Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio
Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio
di Giuseppe Amadio
Ordinario di Diritto civile, Università degli Studi di Padova
Premessa
La relazione di apertura ha fissato, con rigorosa lucidità, quello che potremmo definire "lo stato dell'arte", della letteratura e dell'applicazione giudiziale, in tema di divisione. Il mio discorso si propone, viceversa, di rompere con l'esistente, denunciando la sostanziale immobilità che da oltre un trentennio affligge l'elaborazione teorica moderna del fenomeno divisionale.
Ciò si spiega, in parte, con l'affievolirsi della coscienza critica nei confronti dell'istituto, ma è tanto più grave, se si considera la vischiosità dell'apparato concettuale ricevuto, dominato in larga misura dal peso di dogmi, via via trasformatisi in vere e proprie "formule magiche": basti pensare che nella più recente monografia dedicata al contratto di divisione torna, come idea-cardine della ricostruzione, l'immagine (quasi uno spettro) della "dichiaratività", di cui, in altri contesti, si è da tempo denunciata l'inconsistenza teorica [nota 1].
Sono queste le ragioni che inducono a tentare una revisione critica di quel patrimonio dogmatico, e formulare (nelle sue linee-guida essenziali) una proposta costruttiva affatto nuova: che, muovendo dall'idea (di matrice economico-fattuale) di distribuzione, provveda a fondare la corrispondente categoria giuridica della "funzione distributiva", configurata come indice minimo di riconoscimento dei fenomeni divisionali [nota 2].
Ciò al fine di ridefinire il rapporto tra questa funzione tipica unitaria e le molteplici modalità tecniche della sua realizzazione: ridisegnando la sistematica degli strumenti negoziali corrispondenti, e tracciando, nel contempo, un criterio di distinzione nuovo tra divisione ordinaria e divisione ereditaria.
A tener fede alle categorie ricevute, la divisione si costruisce come concetto logicamente derivato, o di secondo livello: il cui nucleo primigenio viene concordemente individuato nello scioglimento della comunione, salvo specificarne il proprium, indicandone la modalità realizzativa negli apporzionamenti proporzionali alle quote.
Divisione significa, in questa prospettiva, scioglimento della comunione «attraverso» l'apporzionamento [nota 3], che si atteggia a mezzo tecnico tipico, pur se non esclusivo, dello scioglimento; simmetricamente, il venir meno della contitolarità appare come il risultato degli apporzionamenti, e dunque l'effetto finale della divisione, pensata, già in tempi risalenti, come «fattispecie dello scioglimento» stesso [nota 4].
Dei due elementi così individuati, il primo (lo scioglimento della comunione) non appare adeguatamente verificato; il secondo (l'apporzionamento) non risulta quasi mai seriamente ricostruito sul piano teorico.
Di entrambi è necessario (e possibile) ridefinire contenuto e rilevanza: avvertendo che il taglio tematico assegnato al discorso odierno induce a restringere in termini essenziali l'analisi del primo elemento, per dedicare più ampio spazio alla ricostruzione del secondo.
Il primo indice di riconoscimento del fenomeno divisionale: lo scioglimento della comunione
La preesistenza di uno stato di contitolarità (che la divisione mirerebbe a sciogliere) è presupposto che, se osservato con disincanto, si rivela da un lato inessenziale, dall'altro insufficiente a caratterizzare il fenomeno divisionale.
Insufficiente, perché in tutta una serie di ipotesi, lo scioglimento della comunione non dà luogo a divisione in senso tecnico: dal perimento della cosa comune [nota 5] all'usucapione di essa da parte del contitolare, ex art. 714, c.c. [nota 6], o di un terzo; dalla donazione di quota tra compartecipi, all'acquisto della quota stessa per successione mortis causa tra coeredi [nota 7]; dall'accrescimento [nota 8], alla rinunzia abdicativa [nota 9] [nota 10], la dottrina provvede a catalogare una serie di fattispecie, cui fa difetto una finalità divisionale, in quanto nessuna di esse è in grado di realizzare un apporzionamento proporzionale alla quota.
E ciò conferma che, sul piano della funzione perseguita, l'ipotetico «interesse allo scioglimento», altro non è che il riflesso del ben più pregnante «interesse all'acquisto della porzione»; e che dunque lo scioglimento tanto poco esprime il conflitto d'interessi regolato dalla divisione, da risultare inidoneo ad individuarne lo schema causale.
Non solo. Nello specifico ambito della vicenda sucessoria [nota 11], lo scioglimento di una contitolarità, che dovrebbe caratterizzare il fenomeno divisorio, si rivela, in realtà, non essenziale per riconoscerlo.
Ne dà testimonianza positiva la fattispecie, universalmente nota, della divisione del testatore: alla quale, è appena il caso di rammentarlo, l'insegnamento comune ricollega [nota 12] l'effetto di prevenire, rispetto ai beni assegnati, il sorgere della comunione ereditaria e la conseguente necessità di procedere a operazioni divisionali ulteriori [nota 13], ma della quale, nel contempo, è indiscussa la qualificazione come fenomeno sostanzialmente divisionale [nota 14]. L'attenzione si sposta dal profilo della struttura a quello teleologico, e il risultato perseguito dal disponente, (attraverso l'insieme delle assegnazioni) vale a determinare tra esse un «nesso di reciproca subordinazione funzionale, che ne configura la causa unitaria: la distribuzione (per quote) di un complesso patrimoniale» [nota 15].
Regolamento attuato tramite assegnazioni immediatamente attributive, ma sorretto e qualificato dall'unitario scopo distributivo e, per ciò stesso, qualificabile come "divisione".
L'indice di riconoscimento della funzione distributiva, anziché nella comunione, che nel caso manca, è individuato nell'esistenza di un diverso "rapporto" fra gli assegnatari: rapporto «dato dall'idea di quota che presuppone l'idea del tutto, l'una e l'altra caratteristiche del titolo di erede» [nota 16].
Lo spunto è tanto più prezioso, in quanto consente all'interprete di riguadagnare il senso di una distinzione che, già nel linguaggio normativo [nota 17], e di qui inevitabilmente in quello dottrinale e giurisprudenziale [nota 18], appare singolarmente perduta: quella tra le nozioni di "comunione ereditaria" e di "coeredità".
E per questa via, come vedremo, svincolare la nozione di quota rilevante a fini divisorii dal riferimento necessario e costante alla contitolarità, ricollocandola entro la prospettiva della coeredità.
Nella più parte delle teorizzazioni classiche, il concetto di coeredità si colloca nella prospettiva della vicenda successoria: coeredità (come modalità della successione) si avrà «ogni qual volta a un medesimo de cuius succeda a titolo universale una pluralità di soggetti» [nota 19].
E tuttavia la vicenda, in quanto rappresentativa del "mutamento" nella situazione giuridica [nota 20], e dunque, in termini più chiari, dell' effetto [nota 21], identifica, in prospettiva assiologica, né più né meno che l'aspetto virtuale della situazione giuridica stessa: la quale, prospetticamente, costituisce ciò che dell'effetto residua sul piano delle valutazioni normative [nota 22].
Con il che, la separazione di ambiti tra coeredità e comunione di diritti vedrebbe drasticamente ridotta la propria portata significante.
La si recupera, a patto di assumere la coeredità, non come nozione afferente al piano della successione, e cioè dell'effetto acquisitivo, ma come modalità della vocazione, ovvero dell'attribuzione del titolo a succedere, cronologicamente e logicamente distinta dall'acquisto del patrimonio [nota 23].
Su questo dato, è possibile costruire un concetto di coeredità del tutto indipendente dall'idea di comunione ereditaria: esso individua la coesistenza di più delazioni universali, accettate dai destinatari. Coerede è colui che, in concorso con altri, ha titolo a raccogliere l'universum ius defuncti, indipendentemente dalle modalità che ne caratterizzeranno l'acquisto: esse consisteranno, di regola, nell'instaurarsi di una contitolarità su tutte (e ciascuna del) le situazioni giuridiche soggettive che lo compongono; ma tale evenienza, da un lato, non è implicazione necessaria del fenomeno (co)ereditario, dall'altro, si colloca comunque su di un piano concettualmente distinto da esso.
Muta, di conseguenza, il contenuto logico della nozione di "quota".
Essa ritorna sia nella comunione di diritti, che nella coeredità, in quanto in entrambe è insita l'idea della coesistenza [nota 24]; e in entrambe, l'antinomia apparente tra pluralità (di soggetti) e universalità (dell'attribuzione) viene risolta, sul piano logico e su quello positivo, dall'idea di quota.
Nel suo primo significato, tuttavia (reso palese dal capoverso dell'art. 1101, c.c.) essa è indicativa della misura della (con)titolarità da riconoscersi al partecipe alla comunione; nella seconda accezione (enunciata dall'art. 588, c.c.) "quota" è l'oggetto della vocazione ereditaria: criterio che qualifica il lascito come disposizione a titolo universale, attributiva della qualità di (co)erede.
Ed è tale nozione di quota, costituente insieme misura e titolo della vocazione universale, a rappresentare il presupposto sufficiente (oltre che necessario) a identificare il concetto giuridicamente rilevante di "distribuzione": ovvero del profilo funzionale tipico e costante dei fenomeni riconducibili al genus "divisione".
Il secondo indice di riconoscimento del fenomeno divisionale: il concetto tecnico di apporzionamento divisorio
Ridefinito, così, il rilievo della contitolarità (primo indice tradizionale di riconoscimento della divisione), è con l'analisi del secondo, e cioè del concetto tecnico di apporzionamento che il discorso critico entra nel vivo: ciò perché, a dispetto della sua centralità, la nozione di apporzionamento divisorio sembra sottrarsi (nelle pagine della dottrina) a un tentativo serio di costruzione dogmatica.
Diremo allora, per avviare il discorso, che essa si alimenta, di due idee-guida:
a. da un lato, un peculiare effetto, una vicenda di situazioni giuridiche comunemente descritta in termini di «attribuzione in titolarità esclusiva» di determinate utilità;
b. dall'altro un criterio di misura, un parametro valutativo della congruità quantitativa dell'attribuzione, individuato dall'idea di «proporzionalità rispetto alla quota».
In prospettiva analitica, l'effetto attributivo rivela assai poco della dinamica degli interessi rilevanti. Vi è, sì, il dato dell' «esclusività» dell'attribuzione, che, letto in antitesi rispetto alla comunione, fornisce un indice sintomatico del risultato perseguito [nota 25]; ma, a ben vedere, la considerazione dell'effetto non consente ancora all'analisi di distaccarsi dalla dimensione strutturale.
Aver distinto, però, dal piano dell'attribuzione, il momento (e il criterio) della sua congruità riconduce viceversa il discorso alla sfera degli interessi e consente di riconoscere, nell'istanza valutativa immanente all'apporzionamento, il principio-cardine che ispira e sovrintende alla stabilità della vicenda: quel criterio di proporzionalità oggettiva tra quote e porzioni che informa l'intera disciplina del procedimento, trovando specifica messa in atto nel rimedio rescissorio.
In quest'idea di proporzione si racchiude il nucleo essenziale e costante degli interessi dei condividenti: l'esigenza di veder "concretato" il contenuto patrimoniale della partecipazione, espressa logicamente e quantitativamente dal concetto di quota: in una parola, l'interesse alla «distribuzione quotativa» di una massa patrimoniale [nota 26].
Esso si realizzerà, pur nei limiti imposti dalla confliggente esigenza di stabilità del riparto (riflessa dall'irrilevanza dell'eventuale lesione infra quartum) [nota 27], garantendo che le utilità conseguite da ciascun condividente trovino titolo e parametro esclusivo di determinazione nella quota, intesa come criterio di consistenza relativa della sua partecipazione all'intero: mantenendo, cioè, tra il valore di quanto da ciascuno acquistato, il rapporto preesistente di consistenza reciproca delle partecipazioni. Rapporto tra esse e, per tanto, di ciascuna con il tutto: in una parola, e ancora una volta, l'idea di quota.
In ciò si esprime il nocciolo dell'idea di «distribuzione», e dunque il dato funzionale minimo di ogni «tecnica divisionale» propriamente intesa [nota 28]: attorno ad essa, potrà organizzarsi sistematicamente tutta una serie di ipotesi, anche strutturalmente anomale, ma recuperabili in diversa misura al genus divisione, in nome della maggiore o minore fedeltà a quella funzione.
Così è stato, storicamente, per la divisione testamentaria;
e altrettanto avviene (come vedremo) per la categoria degli «atti equiparati».
Ma non dissimile è la logica in base alla quale potremmo riattrarre, nell'ambito del sistema divisorio, altre figure (vecchie e nuove), che pur realizzando il fine distributivo dell'apporzionamento proporzionale, rischiano di mettere in crisi la costruzione classica, in quanto esempi di "divisioni senza comunione": che è quanto sembra avvenire, come si dirà in chiusura, per istituti quali la collazione o il patto di famiglia [nota 29].
E in questo modo, l'interesse alla distribuzione proporzionale qualifica causalmente il procedimento divisorio, e nel contempo sorregge, giustificandola, l'attribuzione in proprietà esclusiva.
Una prima conclusione: la divisione come categoria funzionale
L'analisi del concetto tecnico di apporzionamento ci consegna una prima conclusione di valenza sistematica generale.
Prima ancora della nozione di causa « del negozio», l'idea di distribuzione proporzionale sembra individuare uno schema generale di configurazione degli interessi, accostabile idealmente alle diverse (e altrettanto generali) figure di qualificazione, rappresentate dalla corrispettività e dalla liberalità: in quanto (come quelle) idonea a fungere da causa giustificativa dell'attribuzione [nota 30].
Come, sul piano economico, la distribuzione si contrappone allo scambio e questo si distingue dal dono, così, in termini di corrispondenti strutture giuridiche, la proporzionalità si distingue dalla corrispettività, ed entrambe si distaccano dalla liberalità.
Si noti: anche in questa sede è stata riproposta l'idea (confliggente, a prima vista, con la conclusione appena raggiunta), secondo la quale la divisione non costituirebbe mai titolo autonomo dell'acquisto dei beni assegnati in proprietà esclusiva. L'affermazione, in realtà, può condividersi solo a patto di restringerne il significato utile: essa è vera, infatti, se intesa in senso economico, se riferita cioè all'incremento patrimoniale conseguente alla divisione. Da questa limitata prospettiva, è indubbio che il passaggio dalla contitolarità pro quota alla titolarità esclusiva della porzione non si traduce in una maggiore consistenza del patrimonio dell'assegnatario (anche se non poco rilievo potrebbe assumere il diverso valore che la proprietà eclusiva di una parte di regola assume rispetto a quello della quota indivisa). E si potrebbe, a questo punto, ricordare la celebre espressione secondo la quale, a seguito della divisione, ciascuno si ritrova con «né più né meno di quello che aveva prima» [nota 31].
Ma è altrettanto certo che, se trasposta al diverso piano delle modificazioni della sfera giuridica dei singoli partecipi, la divisione è titolo del mutamento, e dunque causa dell'attribuzione della diversa situazione giuridica soggettiva (la titolarità esclusiva) destinata a sostituirsi (ove vi sia) alla preesistente contitolarità.
Ciò consente di ripensare la divisione, più che come schema tipizzabile in termini di struttura (e dunque di effetti), come vera e propria «categoria funzionale», contraddistinta dall'interesse all'apporzionamento. E si recupera un criterio di soluzione, o di svalutazione, di tutta una serie di (veri o falsi) problemi, che affliggono da sempre la costruzione teorica.
é quanto accade, ad esempio, quando ci si interroga sulla gratuità, onerosità, o corrispettività della divisione contrattuale [nota 32]; e si contrappone alla tesi che ne fa un contratto «neutro» [nota 33], il tentativo di fondarne l'onerosità o la corrispettività sulla presenza, o meno, di «prestazioni» [nota 34], o «sacrifici» a carico dei condividenti. Salvo poi, dopo aver evocato l'idea di sinallagma tra prestazioni, svalutarne il rilievo, affermando l'irresolubilità del contratto, e giustificandola con l'operare di rimedi succedanei (quali l'ipoteca legale ex artt. 2817, n. 2, e 2834, c.c.) [nota 35], o in base a un principio generico, e bon a tout faire, quale il favor divisionis [nota 36].
L'analisi, confinata al piano della struttura, non si avvede che la distanza tra distribuzione e corrispettività è data non dalla presenza di prestazioni o sacrifici, quanto nella configurazione, (convenzionale o normativa) degli interessi secondo un modello diverso dallo scambio: lo conferma la logica dell'apporzionamento, in cui l'idea della reciprocità delle prestazioni [nota 37], cioè di un nesso qualificato tra un'attribuzione e l'altra, cede il passo alla nozione di proporzionalità, fondata sul rapporto tra ciascuna di esse e l'intero.
Non a caso, già Antonio Cicu, formulava il paradosso di una corrispettività … senza prestazioni corrispettive, in ragione del fatto che «non si ha da valutare una porzione in confronto all'altra, ma ciascuna porzione in confronto del tutto e sulla base di un dato prestabilito che è la quota» [nota 38].
Solo la ricognizione dell'interesse perseguito consente, quindi, di accertare in concreto la presenza di una funzione divisoria.
Si immagini l'accordo in cui, premesso di essere comproprietari per una metà ciascuno del bene A, concordemente valutato nella somma di 100, Tizio e Caio convengano che «per effetto del presente atto Tizio dovrà ritenersi proprietario esclusivo del bene, e Caio creditore del primo della somma di cinquanta»: in cui è evidente che, un esame della sola struttura effettuale (acquisto della proprietà dell'intero e costituzione di un credito pari al valore della quota) in nessun modo consente di decidere se ci si trovi di fronte a una cessione di quota o a una divisione realizzata a' sensi dell'art. 720, c.c.
Nè potrebbe altrimenti spiegarsi la posizione di una norma, come quella dell'art. 764, comma 1, c.c., intesa a dettare una disciplina per una serie tendenzialmente aperta di fattispecie («ogni altro atto»): che, cioè, trova la propria ratio, e il presupposto del suo operare, nello specifico risultato (apporzionatorio) perseguito, quale che sia il congegno giuridico-formale, volto ad attuarlo [nota 39].
L' intuizione di Domenico Rubino, circa la natura «materiale» della norma, che a questa corrispondeva nel codice previgente [nota 40], conferma che la distribuzione, come la liberalità, più che una struttura, individua la funzione di una serie di congegni, ad effetti variabili, ma unificati dall'idoneità a realizzare un determinato risultato: ciò che quasi ottant'anni fa Tullio Ascarelli nitidamente sottolineava, accostando alla donazione la "divisione" indiretta [nota 41].
Le varianti strutturali dell'apporzionamento: i "tipi" di efficacia
Se ciò è vero, non resta che verificare se e in che misura l'attuazione di quel risultato possa avvalersi di strutture (effettuali) variabili: se e quali siano, in altre parole, le tecniche di apporzionamento compatibili con la funzione distributiva, in quanto idonee a realizzare l'interesse a essa sotteso.
La verifica investe due profili distinti del congegno apporzionatorio utilizzato:
- il primo [attinente alla c.d. natura dell'effetto] mira a chiarire se il fenomeno divisionale risulti, per qualche ragione, incompatibile con l'impiego di determinati «tipi di efficacia giuridica» [nota 42]. In linguaggio tradizionale: il dilemma antico della dichiaratività/costitutività della divisione;
- la seconda verifica investe il termine di riferimento oggettivo dell'effetto, e dunque natura e provenienza dei beni ricompresi nella porzione. In termini classici: il problema della divisione con beni diversi da quelli ricompresi nella massa dividenda.
L'una e l'altra verifica consentiranno di far giustizia di taluni equivoci consolidatisi nella costruzione teorica classica.
Il primo (e più noto) trae origine dalla diffusa convinzione circa l'incompatibilità tra procedimento divisionale e vicenda traslativa: su di essa pesa il retaggio culturale di un dogma di secolare longevità [nota 43], che si vorrebbe desumere dall'art. 757, c.c., inteso come norma che costruisce la divisione come fenomeno «dichiarativo» [nota 44].
Il dibattito sulla dichiaratività della divisione non può, per ovvie ragioni, essere qui affrontato: Anzi, esso potrebbe darsi per risolto, considerando, da un lato, che già da un trentennio la tesi dell'efficacia costitutiva della divisione risulta compiutamente argomentata in dottrina [nota 45]; e ricordando, dall'altro, che può dirsi acquisita, nell'odierna teoria generale della comunione di diritti, la diversità "ontologica" intercorrente fra contitolarità e proprietà esclusiva, e il conseguente carattere modificativo-costitutivo della vicenda che segna il passaggio dall'una all'altra [nota 46].
Se la c.d. "natura dichiarativa" della divisione trova ancor'oggi tardivi difensori [nota 47], ciò dipende, una volta di più, dall'indebita sovrapposizione tra il piano degli interessi (su cui si colloca l'idea di distribuzione proporzionale) e quello degli effetti (su cui si gioca il confronto tra dichiaratività ed efficacia costitutiva).
Ci si potrebbe chiedere, allora, come conciliare quella tardiva difesa, con una serie di di fattispecie, configurate dallo stesso legislatore come varianti del genus divisione: dall'ipotesi del conguaglio (ex art. 728, c.c.), all'attribuzione dell'intera massa ad un coerede, con tacitazione in danaro dei diritti degli altri partecipi (art. 720, c.c.); e ancora la vendita all'incanto, o anche senza incanto, nel concorso di un accordo unanime (e della non opposizione dei terzi qualificati ex art. 719, cpv.), con successiva ripartizione del ricavato [nota 48]. Tutte fattispecie, nelle quali l'apporzionamento si realizza, senza dubbio alcuno, mediante un acquisto a struttura traslativa e avente a oggetto (per di più) utilità non provenienti dalla successione [nota 49].
Questa compatibilità tra apporzionamento e trasferimento, sancita normativamente, risulta spiegabile, in termini dommatici, solo ricollocando ciascuno dei due termini nel rispettivo ambito di appartenenza: rilevando, cioè, che il trasferimento di diritti tra coeredi è struttura, in sé neutra, ma compatibile, se finalizzata a realizzare l'interesse alla distribuzione proporzionale, con la funzione divisoria. Quel che resta escluso, nelle ipotesi in esame, non è il trasferimento, ma lo scambio: la corrispettività, e non la traslatività, rivela una combinazione di interessi diversa e incompatibile con la distribuzione quotativa, che giustifica la disapplicazione dell'apparato rimediale fondato sul principio di proporzionalità [nota 50].
Una volta che si siano distinti i piani, su cui i concetti di «trasferimento» e di «scambio» operano, non è più necessario, né possibile, dedurre quel dogma dalla previsione dell'art. 757, c.c.: norma (di lettura tutt'altro che univoca), il cui ambito già letteralmente risulta circoscritto ai casi di apporzionamento realizzato con beni «pervenuti dalla successione», e dunque alle sole «cose già comuni» [nota 51].
Solo in ordine ai «beni ereditari» (evocati dal suo inciso finale) la disposizione esprime un'istanza concettuale, cui si ispira tutta una serie di costruzioni teoriche (dalla tesi della surrogazione legale, alla concezione del diritto del partecipe come proprietà plurima integrale, sino alla stessa idea dell'accertamento): l'esigenza, cioè, di saldare l'esito divisionale con la vicenda successoria, dimostrando che «i condividenti non sono i successori della collettività o di se stessi, ma di chi era titolare dei beni comuni al momento in cui sorse la comunione» [nota 52].
Principio riconosciuto dall'ordinamento, con peculiare riguardo alla materia delle successioni per causa di morte, ed enunciato dalla formula ricorrente della «continuità» tra la posizione giuridica del defunto e quella dell'erede [nota 53]; ma che poco o nulla ha a che fare con il dogma della dichiaratività.
Una conclusione può, dunque, ritenersi acquisita: l'apporzionamento in senso tecnico risulta realizzato anche da strumenti acquisitivi a efficacia traslativa, se e in quanto vivificati dall'interesse alla distribuzione.
Esso basta a ricondurre quegli strumenti al genus divisione, rendendo applicabile la disciplina fondata sulla proporzionalità delle attribuzioni: perchè, tanto il regime della garanzia per evizione, quanto il rimedio rescissorio, non si fondano, come pure affermato, sul «l'assenza di un fenomeno di successione tra i comunisti», ma sulla peculiare configurazione assegnata agli interessi in gioco, che ne esclude il rapporto di corrispettività in vista del diverso risultato distributivo perseguito [nota 54].
Segue: … e natura dei beni assegnati
Con lo stesso criterio, dovrà valutarsi il secondo profilo dell'apporzionamento, indicato a suo tempo nell'oggetto dell'attribuzione: ciò in quanto anche la natura dei beni distribuiti potrebbe influire sulla riconoscibilità di una funzione divisoria, se e in quanto risultasse incongruente rispetto all'interesse al concretamento proporzionale della quota.
Esso si realizza, nella sua forma «pura», quando risulti essere l'unico interesse convenzionalmente valutato. Ciò accade [come già chiarito] quando la determinazione del contenuto economico delle assegnazioni si fondi esclusivamente sul frazionamento del valore della massa stimata (il «rapporto col tutto», di cui la quota è figura logica); e quando il congegno attributivo utilizzato assicuri, anche in relazione al suo oggetto, la corrispondenza delle utilità conseguite a quella valutazione.
Ciò avviene, ovviamente, nella divisione in natura, ove il frazionamento della massa funge nel contempo da criterio di misura, e da congegno apporzionatorio (dove, in altri termini, la corrispondenza tra "conseguito" e "valutato" [sia in termini di quantità, sia qualitativamente] assume, per così dire, dimensione "fisica").
Ma altrettanto può dirsi, in prima approssimazione, per l'apporzionamento pecuniario, comprensivo di una gamma di ipotesi che va dal conguaglio strettamente inteso (ex art 728, c.c., come congegno perequativo delle ineguaglianze in natura tra le porzioni), a tutte le altre tecniche di liquidazione in danaro del valore della quota (come i casi, già ricordati, di assegnazione ex art. 720, c.c., o di vendita dei beni a terzi e ripartizione pro quota del ricavato).
L'accostamento tra divisione in natura e apporzionamento pecuniario trova ragione nella peculiarità del bene danaro: bene che, pur se estraneo alla massa dividenda, non implica (rispetto alla stima e al frazionamento di essa) alcuna operazione valutativa ulteriore, in quanto esso stesso misura, e non oggetto, di valutazione. Come la divisione naturale, l'apporzionamento pecuniario realizza quella corrispondenza rispetto al valore della quota, in cui si è individuato il nucleo concettuale della funzione distributiva: e questa attitudine del bene-denaro a esprimere direttamente e immediatamente quel valore assicura la proporzionalità in re ipsa dell'attribuzione [nota 55].
Apporzionamento in natura e pecuniario costituiscono, in definitiva, tecniche ugualmente idonee a realizzare il fine distributivo, pur in presenza di vicende di tipo costitutivo-traslativo, e di estraneità alla massa del bene attribuito: e dunque varianti inquadrabili entrambe, sistematicamente, nel tipo normativo "divisione" strettamente intesa.
Discorso diverso richiede l'ipotesi (che pure a queste risulta spesso assimilata) [nota 56] della divisione che utilizzi, in funzione apporzionatoria, beni (non solo estranei alla massa stimata, ma anche) diversi dal danaro.
La ragione della diversità non è data tanto dalla «provenienza» di tali beni, né dalla configurazione (traslativa) della vicenda, quanto dal fatto che l'assegnazione di utilità non pecuniarie, estranee alla massa stimata, rende necessaria un'ulteriore (seconda) operazione di stima, avente a oggetto i beni da assegnare: introduce, cioè, nella determinazione delle porzioni, un momento valutativo diverso ed estraneo al concetto puro di distribuzione, un giudizio di equivalenza che riproduce in qualche misura, sia pure in via mediata, lo schema dello scambio.
La congruità dell'apporzionamento non discende più da una semplice proporzione. In presenza di beni (estranei alla massa e) diversi dal danaro, alla quantificazione del valore della quota (raggiunta con gli usuali criteri), si contrappone (per così dire) la concorrente valutazione del bene attribuito. La cui idoneità a realizzare l'assegnazione sarà giudicata in termini di equivalenza tra i risultati delle due diverse valutazioni.
Ciò rende plausibile una sorta di presunzione interpretativa (anche se non intesa in senso tecnico), che orienta a qualificare l'operazione negoziale non più in termini di distribuzione, ma di scambio, collocando quindi la fattispecie al di là dei confini del fenomeno divisionale, strettamente inteso.
Non si tratta, tuttavia, di presunzione insuperabile: e dunque spetterà all'interprete stabilire, ricostruendo il significato economico dell'operazione negoziale, se la composizione dei confliggenti interessi sia stata raggiunta attraverso i moduli della corrispettività, ovvero della proporzionalità distributiva. Se cioè, in base alla configurazione data dalle parti alla funzione concreta del contratto, il bene estraneo sia stato "scambiato" con la quota, indipendentemente da una valutazione di congruità rispetto ad essa, ovvero se l'assegnazione di quel cespite sia disposta come forma di concretamento del valore (preventivamente accertato) della partecipazione alla massa distribuita [nota 57].
In questo secondo caso, la considerazione congiunta del profilo effettuale oggettivamente utilizzato e della configurazione pattizia degli interessi, consentirà di recuperare al genus divisione anche tali tecniche apporzionatorie. Ma le loro peculiarità strutturali ne limiteranno l'appartenenza al genere al grado di mera equiparazione, nel senso enunciato dall'art. 764, c.c., rendone applicabile negli stessi limiti la disciplina.
Ricadute sistematiche ed applicazioni ulteriori
L'analisi, pur se sommariamente esposta, ha condotto a ridefinire i tratti distintivi del fenomeno divisionale: da un lato, svalutando il rilievo della contitolarità di diritti, come suo antecedente necessario, sostituita dal riferimento al più ampio concetto di quota; dall'altro, costruendo attorno all'interesse a conseguirne il valore, la nozione minima di apporzionamento, realizzabile attraverso tecniche differenziate, sia in relazione al tipo di efficacia, sia con riguardo all'oggetto dell'attribuzione.
Di conseguenza, lo stesso rapporto tra apporzionamento e scioglimento della comunione non potrà più intendersi in modo univoco, in tutte le varianti strutturali del fenomeno. Esso ricorrerà, senza eccezioni, nei casi di divisione ordinaria (id est: non ereditaria), nel cui ambito la quota non può che essere quota di contitolarità delle situazioni giuridiche dividende. Non così in ambito ereditario, in cui un concetto di quota idoneo a fondare l'apporzionamento potrà rintracciarsi, pur in mancanza di comunione, con riferimento esclusivo alla coeredità.
Sul piano teorico, il risultato più significativo consiste nell'aver sganciato il fenomeno da una lettura in chiave strutturale, e averne ridefinito il ruolo sistematico, in termini di funzione, qualificata dall'interesse alla distribuzione pro quota di una massa patrimoniale.
Sul piano sistematico, si aprono all'interprete due prospettive, di grande suggestione.
a) - La prima (praticabile con ragionevole certezza) consiste nel riattrarre all'ambito concettuale della divisione istituti antichi e nuovi, senza bisogno di ricorrere (com'è sinora accaduto) a sovrastrutture concettuali inutili e fuorvianti.
Il riferimento classico è al meccanismo della collazione, che intere generazioni di dottrina, imprigionate tra dogma della dichiaratività e necessità di un preesistente stato di comunione, si vedono costrette a costruire come vicenda caducatoria, configurata di volta in volta come "revocazione legale" della donazione [nota 58] come "risoluzione retroattiva" della stessa [nota 59] o persino come "revoca dell'accettazione" [nota 60]. Costruzione smentita dal dato normativo (basterebbe a dimostrarlo il meccanismo dell'imputazione), e del tutto inutile, in base all'impostazione accolta in questa sede, essendo sufficiente, all'operare della collazione, il rapporto di coeredità intercorrente tra gli aventi diritto. Con ciò sciogliendo il dilemma (individuato, in dottrina, sin dalla metà del secolo scorso) del come possa un bene, che certamente "non fa parte dell'eredità" costituire oggetto di apporzionamento in sede di divisione ereditaria [nota 61]; e facendo giustizia di asserzioni della Suprema Corte, tanto consolidate, quanto prive di fondamento, volte ad escludere (data l'assenza della contitolarità) l'operatività della collazione nel caso di divisione testamentaria [nota 62], o in assenza di un relictum da dividere [nota 63].
L'applicazione recente ci è consegnata dalla disciplina del patto di famiglia, che realizza la c.d. "liquidazione" dei non assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni, riconoscendo loro un credito al "pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti" (art. 768-quater, c.c.); e sembra così (o almeno è sembrato alla dottrina prevalente) riproporre un congegno funzionalmente divisorio, attuato (pur senza il tramite della comunione) attraverso una serie di apporzionamenti ex lege [nota 64].
b) - In termini ancor più ampi, l'idea che la distribuzione proporzionale rappresenti una causa generale giustificativa dell'attribuzione (capace di affiancarsi agli schemi della corrispettività e della liberalità) [nota 65] evoca la seconda prospettiva (proposta in dottrina, in tempi non lontani, ma ancora tutta da verificare): la possibilità di organizzare unitariamente fenomeni anche lontani (dallo scioglimento degli enti associativi, a quello della comunione coniugale) tutti contraddistinti da una struttura logica elementare: il concretamento del contenuto economico di una partecipazione pro quota [nota 66]. Ma ovviamente, si tratta di percorso di tale impegno, che in questa sede è sufficiente averne indicato la direzione.
[nota 1] L'allusione è al lavoro di MORA, Il contratto di divisione, Milano, 1995.
[nota 2] Il discorso svolto in questa sede riproduce, in estrema sintesi, il nucleo concettuale di una più ampia rilettura critica del fenomeno divisionale: essa ha trovato, sino ad oggi, manifestazioni parziali nel saggio Comunione e coeredità (Sul presupposto della collazione), in Diritto privato, 1998, IV, Del rapporto successorio - aspetti, Padova, 1999, p. 279 e ss., e nella monografia Divisione ereditaria e collazione, ed provv., Padova, 2000.
[nota 3] Così, con mere varianti lessicali, MIRABELLI, voce Divisione, dir. civ., in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, p. 34 e ss.; ID., «Intorno al negozio divisorio», in Arch. giur., 1949, p. 44; GAZZARA, voce Divisione ereditaria, dir. priv., in Enc. del dir., XIII, Milano, 1964, p. 422; MOSCARINI, «Gli atti equiparati alla divisione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, p. 538; FORCHIELLI, Della divisione, Libro secondo. Delle successioni (artt. 713-768), in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna Roma, 1970, p. 12, ed ora nella seconda edizione, a cura di Forchielli e Angeloni, ivi, Bologna Roma, 2000, p. 21 e ss., (a tale edizione si riferiranno, d'ora in avanti, le citazioni); BURDESE, voce Comunione e divisione ereditaria, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, ad vocem, p. 6; MORA, Il contratto di divisione, Milano, 1995, p. 87; BONILINI, voce Divisione, in Dig. disc. priv., sez. civ., VI, Torino, 1990, p. 484; MOSCATI, op. cit., p. 4.
[nota 4] L'insegnamento di FEDELE, La comunione, in Tratt. Grosso - Santoro Passarelli, Milano, 1967, p. 345 e ss., recepito dalla dottrina prevalente (si cfr. BURDESE, La divisione ereditaria, nel Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, XII, 5, Torino, 1980, p. 87) viene, ovviamente, criticato da MIRAGLIA, Divisione contrattuale e garanzia per evizione, Napoli, 1981, p. 108 e ss., nota 207.
[nota 5] A. PALAZZO, voce Comunione, in Dig., disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1990, p. 180.
[nota 6] A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 84.
[nota 7] A. CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell'eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, 2a ed., Milano, 1961, p. 468; F.D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, dir. civ., in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 282.
[nota 8] Ancora A. CICU, op. ult. cit., p. 363.
[nota 9] A. LENER, La comunione, cit., p. 328.
[nota 10] Altri casi in A. MORA, op. cit., p. 86 e ss.
[nota 11] Si vedrà di qui a poco l'importanza centrale della distinzione tra divisioni fondate su una vicenda successoria e divisioni ordinarie.
[nota 12] Il rilievo attribuito all'efficacia immediatamente preventiva della comunione, come criterio di riconoscibilità della fattispecie di cui all'art. 734 c.c., si ritrova "teorizzato", in termini emblematici, in Cass., 10 novembre 1981, n. 5955, in. Giust. civ. Mass, 1981, p. 2118, che a tale stregua esclude il ricorrere della figura in ogni caso in cui l'operare della divisione predisposta dal testatore sia differito, rispetto al momento dell'acquisto dell'eredità. Che l'affermazione risulti eccessiva è stato dimostrato in altra sede (si consenta il rinvio al nostro La divisione del testatore, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, II, Padova, 1994, p. 78 e ss.), dovendosi considerare essenziale alla fattispecie non tanto l' "immediatezza" quanto l' "automaticità" dell'effetto divisorio, e dunque la non necessità di ulteriori procedimenti, negoziali o giudiziali, di scioglimento della comunione. Ma, proprio per questo, non mutano i termini del problema appena prospettato.
[nota 13] Si tratta di opinione ormai entrata nel novero delle nozioni istituzionali, e pressoché unanime; a titolo indicativo, si vedano L. MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 78; P. FORCHIELLI, Della divisione, cit., p. 197; G. GAZZARA, Divisione ereditaria, cit., p. 435 e ss.; V.R. CASULLI, voce Divisione ereditaria, dir. civ., nel Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, p. 57, nonché nel Noviss. Dig. it. - Appendice, III, Torino, 1982, p. 61; P. CARUSI, Le divisioni, Torino, 1978, p. 243; F. D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, cit., p. 277; M. FRAGALI, op. cit., p. 71, nota 1; A. BURDESE, La divisione erditaria, nel Tratt. dir. civ. it. diretto da Vassalli, XII, 5, Torino, 1980, p. 255; ID., voce Comunione e divisione ereditaria, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, p. 1 e ss. Essa segna il superamento dell'idea, ricorrente in dottrina sotto il vigore del codice abrogato (si veda, per tutti, N. COVIELLO, op. cit., p. 588, nota 3) di un istante "ideale" o "di ragione", in cui la massa dei beni divisi dall'ascendente si sarebbe necessariamente venuta a trovare in comunione tra gli assegnatari (per la critica coeva, volta a denunciare la finzione insita in tale rilievo, si veda G. TEDESCHI, La divisione d'ascendente, Padova, 1936, p. 9).
[nota 14] Possono confrontarsi, in tal senso, tutti gli autori citati alla nota precedente.
[nota 15] Sono parole di L. MENGONI, op. ult. cit., p. 81 (corsivo dell'autore).
[nota 16] A. CICU, op. cit., p. 433 e ss. (corsivo aggiunto).
[nota 17] Se ne veda la denuncia in A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 1 e ss. e, sia pure ad altri fini, in IUDICA, «Diritto dell'erede del coerede alla prelazione ereditaria», in Riv. dir. civ., 1981, II, p. 472.
[nota 18] Può aversene una singolare controprova, consultando gli indici analitici di monografie anche assai note, in tema di comunione in generale, alla voce "coeredità": può accadere, allora, di trovarvi un rinvio tout court alla voce "comunione ereditaria" (in questo senso, ad es., M. FRAGALI, op. cit., p. 638), il che lascia supporre la (ritenuta) sinonimia o, quanto meno, fungibilità delle espressioni; ma anche ove ciò non accade, si potrà constatare che nei luoghi cui si fa rinvio, la trattazione riguarda, in realtà, la comunione ereditaria (così accade in G. BRANCA, Comunione - Condominio negli edifici, Libro terzo. Della proprietà (artt. 1100-1139), nel Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna Roma, 1982, p. 697; e che si tratti di una sorta di vischiosità delle formule è confermato dalla circostanza che, dallo stesso autore, la distinzione tra i due concetti è suggerita, in altro luogo dell'esposizione - cfr. op. ult. cit. p. 294 e ss. - in modo evidente).
[nota 19] A. BURDESE, op. ult. cit., p. 1.
[nota 20] M. ALLARA, La teoria delle vicende del rapporto giuridico, Torino, s.d., ma 1950, p. 3 e ss.
[nota 21] A. FALZEA, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano,1965, p. 432 e ss. e ora in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, cui si riferiranno le citazioni (il luogo appena richiamato è a p. 339).
[nota 22] Il sistema di riferimento è, ancora, quello tracciato da A. FALZEA, op. cit., p. 371 e ss.
[nota 23] Ciò è del tutto ovvio nelle costruzioni che, accentuando il rilievo del profilo soggettivo del fenomeno ereditario, finiscono in varia misura per aderire all'impostazione di R. NICOLò, «La vocazione ereditaria diretta e indiretta», in Ann. Messina, VIII, 1933-34, spec. p. 131 e ss. e ID., voce Erede, dir. priv., in Enc. dir., XV, Milano, 1966, p. 196 e ss., accogliendo, pertanto, la nozione di "qualità di erede" intesa come posizione originaria, prius logico e presupposto causale della successione nei rapporti (così, in tempi successivi, U. NATOLI, L'amministrazione dei beni ereditari, II, Milano, 1949, p. 91; G. STOLFI, «Concetto dell'erede», in Giur. it., 1949, IV, p. 166 e ss. e, in seguito, voce Successione ereditaria, dir. priv., in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 1259 e ss.; V. CUFFARO, voce Erede e eredità, I) dir. civ., in Enc. giur., XII, Roma, 1989, p. 3; U. CARNEVALI, voce Successione, I) Profili generali, ivi, XXX, Roma, 1993, p. 1 e e ss.). Ma il riferimento alla vocazione appare tanto più significativo in quanto, a una analisi attenta, risulta che esso assume decisiva importanza anche per le teorie che più radicalmente respingono l'idea della "qualità di erede": così è per L. MENGONI, op. ult. cit., p. 753 (in cui si legge che è «la vocazione ereditaria» che «unifica, sotto il profilo del titolo … la molteplicità delle vicende successorie, all'interno di ciascun rapporto giuridico del de cuius»); per P. SCHLESINGER, voce Successioni, parte generale, dir. civ., in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 751 (che, nel definire il carattere "universale" della successione, lo fonda sul «titolo con cui opera la 'vocazione', o 'chiamata'»); e addirittura per P. BONFANTE, Il concetto dommatico dell'eredità, cit., p. 181 (che, pur affermando che «essere erede … non significa se non acquistare il patrimonio del defunto nella universalità o in una quota», immediatamente aggiunge che ciò è possibile «dal momento che il patrimonio in quella forma … gli è stato assegnato»).
[nota 24] Sulla valenza dell'idea di quota nella comunione, come medio logico che consente di superare l'antitesi tra unità del diritto e pluralità dei titolari, si registra una concordia "sostanziale" di opinioni, anche da parte di coloro che, ammettendo l'esistenza di comunioni "senza quote", ritengono la quota un elemento individuante non la "categoria", ma un "tipo" (fondamentale) di comunione: in questo secondo senso, si vedano, in tempi diversi, L. BARASSI, Proprietà e comproprietà, Milano, 1951, p. 109 e ss. e M. FRAGALI, op. cit., p. 9, 109 e ss., p. 435 e ss.; per l'essenzialità "configurativa" della quota cfr., tra i molti, A. FEDELE, La comunione, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, Milano, 1967, p. 27; A. GUARINO, Comunione, dir. civ., in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 246 e ss.; A. LENER, La comunione, cit., p. 254. Una valutazione equilibrata della questione (e un indice bibliografico dei luoghi nei quali viene trattata) si legge ora in O.T. SCOZZAFAVA, voce Comunione, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, p. 6.
[nota 25] Tanto da legittimare l'idea di una afferenza dello scioglimento (inteso come vicenda modificativa, nel senso appena precisato) al profilo causale (la si verifichi in MOSCARINI, «Gli atti equiparati alla divisione», cit., p. 538, nel contesto, per altro, di una assimilazione tra contenuto e causa che forse meriterebbe qualche riflessione critica).
[nota 26] Si utilizza la già ricordata espressione di MENGONI, Divisione testamentaria, cit., p. 80 e ss. (corsivo aggiunto).
[nota 27] Questa la spiegazione tradizionale, accolta dalla prevalente dottrina (da CICU, op. ult. cit., p. 462, a MENGONI, Divisione testamentaria, cit., p. 83, a GAZZARA, voce Divisione, cit., p. 426, a FORCHIELLI e ANGELONI, Della divisione, cit., p. 731, sino a BONILINI, voce Divisione, cit., p. 494).
[nota 28] Si utilizza una formula di MOSCATI, op. ult. cit., p. 5.
[nota 29] Sulla funzione distributiva, tipica del patto di famiglia, sia consentito rinviare al nostro «Patto di famiglia e funzione divisionale», in Riv. not., 2006, p. 867 e ss. L'idea di una funzione lato sensu divisionale, normativamente assegnata al patto (quanto meno nella sua configurazione minima, disegnata dall'art. 768-bis e dai commi 1 e 2 dell'art. 768-quater) appare condivisa dalla maggior parte dei primi commentatori (si confrontino, pur con varietà di accenti, le opinioni di DE NOVA, Introduzione, in Il patto di famiglia. Legge 14 febbraio 2006, n. 55, Milano, 2006, p. 3 e DELFINI, Commento all'art. 768-quater, ivi, p. 20 e ss.; GAZZONI, «Appunti e spunti in tema di patto di famiglia», in Giust. civ., 2006, II, p. 217 e ss.; MOSCATI, Patto di famiglia e tutela dei legittimari e MASI, Relazione conclusiva, relazioni (inedite) presentate al convegno "La disciplina del patto di famiglia" svoltosi a Roma il 19 giugno 2006, VITUCCI, «Ipotesi sul patto di famiglia», in Riv. dir. civ., 2006, p. 448; ZOPPINI, «L'emersione della categoria della successione "anticipata"», in Patti di famiglia per l'impresa, nei Quaderni della Fondazione italiana per il Notariato, Milano, 2006, p. 277; IEVA, Commento all'art. 768-quater, in Le nuove leggi civili commentate, Il patto di famiglia, Padova, 2007, p. 35 e ss., e MAGGIOLO, «Commento all'art. 768-septies», ivi, p. 73, contributi che si sono potuti consultare in bozza, per la cortesia degli autori; TASSINARI, «Il patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali», in Patti di famiglia per l'impresa, cit., p. 159 e ss.). Ne propone una critica, DONEGANA, Il patto di famiglia e la divisione: inconciliabilità, in Il patto di famiglia, a cura di U. LA PORTA, Torino, 2007, p. 73 e ss., muovendo, per altro, da premesse teoriche che non tengono conto della ricostruzione in questa sede proposta; se ne discosta, altresì, DELLE MONACHE, Funzione contenuto ed effetti del patto di famiglia, saggio disponibile sul periodico telematico Iudicium, il quale, tuttavia, pare attribuire ai concetti di "funzione distributiva" e di "apporzionamento" portata diversa da quella ad essi assegnata in queste pagine.
[nota 30] La formula utilizzata evoca una serie di questioni che (toccando le stesse "strutture logiche" attraverso le quali usualmente si attribuisce rilievo agli interessi fondanti la circolazione giuridica) risultano del tutto inaffrontabili in questa sede (si pensi solo alla vastità di implicazioni problematiche connesse al binomio «corrispettività-liberalità», o a quello «causa del negozio-causa dell'attribuzione», e alla moltitudine di possibili incroci tematici cui possono condurre); su tali temi, anche una ricognizione bibliografica è impresa assai ardua: sia consentito, per questo, rinviare alle indicazioni fornite ne La condizione di inadempimento, cit., specie a p. 195, nota 138; p. 229 e ss., nota 251; p. 231 e ss., e ivi note 253-257; p. 237 e ss. e ivi nota 273. Merita, piuttosto, segnalare il peculiare significato che la nozione di «causa dello spostamento patrimoniale» assume se utilizzata in ambito divisorio: essa non implica, per il momento, una presa di posizione sul problema del titolo di acquisto della porzione, probema largamente condizionato, nell'impostazione e nelle soluzioni usuali, dal «dogma della dichiaratività» della divisione (sul quale si dovrà tornare). Perciò, l'espressione impiegata nel testo potrebbe utilmente riformularsi in quella, meno pregnante, di «causa della modificazione patrimoniale».
[nota 31] Secondo la nota espressione di BARASSI, Proprietà e comproprietà, cit., p. 770.
[nota 32] La letteratura, vastissima, viene elencata, da ultimo, da MORA, op. cit., p. 237 e ss., e spec. ivi, note 91-100, e da E. MINERVINI, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990, p. 96 e ss. e note 317 e ss. Connesso, in qualche misura, al problema della natura corrispettiva, è il dibattito circa la riconducibilità della divisione alla categoria dei contratti plurilaterali (se ne vedano i termini in G. VILLA, Inadempimento e contratto plurilaterale, Milano, 1999, spec. p. 16 e ss., p. 48 e ss.).
[nota 33] Si vedano gli AA. cit. in MORA, op. cit., p. 240, nota 101 e in E. MINERVINI, op. loc. ult. cit., alla nota 334. Sulla nozione di atto «neutro», sono ancora attuali le pagine di PIRAS, La rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1940, p. 128 e ss., di MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici con particolare riguardo ai contratti, Milano, 1942, p. 24 e ss. e di OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 290 e ss.; nonché i rilievi presenti in CARRARO, Il mandato ad alienare, Padova, 1947, rist. 1983, p. 97, nota 60, e in DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 92, nota 102.
[nota 34] Come fanno MORA, op. cit., p. 233 e ss. ed E. MINERVINI, op. cit., p. 93 e ss.
[nota 35] Così BURDESE, op. cit., p. 122.
[nota 36] ID., op. ult. cit., p. 121; E. MINERVINI, op. ult. cit., p. 99; MORA, op. cit., p. 400; G. VILLA, op. cit., p. 187 e ss.
[nota 37] Sul nucleo semantico-concettuale della corrispettività, come interdipendenza, sia consentito rinviare ancora al nostro La condizione di inadempimento, cit., p. 251 e ss.
[nota 38] Sono parole (di CICU, Divisione ereditaria, cit., p. 394), che illuminano (al di là del paradosso verbale, che può leggersi alla pagina precedente) la interessenlage oggetto del regolamento divisorio, e ne confermano la configurazione qui accolta.
[nota 39] L'opinione è tanto diffusa da costringere anche le sporadiche voci dissenzienti a riconoscerne la assoluta prevalenza (così, ad es., MIRAGLIA, Gli atti estintivi della comunione ex art. 764 cod. civ., cit. p. 4, nota 7).
[nota 40] La si legge (in riferimento all'art. 1039 del codice previgente) in RUBINO, Il negozio giuridico indiretto, Milano, 1937, p. 115 e ss., nota 5 e p. 117, richiamato da E. MINERVINI, op. cit., p. 134.
[nota 41] ASCARELLI, «Contratto misto, negozio indiretto, negotium mixtum cum donatione», in Riv. dir. comm., 1930, p. 473.
[nota 42] La formula si deve a FALZEA, Efficacia giuridica, (già in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, p. 432 e ss., ed ora) in Voci di teoria generale del diritto, 3a ed., Milano, 1985, (cui, d'ora in avanti, si riferiranno le citazioni), che la utilizza (alla p. 384 e ss.) per organizzare le varianti classiche dell'effetto (costitutività, dichiaratività, ecc.) all'interno di una sistematica delle «trasformazioni delle situazioni giuridiche» (p. 381 e ss.).
[nota 43] Il paradosso della dichiaratività della divisione nasce l'8 gennaio 1969: a chi fosse incuriosito da tale notizia, si indica la lettura di FALZEA, Efficacia giuridica, in Voci di teoria generale del diritto, cit., e in particolare della nota 103, a p. 392; utili indicazioni sul suo sorgere, anche in BESTA, Le successioni nella storia del diritto italiano, Milano, 1961, p. 249 e ss.
[nota 44] Si tratta, certo, del più clamoroso esempio di sovrastruttura dommatica che si riscontra nella elaborazione dell'istituto. Da essa origina un dibattito tuttora acceso (la cui ricognizione, anch'essa passaggio obbligato di tutte le trattazioni in tema di divisione, può qui evitarsi, rinviando, per tutti, all'ordinata esposizione di MORA, op. cit., p. 87 e ss.), nel quale forse non sarebbe il caso di entrare, se non fosse per il rilievo che il superamento (o la svalutazione) del principio dichiarativo assume anche in ordine al tema della collazione (sintesi critiche sulla discussione svoltasi intorno al valore normativo dell'art. 757 c.c., possono leggersi in FORCHIELLI e ANGELONI, Della divisione, cit., p. 49 e ss.; BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 206 e ss.; SESTA, Comunione di diritti. Scioglimento e lesione, Napoli, 1988, p. 130 e ss.; E. MINERVINI, op. cit., p. 48 e ss. e spec. p. 59 e ss.; in decisa controtendenza l'opinione difesa da MORA, op. cit., p. 87 e ss., 342 e ss., sulla quale dovremo tornare).
Sulla genesi storica del principio, e sul dibattito relativo alla sua valenza dommatica, si segnalano (oltre al confronto obbligato con CICU, Divisione ereditaria, cit., p. 367 e ss.) due letture classiche, ma ancora attuali, rispettivamente nelle pagine di BARASSI, Proprietà e comproprietà, cit., p. 770 e ss., e in quelle di BRANCA, Comunione - Condominio negli edifici, cit., p. 342 e ss.
[nota 45] I riferimenti sono a BURDESE, rispettivamente ne La divisione ereditaria, cit., p. 328 e s., e in Nuove prospettive per la qualificazione del contratto di divisione, cit., p. 559 e ss.
[nota 46] Si veda per tutti SCOZZAFAVA, op. loc. ult. cit. L'abbandono della tesi della dichiaratività della divisione costuituisce un dato ormai acquisito all'odierna discussione (cfr. tra i più recenti, BURDESE, op. loc. ult. cit.; A. LENER, La comunione, cit., p. 330; FRAGALI, La comunione, cit., p. 496 e ss.; MOSCATI, op. cit., p. 3; MIRAGLIA, Divisione contrattuale e garanzia per evizione, cit., p. 107; E. MINERVINI, op. cit., p. 60 e ss.).
[nota 47] Il riferimento è agli interventi di MIRAGLIA, Divisione contrattuale e garanzia per evizione, cit., p. 34 e ss., e poi soprattutto p. 95 e ss., 107 e ss., e (più recentemente) di MORA, op. cit., p. 345 e ss.
[nota 48] La qualificazione è pacifica negli autori meno (cfr., per tutti, FORCHIELLI e ANGELONI, Della divisione, cit., p. 21 e ss.; BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 85) e più recenti (MOSCATI, op. ult. cit., p. 5 ed E. MINERVINI, op. cit., p. 176 e ss., e ivi note 91 e 102, in cui ulteriori citazioni).
[nota 49] Sono i casi che frappongono, alla normale interpretazione dell'art. 757, c.c., le più gravi difficoltà: capita così di leggere, anche in chi massimamente difende il valore tipizzante della norma (e del conseguente principio di non traslatività della divisione, che essa dovrebbe sancire) che «è palese che, relativamente al danaro dei conguagli, il corede non può essere considerato solo ed immediato successore del de cuius» ; ma, poi, che sebbene l'art. 757 c.c., qualifichi il meccanismo di «passaggio dalla situazione di contitolarità ad una pluralità di proprietà solitarie, stabilendo appunto che non si attuano trasferimenti di diritti», la sua formula è talmente ampia che «consente di estendere il principio della successione diretta tra coeredi ed ereditando anche in ipotesi … che utilizzino schemi traslativi di diritti, ma comunque caratterizzate dall'effetto di fare cessare la comunione» (MIRAGLIA, op. ult. cit., p. 42-44).
[nota 50] Lo intuisce la stessa opinione qui criticata, affermando che nel caso del conguaglio il «trasferimento avviene in funzione divisoria e non in funzione di scambio»; senza trarne per altro le dovute conseguenze, per l'assorbente preoccupazione di salvare ad ogni costo il dogma della dichiaratività (MIRAGLIA, op. loc. ult. cit.).
[nota 51] L'espressione è di SESTA, Comunione di diritti scioglimento lesione, cit., p. 132, criticato, ovviamente (ma a torto) da MIRAGLIA, op. ult. cit., p. 42 e ss.
[nota 52] BRANCA, Comunione - Condominio negli edifici, cit., p. 342.
[nota 53] Anche qui si tratta di formula onnipresente (sin dai tempi di CICU, «La natura dichiarativa della divisione nel nuovo codice civile», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1947, p. 5 e ss.), anche se utilizzata in direzioni a volte divergenti (cfr. A. LENER, La comunione, cit., p. 330).
[nota 54] L'opinione (e il passo riportato) si leggono in E. MINERVINI, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 55. Va rilevato, d'altro canto, che poco prima lo stesso Minervini (correttamente) riferisce, sia la disciplina della rescissione divisoria (op. ult. cit., p. 39 e ss.), sia quella dell'evizione (op. ult. cit., p. 46 e ss.), al principio di proporzionalità, confermando così che la proposta di un diverso fondamento, avanzata di lì a poco è frutto della confusione che nel testo si va criticando.
[nota 55] Il che assicura argomentazione più consistente, come si era sopra annunciato, alla intuizione di chi, come noi, assimila la divisione "pecuniaria" a quella naturale, come nucleo centrale del tipo divisorio: il richiamo alla «natura delle prestazioni di conguaglio» (presente in E. MINERVINI, op. ult. cit., p. 181 e ss., senza ulteriori sviluppi) allude, in qualche misura, alla problematica appena esposta, ma non basta ancora a fornire base razionale alla soluzione accolta.
[nota 56] Tra gli AA. cit. nella nota precedente, fa eccezione il solo Minervini, cui allude il riferimento alla «voce isolata» contenuto in appresso nel testo.
[nota 57] I criteri interpretativi sono, anche qui, quelli segnalati da SESTA, op. loc. ult. cit.
[nota 58] è la notissima tesi di CICU, Divisione ereditaria, cit., spec. p. 537 e ss.
[nota 59] Proposta da ANDREOLI, Contributo alla teoria della collazione delle donazioni, Milano, 1942, p. 14 e ss., 30 e ss.
[nota 60] Avanzata, in tempi più recenti da AZZARITI, La divisione, nel Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, 6, ora in 2a ed., Torino, 1997, p. 437).
[nota 61] La dottrina cui si allude è quella di MENGONI, «Recensione a FORCHIELLI, La collazione», in Riv dir. civ., 1959, I, p. 119 e ss., che in tal modo coglieva con nitidezza il nucleo del problema costruttivo sollevato dalla collazione; nella letteratura recente, una difesa (anzi, una sorta di rivalutazione) del principio può leggersi in MORA, Il contratto di divisione, Milano, 1995, p. 87 e ss., 342 e ss.; diversi (e più equilibrati) accenti, in E. MINERVINI, op. cit., p. 60 e ss. (su entrambe le posizioni, e più in generale sul persistente peso del dogma della dichiaratività, si rinvia a quanto osservato in Divisione ereditaria e collazione, Padova, 2000, ed. provv., spec. p. 119 e ss.).
[nota 62] Tra le decisioni più recenti, si vedano Cass. 17 novembre 1979, n. 5982, in Riv. not., 1981, p. 575; Cass. 8 febbraio 1986, n. 796, in Giust. civ. Rep., 1986, voce Divisione, n. 14, p. 822; Cass. 7 giugno 1993, n. 6358, in Giust. civ. Mass., 1993, p. 998); l'unica voce dissenziente sembra essere quella di Cass. 6 giugno 1969, n. 1988, in Giur. it. Mass., 1969, p. 823. In dottrina mancano, salvo rare eccezioni, opinioni esplicitamente contrarie all'operatività della collazione in caso di divisione testamentaria; più spesso, il pensiero degli autori, sul punto, può ricavarsi dalla posizione assunta in ordine alla fattispecie affine (anche se non sovrapponibile) della successione apertasi in mancanza di un relictum da dividere. In questa prospettiva, dovrebbero ritenersi contrari AZZARITI, «Collazione e riduzione», in Giur. it., 1971, I, 1, p. 452 e ss.; ID., La divisione, cit., p. 442; CARUSI, Le divisioni, Torino, 1978, p. 191, nota 25; CARNEVALI, op. cit., p. 473 e ss. e ivi, nota 10; VISALLI, op. cit., p. 106 e ss. Favorevoli, viceversa, all'operare della collazione, anche in mancanza di un relictum da dividere, sono (coerentemente alla soluzione accolta in ordine alla divisione del testatore) FORCHIELLI, Rilevanza della collazione, cit., c. 238, nonché Collazione, cit., p. 3 e ss.; BURDESE, op. loc. cit., in nota 69.
[nota 63] Cass. 5 marzo 1970, n. 543, in Giur. it., 1970, I, 1, p. 1422, e Cass. 17 novembre 1979, n. 5982, in Riv. not., 1981, p. 575.
[nota 64] Per una prima dimostrazione dell'assunto, sia consentito rinviare al nostro «Patto di famiglia e funzione divisionale», in Riv. not., 2006, p. 867 e ss., poi sviluppato in «Profili funzionali del patto di famiglia», in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 345 e ss., ove anche ulteriori richiami.
[nota 65] Pur se intesa nel senso illustrato supra, nella prima parte del n. 4.
[nota 66] Si tratta del trasferimento, sul piano della teoria generale delle cause di attribuzione, di una prospettiva d'indagine indicata, e percorsa con specifico riguardo all'estensibilità rimedio rescissorio oltre l'ambito strettamente divisionale, da SESTA, Comunione di diritti scioglimento lesione, cit., in tutto il capitolo terzo (p. 45 e ss.).
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