La riduzione del capitale per perdite
La riduzione del capitale per perdite
di Giuseppe Ferri jr
Ordinario di Diritto fallimentare, Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"

Riduzione del capitale per perdite e operazioni sul capitale sociale

La scelta di riservare un autonomo spazio all'inquadramento dei profili generali della riduzione del capitale per perdite, nell'ambito di un convegno dedicato all'approfondimento degli aspetti applicativi delle operazioni sul capitale, si rivela particolarmente felice, alla luce, per un verso, delle peculiarità che questa specifica modificazione del capitale sociale presenta sul piano, normativo, della disciplina: e che valgono a collocarla in una posizione indubbiamente particolare rispetto alle altre modificazioni del capitale; e, per altro verso, delle ambiguità che impediscono di individuare con chiarezza il suo significato sistematico: il quale, in vero, risulta tuttora controverso, come dimostrano le perduranti incertezze che attraversano le riflessioni in ordine al tema in esame e, prima ancora, il rinnovato interesse che, anche in tempi recenti, esso ha saputo suscitare.

Le specificità della riduzione per perdite emergono fin dalla analisi dei presupposti ai quali la disciplina positiva mostra di ricollegare la vicenda in esame: mentre infatti le altre operazioni sul capitale rappresentano in via di principio l'esito di scelte discrezionali dei soci, al contrario è la stessa legge, in taluni casi, ad imporre la riduzione del capitale per perdite, e cioè a richiedere l'adozione, da parte dei soci, della relativa deliberazione, che allora assume una singolare, se non anche contraddittoria, connotazione obbligatoria: ed anzi a prevedere, per l'eventualità che una deliberazione siffatta non risulti adottata, un meccanismo di riduzione giudiziale del capitale sociale.

Per certi versi ancora più significativa risulta, poi, la circostanza che nessuna forma di aumento di capitale si presta ad essere intesa in termini di operazione logicamente inversa alla riduzione per perdite, come invece è a dirsi dell'aumento del capitale con nuovi conferimenti rispetto alla riduzione reale del capitale corrispondente; un parallelismo siffatto, invece, non può essere instaurato tra la riduzione del capitale per perdite e l'aumento del capitale con imputazione di riserve disponibili: al di là dell'abitudine a rinvenire in tali vicende altrettante modificazioni nominali del capitale sociale, deve considerarsi che l'operazione logicamente contraria a tale forma di aumento del capitale, e cioè l'imputazione di parte del capitale a riserva disponibile, rappresenta pur sempre una specifica modalità di riduzione reale del capitale, e comunque deve anch'essa ritenersi sottoposta, come meglio si vedrà, alla disciplina prevista per quest'ultima.

Tutto ciò induce allora ad interrogarsi sul significato della riduzione del capitale per perdite, ed in particolare a chiedersi, da un lato, a cosa, o meglio a chi, serva tale operazione sul capitale, e, dall'altro, perché, in taluni casi, risulti addirittura obbligatorio addivenirvi: ed è appunto a queste due domande, e ad esse soltanto, che si cercherà, in questa sede, di rispondere; ancorché limitato, il compito che ci siamo prefissati presenta, può fin d'ora anticiparsi, l'ulteriore difficoltà che la risposta che si riterrà di offrire a ciascuno di tali quesiti potrebbe risultare contraddittoria con quella offerta all'altra: ed anche di ciò ci si dovrà allora provare a fare carico.

Riduzione del capitale per perdite e perdita di capitale

A tal fine, appare opportuno prendere le mosse dalla osservazione che, così come la disciplina positiva della riduzione per perdite si differenzia da quella di tutte le altre operazioni sul capitale, allo stesso modo, e prima ancora, la perdita si distingue da tutte le altre poste del patrimonio netto: le specificità che caratterizzano la vicenda in esame sembrano anzi doversi ricollegare proprio alla peculiare configurazione del fenomeno della perdita, in sé considerato.

Mentre infatti le poste del patrimonio netto diverse dalla perdita rappresentano altrettante discipline dell'attivo (contabile), e cioè di valori (attualmente) presenti, al contrario la perdita, ed essa soltanto, indica valori mancanti (e dunque non più presenti): ed in particolare denota l'assenza, nell'attivo contabile, di valori sufficienti a consentire l'integrale applicazione delle altre discipline del patrimonio netto; la circostanza che la perdita segnali l'ammontare di valori mancanti emerge del resto con chiarezza dalla sua rappresentazione contabile, dal fatto cioè che essa viene espressa, nell'ambito del patrimonio netto, in termini di valore algebricamente negativo, e, prima ancora, logicamente tale: come emergeva, con evidenza quasi plastica, dalla tendenza ad indicare la perdita nell'ambito dell'attivo ideale, come cioè valore algebricamente positivo, ma appunto ideale, e proprio in quanto, per dir così, immaginario, o, meglio, mancante.

L'entità della perdita di capitale esprime, in particolare, la differenza tra il minor valore (contabile) del patrimonio netto ed il maggior importo del capitale nominale: e cioè, può dirsi, tra la misura della fattispecie concreta della disciplina del capitale, vale a dire il valore attuale del patrimonio netto, e dunque il c.d. capitale reale, e, rispettivamente, quello della sua fattispecie astratta, come appunto si presta ad essere considerato l'ammontare del capitale nominale; conseguentemente, la riduzione del capitale nominale per perdite si risolve in una operazione volta a ridefinire la fattispecie astratta della relativa disciplina, in modo da allinearla alla fattispecie concreta: da farla corrispondere, cioè, al capitale reale.

Si consideri, tuttavia, che, così come, pure in mancanza di una riduzione del capitale nominale, e dunque anteriormente alla stessa, alla disciplina del capitale risultava comunque in concreto sottoposto unicamente il capitale reale: allo stesso modo anche a seguito di siffatta riduzione, vale a dire successivamente alla stessa, la disciplina del capitale sociale continuerà a regolare il medesimo capitale reale, ed esso soltanto.

La riduzione per perdite, insomma, non altera, o, meglio, non deve (né può) alterare, l'attuale disciplina del patrimonio netto, la quale resta comunque integralmente soggetta alle regole del capitale sociale; proprio per tale ragione, il significato di tale operazione non si presta ad essere colto, fino a quando ci si limiti a prendere in considerazione, in una prospettiva statica, l'attuale consistenza del patrimonio netto: fino a quando, cioè, ci si limiti a confrontare tra loro la situazione immediatamente precedente e, rispettivamente, quella immediatamente successiva alla riduzione per perdite.

Tutto ciò, se da un lato vale a distinguere ulteriormente quella in esame rispetto a tutte le altre modificazioni del capitale, che invece incidono immediatamente sulla disciplina del patrimonio netto: modificando, in un senso o nell'altro, le regole cui i valori in esso presenti risultano attualmente assoggettati; dall'altro induce a ricercare il significato, e dunque la funzione, della riduzione del capitale per perdite in una dimensione dinamica, o, meglio, prospettica: a tal fine, si tratta allora di spostare l'attenzione dall'impatto, in via di principio nullo, che tale operazione sviluppa sui valori attualmente presenti nel patrimonio netto, alla portata che essa potrebbe avere, ed anzi ha, sui valori futuri, o meglio sugli eventuali incrementi che il valore del patrimonio netto potrà presentare al termine dell'esercizio successivo, o più in generale degli esercizi successivi, rispetto a quello nel corso (o al termine) del quale il capitale viene ridotto per perdite.

Reintegrazione e riduzione del capitale perduto

Si consideri, in particolare, che, una volta ridotto per perdite il capitale nominale, i soci potranno distribuirsi, almeno in parte, quegli incrementi del valore del patrimonio netto, che, in assenza di una riduzione siffatta, sarebbero risultati al contrario indistribuibili, in quanto destinati ex lege a coprire le perdite pregresse: appare pertanto evidente che siffatta riduzione, favorendo la distribuzione degli utili futuri, e dunque permettendo la loro ripartizione tra i soci, finisce per rivolgersi a vantaggio pressoché esclusivo di questi ultimi.

Particolarmente significativa appare, ai nostri, fini, l'attenzione prestata dal legislatore a sottolineare tale profilo, ripetendo, in ordine pressoché a tutti i tipi di società (commerciali), la regola in base alla quale «se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo a ripartizione degli utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente» (così, sostanzialmente all'unisono, gli artt. 2303, comma 2, 2433, comma 3, 2478-bis, comma 5, c.c.): una regola, questa, che, per un verso, subordinando la distribuzione degli utili alla previa reintegrazione del capitale sociale, indica appunto che gli utili dell'esercizio risultano in primo luogo destinati alla copertura delle perdite di capitale pregresse, e, per altro verso, prevede una forma alternativa e diversa di copertura delle perdite, quella appunto costituita dalla riduzione del capitale.

In realtà, potrebbe apparire quantomeno curiosa, o comunque destare qualche perplessità, la circostanza che la medesima idoneità a coprire le perdite, ed a rendere con ciò possibile la distribuzione (e prima ancora l'emersione) degli utili futuri, venga ricondotta a due vicende apparentemente opposte, quali appunto la reintegrazione e, rispettivamente, la riduzione del capitale sociale: perplessità in vero agevolmente superabili, non appena si consideri non soltanto che la reintegrazione riguarda il capitale reale, mentre la riduzione quello nominale, ma che, proprio per tale ragione, entrambe tali vicende finiscono per far coincidere l'ammontare minore del capitale reale e, rispettivamente, quello, maggiore, del capitale nominale, seppure ovviamente in termini tra loro diversi ed anzi contrapposti (dal momento che, attraverso la reintegrazione, è l'ammontare del capitale reale ad aumentare fino a raggiungere l'importo del capitale nominale, mentre, a seguito della riduzione, accade l'esatto inverso).

A fronte della alternativa posta dalla legge tra reintegrazione e riduzione si potrebbe, all'opposto, essere tentati di considerare i suoi termini come modalità di copertura (e cioè di eliminazione, o quantomeno di riduzione) della perdita, tra loro sistematicamente equivalenti: al contrario, in una prospettiva appunto sistematica, la reintegrazione rappresenta la modalità, per così dire, normale, di copertura delle perdite; mentre la riduzione assume un valore che, se addirittura non si presta ad essere definito eccezionale, consente comunque di considerare il riconoscimento ai soci del potere di addivenirvi come una sorta di privilegio loro concesso: come dimostra il confronto, da un lato, con l'altra modalità di copertura delle perdite, vale a dire con la reintegrazione del capitale (reale), e, dall'altro, con l'altra forma di riduzione del capitale, quella appunto reale.

Si consideri, in primo luogo, che mentre la reintegrazione del capitale consente di coprire in ogni caso le perdite, qualunque sia cioè la loro entità, al contrario la misura delle perdite che si prestano ad essere coperte attraverso la riduzione del capitale risulta circoscritta all'ammontare del capitale medesimo, appunto perché in via di principio, la riduzione del capitale può al più condurre al suo azzeramento, non anche alla fissazione di un capitale "negativo": ne deriva, allora, che l'unica modalità utilizzabile al fine di coprire le perdite superiori al capitale sociale risulta, a conferma della sua centralità, quella consistente nella sua reintegrazione.

Si è avuto del resto modo di osservare come, a seguito della riduzione del capitale per perdite, i valori corrispondenti ai futuri incrementi del patrimonio netto risultano svincolati dalla disciplina del capitale sociale, alla quale invece, in assenza di una riduzione siffatta, essi sarebbero risultati sottoposti: in altri termini, attraverso siffatta operazione, si modifica la destinazione delle plusvalenze future, nel senso che esse risulteranno, almeno in parte, distribuibili tra i soci, e non saranno invece utilizzati a reintegrare il capitale, e dunque a coprire le perdite.

La reintegrazione del capitale perduto si risolve appunto nella imputazione a capitale delle plusvalenze future, siano esse determinate dai risultati della attività sociale, siano invece dovute ad operazioni espressamente dirette alla copertura delle perdite, come è dirsi di quelle che comportano un aumento del solo attivo, ovvero, come più di frequente accade, una riduzione del solo passivo: un'ipotesi, quest'ultima, che ricorre, oltre che nel caso di rinuncia a crediti vantati dai soci nei confronti della società, anche in quella di versamenti a fondo perduto, che appunto si caratterizza per la rinuncia al credito alla loro restituzione, distinguendosi allora dall'altra unicamente per il fatto che, in tal caso, la rinuncia ha ad oggetto un credito non già preesistente, ma contestualmente creato, all'atto del versamento; si consideri tuttavia, che una volta reintegrato il capitale sociale, allora, i soci, al fine di distribuirsi tra loro i valori corrispondenti a siffatte plusvalenze future, come detto imputati a capitale, avrebbero dovuto operare una riduzione reale del capitale sociale: una vicenda, quest'ultima, per la quale, a differenza di quanto è a dirsi a proposito della riduzione per perdite, la legge (ancora una volta, e significativamente, in ordine a tutti i tipi di società commerciale: e v. gli artt. 2306, 2445, e 2482 c.c.) prevede, come è noto, un intervento dei creditori sociali, ai quali viene riconosciuto il potere di opporsi alla esecuzione della relativa decisione.

Attraverso la riduzione del capitale per perdite, invece, le plusvalenze future non essendo sottoposte alla disciplina del capitale sociale, risultano proprio per ciò (almeno in parte) liberamente distribuibili tra i soci: ed è proprio per tale ragione che quella sorta di "restituzione di capitale assente", vale a dire di "valori mancanti", nella quale appunto si risolve la riduzione per perdite, si presta ad essere considerata, sistematicamente, in termini di privilegio concesso a costoro; per il fatto cioè che, attraverso siffatta modalità di copertura della perdita, la ripartizione delle plusvalenze future risulterà sottratta alla disciplina della riduzione reale del capitale: e dunque rispetto ad essa i creditori non potranno esercitare quel potere di opposizione previsto, in via di principio, per quest'ultima.

Proprio in quanto privilegio, il potere di ridurre il capitale per perdite deve risultare circoscritto alla funzione sistematica che esso è chiamato a svolgere, quella cioè di agevolare la distribuzione, e prima ancora l'emersione in forma di utile, di plusvalenze future: non anche di permettere la ripartizione di valori attualmente presenti nel patrimonio della società; per tale ragione, l'attuale ammontare delle perdite costituisce la misura massima nel quale il capitale può essere ridotto, appunto, per perdite: e cioè secondo una modalità che, come detto, prescinde da un qualsiasi intervento dei creditori sociali.

Una riduzione del capitale sociale in misura maggiore delle perdite attuali comporterebbe infatti lo svincolo dalla disciplina del capitale sociale di valori ad essa attualmente sottoposti, che dunque risultano già presenti nell'attivo patrimoniale, finendo allora per risolversi in una vera e propria riduzione reale del capitale sociale, caratterizzata dal fatto che siffatti valori, invece di essere restituiti ai soci, risultano imputati ad una riserva disponibile; proprio per il fatto di comportare, se non anche la distribuzione, quantomeno la distribuibilità (e dunque una sorta di restituzione potenziale) di valori attualmente imputati a capitale, ad essa deve ritenersi comunque applicabile, seppure limitatamente alla differenza tra la maggior misura della riduzione e la minore entità delle perdite, la disciplina prevista per la riduzione reale del capitale: con l'esito che la sua esecuzione dovrà ritenersi subordinata alla mancata, o infruttuosa, opposizione dei creditori sociali.

Se dunque, per un verso, l'ammontare del capitale nominale rappresenta il limite nel quale le perdite possono essere coperte attraverso la sua riduzione, e se, per altro verso, l'entità delle perdite costituisce il limite nel quale il capitale si presta ad essere ridotto "per perdite", nel quale cioè trova applicazione la relativa disciplina, allora la vicenda che si è soliti indicare in termini di riduzione del capitale per perdite si presta ad essere descritta, più propriamente, come riduzione del capitale perduto: un'espressione, questa, che, oltre a sottolineare il parallelismo con l'altra modalità di copertura della perdita di capitale, vale a dire appunto la reintegrazione, meglio consente di mettere in evidenza che la vicenda in esame si risolve nella riduzione del solo capitale ed unicamente per quella parte in cui esso risulta attualmente perduto.

Riduzione per perdite obbligatoria e disciplina del capitale minimo

In questa prospettiva, potrebbe risultare quantomeno singolare, o comunque meritevole di approfondimento, la circostanza che una vicenda, quale appunto la riduzione del capitale per perdite, che assume sistematicamente il significato di privilegio concesso ai soci, possa assumere una configurazione obbligatoria, ed anzi possa essere addirittura disposta giudizialmente, indipendentemente cioè dalla stessa necessità di una deliberazione dei soci.

A tal riguardo, appare particolarmente significativo il collegamento che il sistema mostra di instaurare tra obbligatorietà della riduzione del capitale per perdite, da un lato, e previsione di limiti minimi di capitale, dall'altro. Non soltanto, infatti, genericamente, l'ambito di applicazione delle regole che impongono, in taluni casi, la riduzione del capitale per perdite coincide con quello della disciplina del capitale minimo: nel senso, appunto, che siffatta riduzione si presta ad assumere una connotazione obbligatoria in ordine alle sole società di capitali, le uniche per le quali la legge prevede limiti minimi di capitale; ma, più precisamente, una delle ipotesi in cui la riduzione del capitale nominale risulta obbligatoria è proprio quella in cui la perdita di capitale, oltre a superare il terzo del capitale nominale, abbia ridotto il capitale reale (vale a dire il valore del patrimonio netto) al disotto della soglia minima di capitale prevista dalla legge.

Tutto ciò, a sua volta, suggerisce di ricercare il senso della obbligatorietà della riduzione del capitale sociale proprio a partire da quest'ultima ipotesi, da quella cioè in cui la perdita, superiore al terzo del capitale, incide sul minimo legale, ai sensi degli artt. 2447 e 2482-ter c.c.: e di interpretare alla luce di tale disciplina quella prevista dagli artt. 2446 e 2482-bis c.c., per l'eventualità in cui la perdita, pur superiore al terzo, non riduca il capitale al disotto di siffatto limite.

Si tratta, in altri termini, di capovolgere la prospettiva abituale, volta a ricostruire la funzione della riduzione obbligatoria a partire dalla disciplina dettata per l'ipotesi di perdite che non intacchino il minimo di capitale: e, conseguentemente, a ravvisare nella riduzione del capitale (reale) sotto tale soglia una situazione, sistematicamente eccezionale, in cui all'obbligatorietà della riduzione si aggiungono ulteriori conseguenze, a partire dal rischio dello scioglimento della società; al contrario, risulta preferibile considerare sistematicamente centrale la disciplina applicabile nell'eventualità che il capitale reale risulti inferiore, per più di un terzo dell'ammontare del capitale nominale, al minimo legale relegando quella prevista per l'ipotesi in cui il capitale reale, ancorché ridotto per perdite, si mantenga comunque al di sopra di tale limite, in una posizione sistematica secondaria rispetto alla prima, e comunque da essa dipendente.

Al riguardo, vale la pena di sottolineare in primo luogo che il significato sistematico della riduzione obbligatoria non si presta ad essere ricollegato ad esigenze genericamente definibili come di tipo informativo: non tanto e non solo per la ragione che tali esigenze non assumano rilevanza giuridica, quanto piuttosto perché esse risultano adeguatamente soddisfatte dalla regola, significativamente prevista per le sole società di capitali, che impone di indicare negli atti e nella corrispondenza il capitale della società «secondo la somma effettivamente versata e quale risulta esistente dall'ultimo bilancio» (art. 2250, comma 2, c.c.). A parte il fatto che siffatta previsione richiede che la misura del capitale esistente, e dunque non perduto, figuri in "luoghi", quali appunto gli atti e, soprattutto, la corrispondenza, tipicamente destinati alla diffusione, e proprio per ciò particolarmente adatti ad informare i terzi (e più in generale il mercato), si tratta di considerare che l'unico interesse di tipo informativo che costoro possono vantare si riferisce appunto, ed esclusivamente, alla conoscenza dell'attuale ammontare del capitale reale, non anche di quello nominale: un interesse, questo, in vero compiutamente soddisfatto dalla regola in esame, che impone appunto alla società di "pubblicizzare" l'entità attuale del capitale reale, e, si noti, di esso soltanto; non appare invece agevole comprendere quale ulteriore informazione possa discendere dalla riduzione del capitale nominale: e cioè da una operazione con la quale, come detto, ci si limita ad allineare quest'ultimo alla misura, già nota, del primo.

Per quanto in particolare riguarda l'obbligo di ridurre il capitale nominale in presenza di perdite che riducano il capitale reale al disotto del minimo legale, non sembra nemmeno convincente il tentativo di richiamarsi ad una, altrettanto generica, esigenza di tutela dei creditori sociali: come mostra di fare chi rinviene nelle regole dettate dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c. un complesso di norme funzionalmente analoghe a quelle concorsuali, o comunque volte a prevenirne, in una con l'insolvenza, l'applicazione, a partire allora da un duplice parallelismo tra perdite ed insolvenza da un lato, e scioglimento della società e fallimento dall'altro.

L'argomento è stato trattato in altra sede: in questa, ci si può limitare ad avanzare un duplice ordine di osservazioni. Per un verso, infatti, si tratta di notare che il fenomeno della perdita di capitale non si presta ad essere avvicinato all'insolvenza: e ciò per la ragione, decisiva, che la perdita, a differenza dell'insolvenza, indica una crisi non già dell'impresa, ma, al più, dell'investimento dei soci, e dunque coinvolge unicamente gli interessi di questi ultimi, e non anche dei creditori sociali; allo stesso modo, nessuna analogia può essere instaurata tra la liquidazione ordinaria conseguente allo scioglimento, che deve essere svolta nell'esclusivo interesse dei soci, e, rispettivamente, quella fallimentare, che invece risulta ispirata in primo luogo a quello dei creditori.

Per altro verso, poi, siffatta impostazione mostra di trascurare che lo scioglimento non rappresenta affatto l'unica alternativa alla riduzione del capitale ed al suo contemporaneo aumento al di sopra del minimo legale: al contrario, i soci possono limitarsi a trasformare la società, ed a farlo in senso allora necessariamente "regressivo" (intesa questa espressione nel senso, ampio, di passaggio da un tipo per il quale la legge richiede un minimo di capitale più alto ad uno per il quale tale minimo risulta meno elevato, ed a maggior ragione ad uno per il quale non risulta prevista alcuna soglia minima di capitale), e dunque a proseguire comunque, seppure in altra forma, l'originaria impresa, che allora, sebbene non ricapitalizzata, non può certo dirsi per ciò solo destinata ad essere necessariamente liquidata.

Proprio l'esplicita menzione della trasformazione induce, al contrario, a rinvenire nella disciplina dettata dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c. l'espressione dell'intenzione del legislatore di subordinare l'adozione di particolari tipi di società alla sussistenza di una soglia minima di capitale non solo nominale, ma anche reale: con l'esito che, una volta che una perdita, di entità superiore al terzo del capitale, lo abbia ridotto al di sotto di tale limite, l'unico modo per conservare il tipo originariamente prescelto è appunto quello di ricapitalizzare la società, mediante riduzione e contestuale aumento del capitale sociale; in mancanza di tale duplice operazione sul capitale, non resterà altro che abbandonare il tipo originario: risultando poi del tutto irrilevante che i soci decidano, al fine di continuare l'impresa, di modificarne la forma di esercizio, attraverso appunto una trasformazione "regressiva", ovvero di mettere fine alla stessa iniziativa, all'esito della liquidazione della società.

Come si diceva, è proprio a partire da tale disciplina che deve essere inquadrata quella, di cui agli artt. 2446 e 2482-bis c.c., che impone di ridurre il capitale nominale ogni qual volta emergano perdite superiori al terzo di capitale, che non risultino riassorbite nell'esercizio successivo, ma tali da non incidere sul minimo di capitale; si consideri infatti, che limitarsi a regolare, nei termini indicati, l'ipotesi in cui il patrimonio netto (e cioè il capitale reale) si riduca, a seguito di perdite, ad un valore inferiore a quello corrispondente al minimo legale di capitale (nominale), avrebbe rappresentato una scelta poco equilibrata, e proprio nel caso in cui l'ammontare del capitale (nominale) statutario fosse risultato sensibilmente superiore ai limiti di legge (circostanza, questa, peraltro normale, alla luce della esiguità di questi ultimi). In tal caso, infatti, la presenza di perdite anche ingenti non avrebbe richiesto alcun provvedimento, fino a quando quello reale avesse raggiunto il minimo previsto dalla legge: mentre, ma solo nel caso in cui ciò più non fosse accaduto, si sarebbe posta, per così dire all'improvviso, l'alternativa tra ricapitalizzazione (con eliminazione delle perdite) e abbandono del tipo.

Proprio al fine di graduare l'impatto delle perdite del capitale reale sulla permanenza della forma di organizzazione prescelta dai soci la legge ha imposto, nei termini di cui si è detto, l'obbligo di ridurre il capitale nominale ogni volta che si verifichi una perdita (di bilancio) che, pur non riconducendo il capitale reale al di sotto del limite legale, raggiunga tuttavia una misura significativa, che la legge individua nel terzo del capitale nominale, commisurandola con ciò alla entità dell'investimento (a conferma appunto che la perdita proprio di quest'ultimo, e non dell'impresa, rappresenta una crisi).

La previsione dell'obbligo di ridurre il capitale in presenza di perdite che, pur risultando superiori al terzo del medesimo capitale, garantiscono comunque l'esistenza di un capitale reale di entità almeno pari al minimo di legge, sembra infatti ispirata unicamente all'esigenza di evitare l'immediato (e improvviso) perfezionarsi di una situazione in cui, per poter continuare ad adottare il tipo originariamente prescelto, risulta indispensabile ricapitalizzare la società; siffatta esigenza, a sua volta, si ricollega ad un interesse, proprio ed anzi esclusivo dei soci in quanto tali (e che, proprio per ciò tutti, ma solo, costoro vantano, in termini peraltro tra loro analoghi): l'interesse, cioè, a mantenere il tipo originario, ed in particolare a reperire per tempo le risorse da impiegare nella ricapitalizzazione a tal fine necessaria.

In questa prospettiva, la riduzione obbligatoria del capitale per perdite (superiori al terzo) si presta allora ad essere considerata come una sorta di "campanello di allarme": che "suona", deve tuttavia precisarsi, non già per i creditori sociali, bensì, ed esclusivamente, per i soci, al fine di avvisare costoro dell'approssimarsi del rischio di dover abbandonare la forma di investimento originariamente prescelta.

Siffatta funzione preventiva, e più genericamente informativa, non appare tuttavia di per sé in grado di giustificare l'obbligo di provvedere a una riduzione del capitale nominale: per dar conto di tale circostanza si tratta, infatti, di sottolineare che la legge non si è limitata a prevedere, a tutela di tutti i soci, un meccanismo di allarme, ma ha inteso configurarne l'operatività in termini progressivi. Ed è proprio per tale ragione che la legge richiede la riduzione, anch'essa progressiva, del capitale nominale, e cioè del parametro al quale viene commisurata l'entità della perdita a tal fine rilevante: in modo tale che, nell'eventualità di una successione di perdite di ammontare assoluto tra loro analogo, ciascuna di esse, e proprio in quanto relativa ad un capitale di volta in volta inferiore (in quanto obbligatoriamente ridotto), farà scattare l'allarme con frequenza sempre crescente.

La necessità di ridurre, in tali casi, il capitale sociale non si giustifica allora alla luce di quell'effetto, per così dire primario, della riduzione del capitale nominale, consistente nella sottrazione delle plusvalenze future dalla disciplina del capitale sociale: un effetto, questo, che se da un lato consente di assegnare al riconoscimento ai soci del potere di ridurre il capitale per perdite il significato sistematico di privilegio concesso a costoro, dall'altro, deve adesso precisarsi, presuppone che, negli esercizi successivi, il valore del patrimonio netto sia destinato ad incrementarsi. Al contrario, la funzione di tali forme di riduzione obbligatoria del capitale sociale si presta ad essere colta in relazione all'eventualità, opposta a quella sopra sottolineata, di successive riduzioni del valore del patrimonio netto, e dunque del capitale reale; in questa eventualità, in vero, la progressiva riduzione del capitale nominale, ed essa soltanto, comporta, necessariamente, la diminuzione, altrettanto progressiva, della entità assoluta che le perdite dovranno raggiungere al fine di rendere obbligatoria una ulteriore riduzione del capitale nominale: se infatti si considera che la soglia di rilevanza delle perdite viene fissata sulla base di un rapporto proporzionale, nella misura di un terzo, rispetto all'attuale ammontare del capitale nominale, è chiaro che al ridimensionamento di quest'ultimo conseguirà, automaticamente, quello dell'importo assoluto delle perdite a tal fine rilevanti.

Per garantire siffatto andamento progressivo, si rivela dunque indispensabile "regolare" costantemente il meccanismo in parola, attraverso appunto la riduzione del capitale nominale. Saranno del resto i soci i primi, ed anzi gli unici soggetti interessati a operare siffatta riduzione: e ciò non tanto e non solo, come è a dirsi in generale in ordine a ogni riduzione del capitale per perdite, alla luce della circostanza che tale vicenda facilita l'emersione, e la distribuzione, di utili futuri, ma anche per l'ulteriore, e specifica, ragione che solo in tal modo risulta possibile assicurare il corretto funzionamento del meccanismo in esame.

L'esigenza di garantire la regolare operatività di tale meccanismo, pur ricollegandosi agli interessi dei soci, e di essi soltanto, viene tuttavia considerata a tal punto rilevante da assumere una connotazione oggettiva, nel senso cioè che è lo stesso ordinamento a richiedere che essa risulti in ogni caso soddisfatta: quella stessa connotazione che caratterizza, tra l'altro, la disciplina del capitale minimo, che in vero non soltanto rappresenta il presupposto logico delle norme che impongono la riduzione del capitale, ma costituisce, a ben vedere, lo stesso ambito sistematico nel quale queste ultime si prestano ad essere inquadrate.

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