diritto di opzione sotto vari profili si è ampliato (con riferimento, ad esempio, alle azioni proprie) o è diventato più flessibile.
In particolare, può essere rilevante, sotto questo profilo, la possibilità per le società non quotate di prevedere ulteriori cause di recesso rispetto a quelle di legge.
Ci si pone il problema se queste cause di recesso volontarie non possano essere correlate a particolari operazioni di aumento di capitale: ad esempio ad aumenti di capitale oltre una certa cifra o con certe caratteristiche. Io credo che ciò sia possibile con il limite, tuttavia, che l'introduzione di recesso nel caso di aumento di capitale nelle società non quotate (recesso convenzionale nella SpA) non può essere né uguale né superiore a quello che avviene per le Srl. In altri termini, se nelle Srl può essere attribuito il recesso a fronte di un aumento di capitale con esclusione dell'opzione, io mi chiedo se nelle SpA, per non arrivare alla stessa conclusione tipologica, che non avrebbe molto senso, si possa sostenere che è possibile il recesso in casi di aumento di capitale, ma non per la generalità dei casi di esclusione o limitazione del diritto di opzione, bensì in un numero più ristretto di casi predeterminati oggettivamente nell'ambito di tale categoria di operazioni.
Infine, qualche considerazione in merito all'aumento di capitale in società con azioni prive di indicazione del valore nominale.
Nel caso di aumento di capitale in denaro con opzione condivido la massima del Consiglio Notarile di Milano, la quale afferma che si possano emettere in opzione azioni sottoscrivibili ad un prezzo inferiore alla parità contabile. Diverse sono, peraltro, le argomentazioni contrarie a questa tesi, le argomentazioni ricordano il dibattito intervenuto tra Mario Rotondi e Tullio Ascarelli in cui si discuteva se l'emissione non al nominale avrebbe comportato conseguenze simili a quelle che oggi si vogliono da taluni attribuire ad un aumento in opzione con nuove azioni senza indicazione del valore nominale ad un prezzo inferiore alla parità contabile.
Nelle emissioni in opzione ad un prezzo inferiore alla parità contabile, l'opzione compensa, dunque, la potenziale diluizione patrimoniale, così come compensa la potenziale diluizione amministrativa di chi non segua, pur avendone diritto, l'aumento.
In particolare, occorre osservare quanto segue.
a. Riguardo ad una normale ipotesi di emissione in opzione al nominale od alla parità contabile preesistente nell'aumento di capitale sotto la parità contabile il rischio di annacquamento per chi non segua l'aumento si differenzierebbe perché nel secondo, ma non nel primo caso, all'annacquamento corrisponderebbe, comunque, una contribuzione al capitale con conferimento di equal ammontare di quelli a suo tempo effettuati dal vecchio socio per conseguire la posizione che ora si annacqua. Ma ciò è quanto si verifica in qualsiasi serie di emissioni a diverso prezzo (anche tutte rispettose del nominale o della parità contabile) e, comunque, semmai, attiene al profilo dell'annacquamento patrimoniale certamente "compensato", per (oggi) pacifica opinione, dall'opzione anche se il relativo diritto non abbia prezzo.
b. Comunque, se è consentita la perdita della preesistente posizione amministrativa in assoluto quando l'interesse sociale lo esige, non si vede perché a ben maggiore ragione non debba essere consentita una non certa (come avviene quando l'opzione sia esclusa o limitata) ma del tutto ipotetica, dipendente solo dal comportamento dell'interessato, perdita della posizione amministrativa conseguente al mancato esercizio dell'opzione.
A mio parere, nel caso di esclusione del diritto di opzione è sufficiente che l'opzione avvenga a prezzo congruo.
Ma ciò significa anche necessariamente che l'emissione debba avvenire imputando di questo prezzo congruo a capitale una cifra pari a quella che rappresenta la parità contabile implicita. Ciò che interessa è che l'emissione comprensiva della componente a sovrapprezzo e di quella a capitale sia ad un prezzo congruo.
Il problema che si pone non è quello di trasferire o meno ricchezza - con l'esclusione dell'opzione ad un prezzo di emissione congruo ciò, per definizione, non avviene e non avverrà, a mio parere nemmeno nel caso con opzione con imputazione a capitale di un prezzo inferiore alla parità contabile - ma diventa quello di stabilire se esista un diritto soggettivo a mantenere "targata" come capitale la parte di conferimento che originariamente si è imputata a capitale. Io non credo che questo diritto soggettivo esista perché oggi è possibile ridurre il capitale sociale imputando la riduzione a sovrapprezzo (cambiare quindi il mix capitale/sovrapprezzo) a maggioranza; e se c'è il diritto di opposizione è perché si riduce la cifra assoluta del capitale nei confronti dei terzi, ma nel caso di aumento a prezzo inferiore alla parità contabile i terzi di nulla si possono dolere perché, comunque, la cifra di capitale è aumentata (è maggiore in caso di emissione a parità contabile, è minore se si imputasse a capitale meno della parità contabile, ma il capitale comunque cresce). Pertanto, è evidente che non esiste un diritto individuale del singolo socio a mantenere "qualificata" come capitale una parte del suo investimento. Se si ragiona in questi termini, la via si semplifica notevolmente e molti dei dubbi sollevati, a mio parere, cadono.
Preciso che nel caso di emissione di obbligazioni convertibili è necessario stabilire fin dal principio, cioè sin dal momento dell'emissione delle obbligazioni, quanto del rapporto di conversione andrà a capitale e quanto andrà a sovrapprezzo perché in questo caso non ci troviamo di fronte ad una delibera da eseguire successivamente ma in sostanza si stanno già determinando le condizioni di esecuzione e di emissione delle azioni. Se quindi in una normale delibera di aumento di capitale è possibile evidenziare solo il prezzo complessivo di emissione senza indicare quanto è imputato capitale e a sovrapprezzo, nel caso di obbligazioni convertibili la ripartizione, evidentemente, si deve stabilire già da subito.
Un'ultima e minore osservazione in merito al richiamo alle impugnative delle delibere assembleari. Il comma II dell'art. 2379-ter c.c. recita «nelle società che fanno ricorso al mercato del capitali di rischio l'invalidità della deliberazione di aumento del capitale non può essere pronunziata dopo che a norma dell'art. 2444 c.c. sia stata iscritta nel Registro delle imprese l'attestazione che l'aumento è stato anche parzialmente eseguito». Secondo la lettera dell'art. 2444 c.c., salvo che per le obbligazioni, si riteneva che il deposito per l'iscrizione dell'attestazione di esecuzione avvenisse ad esecuzione terminata; nell'art. 2379-ter c.c. invece, sembra si affermi che si può andare ad iscrivere l'esecuzione dell'aumento di capitale man mano che essa avviene. Di qui, allora, è possibile desumere che si possano esercitare i diritti sociali in caso di nuove ammissioni mano a mano che le azioni vengono emesse, cosa che precedentemente sarebbe stata possibile solo se espressamente previsto?
Termino con questo piccolo "problema" solo per sottolineare come la riforma contenga, via via che viene arata ed approfondita, non pochi inaspettati riflessi sulla disciplina dell'aumento di capitale.
|
|
|