L'autonomia testamentaria ed il regolamento divisionale: i diversi interventi del testatore nella divisione
L'autonomia testamentaria ed il regolamento divisionale: i diversi interventi del testatore nella divisione
di Carmine Romano
Notaio in Napoli

Considerazioni introduttive. La divisione del testatore quale punto di verifica dell'attualità dello strumento testamentario nel disciplinare il passaggio generazionale della ricchezza

Il codice del 1942, innovando notevolmente rispetto alle previsioni della precedente codificazione, riconosce al testatore ampi poteri di intervento nel regolamento divisionale. In particolare, il combinato disposto degli articoli 733 e 734 c.c. prevede due forme, di diversa intensità, di partecipazione del testatore alle operazioni divisionali: la prima (tradizionalmente qualificata in termini di assegno divisionale semplice) ricorre allorquando alla scheda testamentaria siano affidare disposizioni con le quali il testatore intenda "orientare" la futura divisione, che troverà comunque titolo in un contratto stipulato tra i coeredi. Si suole affermare, in dottrina, che in questo caso le disposizioni del testatore hanno valenza puramente obbligatoria, non impediscono il sorgere della comunione ereditaria all'apertura della successione, vincolano i coeredi alla osservanza delle disposizioni testamentarie allorquando si siederanno intorno al tavolo divisionale. Trattasi di istituto sconosciuto alla nostra tradizione, vicino ad esperienze di ordinamenti germanici.

Diverse, e più pregnanti, sono le attribuzioni riconosciute al testatore dal disposto dell'articolo 734 c.c.: in questo caso, il testamento contiene un regolamento negoziale completo ed autosufficiente, che opererà con efficacia "reale" al momento dell'apertura della successione, sì che ciascun coerede, accettata l'eredità, acquisterà direttamente cespiti individuati dal testatore, non partecipando alla comunione ereditaria (si parla, in tal caso, anche di assegni divisionali qualificati). Con la disposizione dell'articolo 734 c.c., il legislatore generalizza la divisio inter liberos prevista dal codice del 1865, laddove la facoltà di dividere tra i coeredi le sostanze ereditarie era consentita al solo ascendente rispetto ai figli ed ai propri discendenti. In dottrina [nota 1] si è perspicuamente sottolineato come, attraverso il riconoscimento al testatore del potere di realizzare un regolamento divisionale completo ed organico, si determini un sensibile ampliamento dei margini operativi riservati dall'ordinamento all'autonomia del testatore, il cui intervento non si esaurisce nell'individuazione dei destinatari della vocazione ereditaria e nella determinazione della quota oggetto di delazione, ma comprende altresì la possibilità di determinare il contenuto qualitativo della quota stessa.

Le possibilità di regolamento testamentario delle operazioni divisionali, sotto varie forme e con diversa intensità, si arricchiscono in considerazione di altre previsioni normative, quali l'art. 713 c.c., che riconosce al testatore la facoltà di disporre la sospensione temporanea della divisione, e l'art. 706 c.c., norma questa che ammette l'eventualità che il de cuius affidi ad un esecutore testamentario la predisposizione del piano di riparto delle sostanze ereditarie tra i coeredi.

Proseguendo nell'esatta determinazione della fattispecie oggetto di indagine, giova rilevare come esulino dal tema del regolamento divisionale di fonte testamentaria altri strumenti che l'ordinamento riconosce al testatore onde ripartire il proprio patrimonio tra i delati: il pensiero va, in particolare, alle ampie possibilità operative offerte dai legati, nonché all'istitutio ex re certa, contemplata dall'art. 588 comma 2 c.c., le cui interrelazioni con la divisione testamentaria formeranno oggetto di successive considerazioni. In simili fattispecie, invero, può affermarsi che soltanto sul piano pratico si realizzi un risultato lato sensu divisionale, mancando un programma unitario ed organico di ripartizione dell'asse: trattasi, in particolare, di attribuzioni di sostanze del de cuius, a titolo particolare o universale, che non trovano giustificazione in un disegno distributivo dallo stesso consegnato alla scheda testamentaria.

Individuate le principali forme di intervento del testatore nelle operazioni distributive, l'analisi che ci si appresta a condurre ha quale obiettivo quello di verificare le potenzialità operative di un simile intervento, e ciò al fine di comprendere se lo strumento testamentario sia in grado di offrire risposte attuali al tema, sempre più pressante, del passaggio generazionale della ricchezza. In argomento, sia consentito notare come, in materia testamentaria, il prepotente affermarsi di nuove istanze pratiche, cui ha fatto riscontro la rigidità nella interpretazione ed applicazione dei principi in materia successoria, ha condotto ad un fenomeno definito in dottrina quale "fuga" dalla forma giuridica per definizione prevista dal legislatore per l'attribuzione delle sostanze per il tempo successivo alla morte, essendosi imposti altri strumenti, che hanno determinato l'affermazione di fattispecie "parasuccessorie" [nota 2]. Nelle pagine che seguono, pertanto, si tenterà di comprendere se è possibile recuperare al testamento, e nella specie alle disposizioni dettate dal testatore in sede divisionale, una "centralità" nel passaggio generazionale della ricchezza, e ciò nel convincimento che sia doverosa operazione ricostruttiva quella volta a comprendere tutte le potenzialità applicative di un istituto, e ciò anche alla luce delle sollecitazioni di ordine sistematico provenienti dall'affermarsi nel nostro ordinamento di nuove forme giuridiche [nota 3].

Concentrando principalmente l'attenzione sulla divisione del testatore ex art. 734 c.c., nella successiva analisi sarà pertanto dato ampio spazio alla soluzione di tematiche salienti e di elevata problematicità connesse alla stessa, quali la ammissibilità della previsione di conguagli, la possibilità di apporzionare interamente un coerede con denaro non ereditario, il rispetto dei diritti dei legittimari, temi questi sui quali l'intervento del testatore nella divisione è stato sottoposto a continua "verifica" in sede giurisprudenziale. Tuttavia, fermo è il convincimento che la compiuta comprensione in ordine alle potenzialità di siffatto intervento, nelle sue diverse connotazioni, imponga, in via preliminare, una attenta ricostruzione dello stesso su un duplice piano, ossia su quello del contratto di divisione e su quello testamentario: solo il confronto con le pervicaci convinzioni, che talvolta assumono il significato di autentici dogmi, formatisi in dottrina, consentirà di dare una fisionomia compiuta alla materia in oggetto, dovendosi in primo luogo chiarire se la peculiare sede in cui è calato il regolamento divisionale, ossia la scheda testamentaria, determini l'operare di principi e criteri differenti da quelli sottesi ad una divisione contrattuale.

L'intervento del testatore in materia divisionale, lungi dal configurarsi quale tema specialistico, appare dunque quale argomento di impressionante centralità sia nella ricostruzione del contratto di divisione sia nella ricerca dei pieni e più pregnanti significati del negozio testamentario. Riprendendo il tema del mio intervento, si può affermare che trattasi di figura sospesa tra contratto di divisione e autonomia testamentaria, che risente più di ogni altra dei significati attribuiti e delle scelte dogmatiche compiute in ordine a ciascuna delle sue componenti fisionomiche.

La divisione del testatore nella teoria del contratto di divisione. Il regolamento divisionale quale categoria funzionale e non strutturale

La possibilità, riconosciuta al testatore, di affidare alla scheda testamentaria un programma divisionale completo, efficace sin dalla apertura della successione, ha attribuito all'istituto della divisione del testatore quella che sia consentito definire una "carica eversiva" rispetto alle consolidate e rassicuranti convinzioni in ordine alla qualificazione causale del contratto di divisione: proprio dall'istituto oggetto delle nostre riflessioni è partita, infatti, una rimeditazione dei caratteri qualificanti della causa divisionale, processo questo che trova testimonianza nella relazione del prof. Amadio, che segna uno dei momenti più estremi di questa linea evolutiva che ha segnato l'approccio dottrinale al tema.

Invero, la difficoltà incontrata dagli studiosi nella ricostruzione dell'istituto in oggetto nasce dalla diffusa qualificazione del profilo funzionale della divisione in termini di scioglimento di uno stato di preesistente comunione attraverso apporzionamento, ossia attraverso assegnazioni di utilità di valore pari alla porzione spettante a ciascun condividente: in tale prospettiva, pertanto, l'apporzionamento è mezzo, lo scioglimento della comunione è fine del regolamento divisionale. Ciò posto, la problematicità ricostruttiva di una divisione affidata alla scheda testamentaria trova fondamento nella considerazione per la quale le disposizioni dettate dal testatore, operando sin dal momento dell'apertura della successione, precludono il sorgere stesso di uno stato di comunione tra i coeredi, rendendo difficile l'individuazione, nel caso di specie, del principale termine di riconoscimento della causa divisionale, quale innanzi prospettata. è per questa ragione che la dottrina formatasi sotto il vigore del precedente codice [nota 4], con un iter argomentativo ripreso anche in qualche più recente elaborazione dell'istituto [nota 5] , fa ricorso all'espediente concettuale di ritenere che all'apertura della successione si formi, in un istante ideale o per taluno fattuale, uno stato di comunione ereditaria, che in un momento logico successivo viene sciolto per effetto del regolamento divisionale. La fattispecie realizzerebbe, pertanto, una singolare inversione logica di fattori, per effetto della quale, prima ancora dell'instaurarsi della comunione tra coeredi, si crea il titolo (un regolamento negoziale di fonte testamentaria) per lo scioglimento della stessa, regolamento in grado di operare non appena si realizzi quello che sia consentito definire il presupposto funzionale, ossia il formarsi di uno stato di comunione tra coeredi. La tesi in oggetto ha, quale importante conseguenza, la configurazione di un duplice "trasferimento" delle sostanze ereditarie, dal patrimonio del de cuius alla "comunione ereditaria", da questa al patrimonio di ciascun assegnatario.

Gli imbarazzi ricostruttivi sollevati da una "divisione senza comunione" hanno costituito, in dottrina, l'occasione per una complessa rimeditazione dell'istituto in oggetto, caratterizzata da un approccio teleologico fondato sulla analisi degli scopi che muovono il testatore. Quest'ultimo, nell'affidare alla scheda testamentaria un compiuto regolamento divisionale, non ha in animo lo scioglimento di una comunione che non è ancora sorta al momento della redazione del testamento e non ha tempo di sorgere (per l'immediato operare del regolamento divisionale) al momento dell'apertura della successione. Il testatore, al contrario, è mosso da uno scopo tipicamente distributivo, l'attribuzione di sostanze di valore corrispondente alla quota di coeredità, lasciandosi guidare da un principio di proporzionalità che costituisce misura delle diverse assegnazioni [nota 6]. L'apporzionamento non conduce, in tal caso, allo scioglimento della comunione, ma a prevenire lo stesso instaurarsi di una situazione di contitolarità tra coeredi.

È ancora possibile parlare di fenomeno tipicamente divisionale? La risposta a tale interrogativo impone, in via preliminare, di valutare quali siano gli scopi che muovono i condividenti nel momento in cui si siedono al tavolo della divisione contrattuale: ciascuno di essi mira a vedersi assegnati beni di valore corrispondente alla quota di contitolarità, secondo un principio di proporzionalità. è questo, altresì, l'interesse che muove i coeredi i quali si rivolgano all'autorità giudiziaria affinché realizzi una divisione giudiziale, ovvero allorquando pongano in essere uno dei cosiddetti "atti diversi dalla divisione" [nota 7].

Dinanzi al comune dato teleologico, "scolorano" le diversità strutturali che connotano le diverse fattispecie appena esposte: lo scopo di apporzionamento può essere realizzato sciogliendo una precedente comunione o precludendo lo stesso formarsi di uno stato di contitolarità, e ciò attraverso un tipico contratto di divisione, un atto ad esso equiparato, un regolamento di fonte testamentario. Il proprium di un fenomeno tipicamente divisionale va, allora, colto non nella struttura prescelta per attuarlo, ma nello scopo perseguito. La divisione diventa, in tal modo, categoria funzionale e non strutturale [nota 8].

Le diversità fisionomiche tra la divisione contrattuale, che presuppone uno stato di comunione e conduce al suo scioglimento, e divisione testamentaria, che previene ed impedisce - in ragione della sua "realità" - il sorgere stesso di uno stato di comunione, non precludono, allora, di cogliere nelle due fattispecie una medesima impronta funzionale, ravvisata nello scopo di apporzionamento, in vista del quale le diverse attribuzioni operate dal testatore perdono una propria autonomia ontologica componendosi in un più ampio disegno, nel cui ambito si giustificano e del quale devono rispettare gli equilibri, le proporzioni, contribuendo alla realizzazione del risultato finale [nota 9]. Lo scopo distributivo unitariamente imposto dal testatore determina in tal modo un nesso di reciproca interdipendenza funzionale tra le assegnazioni in vista di una causa unica, la distribuzione pro quota di una massa patrimoniale [nota 10] .

L'analisi del fenomeno in chiave teleologica conduce, allora, ad un completo ribaltamento di prospettiva rispetto alla dottrina tradizionale: l'apporzionamento non è meramente strumentale rispetto allo scioglimento della comunione, ma rappresenta il fine ultimo del testatore come dei condividenti, intorno al quale è possibile creare una categoria funzionale caratterizzata dallo scopo distributivo [nota 11].

Giunto a tali esiti, il processo di rimeditazione della causa divisionale - che muove principalmente, giova ripeterlo, dalle peculiarità della divisione del testatore - è chiamato ad affrontare un ulteriore, importante banco di prova: si è detto, nelle considerazioni precedenti, che il regolamento divisionale costituisce categoria funzionale imperniata sull'assegnazione di sostanze di valore corrispondente alla quota. Ebbene, questo "marcatore funzionale" si realizza, nella divisione del testatore, impedendo il sorgere stesso della comunione ereditaria: appare allora evidente come il primo parametro di riferimento dell'operazione di apporzionamento non possa essere rappresentato da una quota di contitolarità, giacché uno stato di comunione tra i coeredi non si verifica in alcun momento. In argomento, la più attenta dottrina sottolinea come la quota, che il testatore considera nel formare le porzioni, sia quella di coeredità: essa va intesa quale oggetto di vocazione ereditaria, criterio per qualificare il lascito come disposizione a titolo universale [nota 12]. Un esempio consente di comprendere, con immediatezza, tale ultima affermazione. Si pensi al testatore che istituisca eredi i propri tre figli nella quota di un terzo ciascuno e proceda a dividere tra gli stessi le sostanze ereditarie: ebbene, il risultato giuridico/economico del regolamento divisionale è quello dell'assegnazione di beni di valore corrispondente alla quota di coeredità. Non c'è nessun momento di comunione, nessuna contitolarità, eppure l'apporzionamento - carattere fisionomico tipico della causa divisionale - opera con i significati propri. Le assegnazioni realizzate dal testatore in funzione distributiva, ossia con l'intento di realizzare un riparto per quote dei propri beni, «postulano necessariamente la qualità ereditaria dei condividenti: ove facessero difetto due o più vocazioni ereditarie, non avrebbe alcun senso continuare a parlare di apporzionamento, perché verrebbe meno l'esistenza stessa delle quote» [nota 13].

L'aver creato una categoria funzionale imperniata sull'apporzionamento presenta un importante corollario di ordine disciplinare, consentendo l'applicazione a tutte le fattispecie negoziali, che condividano tale scopo, la normativa materiale dettata in tema di divisione: il pensiero va, in particolare, alle norme sulla rescissione per lesione e sulla garanzia per evizione.

La divisione del testatore nella teoria del testamento

Nel percorso ricostruttivo diretto a chiarire i tratti fisionomici della divisione testamentaria ed i suoi possibili esiti, si impone un ulteriore, importante passaggio, costituito dall'approfondimento della figura de qua nell'ambito della teoria del testamento. Sovente, infatti, ad una compiuta ricostruzione della vicenda effettuale, da ascrivere al regolamento divisionale di fonte testamentaria, ha creato ostacolo l'assimilazione tra la figura oggetto di indagine e la institutio ex re certa, contemplata dall'articolo 588 comma 2 c.c. Nell'opinione tradizionale, affermazione quanto mai diffusa è quella del legame sistematico tra gli istituti in oggetto, premessa metodologica che ha condotto, da un lato, ad uno studio congiunto degli stessi, dall'altro alla verifica della legittimità giuridica di un tertium genus di assegnazioni testamentarie, la cosiddetta "divisione del testatore senza predeterminazione di quote".

L'affermazione del legame sistematico tra tali istituti ha, tuttavia, sovente condotto alla acritica applicazione, alla divisione del testatore, di principi propri dell'attribuzione di sostanze ereditarie ex art. 588 c.c. Il rapporto tra le due figure va, dunque, in questa sede rimeditato, comprendendone i reali significati. L'accostamento tra le stesse, infatti, è corretto nei soli limiti in cui, con esso, si colga il comune denominatore tra le due fattispecie, rappresentato dalla possibilità, riconosciuta al testatore, di assegnare beni determinati nel quadro di una successione a titolo universale: «se il testatore può assegnare una porzione concreta di beni in funzione di quota, a maggior ragione può assegnarla come concretamento di una quota astrattamente predeterminata» [nota 14]. Ciò posto, l'assimilazione non regge più se dal dato appena esposto si passa alla qualificazione funzionale. Con la istitutio ex re certa il testatore attribuisce sostanze ereditarie ed in questo modo istituisce eredi: l'attribuzione di beni ereditari ha, pertanto, valenza "qualificatoria". Dalle considerazioni appena esposte si desume come sia inammissibile che una attribuzione operata ex art. 588 comma 2 c.c., abbia ad oggetto beni non ereditari, giacché in tal caso essa non avrebbe alcun significato istitutivo [nota 15]. Analogamente, non si pone in tale fattispecie alcun problema di conguagli, giacché non vi sono necessità perequative dovute all'apporzionamento; infine, il testatore è tenuto al rigoroso rispetto dei principi in materia di composizione della quota dei legittimari, composizione che potrà essere la più varia, ma che dovrà comunque investire sostanze facenti parte dell'asse ereditario.

Considerazioni diverse valgono per il regolamento divisionale di fonte testamentaria: presupponendo già realizzata la fase istitutivo/attributiva, esso risponde a logiche squisitamente distributive, dovendo mirare all'apporzionamento, ossia all'assegnazione di utilità di valore corrispondente alle quote determinate dal testatore. In tal caso, pertanto, l'assegnazione di sostanze non qualifica quali eredi i beneficiari, già espressamente istituiti in quote astratte, ma consente di operare il riparto delle sostanze ereditarie secondo il programma divisionale. L'assunto si rivela, invero, estremamente interessante ai fini della nostra analisi: come rilevato in dottrina, il concetto di divisione è più ampio e complesso di quello di attribuzione, e ciò in quanto esso comprende non soltanto l'attribuzione di beni determinati, ma altresì il compimento di una serie di operazioni diverse, finalizzate all'assegnazione di valori corrispondenti alla quota [nota 16].

Prima di sviluppare, sul piano ricostruttivo, le premesse concettuali testè formulate, appare ancora interessante soffermare la nostra attenzione sulle ragioni per le quali la dottrina tradizionale abbia "attratto" la riflessione in ordine alla divisione del testatore nell'ottica della fase attributiva, non riconoscendo ad essa autonomi significati funzionali. Ebbene, le ragioni di siffatta tendenza ricostruttiva risiedono nella convinzione - radicata nella dottrina tradizionale - secondo cui la funzione che il testamento è chiamato ad assolvere sia, unicamente, quella dell'attribuzione delle sostanze del testatore per il tempo in cui avrà cessato di vivere: ogni altra disposizione testamentaria risulta intimamente connessa, sul piano genetico e funzionale, alle attribuzioni operate dal testatore, ed in tale prospettiva va spiegata. Il tema, quanto mai interessante, può essere solo accennato in questa sede [nota 17].

La natura esclusivamente attributiva del negozio testamentario è fondata su una rigorosa interpretazione del combinato disposto degli artt. 587 e 588 c.c.: per la prima norma, il testamento è atto revocabile con cui taluno dispone delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere; il principio in oggetto viene specificato dall'art. 588 c.c., a norma del quale siffatta disposizione può avvenire attraverso gli istituti tipici dell'istituzione di erede e del legato [nota 18].

Si ritiene che, nel definire il testamento, il legislatore abbia usato il termine "disporre" nel suo significato tecnico-giuridico, ritenendo dunque tale il negozio con cui si attribuiscano, per il tempo successivo alla morte, le proprie sostanze a titolo di erede o di legato.

Nell'orientamento tradizionale, pertanto, funzione attributiva del testamento e tipicità delle disposizioni attraverso cui tale funzione si realizza, rappresentano principi intimamente connessi. Difatti, l'affermazione della portata esclusivamente attributiva del testamento, costituendo l'istituzione di erede ed il legato le forme attraverso cui tale attribuzione si realizza nel quadro di una successione a titolo universale o particolare, conduce alla conclusione della tipicità delle disposizioni testamentarie [nota 19]: negli articoli 587 e 588 c.c. viene, pertanto, ravvisato un coerente disegno legislativo, nel quale alla precisa predeterminazione della funzione testamentaria fa riscontro una rigorosa conformazione dei poteri del testatore [nota 20].

Un decisivo contributo alla tesi in oggetto viene offerto dalla particolare configurazione dei rapporti tra successione legittima e successione testamentaria: con l' entrata in vigore del codice del 1942, alcuni dei più autorevoli studiosi espressi dalla cultura giuridica italiana [nota 21], reagendo alle vecchie concezioni esasperatamente individualistiche (che si richiamavano alla volontà presunta del de cuius), individuano il fondamento della successione legittima nei doveri morali e sociali dell'individuo nei confronti della propria famiglia. Si ritiene, perciò, di dover riconoscere prevalenza alla successione ab intestato rispetto a quella testamentaria, e ciò in quanto al superiore interesse alla tutela della famiglia deve essere ascritto un ruolo prioritario rispetto alla tutela della volontà del testatore. L' art. 457 comma 2 c.c., a norma del quale «non si fa luogo alla successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria» viene interpretato nel senso che la vocatio ex lege, istituzionalmente volta al perseguimento di un fine di interesse di rilevanza generale, sia la regola, laddove il testamento, a fondamento del quale militano istanze strettamente individuali, costituisca l'eccezione alla regolamentazione legislativa del fenomeno successorio [nota 22]. Affermare la prevalenza, sul piano dei valori normativi, della vocatio ex lege significa riconoscere al de cuius un'unica possibilità per derogare e "vincere" la regolamentazione legale: attribuire in diverso modo le sostanze ereditarie.

Acquisita tale prospettiva del fenomeno successorio, la divisione del testatore (e, a maggior ragione, l'assegno divisionale semplice) costituiscono, nella dottrina tradizionale, disposizioni che si giustificano e vanno spiegate nell'ambito del programma attributivo divisato dal testatore, a completamento dello stesso; una volta effettuate le attribuzioni (prius indefettibile della funzione testamentaria), è riconosciuta al testatore anche la possibilità di specificare i beni da assegnare a ciascun coerede.

Il background teorico appena esposto giustifica l'orientamento tradizionale che ricostruisce in termini di negozio unitario l'istituzione di erede con successivo apporzionamento [nota 23]. La cosiddetta teoria monistica riconosce nell'istituto in oggetto una fattispecie strutturalmente unica, avente natura di atto di disposizione a titolo universale: le istituzioni in quota astratta e l'apporzionamento operato dal testatore attraverso un complesso di assegnazioni specifiche sono così profondamente compenetrati da perdere ogni autonomia strutturale confondendosi in un'unica figura negoziale [nota 24]. La scheda testamentaria, nel caso di specie, si risolve in un complesso organico di disposizioni a titolo universale in funzione di apporzionamento: non è possibile, in altri termini, riconoscere autonomia strutturale e funzionale alla distribuzione di sostanze ereditarie rispetto all'attribuzione delle stesse. La descritta fattispecie sarebbe dunque caratterizzata dalla coesistenza di una struttura attributiva e di una funzione distributiva: le disposizioni si compongono in vista di un unico effetto giuridico - l'acquisto immediato di beni determinati a titolo di apporzionamento ereditario - divenendo così elementi costitutivi di un unico negozio di disposizione, e dunque «elementi organici di un'unica causa negoziale» [nota 25], il che ne consente l'inquadramento nell'ambito della teoria generale delle disposizioni a titolo universale.

La ricostruzione in oggetto trova puntuale conferma nella giurisprudenza di legittimità, ove si afferma come, dettando norme per la divisione, «il testatore, in sostanza, compie una disposizione attributiva, attribuisce cioè i suoi beni in quel determinato modo e con quelle determinate modalità ai soggetti indicati» [nota 26].

Progressivamente, tuttavia, la tradizionale ricostruzione dei possibili contenuti della scheda testamentaria si rivela inappagante, tale da mortificare le molteplici possibilità operative, e dunque la versatilità sul piano effettuale, del negozio testamentario.

Viene, in primo luogo, sottoposto a revisione critica il tema dei rapporti tra successione legittima e testamentaria: in particolare, l'assunto per il quale la vocatio ab intestato trovi il proprio fondamento in superiori ragioni sociali di tutela dell'organismo familiare viene smentito sia dalla considerazione dei valori costituzionali sia dalle istanze provenienti dallo stesso sistema successorio. Si nota, infatti, come la tesi in parola tragga origine da una inesatta valutazione dell'istituto della famiglia. Se davvero la successione legittima avesse fondamento nell'esigenza di tutela di questa, quale istituto di rilevanza sociale, sarebbe intuitivo concludere che, nella materia de qua, il legislatore abbia dato rilevanza ad una nozione estremamente ampia di famiglia, tale da ricomprendere addirittura i parenti di sesto grado. Tale dato, tuttavia, si pone in stridente contrasto con la considerazione per la quale, tanto sul piano politico-sociale quanto su quello giuridico - costituzionale, il concetto di famiglia è ormai ricondotto alla comunità domestica, quale cellula sociale unitaria che comprende genitori e figli [nota 27]. L'analisi del sistema successorio testimonia, inoltre, come sia nelle norme dettate in materia di legittimari che l'interesse successorio dei membri della famiglia (nell'accezione ristretta di cui si è detto) assurge a principio di ordine pubblico, limitando perciò il potere dispositivo del de cuius.

Superato l'assunto del fondamento pubblicistico-familiare dalla vocazione intestata, è stato agevole abbandonare altresì il "dogma" della prevalenza della stessa sulla vocazione testamentaria, e dunque della tassativa predeterminazione dei margini di operatività dell'autonomia del testatore.

In tale ottica, si assiste ad un convinto ripensamento della stessa norma definitoria dell'articolo 587 c.c. , per il quale il testamento è atto con cui taluno "dispone" delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Invero, proprio un'interpretazione letterale di tale ultima norma - quale quella offerta dall'orientamento tradizionale - genera numerose perplessità. Se, infatti, per disposizione patrimoniale deve intendersi la produzione, a favore di un soggetto, di un vantaggio suscettibile di valutazione economica (consistente nell' acquisto di un diritto, nella liberazione da un obbligo o da una responsabilità, nella rimozione di un limite, ecc.) [nota 28], con l'ulteriore precisazione che detto vantaggio debba essere riconducibile in via diretta, e non mediata, all'atto di autonomia, ebbene tale risultato non viene necessariamente raggiunto nell'heredìs institutio e nel legato, ossia nelle due disposizioni cui, secondo la richiamata dottrina, il legislatore avrebbe tipicamente assegnato il ruolo di realizzare le attribuzioni testamentarie. Si pensi, quali esempi paradigmatici, al caso di damnosa hereditas ovvero all'ipotesi di legato gravato da un peso (avente natura di sublegato o onere) che ne assorba completamente il valore. In tali fattispecie, è difficile ravvisare un vantaggio patrimoniale diretto in capo all'erede o al legatario, pur non negandosi cittadinanza giuridica e validità a disposizioni di tale genere. Ne consegue, allora, che l'esposta configurazione in termini meramente attributivi della causa testamentaria costituisce interpretazione formalistica, e perciò semplicistica, del dato normativo, volta ad attribuire al termine "disporre" un significato tecnico-giuridico che esso, invero, non può avere.

Ma la teoria innanzi esposta desta perplessità anche per la sbrigativa quanto semplicistica qualificazione, in termini di accessorietà - rispetto a negozi di trasmissione delle sostanze del de cuius - di particolari disposizioni che il legislatore ammette siano contenute nella scheda testamentaria.

Il riferimento va a numerose disposizioni previste nel sistema successorio, e tra queste un ruolo di centrale importanza rivestono le norme che prevedono e disciplinano diverse forme di partecipazione del testatore alla divisione delle sostanze ereditarie. Proprio in ragione delle ampie possibilità operative che il legislatore stesso riconosce al testatore (volgendo lo sguardo al di fuori della materia oggetto di indagine, si pensi alle disposizioni per il pagamento e la ripartizione delle passività, alla dispensa da collazione e dall'imputazione, al divieto testamentario di alienazione) può affermarsi che il testamento in senso "sostanziale" sia negozio dal più ampio respiro, la cui "causa generica" è quella di consentire in vario modo al testatore di regolare i propri interessi patrimoniali per il tempo in cui avrà cessato di vivere: riconducibile a tale funzione è, pertanto, qualsiasi regolamentazione di interessi patrimoniali post mortem contenuta in un atto di ultima volontà. La trasmissione dei diritti è soltanto un tassello di un mosaico ben più ampio ed eterogeneo, tassello che - si badi bene - potrebbe anche mancare senza che ciò metta in discussione i tratti fisionomici del negozio testamentario. Nell'ambito della richiamata regolamentazione, il testatore può decidere infatti di affidare l'attribuzione di sostanze ereditarie alla vocatio ex lege, disciplinando nella scheda testamentaria soltanto interessi non attributivi.

Ridisegnata la funzione che il testamento è chiamato ad assolvere, il regolamento divisionale di fonte testamentaria acquista significati propri nella predisposizione dell'assetto successorio inteso in senso ampio: esso realizza una funzione tipicamente distributiva, diretta all'assegnazione di beni di valore proporzionale alla quota, ed in tal senso è soggetto a logiche e principi diversi da quelli propri dell'istituzione di quota, benché realizzata attraverso attribuzioni ex certa re. L'autonomia funzionale della divisione del testatore consente di ravvisare nella stessa un negozio ontologicamente autonomo rispetto alla istituzione di erede: su queste rinnovate basi, e lo si farà nel prosieguo dell'analisi, vanno affrontati e risolti i temi della tutela dei legittimari, delle regole a tutela dell'apporzionamento, dell'ammissibilità dei conguagli.

A conclusione delle argomentazioni innanzi espresse, sia consentito altresì sottolineare le più estreme conseguenze della rimeditazione dei significati da ascrivere al negozio testamentario. Si è detto in precedenza che, se l'attribuzione di sostanze ereditarie non è più elemento centrale della causa testamentaria, ma uno dei possibili esiti della stessa, essa può anche mancare: si pensi all'ipotesi in cui il testatore, fatto rinvio alle disposizioni sulla successione legittima, affidi alla scheda testamentaria esclusivamente un regolamento divisionale. L'apporzionamento determinerà, nel caso innanzi prospettato, l'attribuzione di utilità di valore pari alle quote determinate ex lege. L'ammissibilità di una tale ipotesi risiede, invero, nella considerazione per la quale l'errore in cui cade la teoria "tradizionale", con riferimento alle disposizioni divisionali, è quello di ritenere che esse trovino il proprio prius logico nell'esistenza di attribuzioni testamentarie, sì che le stesse si collochino necessariamente a latere rispetto alle attribuzioni medesime. Al contrario, ciò che tali disposizioni presuppongono non è una istituzione testamentaria di erede, ma è un assetto successorio che individui le persone degli eredi e le quote degli stessi, rispetto ai quali disciplinare un regolamento divisionale completo o semplicemente prevedere canoni da osservare nella successiva divisione contrattuale. In ragione delle considerazioni innanzi espresse, la divisione del testatore integra disposizione negoziale autonoma, «avente una propria unitarietà in funzione dello scopo distributivo» [nota 29], che può presupporre la istituzione testamentaria di erede ma può anche prescinderne.

È possibile, infine, prospettare un'ulteriore, interessante, ipotesi ricostruttiva, pienamente legittima: in una prima scheda il testatore istituisce eredi in quote determinate; in un secondo testamento lo stesso procede a dividere, tra gli eredi così istituiti, le proprie sostanze. Nel caso innanzi prospettato, i due testamenti concorrono a dettare una compiuta disciplina del fenomeno successorio, il primo operando sul piano istitutivo/attributivo, il secondo sul piano squisitamente distributivo.

L'autonomia testamentaria nella predisposizione del regolamento divisionale

Riconosciuta natura autenticamente distributiva alle disposizioni divisionali di fonte testamentaria, è possibile ora valutare quali siano i limiti che il testatore incontra nel predisporre il regolamento in oggetto. In via preliminare, giova rilevare come per opinione consolidata, l'autonomia testamentaria sia in materia molto estesa, ritenendosi, in linea di principio, che ciò che sia consentito al giudice, al notaio, al comune accordo dei condividenti non possa non essere altresì concesso al testatore che proceda a divisione [nota 30]. Fissato tale principio, occorre valutare come esso si traduca sul piano strettamente tecnico.

La composizione "qualitativa" delle porzioni ed i limiti quantitativi che il testatore incontra nell'apporzionamento

Nell'indagine in ordine alle facoltà riconosciute al testatore nel procedere al riparto delle proprie sostanze, bisogna in primo luogo domandarsi se ciascun coerede assegnatario abbia diritto alla omogeneità nella composizione delle porzioni. Occorre chiedersi, in altri termini, se anche per la divisione del testatore possano operare i principi dettati, con riferimento alla divisione ordinaria, dagli articoli 718 e 727 c.c.: la prima norma prevede il diritto del coerede alla materiale divisione in natura dei beni ereditari; la seconda disposizione fissa il principio alla omogeneità qualitativa delle porzioni. Ebbene, appare condivisibile l'opinione secondo cui i principi appena esposti non trovino applicazione in materia di divisione testamentaria: in dottrina [nota 31] si è notato come le disposizioni appena richiamate abbiano il proprio fondamento nella partecipazione alla comunione di ciascun condividente, che ne preclude la estromissione senza il suo consenso da alcuno dei beni in essa compresi, principio questo che non può trovare applicazione alla divisione testamentaria ove non sussiste uno stato di contitolarità. Ne consegue che il testatore «è arbitro di formare le porzioni come meglio crede» [nota 32].

Tale conclusione va ribadita anche allorquando l'apporzionamento abbia come destinatari i legittimari: in tal senso va letta la disposizione dell'articolo 734 c.c. nella parte in cui prevede che la divisione può comprendere anche la parte non disponibile. Una interpretazione meramente letterale della disposizione in oggetto sarebbe quanto mai semplicistica, avendo quale unico significato il riconoscimento al testatore della possibilità di dividere l'intero asse ereditario tra i propri eredi. Invero, una simile facoltà discende dalle caratteristiche fisionomiche dell'istituto in oggetto. Nelle considerazioni espresse in precedenza si è, infatti, parlato di un regolamento divisionale completo, autosufficiente, in grado di operare con efficacia "reale", ossia sin dall'apertura della successione: ebbene, la divisione testamentaria non manterrebbe simili peculiarità laddove fosse limitata alla sola porzione disponibile del patrimonio relitto. La norma che riconosce al testatore la facoltà di dividere anche la porzione indisponibile deve avere, pertanto, significati più pregnanti: il disposto normativo in oggetto va interpretato nel senso che il testatore, nell'ambito del programma divisionale, può comporre come meglio crede la quota riservata ai legittimari [nota 33]. Ad una simile conclusione conduce, invero, una considerazione di carattere sistematico: sul piano attributivo/istitutivo, l'ordinamento riconosce ampia libertà al testatore di comporre, con beni del proprio patrimonio, la quota spettante al legittimario. Il riferimento va in primo luogo all'institutio ex certa re. Se, infatti, non vi sono ragioni per ritenere precluso al testatore di istituire i legittimari eredi attraverso l'assegnazione diretta di beni, ciò ha quale immediata conseguenza l'ampia libertà del testatore di scegliere quale bene attribuire al legittimario "per qualificarlo erede". Ma il riferimento va, altresì, all'estrema versatilità che, nella materia de qua, è propria dell'istituto dei legati: si pensi al legato in conto di legittima, alla discussa figura del legato con diritto al supplemento, fino al legato tacitativo di legittima, tutti strumenti questi attraverso i quali il testatore decide, nella sostanza, quali beni attribuire al legittimario.

Sarebbe allora illogico ammettere un'ampia libertà del testatore nella fase "istitutivo/attributiva" e negarla nella fase distributiva, logicamente successiva e lato sensu esecutiva della precedente. Un importante riscontro normativo alla conclusione testè espressa è offerto dalla disposizione dell'articolo 549 c.c., norma che, nel far divieto di gravare la quota di legittima con pesi o condizioni, fa salve le disposizioni date dal testatore in materia divisionale.

Sul piano quantitativo, l'autonomia del testatore nel formare le porzioni incontra il proprio principale limite nella stessa funzione distributiva riconosciuta al negozio in oggetto: se, infatti, scopo tipico dell'apporzionamento è la attribuzione di beni di valore corrispondente alla quota di cui ciascuno è titolare, le assegnazioni compiute dal testatore dovranno essere coerenti con la vocazione dallo stesso operata nel testamento [nota 34] (ovvero determinata ex lege, essendosi ritenuta ammissibile la divisione testamentaria di sostanze devolutesi ab intestato). La centralità riconosciuta al ruolo dell'apporzionamento nella giustificazione causale della divisione del testatore importa, come detto, quale conseguenza sul piano disciplinare, l'applicazione delle disposizioni "materiali" dettate con riguardo alla divisione ordinaria: il pensiero va, in particolar modo, all'istituto della rescissione per lesione, il quale, reagendo alla sproporzione "oltre il quarto" tra entità della porzione assegnata e valore della quota, costituisce rimedio al difetto causale del programma distributivo. Appare interessante notare come l'assegnazione di beni di valore non corrispondente alla quota sia patologica solo allorquando essa implichi una contraddizione insita nel regolamento testamentario: il caso paradigmatico è quello in cui, istituito erede un soggetto in quota determinata, il testatore lo apporzioni in misura insufficiente, con lesione oltre il quarto. La contraddizione tra istituzione e apporzionamento può assumere, invece, significati diversi nel caso - che nelle considerazioni precedenti si è ritenuto legittimo - in cui il de cuius rediga due testamenti, l'uno istitutivo, l'altro distributivo. Se, difatti, nella scheda posteriore il testatore si allontani sensibilmente dalle istituzioni dallo stesso in precedenza compiute, l'interprete, prima di ritenere sussistenti gli estremi per la pronunzia di rescissione, dovrà valutare se, nel testamento posteriore, ricorrano i profili di una volontà revocatoria dell'istituzione in precedenza effettuata.

La divisione oggettivamente parziale

Nell'ambito della propria "libertà divisoria", il testatore può anche determinarsi a distribuire parzialmente le proprie sostanze ereditarie: è il caso della cosiddetta divisione "oggettivamente parziale", testualmente prevista dal secondo comma dell'articolo 734 c.c., a norma del quale «se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulti una diversa volontà del testatore». In dottrina si è sottolineato come, se, a norma dell'articolo 588 comma 2 c.c., il testatore può attribuire ex certa re soltanto parte delle proprie sostanze (così qualificando come erede l'avente causa), a maggior ragione l'assegnazione parziale può avvenire in sede distributiva [nota 35]. Del resto, una divisione oggettivamente parziale può ricorrere, oltre che nel caso in cui il testatore non abbia inteso estendere l'apporzionamento all'intero asse ereditario, altresì nell'ipotesi, non infrequente, in cui, consegnato alla scheda testamentaria un regolamento divisionale completo, successivamente il testatore acquisti altri beni. Sorge, dunque, il problema di stabilire come essi possano essere assegnati tra i coeredi.

Il richiamato disposto dell'articolo 734 comma 2 c.c., invero, appare di infelice formulazione nella parte in cui fa conseguire alla divisione oggettivamente parziale l'apertura della successione legittima «se non risulti una contraria volontà del testatore». Orbene, la fattispecie in oggetto, ed il problematico dato normativo, vanno chiariti valorizzando, in questa sede, il dato dell'autonomia funzionale della divisione operata dal testatore rispetto al momento istitutivo/attributivo che di regola la precede. Alla stregua di tale dato, ricorre divisione oggettivamente parziale nel solo caso in cui, essendo avvenuta una compiuta istituzione di erede (ex testamento, ma anche ex lege, per le considerazioni innanzi formulate) l'apporzionamento non abbia coinvolto l'intero asse ereditario. In tal caso, con riguardo ai beni non compresi nel regolamento divisionale di fonte testamentaria si instaurerà una comunione ereditaria, che potrà essere sciolta a seguito di divisione contrattuale, la quale, per rispettare il proprio profilo funzionale, dovrà condurre ad apporzionamenti proporzionali alle quote in cui ciascun coerede è stato istituito. Al contrario, l'ipotesi cui il legislatore allude nella parte in cui dispone che, in mancanza di una diversa volontà testamentaria debba aprirsi la successione legittima, è quella in cui sia l'istituzione di erede (e non la distribuzione dei beni) ad essere non esaustiva [nota 36]: si faccia il caso in cui il testatore, celibe e senza figli, istituisca eredi gli amici Primo, nella quota di un mezzo, e Secondo nella quota di un quarto, procedendo poi alla distribuzione delle sostanze ereditarie nel rispetto delle quote così determinate. Ebbene, in tal caso, ad essere parziale non è la divisione, ma l'istituzione di erede, per cui, in mancanza di diversi indici riconducibili alla volontà del testatore, si aprirà la successione legittima [nota 37]. Analoga conseguenza si determinerà allorquando, avendo proceduto il testatore ad una completa istituzione di erede ed avendo compiutamente distribuito in sede divisionale l'intero suo patrimonio, taluno degli eredi non possa o non voglia accettare, e non vi siano gli estremi per l'operare di rappresentazione o accrescimento [nota 38] .

L'ammissibilità di una divisione oggettivamente parziale rende l'istituto in oggetto estremamente versatile, in grado di rispondere a diversi interessi del testatore. Questi potrà, infatti, affidare al riparto testamentario la distribuzione quei cespiti in ordine ai quali teme possano sorgere liti tra coeredi, lasciando poi che la distribuzione delle restanti sostanze avvenga in sede contrattuale. Può ancora pensarsi al caso in cui il testatore proceda direttamente alla sola divisione delle sostanze di maggior valore, dei beni produttivi, ecc. Nulla esclude, invero, che, operata la distribuzione di parte delle sostanze, il testatore detti altresì i principi cui i coeredi dovranno attenersi in sede di divisione contrattuale, nella quale ipotesi la scheda testamentaria comprenderà assegni divisionali semplici e qualificati.

La previsione di conguagli

Acquisita la collocazione della divisione testamentaria nell'ambito sia della ricostruzione del contratto di divisione sia della teoria del testamento, è possibile ora dare risposta a taluni dei più frequenti interrogativi in ordine ai limiti dell'autonomia testamentaria nella regolamentazione del fenomeno divisionale. Al riguardo, questione quanto mai dibattuta è la possibilità del testatore di prevedere conguagli, onde compensare gli squilibri tra porzioni attribuire e quote a ciascun coerede spettanti. Per lunghi anni, infatti, tale eventualità è stata negata in dottrina, principalmente alla luce dell'asserito legame tra l'istituto in oggetto e l'institutio ex re certa. Invero, se fondamento del potere del testatore di effettuare le assegnazioni in funzione di quote è la possibilità di attribuire ex certa re il proprio patrimonio, tale facoltà deve essere riconosciuta soltanto entro i limiti in cui oggetto delle assegnazioni siano beni facenti parte del patrimonio del testatore stesso, trovando l'autonomia testamentaria limite invalicabile nell'alienità delle res oggetto di attribuzione.

L'opinione in oggetto ha trovato un primo temperamento nella considerazione per la quale, laddove si impedisse al testatore l'utilizzo dello strumento dei conguagli, ben difficilmente potrebbe affidarsi alla scheda testamentaria una compiuta regolamentazione del fenomeno divisionale, essendo quanto mai diffuse le ipotesi di sproporzione tra valore dei beni assegnati e valore delle quote. In ragione di tali considerazioni, si è affermato in dottrina e giurisprudenza che l'utilizzo del conguaglio possa essere ammesso, in via eccezionale, quale strumento perequativo delle assegnazioni, sì da consentire al testatore di correggere eventuali sproporzioni emerse in sede di apporzionamento [nota 39]. Il testatore potrà, pertanto, prevedere l'obbligo di uno dei coeredi di corrispondere una somma di denaro ad altro coerede al fine di compensare le sproporzioni (attuali o potenziali) tra entità attribuire e valore della quota, o ancora potrà assegnare un bene di non comoda divisibilità ad uno dei coeredi imponendogli di corrispondere ad altro coerede la somma di denaro proporzionale alla quota di sua spettanza.

Acquisito all'analisi il dato dell'ammissibilità della previsione dei conguagli nell'ambito della divisione testamentaria, la nostra riflessione deve compiere un passo in avanti, verificando se il testatore sia vincolato all'utilizzo del conguaglio solo in casi di stretta necessità ovvero sia libero di programmare le assegnazioni nel senso di prevedere che taluno dei coeredi sia apporzionato con beni ereditari, mentre altri conseguano denaro che sarà corrisposto dai coeredi pur in mancanza di stretta necessità del procedimento divisionale. La questione in oggetto sarà compiutamente trattata in seguito con riferimento ai legittimari, in ordine ai quali essa acquisisce particolare attualità.

In linea generale, a parere di chi scrive merita di essere condivisa la tesi che riconosce al testatore ampia facoltà di comporre le quote dei coeredi con denaro non ereditario, alla cui corresponsione sia tenuto taluno dei condividenti. A tale conclusione conduce un duplice ordine di considerazioni, che riflettono, sotto diversa prospettiva, le peculiarità funzionali della divisione del testatore.

In primo luogo, va sottolineato come l'utilizzo del conguaglio (e, più in generale, di denaro non ereditario) in sede di divisione testamentaria, lungi dal porsi quale eccezionale deroga al principio di cui all'art. 588 comma 2 c.c., si configura quale corollario della ricostruzione fisionomica della divisione testamentaria: essendo questa operazione squisitamente distributiva, essa potrà richiedere, onde realizzare compiutamente la propria funzione, l'assegnazione di denaro non esistente nell'asse, che nel programma divisionale troverà la propria giustificazione. In argomento, giova rilevare come la funzione distributiva sia più ampia e complessa di quella meramente attributiva, che ad esempio è propria della institutio ex re certa, comprendendo essa «non solo l'attribuzione di beni del proprio patrimonio … ma anche il compimento di operazioni diverse che ottengano comunque il risultato di attribuire concreti valori proporzionali a quello della quota, come appunto la disposizione dei conguagli» [nota 40] . Non si tratta, come pure è stato obiettato, di dividere beni estranei alla comunione [nota 41], ma di utilizzare il bene fungibile per eccellenza, quale è il denaro, per consentire la realizzazione di un programma di assegnazioni che mantiene comunque natura e finalità distributive.

Ma alla conclusione appena esposta conduce altresì una attenta riflessione sulla natura del diritto di ciascun coerede. Difatti, nei precedenti paragrafi si è sottolineato come l'istituto in oggetto realizzi un apporzionamento che impedisce il sorgere stesso di uno stato di contitolarità tra i coeredi: ebbene, non essendo questi ultimi in alcun momento "comproprietari" delle sostanze ereditarie, viene meno il principale assunto sul quale la dottrina tradizionale ha giustificato la norma dell'articolo 727 c.c. Tale disposizione, infatti, fissando il principio secondo cui nella divisione ordinaria le porzioni di ciascun condividente debbano essere formate, per quanto possibile, comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di egual natura e qualità, si giustifica in quanto ciascun condividente è stato comproprietario di siffatti beni nell'intervallo di tempo che va dall'apertura della successione alla stipula del contratto di divisione. Trattasi, allora, di fattispecie non ravvisabile nella divisione del testatore, per la quale la richiamata norma perde il proprio presupposto applicativo. In ragione delle considerazioni innanzi espresse, può allora affermarsi che, in vista della peculiare operatività dell'operazione di apporzionamento di fonte testamentaria, il testatore ha un margine di autonomia nella formazione qualitativa delle porzioni maggiore di quello che è proprio dei condividenti in sede contrattuale. La "libertà divisoria" è, dunque, piena, incontrando il proprio limite fisiologico nella funzione di apporzionamento: nel formare le porzioni il testatore dovrà rispettare il valore delle quote di coeredità, e a tal fine potrà avvalersi anche di denaro non ereditario, in ragione della sua fungibilità [nota 42].

L'utilizzo di denaro non ereditario può rivestire, invero, importanza centrale ai fini della compiuta realizzazione della funzione distributiva. In argomento, è opportuno considerare che il testatore può aver bisogno dello strumento dei conguagli per ovviare alle fluttuazioni di valore che potranno verificarsi tra il momento della redazione del testamento e quello dell'apertura della successione. Non bisogna dimenticare, al riguardo, come il regolamento divisionale affidato alla scheda testamentaria potrà operare anche a distanza di molti anni dalla redazione dello stesso. Ebbene, se si pensa che le operazioni divisionali sono fondate su delicati calcoli che il decorso del tempo può vanificare, l'utilizzo del conguaglio in sede di divisione testamentaria può assolvere ad un compito che sia consentito definire - mutuando una terminologia propria della parte generale del negozio giuridico - di controllo e regolamento delle sopravvenienze incidenti sul progetto divisionale di fonte testamentaria. La considerazione appena espressa appare di particolare interesse se si pensa all'istituto della rescissione per lesione oltre il quarto, in ordine al quale va ricordato che la stima della lesione (che nella divisione contrattuale va effettuata al momento della divisione) in caso di divisione del testatore va realizzata al tempo dell'apertura della successione. Il decorso di un ampio intervallo di tempo tra la redazione del testamento e l'apertura della successione può privare dei propri significati il regolamento divisionale, esponendolo all'azione di rescissione, così vanificando le intenzioni del testatore. Un sapiente utilizzo di denaro non ereditario può evitare simili conseguenze.

A questo punto dell'analisi, appare doveroso verificare se le considerazioni appena espresse in ordine al (libero) uso, in sede divisionale, di conguagli e, più in generale, di denaro non ereditario, possano essere ribadite anche allorquando tra i condividenti vi siano legittimati. Per comprendere la complessità dei temi in oggetto occorre ricordare come il nostro ordinamento abbia accolto il tema della intangibilità quantitativa, e non qualitativa, dei diritti dei legittimari: il de cuius ha quale unico limite alla propria autonomia il rispetto del quantum che la legge riserva ai suoi più stretti congiunti, potendo assegnare agli stessi qualsivoglia bene ricadente nell'asse. Ciò posto, il solo temperamento alla indifferenza qualitativa delle sostanze assegnate al legittimario viene comunemente ravvisato nella natura "ereditaria" delle sostanze medesime: il testatore è libero di attribuire al legittimario beni di qualsivoglia natura, purché trattasi di beni ereditari. Diversamente, attribuendo al legittimario beni non ereditari, si verificherebbe il risultato di degradare il diritto reale alla legittima in diritto di credito: tra il legittimario e la quota di riserva andrebbe a frapporsi la cooperazione di altro chiamato, conseguenza questa che il sistema legislativo intende evitare.

Ebbene, il principio in oggetto vale anche in materia divisionale? In particolare, quale è il senso da attribuire all'articolo 549 c.c., ove si fa divieto di imporre pesi o condizioni alla quota di legittima ferme le disposizioni in materia di divisione?

Invero, in dottrina e giurisprudenza prevale la tesi per la quale, laddove il conguaglio risponda ad obiettive esigenze del regolamento divisionale, in via eccezionale esso possa essere ammesso anche allorquando la divisione del testatore sia destinata a legittimari [nota 43]. Il punto delicato è tuttavia un altro: nel dettare il programma divisionale, può il testatore assegnare ad uno dei legittimari sostanze ereditarie (benché esse siano perfettamente divisibili tra i coeredi) e fare obbligo allo stesso di liquidare in denaro l'intera quota di altri legittimari? Si pensi ad un caso la cui problematicità è particolarmente avvertita: l'imprenditore, nel redigere testamento, può istituire eredi i suoi due figli, attribuire ad uno di essi l'azienda familiare e fargli obbligo di corrispondere al fratello l'equivalente in denaro della quota di legittima? La netta chiusura giurisprudenziale ad una simile eventualità [nota 44], anziché scoraggiare l'interprete, deve costituire, a parere di chi scrive, stimolo per un approfondimento in senso critico della tematica in oggetto. Appare evidente che, laddove si ritenesse possibile una simile eventualità, il testamento diventerebbe strumento quanto mai elastico di assegnazione delle sostanze ereditarie.

L'operazione appena prospettata può essere realizzata dall'imprenditore attraverso il nuovo istituto del patto di famiglia, a mezzo del quale si realizza una pianificazione anticipata della successione nei beni di impresa che determina una liquidazione in denaro della quota di legittima. Proprio la considerazione del patto di famiglia può essere di ausilio alla nostra analisi.

Al riguardo, sia consentito formulare una considerazione di carattere preliminare: con l'ingresso nel panorama giuridico di nuovi istituti, sovente si assiste al tentativo dottrinale di darne adeguata ricostruzione attraverso il rassicurante riferimento a figure già note nell'esperienza giuridica: è accaduto anche al patto di famiglia. Tuttavia, a parere di chi scrive, compiendo un ribaltamento del processo ricostruttivo testè delineato, anziché limitarsi a spiegare un istituto attraverso il ricorso a categorie già note, è possibile, e fecondo di implicazioni, trarre dallo stesso nuove sollecitazioni onde rimeditare categorie e principi già affermatisi nell'ordinamento giuridico. Ebbene, è quanto si tenterà di fare con riferimento al parallelo tra patto di famiglia e divisione del testatore. Con la prima figura, il legislatore ha consentito all'imprenditore di pianificare anticipatamente la successione nell'impresa e, in omaggio a tale scopo, ha ammesso la liquidazione in denaro della quota di legittima. Dalla fattispecie in oggetto si desume la scelta legislativa di mantenere la salvaguardia dei diritti dei legittimari su un piano esclusivamente quantitativo [nota 45]. Un tale assetto di interessi potrebbe essere realizzato attraverso la divisione del testatore? Ad una prima analisi la risposta potrebbe essere negativa e ciò in quanto la conversione del diritto reale alla legittima in diritto di credito alla liquidazione in natura trova, nel patto di famiglia, il proprio fondamento in una manifestazione di volontà del legittimario stesso [nota 46]: nella divisione del testatore il legittimario subirebbe, e non sceglierebbe, simile conversione. Pur consapevoli dell'importanza del rilievo svolto, appare doveroso tuttavia domandarsi se possa essere consentito al testatore affidare alla scheda testamentaria una regolamentazione di interessi sostanzialmente coincidente, nei suoi risultati, allo schema pattizio del patto di famiglia. Ebbene, se l'ostacolo alla ammissibilità dell'ipotesi appena prospettata è la natura non ereditaria dei beni da attribuire al legittimario che non si intenda coinvolgere nella gestione dell'impresa, può farsi questa ipotesi: avendo scelto il figlio che dovrà continuare l'impresa familiare, l'imprenditore vende allo stesso una quota dell'azienda, di importo corrispondente alla quota di legittima spettante al figlio "non assegnatario". In questo modo, l'imprenditore può realizzare il proprio scopo attribuendo, in sede divisionale, l'azienda di famiglia al figlio prescelto e il denaro (questa volta "ereditario") all'altro figlio. Ma allora, se l'operazione testè prospettata è perfettamente legittima, perché non ammettere che il testatore possa direttamente procedere a divisione imponendo all'assegnatario dell'azienda di liquidare in denaro la quota di legittima dell'altro figlio? Dinanzi ad un bene fungibile per eccellenza quale è il denaro, che senso ha distinguere tra denaro ereditario e denaro estraneo all'asse ed in qual modo la composizione qualitativa della quota di legittima risulta modificata? Sia consentito riportare in questa sede le osservazioni di illustre dottrina [nota 47]: «dall'essere la riserva quota di eredità non deriva che sia giuridicamente inibito di formare la quota con denaro che, pur non esistendo nella successione, fa concettualmente parte dell'eredità, in quanto si ottiene dalle cose attribuite ad altri coeredi alle quali esso si sostituisce, così come diventa denaro ereditario il prezzo delle cose che si alienino quando non siano comodamente divisibile».

Anche al di là dello "scottante tema" della successione nei beni produttivi, una acritica adesione alla tesi della legittima in natura può condurre a risultati che, essendo contrari agli interessi e del testatore e del legittimario, appaiono invero illogici. Un semplice caso ne è testimonianza: il testatore ha un unico figlio, emigrato da vari anni all'estero per motivi di lavoro, ed il suo patrimonio è costituito unicamente da un appartamento nel paese natio. Egli intende istituire eredi, nella disponibile, una persona estranea alla famiglia e, nella legittima, il proprio figlio, per poi assegnare, in sede divisionale, il proprio appartamento all'estraneo facendogli obbligo di liquidare in denaro la quota del legittimario, ormai per nulla interessato a proprietà immobiliari nel paese di origine. L'inderogabilità del diritto alla legittima in natura renderebbe viziata una divisione di questo genere, ridando attualità all'escamotage di vendere preventivamente all'estraneo la quota immobiliare di valore corrispondente alla legittima, rendere "ereditario" il denaro conseguito che potrà così formare la quota di riserva. Ma l'acritica adesione a tesi tradizionali non è priva di conseguenze: si costringe, in questo modo, il testatore ad anticipare la dismissione dell'immobile, privandolo, tra l'altro, di quella che è la naturale revocabilità delle disposizioni testamentarie.

Orbene, oltre a considerazioni di carattere logico-giuridico, la possibilità per il testatore di comporre la quota del legittimario, in sede di divisione testamentaria, con denaro non ereditario trova fondamento, a parere di chi scrive, in una compiuta ricostruzione della vicenda in oggetto. è giunto il momento di trarre le dovute conseguenze dall'iter argomentativo seguito nelle pagine precedenti: si è affermata con forza la natura squisitamente distributiva del regolamento divisionale, sottolineandone l'autonomia ontologica - sul piano sia strutturale sia funzionale - rispetto alla istituzione testamentaria di erede che di regola lo precede.

Ebbene, il principio per il quale il legittimario non può vedersi convertito il proprio diritto reale alla legittima in diritto obbligatorio senza il proprio consenso va propriamente collocato sul piano della delazione, dell'offerta di sostanze operata dal de cuius, e concerne quello che sia consentito definire il rapporto tra legittimario e successione. Così, viola il detto principio il legato di cosa altrui in sostituzione di legittima, perché in tal caso è sin dal momento della delazione che il legittimario si vede offerte sostanze estranee all'asse ereditario. Per quanto conduca a risultati pratici coincidenti, sul piano tecnico - giuridico diversa è l'ipotesi in cui il legittimario sia istituto erede in quota astratta e poi sia apporzionato con conguaglio o interamente a mezzo di una somma di denaro: l'attribuzione del denaro interviene nella fase dell'apporzionamento, e si colloca su un piano distributivo, non attributivo. Potrebbe obiettarsi che, assegnando al legittimario, o comunque ad uno dei coeredi, denaro non ereditario, la divisione del testatore sarebbe insuscettibile di produrre i propri tipici effetti reali nei confronti del legittimario, cui spetterebbe soltanto un diritto di credito nei confronti degli altri coeredi [nota 48]. Al riguardo, sia consentito sottolineare come la realità, quale carattere tipico della divisione del testatore, individua non già il diritto oggetto di assegnazione a ciascuno dei condividenti, bensì l'immediatezza con cui il regolamento negoziale in oggetto realizza l'apporzionamento a far tempo dall'apertura della successione. Un tale "connotato funzionale" deve essere riconosciuto, allora, a qualsivoglia piano di riparto testamentario che assegni a ciascun coerede beni di valore corrispondente alla quota, si concretino tali beni in diritti reali o di credito.

Il ragionamento appena esposto, invero, è confermato dal disposto dell'articolo 549 c.c., a norma del quale, a fronte del divieto di imporre pesi e condizioni sulla quota spettante ai legittimari, sono fatte salve le disposizioni dettate in materia di divisione. Ove si voglia dare un significato concreto e attendibile alla norma in oggetto, si deve ritenere che il divieto di imporre pesi o condizioni sulla legittima sussista in sede di delazione, e non nel regolamento divisionale. Una volta istituito erede nella quota a lui riservata, il legittimario non potrà, appellandosi al principio della legittima in natura, contestare un apporzionamento della sua quota con denaro non ereditario; al più, potrà dolersi della sua completa preterizione in sede divisionale o dell'attribuzione di entità di valore non corrispondente alla quota. In tal caso, tuttavia, si versa in diverse fattispecie patologiche della divisione, che formeranno oggetto di valutazione nel prosieguo dell'analisi.

La preterizione e la lesione quantitativa dei diritti dei legittimari (art. 735 c.c.)

A norma dell'articolo 735 c.c., la divisione del testatore è nulla qualora essa non comprenda taluno degli eredi istituiti o dei legittimari. La nullità dell'assetto divisionale per omesso apporzionamento di taluno degli eredi istituiti si giustifica in virtù della considerazione per la quale, nella distribuzione per quote di un compendio patrimoniale, comunque essa si realizzi, devono necessariamente essere compresi tutti gli aventi diritto, pena la mancanza di qualsiasi funzione divisionale [nota 49]. Si può anche affermare che se le assegnazioni non sono effettuate a tutti gli aventi diritto, il testatore fallisce lo scopo di apporzionamento ed il regolamento da lui dettato diventa privo di causa.

L'opinione assolutamente prevalente, in sede tanto dottrinale quanto giurisprudenziale, ritiene tuttavia che il mancato apporzionamento di erede istituito cagioni nullità della divisione solo allorquando si tratti di preterizione "sostanziale", che ricorre nel caso in cui il testatore non abbia riservato beni sufficienti ad integrare la quota del coerede non apporzionato. Deve, pertanto, reputarsi legittima l'ipotesi in cui il testatore divida solo parte dei propri beni tra taluni eredi, lasciando tuttavia beni sufficienti all'apporzionamento dei coeredi non considerati nel programma divisionale. Re melius perpensa, la divisione testamentaria soggettivamente parziale è consentita allorquando essa sia anche oggettivamente parziale. I coeredi non apporzionati vedranno integrata la propria quota attraverso l'assegnazione dei beni che non hanno formato oggetto del regolamento divisionale: in tal senso, può affermarsi che i coeredi preteriti possono anch'essi ritenersi apporzionati, benché collettivamente [nota 50]. In dottrina si è anche sottolineato come il principio per il quale al piano di riparto debbano partecipare tutti gli aventi diritto non implica affatto che ciascuno di essi debba essere apporzionato in maniera immediata e diretta: la funzione distributiva, propria della divisione, può realizzarsi anche allorquando taluno degli apporzionamenti venga effettuato in modo indiretto [nota 51].

Così ricostruita la nozione di preterizione di erede istituito, occorre dare adeguata interpretazione alla norma dell'articolo 735 c.c. nella parte in cui dispone che la divisione del testatore è nulla in caso di preterizione di legittimario. Invero, i rapporti tra la disposizione in oggetto e la disciplina dettata a tutela dei legittimari hanno formato oggetto di differenti ricostruzioni in sede tanto dottrinale quanto giurisprudenziale, ove si è diffusa una interpretazione estremamente rigorosa del disposto normativo che, partendo dalla considerazione del dato letterale, conclude nel senso della nullità della divisione ogni qualvolta il piano di riparto operato dal testatore non assegni sostanze ereditarie ad uno dei legittimari. Si giustifica tale conclusione in forza di un ragionamento sillogistico che può essere così riassunto: la mancata considerazione nel programma distributivo di uno degli aventi diritto impedisce la realizzazione della causa divisionale, determinando la nullità del contratto (premessa maggiore); il legittimario è sempre avente diritto, trovando titolo nella legge la sua vocatio (premessa minore); pertanto la divisione realizzata omettendo di apporzionare uno dei legittimari è sempre nulla.

Sul piano sistematico, va sottolineato come l'esposta ricostruzione finisca per riconoscere al legittimario preterito in sede divisionale una tutela più forte (l'azione di nullità) rispetto a quella riconosciuta al legittimario preterito in sede istitutiva (inefficacia relativa affidata all'esperimento dell'azione di riduzione) [nota 52]: proprio in ragione di ciò, nella giurisprudenza di legittimità si è sottolineato come l'azione ex art. 735 comma 1 c.c. faccia venir meno i presupposti per l'esperimento dell'azione di riduzione da parte del legittimario [nota 53].

La tesi appena esposta offre l'occasione per una riflessione sul tema della tutela del legittimario in presenza di disposizioni testamentarie lesive, muovendo nell'analisi da una premessa concettuale di primaria importanza: attesa la natura lato sensu esecutiva della fase distributiva rispetto a quella istitutiva, il tema della preterizione del legittimario dalla distribuzione operata dal testatore risente necessariamente delle opzioni di fondo in ordine al corrispondente tema della preterizione del legittimario dall'attribuzione di sostanze del de cuius. Così, la tesi, per la quale la divisione testamentaria - ove si ometta l'apporzionamento di un legittimario benché non istituito - è nulla, può essere condivisa solo a condizione di accogliere il principio per il quale il legittimario è senz'altro erede, in forza di titolo legale, al momento dell'apertura della successione, quand'anche il testatore non gli abbia riservato alcuna frazione dell'asse ereditario. Solo condividendo tale ricostruzione, peraltro sostenuta da autorevole dottrina [nota 54], riscontrandosi contraddizione tra istituzione (legale) del legittimario, e distribuzione testamentaria delle sostanze ereditarie, potrebbe desumersi la nullità della divisione del testatore ex art. 735 c.c.

Tuttavia, l'opinione dominante in dottrina e giurisprudenza è quella per la quale il legittimario diventa erede solo a seguito del vittorioso esperimento dell'azione di riduzione [nota 55]. Ciò significa che, al momento dell'apertura della successione, il legittimario non è coerede e, dunque, non ha titolo a partecipare alla divisione. In un panorama giurisprudenziale non sempre chiaro sul tema, il principio appena esposto viene espresso in una pronunzia resa dalla Suprema Corte all'inizio degli anni Novanta, ove è affermato che «il legittimario pretermesso non partecipa alla comunione ereditaria in difetto di vocazione all'eredità» [nota 56].

Chiarito tale aspetto, se ne deve dedurre che la patologia delle disposizioni testamentarie per mancato rispetto dei diritti riservati per legge al legittimario può assumere diverse forme e, dunque, differente gravità: può accadere che il testatore non istituisca affatto erede il legittimario, e dunque non lo contempli né nella fase attributiva né in quella distributiva; può verificarsi il caso in cui il testatore istituisca erede il legittimario ma poi non lo apporzioni; infine può accadere che il testatore istituisca erede il legittimario, lo comprenda nel regolamento divisionale ma non lo apporzioni in misura sufficiente. Ebbene, la diversa gravità delle fattispecie appena formulate impone di ritenere che diversa debba essere la reazione dell'ordinamento: al contrario di quanto potrebbe desumersi dalla lettera dell'art. 735 c.c., se il testatore non ha istituito erede il legittimario, la tutela dei diritti di quest'ultimo passa non già per la nullità della divisione, ma per l'esperimento dell'azione di riduzione. Difatti, fino a quando il legittimario non riduca le disposizioni lesive, l'assetto divisionale mantiene propri significati, giacchè - in posizione lato sensu esecutiva rispetto alla istituzione di erede operata dal testatore - traduce in porzioni concrete le quote in cui il testatore stesso ha istituito i propri eredi: patologica, allora, è l'istituzione, non la distribuzione di sostanze ereditarie. Si noti come il legittimario potrà anche decidere di non agire in riduzione, nel qual caso, fermo restando il programma istitutivo consegnato al testamento, parimenti manterrà valore il programma distributivo. Al contrario, esperita vittoriosamente l'azione di riduzione, il legittimario acquista il "titolo" (ereditario) per sedersi al tavolo divisionale: un apporzionamento, quale quello operato dal testatore, che non lo consideri fallirà il proprio scopo tipico, e sarà pertanto nullo per mancanza di causa, in quanto vi sarà un coerede (il legittimario che abbia agito in riduzione) al quale nessun bene risulta assegnato. Nell'ipotesi appena prospettata, allora, la tutela del legittimario si realizza attraverso due momenti logicamente successivi: esperimento dell'azione di riduzione (soggetta a prescrizione) e domanda di nullità della divisione [nota 57].

Chiaramente diverso è il caso in cui il testatore, istituito erede il legittimario, non lo comprenda nel programma divisionale: si ha, in tale ipotesi, autentica preterizione, invero non diversa, nei suoi significati, da quella relativa ad erede istituito. Il legittimario potrà domandare la nullità del regolamento divisionale, con la conseguenza che, all'apertura della successione, si formerà quella comunione ereditaria che il testatore aveva tentato (malamente) di prevenire. Il primo comma dell'art. 735 c.c. va dunque letto nel senso che la divisione del testatore è nulla in caso di preterizione di eredi istituiti, anche se legittimari, non essendovi motivi per distinguere le due fattispecie ai fini che ci interessano. Ma proprio in ragione di ciò, la preterizione del legittimario, non diversamente da quella riguardante ogni altro erede istituito, importa nullità del piano di riparto solo se "sostanziale", ossia soltanto se non vi siano beni sufficienti ad integrare la quota riservata al legittimario istituito erede; laddove, invece, il testatore abbia lasciato in comunione beni di valore sufficiente ad apporzionare i soggetti omessi dal piano di riparto, quest'ultimo potrà superare il giudizio di validità [nota 58].

Le considerazioni appena formulate consentono di tracciare le seguenti ipotesi patologiche: a) è nulla la divisione testamentaria allorquando, istituito erede un legittimario, il testatore non lo apporzioni, e non vi siano beni sufficienti ad integrare la sua quota; b) è parimenti nulla la divisione testamentaria quando il legittimario, non considerato né nella fase istitutivo/attributiva né in quella distributiva, eserciti l'azione di riduzione conseguendo il diritto a partecipare alla divisione; c) infine, e paradossalmente, deve ritenersi nulla la divisione testamentaria allorquando, avendo omesso il testatore di istituire il legittimario, lo consideri nel piano di riparto assegnandogli sostanze ereditarie: anche una tale divisione è priva di causa, giacché non raggiunge uno scopo distributivo, a meno di non poter leggere nelle assegnazioni una institutio ex certa re.

Per opinione diffusa in dottrina e giurisprudenza, le disposizioni divisionali consegnate al testamento, una volta dichiarate nulle, per quanto possibile dovranno valere quali assegni divisionali semplici ex art. 733 c.c., e dunque saranno tendenzialmente vincolanti per i condividenti, in omaggio al favor testamenti. A parere di chi scrive, tuttavia, quella appena esposta costituisce più affermazione di principio che regola dalle potenzialità applicative: un regolamento divisionale che ometta totalmente un apporzionamento ben difficilmente potrà dirsi in qualche modo vincolante allorquando si proceda a divisione contrattuale. La presenza di una quota non considerata in fase distributiva, da tradurre in porzione concreta, ha quale conseguenza pressoché inevitabile un "rimescolamento" delle assegnazioni, di talché difficilmente, e comunque in misura molto attenuata, si potrà ritenere in qualche modo vincolante il programma divisato dal testatore.

Resta da analizzare la terza fattispecie innanzi prospettata: legittimario istituito erede, considerato nella divisione del testatore ma apporzionato in misura inferiore alla quota di legittima. A questa ipotesi è dedicato il secondo comma dell'articolo 735 c. c., a norma del quale il legittimario può tutelare le proprie ragioni a mezzo di azione di riduzione. Trattasi, come sottolineato in dottrina, di riduzione rivolta a "recuperare" singoli beni, sostanzialmente non diversa da quella esperita contro donazioni o legati lesivi di legittima [nota 59]. Il vittorioso esperimento di siffatta azione "correggerà" le assegnazioni divisionali operate dal testatore, consentendo il compiuto apporzionamento del legittimario istante.


[nota 1] E. BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria (Artt. 723 e 723 c.c.) - Sezione prima», in Riv. not., 2002, 3, p. 687.

[nota 2] ZOPPINI, «Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie in forma indiretta», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 4, p. 1077.

[nota 3] Il riferimento, che sarà sviluppato nel prosieguo dell'analisi, va in primo luogo al "patto di famiglia".

[nota 4] COVIELLO, Delle successioni, Parte Generale, 4, Napoli 1935, p. 588 e ss.

[nota 5] AZZARITI, Successioni e donazioni, Padova, 1990, p. 672, ove si afferma che «non può negarsi che la disposizione del testatore intesa a dividere i suoi beni tra i suoi eredi importi anche necessariamente, quale inevitabile prius, la costituzione di uno stato di comunione, cui è facultato a porre termine lo stesso testatore mediante la contemporanea divisione dei beni tra i chiamati. Non vi è, infatti, ragione per doversi ritenere che le disposizioni in materia di divisione da parte del testatore siano derogative delle norme in tema di disposizioni a titolo universale o a titolo particolare; e se, in tal caso, la composizione dei lotti settanti ai vari beneficiari, e la conseguente attribuzione ad essi dei beni singoli e determinati che ne fanno parte, non fa venir meno nei chiamati la qualità ereditaria, ciò fa necessariamente supporre che il testatore abbia inteso chiamare i suoi successori nell'universum jus … La divisione da parte del testatore importa allora una devoluzione testamentaria dell'eredità a titolo universale ed il venir meno del conseguente sorgere di uno stato di comunione tra i chiamati per disposizione stessa del testatore che procede direttamente alla divisione dei suoi beni tra gli eredi»; ID., «La divisione fatta dal testatore ed i legati in sostituzione o in conto di legittima», in Riv. dir. civ., 1975, IV, p. 645 e ss.

[nota 6] FORCHIELLI e ANGELONI, Divisione, 2, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Libro II, Successioni, artt. 713 - 768, 2000, p. 197.

[nota 7] E. BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria…», cit., p. 687.

[nota 8] AMADIO, «Patto di famiglia e funzione divisionale», in Riv. not., 2006, 4, p. 867.

[nota 9] Costituisce insegnamento tradizionale l'assunto per il quale, per aversi autentica divisione testamentaria, non è sufficiente che si faccia una assegnazione di beni ai propri eredi, necessario essendo che sia dato desumere una corrispondente intenzione del testatore diretta ad attuare un piano di divisione, con l'effetto e i risultati propri di tale istituto. Cfr. Cass. 24 gennaio 1938, in Giur. it., 1938, I, 1, p. 405, COVIELLO, «La divisione inter liberos ed il suo carattere distributivo», in Foro it., 1938, I, p. 32.

[nota 10] MENGONI, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 81; FORCHIELLI, La divisione, cit., p. 197; AMADIO, La divisione del testatore, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, II, 1994, p. 76, per il quale «La divisione del testatore costituisce regolamento negoziale organico sorretto e qualificato dall'unitario scopo distributivo, attuato attraverso un complesso di assegnazioni funzionalmente collegate, capaci di immediata e reale efficacia dal momento dell'apertura della successione».

[nota 11] Lo scioglimento della comunione diventa soltanto uno dei possibili strumenti attraverso cui la causa divisionale si realizza: l'apporzionamento, infatti, può anche essere mezzo per impedire il sorgere della comunione. Per giustificare, sul piano sistematico, la riconducibilità della divisione testamentaria al genus divisione non è più necessario presupporre un momento, logico o cronologico, di comunione su cui il regolamento divisionale va ad innestarsi, sufficiente essendo la ravvisabilità, nel programma consegnato dal testatore alla scheda testamentaria, di un programma di assegnazioni con intento distributivo.

[nota 12] AMADIO, Comunione e coeredità (sul presupposto della collazione), in Diritto Privato, 1998, p. 310 e ss.; ID. «Patto di famiglia e funzione divisionale», cit., p. 867.

[nota 13] BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria...», cit., p. 903.

[nota 14] MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 33.

[nota 15] BOMBARDA, «In tema di norme date dal testatore per la divisione, divisione fatta dal testatore e disposizione di conguagli», in Giust. civ., 1975, p. 118 osserva come nel caso di institutio ex re certa «i beni che si attribuiscono devono per forza essere, per un'esigenza logica prima ancora che giuridica, in corporibus hereditatis; l'instituzione in quota deve infatti dedursi dall'assegnazione dei beni e tale deduzione è possibile solo facendo un raffronto tra patrimonio ereditario e beni che di quel patrimonio fanno parte».

[nota 16] BOMBARDA, op. cit., p. 109 e ss.

[nota 17] Per una più ampia trattazione del tema in oggetto, sia consentito rinviare alla voce monografica "Il Modus" di C. ROMANO, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, in corso di pubblicazione.

[nota 18] FERRI, «L'esclusione testamentaria di eredi», in Riv. dir. civ., 1941, p. 228; CICU, «Diseredazione e rappresentazione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p. 385; MENGONI, Successioni per causa di morte, Successione necessaria, II, Milano, 2000, p. 16; GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell'atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 317.

[nota 19] RUSSO, La diseredazione, Torino, 1998, p. 142.

[nota 20] In un intervento in materia di diseredazione, la Suprema Corte (Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ., 1967, I, p. 2032; in Foro it., 1968, I, c. 574; in Foro pad., 1967, I, c. 943.) afferma che «il contenuto tipico del testamento è dato dalla disposizione patrimoniale positiva che, come precisa il successivo art. 588, può essere costituita esclusivamente o dalla istituzione di erede (disposizione a titolo universale) o dal legato (disposizione a titolo particolare) ... La volontà del testatore è sì libera e sovrana, ma essa può essere espressa solo attraverso il testamento, attraverso cioè quello strumento tecnico e tipico anche quanto al contenuto, nel senso che il testatore può provvedere sì liberamente alle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di esistere, ma attraverso lo strumento della disposizione patrimoniale positiva, la istituzione di erede o il legato».

[nota 21] Si pensi, in particolare, a CICU, Successione legittima e dei legittimari, Milano, 1943, p. 144 e ss.; SANTORO PASSARELLI, «Vocazione legale e vocazione testamentaria», in Riv. dir. civ. 1942, p. 197; RESCIGNO, L'interpretazione del testamento, Napoli, 1952, p. 148 e ss.; BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1944, p. 49 e ss.

[nota 22] Coerentemente a tali premesse, si ritiene altresì di dover riconoscere alle norme sulla successione legittima carattere dispositivo e non meramente suppletivo.

[nota 23] Il condizionamento esercitato negli studi sulla divisione testamentaria dalle pervicaci convinzioni in ordine alla funzione esclusivamente attributiva del testamento è messo in evidenza da BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria...», cit., p. 903 e ss., il quale, riferendosi alla ricostruzione offerta dal MENGONI, osserva che «proprio l'impossibilità di sfuggire alla rigida alternativa tra istituzione di erede e legato, imposta da una rigorosa osservanza delle regole della c.d. tipicità delle disposizioni testamentarie patrimoniali, ha condizionato in maniera evidente le soluzioni proposte in quello che resta a tutt'oggi il più ampio contributo monografico in tema di divisione testamentaria».

[nota 24] MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 84.

[nota 25] MENGONI, op. cit., p. 74 e ss.

[nota 26] Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro it., 1968, I, c. 457.

[nota 27] A testimonianza di quanto detto, l'art. 29 della Costituzione configura la famiglia quale «società naturale fondata sul matrimonio».

[nota 28] Al riguardo, si fa rinvio alle pagine di NICOLò, voce Attribuzione patrimoniale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 283 e ss.

[nota 29] BURDESE, La divisione testamentaria, in Tratt. dir. civ. it. diretto da F. Vassalli, Torino, 1980, p. 255.

[nota 30] FORCHIELLI, La divisione, cit., p. 201; AMADIO, La divisione del testatore, cit., p. 76

[nota 31] AMADIO, La divisione del testatore, cit., p. 77.

[nota 32] FORCHIELLI, La divisione, cit., p. 202.

[nota 33] FORCHIELLI, op. cit., p. 204; BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria ... - Sezione seconda», cit., p. 903 e ss. contra CICU, Successione…, cit., p. 466 e ss., per il quale non è consentito ammettere il pregiudizio delle ragioni dei legittimari in mancanza di indici chiari da parte del legislatore.

[nota 34] FORCHIELLI, op. cit., p. 202, per il quale «dal punto di vista quantitativo la libertà divisoria del testatore può incontrare un limite, per così dire naturale, nella sua stessa volontà, ossia nella testamentaria predeterminazione delle quote astratte riservate a ciascun coerede».

[nota 35] FORCHIELLI, op. cit., p. 198.

[nota 36] AZZARITI, Successioni e donazioni, cit., p. 721; BURDESE, op. cit., p. 259.

[nota 37] Autorevole dottrina (FORCHIELLI, op. cit., p. 199) ha ritenuto di poter ricostruire diversamente il dato normativo, considerando che, laddove avesse voluto delimitare il campo di applicazione della vocazione legittima rispetto a quella testamentaria, il secondo comma dell'articolo 734 c.c. sarebbe stato una mera ripetizione del principio sancito dall'articolo 457 c.c., per il quale «non si fa luogo a successione legittima se non quando manchi, in tutto o in parte, quella testamentaria». Ebbene, onde evitare di ritenere che il legislatore abbia inteso dettare due norme con il medesimo significato, si deve ritenere che «coerentemente alla sua sedes materiae, il comma in esame, lungi dall'essere destinato a discriminare la successione legittima dalla successione testamentaria … sia preordinato alla più modesta funzione di precisare che i beni ereditari non investiti dalla divisione testamentaria restano soggetti alla disciplina divisoria comune, salvo che il testatore, valendosi del potere attribuitogli dall'articolo 733 c.c., non abbia previsto il modo della loro ripartizione, pur non attuando concretamente quella ripartizione». L'Autore ritiene, pertanto, che la disposizione in oggetto provveda a colmare una lacuna tipicamente divisionale rispetto alla corrispondente vocazione testamentaria.

[nota 38] BURDESE, op. cit., p. 259.

[nota 39] Ammette l'utilizzo del conguaglio, qualificando come debito di valore l'obbligazione che ne sorge, Cass. 16 gennaio 2007, n. 862, in Vita not., 2007, 1, p. 205.

[nota 40] BOMBARDA, op. cit., p. 118.

[nota 41] Trib. Napoli, 26 giugno 1997, in Arch. civ., 1998, p. 953.

[nota 42] Nella relazione del prof. AMADIO, «Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio», in questo volume, si sottolinea come diverse siano le conclusioni allorché si intenda assegnare ad uno dei condividenti non già denaro ma beni non ereditari. In tale ipotesi, infatti, l'assegnazione esorbita dalla funzione distributiva che è propria della divisione: si renderebbe necessaria una seconda operazione di stima, un confronto tra due masse patrimoniali, e pertanto «un duplice giudizio di equivalenza che riproduce in qualche misura, sia pure mediata, lo schema dello scambio».

[nota 43] Cass. 22 giugno 2005, n. 13380, in Riv. not., 2006, 3, p. 777, secondo cui «benchè, per il principio di intangibilità della quota di riserva, i diritti del legittimario vadano soddisfatti con beni (o denaro) provenienti dall'asse ereditario pur senza l'osservanza di un criterio qualitativo, e ex art. 735 c.c. sia nulla (se si risolve in una preterizione del legittimario) nonché riducibile (se leda la quota di riserva) la clausola con cui il testatore dispone che le ragioni ereditarie di un riservatario siano soddisfatte dagli eredi con una somma di denaro estranea a relictum, il de cuius che procede direttamente alla divisione dei beni ereditari può ricorrere allo strumento del conguaglio in denaro, per correggere le disuguaglianze in natura delle quote».

[nota 44] Cass. 22 giugno 2005, n. 13380, cit.; Cass. 12 marzo 2003, n. 3694, in Giust. civ., 2004, I, p. 471, per la quale «è nulla ex art. 735 comma 1 c.c. la divisione con cui il testatore dispone che le ragioni di un legittimario siano soddisfatte dagli altro eredi con la corresponsione di una somma di denaro»; Cass. 23 marzo 1992, n. 3599, in Giust. civ. Mass., 1992, 3, secondo cui «Per il principio dell'intangibilità della quota di legittima i diritti del legittimario vanno soddisfatti con beni o denaro provenienti dall'asse ereditario; pertanto la divisione in cui il testatore disponga che la ragioni ereditarie di un riservatario siano soddisfatte dagli eredi tra cui è diviso l'asse ereditario, con la corresponsione di una somma di denaro non compresa nel relictum, è affetta da nullità, che può essere fatta valere dal legittimario pretermesso con l'azione di nullità di cui al comma 1 dell'art. 735 c.c., contestualmente all'azione di riduzione»; Trib. Napoli 26 giugno 1997, in Arch. civ., 1998, p. 953.

[nota 45] IEVA, «Il profilo giuridico della trasmissione dell'attivià imprenditoriale in funzione successoria: i limiti all'autonomia privata e le prospettive di riforma», in Riv. not., 2000, 6, p. 1345.

[nota 46] Ciò aderendo ad una ricostruzione unitaria del patto di famiglia quale contratto plurilaterale; a diverse conseguenze condurrebbe l'approccio atomistico, per il quale parti del patto di famiglia sarebbero soltanto l'imprenditore ed il legittimario assegnatario. Per una compiuta esposizione delle due prospettive, TASSINARI, «Il patto di famiglia per l'impresa e la tutela dei legittimari», in Giur. comm., 2006, 5, p. 808.

[nota 47] AZZARITI, «La divisione fatta dal testatore ed i legati in sostituzione o in conto di legittima», in Riv. dir. civ., 1975, IV, p. 645 e ss. ed in particolare p. 654; l'Autore osserva ancora che «nello stesso modo che dall'attribuzione in natura si prescinde quando, in sede di divisione giudiziaria, si procede alla vendita dell'intera sostanza ereditaria e poi si distribuisce il denaro ricavato, così se ne prescinde se ciò ha stabilito, nelle sue disposizioni, il testatore: nell'una e nell'altra ipotesi, pure assegnando denaro che non esiste nell'asse ereditario, i coeredi conseguono il valore dei beni di cui il patrimonio si compone, che ne sono parte integrante».

[nota 48] Cfr. Cass. 13 marzo 2003, n. 3694, cit.

[nota 49] BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria...», cit., p. 687 e ss.

[nota 50] FORCHIELLI, Della divisione, cit., p. 210.

[nota 51] BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria...», cit., p. 687 e ss.

[nota 52] Critica un tale risultato ricostruttivo TAVASSI, «Divisione testamentaria e preterizione divisoria», in Rass. dir. civ., 1994, p. 819 e ss.

[nota 53] Cass. Sez. Un., 25 ottobre 2004, n. 20644, in Giust. civ. 2005, 2, p. 351 «la divisione fatta dal testatore con preterizione di qualcuno dei legittimari è nulla ex art. 735 comma 1 c.c.; tale nullità fa venire meno la base per l'esperimento dell'azione di riduzione da parte del legittimario preterito dalla stessa divisione».

[nota 54] L. COVIELLO Jr, Successione legittima e necessaria, Milano, 1938, p. 307; CICU, Le successioni, Milano, 1947, p. 218.

[nota 55] In tal senso, SANTORO-PASSARELLI, Dei Legittimari, cit., p. 272; GROSSO - BURDESE, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, XII, tomo 1, Torino, 1977, p. 86; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II ed., tomo II, Milano, 2002, p. 265; MENGONI, Successioni per causa di morte, cit., p. 43; in giurisprudenza, Cass. 4 aprile 1992, n. 4140, in Giust. civ. Mass., 1992, 4.

[nota 56] Cass. 4 aprile 1992, n. 4140, cit.

[nota 57] In senso conforme al testo, in dottrina, MENGONI, Successioni per causa di morte, cit., p. 76; TEDESCO, «In tema di azione di riduzione e divisione fatta dal testatore», in Giust. civ., 2005, 2, p. 353.

La differenza tra azione di riduzione ed azione di divisione viene ben illustrata da Cass. 23 gennaio 2007, n. 1408 in Giust. civ. Mass., 2001, 1, ove si legge che «L'azione di riduzione e quella di divisione sono nettamente distinte ed autonome, atteso che la seconda tende, indipendentemente dalla divisione dell'asse ereditario, al soddisfacimento dei diritti dei legittimari nei limiti in cui siano lesi dalle disposizioni testamentarie, con la conseguenza che non può ritenersi implicitamente proposta la domanda di divisione, la quale presuppone il già avvenuto recupero alla comunione ereditaria dei beni che ad essa siano stati eventualmente sottratti dal testatore con un atto che abbia violato la riserva per legge in favore dei legittimari».

[nota 58] AMADIO, La divisione del testatore, cit., p. 94.

[nota 59] BILOTTI, «Appunti sulla divisione testamentaria...», cit., p. 687 e ss.

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