L'oggetto della divisione ereditaria: questioni in tema di crediti e partecipazioni sociali
L'oggetto della divisione ereditaria: questioni in tema di crediti e partecipazioni sociali
di Lorenza Bullo
Notaio in Rovigo
Rapporti obbligatori del defunto e pluralità di eredi: il tradizionale principio nomina (et debita) hereditaria ipso iure dividuntur
La delimitazione dell'ambito oggettivo della divisione ereditaria presuppone la previa individuazione delle situazioni patrimoniali oggetto di contitolarità tra gli eredi: non tutto ciò che è oggetto di successione mortis causa è infatti necessariamente anche oggetto di comunione tra gli eredi [nota 1].
Con specifico riferimento sia ai crediti (divisibili), sia alle partecipazioni sociali detenute dal defunto, una delle principali questioni che si profilano al riguardo, concerne proprio la loro divisione automatica o meno tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie di spettanza.
La posizione tradizionale di derivazione romanistica [nota 2], che caratterizza la maggior parte della letteratura giuridica sulla comunione ereditaria - posizione peraltro fortemente incrinata dalla recente giurisprudenza di legittimità - è basata, essenzialmente, sulle seguenti affermazioni:
- sulla proprietà e sui singoli diritti reali di godimento e in genere sui diritti a questi assimilabili già spettanti al de cuius si forma una comunione disciplinata dagli artt. 1100 e ss. c.c., comunione dove la quota ha una valenza non solo interna, ma anche esterna;
- per quanto concerne, invece, i singoli rapporti obbligatori non estintisi con la morte del de cuius, non ritenendosi ammissibile una comunione quotaria sul singolo debito e sul singolo credito - a differenza di quanto accade per i diritti reali - si ritiene che essi si modifichino in obbligazioni con pluralità di soggetti, con conseguente applicazione della disciplina della parziarietà o della solidarietà a seconda della natura divisibile o indivisibile della prestazione oggetto degli stessi.
Si capisce, quindi, perché la dottrina tradizionale pensi alla comunione ereditaria come ad una species del genus comunione su singoli diritti reali di cui agli artt. 1100 e ss., specie che si caratterizzerebbe soprattutto per la fonte e cioè per la corrispondente natura incidentale e non volontaria [nota 3].
In questo contesto ricostruttivo si colloca e ben si comprende l'adesione al tradizionale principio nomina (et debita) hereditaria ipso iure dividuntur in forza del quale i crediti divisibili del defunto si dividerebbero automaticamente tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie, senza che sia necessario alcun atto di divisione, negoziale o giudiziale, tra gli eredi.
Si tratta tuttavia di un principio che, per quanto riguarda i crediti ereditari, la giurisprudenza, non da ultimo la Cassazione a Sezioni Unite, ha totalmente disatteso, come meglio si vedrà [nota 4].
Gli argomenti principali a sostegno della tesi della divisione automatica sono, in estrema sintesi, il richiamo al disposto dell'art. 1295 c.c., la formulazione dell'art. 1314 c.c. e, argomentando a contrario, il richiamo all'art. 1772 c.c. secondo comma [nota 5].
Divisione automatica dei crediti divisibili vuol dire estraneità degli stessi alla comunione ereditaria e quindi anche estraneità dei medesimi alla divisione ereditaria in senso tecnico: ammessa una tale divisione, infatti, ogni coerede, per il solo fatto dell'accettazione dell'eredità, che ha effetto retroattivo ai sensi dell'art. 459 c.c., diviene titolare esclusivo di una pars quanta del credito già spettante al de cuius, parte di cui può pertanto disporre con immediata efficacia traslativa, senza che sia necessario alcun previo atto divisorio. L'adesione a tale supposta divisione automatica non esclude, tuttavia, che lo stesso credito - ove ancora in essere al momento dello scioglimento della comunione - possa essere utilizzato, nella sua interezza come se non si fosse mai diviso, per comporre l'assegno con il quale viene apporzionato uno dei coeredi: in tal caso però l'erede così apporzionato non sarebbe tacitato con l'attribuzione di un bene comune e quindi il negozio posto in essere, certamente lecito, avrebbe in parte natura traslativa e si sarebbe dunque in presenza più che di una divisione in senso tecnico di un atto equiparato alla divisione [nota 6].
Viceversa, aderendo alla tesi della non automatica divisione e quindi dell'appartenenza dei crediti del defunto, quantunque oggettivamente divisibili, alla comunione ereditaria, gli stessi potranno essere oggetto, di vera e propria divisione ereditaria, se ancora esistenti a tale data.
Ulteriori conseguenze derivanti dall'adesione all'una o all'altra tesi si manifestano poi, oltre che nella disciplina applicabile agli atti dispositivi del credito, anche nella disciplina dell'adempimento del debito (si pensi solo all'individuazione del legittimato a ricevere con effetto liberatorio per il debitore, alla rifiutabilità dell'adempimento parziale), nonché sul piano processuale al problema circa la sussistenza o meno del litisconsorzio necessario nelle azioni volte all'accertamento o al soddisfacimento del credito già del de cuius in presenza di una pluralità di eredi.
Vediamo quindi di illustrare le ragioni dell'una e dall'altra tesi e lo stato della giurisprudenza sul punto.
Nella prospettiva tradizionale, per individuare la sorte dei crediti del defunto, si distingue tra crediti divisibili e crediti indivisibili.
Per quanto concerne questi ultimi, nell'ipotesi di pluralità di eredi, la dottrina è, sostanzialmente concorde nel sottoporre integralmente tali rapporti alla disciplina prevista nel libro quarto del codice civile per le obbligazioni plurisoggettive aventi ad oggetto prestazioni indivisibili [nota 7] e quindi in definitiva al regime della solidarietà, salvo quanto disposto dagli artt. 1318-1320 c.c.
Articoli, questi ultimi, che contengono delle regole specifiche per le obbligazioni plurisoggettive indivisibili, regole che si discostano dal regime applicabile, in via generale, alle obbligazioni solidali [nota 8].
L'applicazione ai rapporti obbligatori indivisibili del defunto del regime della solidarietà ai sensi degli artt. 1317 e ss. c.c. rende pertanto superfluo, nella prospettiva propria della dottrina tradizionale, interrogarsi se tali rapporti - esclusi dall'ambito di operatività del principio dell'ipso iure dividuntur a causa della natura stessa della prestazione - costituiscano o meno oggetto di comunione ereditaria: per essi, infatti, nelle situazioni di contitolarità sussiste una disciplina specifica, distinta da quella contenuta negli artt. 1100 e ss. c.c. che si rivolgono solo alla proprietà e agli altri diritti reali.
Per quanto riguarda, invece, i crediti e i debiti divisibili, è risaputo come la prevalente dottrina accolga la tesi della divisione automatica tra gli eredi di tali rapporti: ciò equivale ad affermare che l'originario rapporto obbligatorio facente capo al defunto si scinde ipso iure - e quindi non solo a prescindere, ma anche contro la volontà degli eredi - in un fascio di obbligazioni parziarie, con conseguente applicabilità del regime previsto, in generale, per le obbligazioni parziarie [nota 9].
Il principio della divisione automatica dei crediti e debiti divisibili del defunto era, peraltro, fatto proprio, seppure con qualche voce di dissenso, anche dalla dottrina italiana formatasi nel periodo in cui era in vigore il codice civile del 1865, nonché dalla dottrina francese [nota 10].
All'origine del principio c.d. dell'ipso iure dividuntur vi è chiaramente l'idea, tramandataci dai romani, che tutto ciò che non abbisogna di intervento del giudice o dell'accordo unanime delle parti per trasformare la pars quota in pars quanta, sia da considerare di per sé diviso.
La ragione sottesa a tale regola consisteva - e consiste tuttora - nella volontà di svincolare le controparti del rapporto obbligatorio, già facente capo al defunto, dalle vicende relative alla comunione ereditaria sui beni del defunto, comunione - si badi bene - intesa come comunione caratterizzata dalla presenza di quote di appartenenza individuali sui soli diritti reali ed il cui perdurare è rimesso alla volontà degli eredi.
In tal modo, infatti, nonostante la volontà di costoro di non giungere alla divisione ereditaria, i terzi creditori e debitori del de cuius - si afferma - sarebbero maggiormente garantiti proprio dal fatto che i coeredi rispettivamente pagherebbero ed esigerebbero solo pro quota.
Tale è appunto la ratio del principio nomina et debita hereditaria ipso iure dividuntur, cioè quella di scindere la sorte dei rapporti obbligatori da quella dei diritti reali.
È evidente che, secondo l'opinione tradizionale testé ricordata, se da un lato i crediti ed i debiti ereditari risultano esclusi da quello che è l'ambito oggettivo della comunione ereditaria, dall'altro appare giustificata e coerente, in tale ricostruzione interpretativa, l'affermazione secondo la quale la pluralità di creditori e di debitori di una prestazione divisibile di cui è fatta menzione all'art. 1314 c.c. è da intendersi riferita anche all'ipotesi di pluralità sopravvenuta mortis causa [nota 11].
Va, peraltro, sottolineato come quest'ultima affermazione venga solitamente ripetuta nonostante nel testo dell'art. 1314 c.c., a differenza del testo di cui al corrispondente articolo 1204 contenuto nel codice civile del 1865, che a sua volta rispecchiava il testo dell'art. 1220 code civil francese, sia scomparso l'espresso riferimento della rilevanza della divisibilità dell'obbligazione tra gli eredi del debitore o del creditore: sull'importanza di tale omissione nella formulazione del vigente art. 1314 c.c. ha invece insistito la dottrina che nega operatività nel nostro ordinamento al principio di divisione automatica dei crediti [nota 12].
Il tramonto del principio di divisione automatica
L'adesione di ampia parte della dottrina alla regola della divisione automatica dei crediti (divisibili) del defunto, se può essere sicuramente spiegata e compresa sia per la particolare importanza della tradizione romanistica nel nostro paese, sia per l'influsso della analoga soluzione accolta dalla prevalente dottrina sotto la vigenza del codice del 1865, meno giustificata appare tuttavia alla stregua di diversi indici normativi vigenti [nota 13].
Se, infatti, per i debiti ereditari esistono norme specifiche (artt. 752 e 754 c.c.) che derogano alla regola della presunzione di solidarietà passiva stabilita dall'art. 1294 c.c. [nota 14], viceversa, per i crediti ereditari, una norma di contenuto simmetrico a quelle di cui all'art. 752 e 754 c.c. [nota 15] non è rinvenibile.
A tale significativa assenza si aggiungano inoltre le indicazioni che derivano dagli artt. 727 e 760 c.c.
L'art. 727 c.c., infatti, nel prevedere la composizione qualitativa dei lotti da assegnare con effetto retroattivo ai coeredi condividenti menziona anche i crediti accanto ai beni mobili ed immobili.
Che l'art. 727 c.c. non si riferisca poi ai soli crediti indivisibili, come pure da taluno obiettato, risulta confermato dalla norma contenuta nell'art. 760 c.c.
Tale articolo disciplina, infatti, in modo specifico la garanzia dovuta al coerede assegnatario di crediti di rendite, crediti questi divisibili, per il caso di insolvenza del debitore del de cuius: appare difficile non vedere in tale norma una chiara ed inequivoca conferma della circostanza che anche i crediti divisibili possono essere oggetto delle porzioni formate dai coeredi in sede di divisione ereditaria.
L'art. 760 c.c. è però significativo anche sotto un altro profilo: esso pone, infatti, quale momento temporale discriminante per l'estensione della garanzia contro il rischio dell'insolvenza del debitore, anche di una rendita, la circostanza che l'insolvenza si sia verificata prima della divisione ereditaria.
Ciò dimostra che per la sorte dei crediti ereditari anche divisibili il momento di riferimento ai fini della prestazione della garanzia della solvenza coincide significativamente con il momento della divisione ereditaria e non con quello dell'apertura della successione.
Si aggiunga poi che l'art. 757 c.c., utilizzando le espressioni «è reputato» e «si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari», presuppone che i crediti assegnati ad un coerede per effetto della divisione, prima di tale momento siano stati oggetto di contitolarità con gli altri condividenti, contitolarità che viene (poi) retroattivamente eliminata.
Proprio partendo da una ricognizione degli indici normativi testé richiamati, già da tempo nell'ambito sia della dottrina che si è occupata in modo specifico di successioni, sia di quella che si è occupata in modo specifico di obbligazioni plurisoggettive si è andata consolidando la tesi che nega l'esistenza del sopra citato principio di divisione automatica dei rapporti obbligatori del defunto, specie con riguardo ai crediti [nota 16].
Su questo contrasto dottrinale è poi intervenuta una significativa e non lontana pronuncia della Cassazione che, inaugurando un nuovo indirizzo giurisprudenziale, ha affermato appunto il principio di diritto secondo cui i crediti ereditari - benché divisibili - non si dividono affatto ipso iure, ma devono essere oggetto di successiva divisione contrattuale o giudiziale tra i coeredi.
In tale pronuncia, peraltro, la Cassazione non è andata oltre alla c.d. pars destruens affidando, in tal modo, al solo pensiero dottrinario l'elaborazione e la verifica dei contenuti - se così possiamo esprimerci - della c.d. pars construens.
La Corte, infatti, si è limitata ad esprimere il principio per cui non è vero che il credito divisibile si debba intendere diviso ipso iure al momento dell'apertura della successione, mentre null'altro ha detto circa la situazione in cui si verrebbe a trovare tale credito durante l'esistenza della comunione ereditaria.
È nota [nota 17], infatti, la tesi secondo la quale sul credito non può esservi comunione, ai sensi degli artt. 1100 e ss. c.c. - articoli questi ultimi che si applicano direttamente soltanto alle situazioni di comproprietà e di comunione su altri diritti reali - perché ne mancherebbe l'effetto caratteristico, cioè quello per cui la rinunzia di un comunista determina l'espandersi del diritto degli altri; nel credito spettante ad una pluralità di soggetti, invece, la rinunzia di un concreditore, ai sensi dell'art. 1301 comma secondo c.c., ha come effetto quello di estinguere il credito relativamente alla quota del rinunziante.
Che l'art. 1301 c.c., venga in rilievo nell'ipotesi di solidarietà attiva non è in discussione; ciò che, invece, è stato da taluni criticato è che il medesimo articolo si applichi anche nelle situazioni di comunione ereditaria relativamente ai crediti relitti dal de cuius: si è osservato [nota 18], infatti, che la remissione del credito compiuta da uno dei coeredi, benché effettuata nei limiti della propria quota, in quanto atto dispositivo su di un bene oggetto di comunione ereditaria, come tutti gli atti dispositivi compiuti sulla quota relativa a singoli beni dell'asse, avrà effetto soltanto a divisione compiuta e a condizione che il credito stesso venga assegnato, in sede di divisione, al coerede rinunciante.
L'idea tradizionale secondo la quale la disciplina della solidarietà attiva non lascerebbe spazio alla comunione sul credito, e quindi all'inclusione di esso nella comunione anche ereditaria, è peraltro formulata partendo sempre dalla premessa che l'eventuale inclusione dei crediti nella comunione ereditaria dia necessariamente origine ad un fenomeno di comunione c.d. quotaria sui singoli crediti il che, invece, è da dimostrare, perlomeno con riguardo a quella peculiare comunione che è la comunione ereditaria.
A questo proposito ci si deve, invero, domandare se l'affermazione della inclusione dei crediti divisibili nella comunione ereditaria anziché portare ad ammettere la figura del c.d. concredito inteso come comunione per quote di appartenenza individuali sul singolo credito, non conduca piuttosto a ritenere che il credito appartiene non già in comunione agli eredi individualmente considerati, bensì agli eredi quali contitolari dell'intero patrimonio ereditario, concependo però allora l'aspetto soggettivo della coeredità come qualcosa di qualitativamente diverso da una semplice comunione atomistica sui singoli diritti (reali ed assimilati), per riportare invece tale aspetto a una nozione di contitolarità, in senso lato, solidale dell'intero patrimonio, comprensivo non solo di beni o meglio di diritti assoluti, ma anche di rapporti giuridici in generale ed in particolare anche di crediti.
Il tipo di contitolarità che si determina sugli elementi che compongono l'attivo ereditario e quindi anche sui crediti, dipende dunque dal tipo di contitolarità - rispettivamente c.d. quotaria o a mani riunite - che si ritiene sussistente in ordine al patrimonio ereditario nel suo insieme nelle ipotesi di coeredità.
Come è noto il modello di contitolarità c.d. quotaria è caratterizzato da quote di appartenenza individuali, in cui oggetto di comunione sono i singoli beni e diritti; di ciascuno di questi ultimi ogni coerede è, cioè, individualmente titolare pro quota, con la possibilità quindi di disporne, beninteso nei limiti della propria quota, con immediata efficacia traslativa; che tale modello sia interamente accolto nel nostro ordinamento, anche con riferimento alla comunione ereditaria, è invero affermazione non del tutto pacifica, come dimostra anche tutta la problematica inerente all'efficacia traslativa, immediata o meno, della alienazione pro quota di singolo bene di una massa ed in particolare di quella ereditaria, questione quest'ultima, oggetto delle relazioni che seguono cui pertanto si rinvia.
Come si può dunque vedere la questione specifica dell'inclusione o meno anche dei crediti nella comunione ereditaria si colloca, in realtà, all'interno del più ampio e generale problema circa la struttura e la disciplina della comunione ereditaria.
Segue: …il rovesciamento del broccardo nomina hereditaria ipso iure dividuntur nella giurisprudenza della Cassazione
Veniamo ora ad una sintetica, ma significativa rassegna delle principali pronunce giurisprudenziali in tema di ripartizione tra gli eredi dei crediti del defunto.
Su questo aspetto si segnalano dapprima una pronuncia molto risalente nel tempo [nota 19] nella quale la giurisprudenza, in linea con l'indirizzo dottrinale allora dominante, aveva affermato la divisione ipso iure dei crediti (divisibili) tra gli eredi e, più di recente, una sentenza che, invece, ponendosi in contrasto con tutta la tradizione, ha negato valore alla massima nomina hereditaria ipso iure dividuntur.
Si è trattato, in quest'ultimo caso, di una sentenza così chiaramente rivoluzionaria nei contenuti che, proprio per la sua assoluta novità, si è imposta all'attenzione degli studiosi e degli operatori del diritto: ci riferiamo alla sentenza n. 11128 del 1992 nella quale la Corte di Cassazione ha negato al coerede il potere di esigere e di ricevere - prima della divisione ereditaria - la quota parte di un credito ereditario per la ragione che anche i crediti ereditari, così ha affermato la Corte, devono considerarsi ricompresi nella comunione ereditaria [nota 20].
La Cassazione, cioè, con la citata pronuncia discostandosi dall'orientamento allora tradizionalmente accolto sia in dottrina che in giurisprudenza, ha affermato il principio di diritto secondo cui i crediti ereditari, benché divisibili, non si dividono affatto ipso iure tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, con la conseguenza da un lato che anche i crediti del de cuius vengono ad essere oggetto della successiva divisione negoziale o giudiziale tra i coeredi, beninteso ove ancora esistenti a tale data, e dall'altro che gli eredi devono procedere alla divisione dell'asse per poter singolarmente e individualmente esigere la parte del credito spettante a ciascuno di loro.
La massima di tale pronuncia si esprime nel modo che segue: «I crediti del de cuius, a differenza dei debiti (art. 752 c.c.), non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, come è dato desumere dalle disposizioni degli artt. 727 e 757 c.c.».
Può essere utile riassumere il fatto che ha dato origine alla controversia portata innanzi ai giudici di legittimità.
La vicenda era la seguente: un soggetto, nella sua qualità di erede testamentario di un terzo dell'eredità, allo scopo di ottenere dalla banca il pagamento - nei limiti della quota spettantegli - del saldo attivo di alcuni conti correnti di cui era titolare il de cuius, aveva proposto ricorso per ingiunzione di pagamento ai sensi dell'art. 633 c.p.c. ed anche ottenuto il relativo decreto nei confronti della banca stessa per l'importo corrispondente.
A tale decreto la banca si era opposta sulla base della negazione dell'esistenza nel nostro ordinamento della regola secondo cui i crediti ereditari divisibili si dividono automaticamente tra i coeredi in proporzione alle quote ereditarie.
Il Tribunale accolse l'opposizione, ritenendo fondate le ragioni addotte dalla banca.
Successivamente la Corte d'Appello confermò la decisione di primo grado e tale sentenza fu, a sua volta, confermata dalla Cassazione che, infatti, rigettò il ricorso proposto dal coerede.
Le argomentazioni attraverso le quali la Cassazione è giunta ad affermare la non automatica divisione dei crediti ereditari e la loro conseguente inclusione nella comunione ereditaria si basano, in particolar modo, sulla disciplina risultante dagli articoli 727 e 757 c.c.
L'art. 727 c.c., infatti, annoverando anche i crediti tra gli elementi di cui si compongono i lotti divisionali confermerebbe implicitamente la inclusione degli stessi nella comunione ereditaria e quindi la circostanza della loro non automatica divisione.
L'art. 757 c.c., inoltre, disponendo l'efficacia retroattiva dell'attribuzione dell'intero credito ricompreso nel lotto divisionale assegnato ad uno solo dei coeredi in sede di divisione ereditaria - sia essa negoziale o giudiziale - rappresenterebbe, ad avviso della Corte, una ulteriore prova che i crediti non si dividono in modo automatico tra i coeredi in proporzione alle quote ereditarie fin dal momento dell'acquisto dell'eredità, acquisto che per effetto della retroattività dell'atto di accettazione retroagisce al momento dell'apertura della successione.
La tesi dell'appartenenza del credito alla comunione ereditaria sarebbe altresì confermata, sempre secondo il ragionamento della Corte qui riportato, dalla norma contenuta nell'art. 760 c.c., articolo in cui sono disciplinati i limiti della garanzia dovuta dai coeredi per il credito assegnato in sede di divisione - e si intende per intero - ad uno dei coeredi.
Sarebbe proprio dalla presenza di una norma come l'art. 760 c.c. che si potrebbe dedurre che anche i crediti sono oggetto della divisione negoziale o giudiziale tra i coeredi.
Sempre secondo la Corte, inoltre, non rappresenterebbero un argomento favorevole alla tesi tradizionale dell'automatica divisione del credito ereditario - come invece normalmente si sostiene - le disposizioni degli artt. 1295 e 1314 c.c.: le norme contenute in questi articoli, infatti, sono, a giudizio della Corte, delle disposizioni del tutto estranee alla problematica relativa all'inclusione o meno dei crediti nella comunione ereditaria e come tali non probanti.
La Corte, infine, ricorda come nel vigente art. 74 c.p.p., a differenza dell'art. 22 dell'abrogato c.p.p., sia stato eliminato il riferimento alla quota ereditaria quale limite posto al successore universale del danneggiato ai fini dell'esercizio nel processo penale dell'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all'art. 185 c.p. contro l'imputato e contro il responsabile civile.
La Corte, peraltro, sempre nella motivazione in oggetto non si è tuttavia limitata ad esplicitare, seppure sinteticamente, le ragioni poste a fondamento della sua presa di posizione, ma si è altresì preoccupata di confutare l'antica argomentazione utilizzata per negare l'ammissibilità, nel nostro ordinamento, sia della comunione sul credito in generale sia della inclusione dei crediti nella comunione ereditaria in particolare.
L'argomentazione che è stata oggetto di confutazione da parte della Corte può essere così schematicamente riassunta: la caratteristica peculiare della comunione è l'espansione per accrescimento delle quote dei contitolari del diritto in seguito alla rinuncia di uno dei partecipi alla propria quota; la rinuncia di uno dei creditori in solido determina, invece, ai sensi dell'art. 1301 c.c. la liberazione del debitore verso gli altri creditori nei limiti della quota spettante al rinunziante, quota che pertanto non si accresce agli altri concreditori; ergo - completando il sillogismo - si conclude che il credito non può quindi mai essere oggetto di comunione [nota 21].
La Corte, nella pronuncia in oggetto, ha invece negato che la rinuncia di uno dei coeredi alla propria quota di credito possa provocare l'immediata liberazione del debitore ai sensi e nei limiti di cui all'art. 1301 c.c., dal momento che, secondo la Corte, tale atto dispositivo compiuto dal coerede non avrebbe efficacia immediata - come viceversa avviene nella fattispecie regolata dall'art. 1301 c.c. - dovendo invero l'efficacia di un tale atto rinunziativo-dispositivo ritenersi sospensivamente condizionata all'attribuzione dell'intero credito o di una porzione di esso al medesimo coerede rinunciante [nota 22].
Successivamente, la Corte è ritornata al principio opposto a quello della inclusione dei crediti nella comunione ereditaria, venendo così a ribadire la regola tradizionale secondo la quale i nomina hereditaria ipso iure dividuntur.
La massima della sentenza n. 4501/99 recita infatti [nota 23]: «Alle prestazioni assistenziali e previdenziali si applicano le regole generali vigenti in materia successoria sicché dopo la morte dell'assicurato la prestazione può essere rivendicata da ciascun coerede, in tale qualità, nei limiti della propria quota ereditaria e non per l'intero».
Nella fattispecie posta all'attenzione della Corte, uno dei coeredi aveva chiesto ed ottenuto in primo grado, con pronuncia successivamente confermata in appello, la condanna del Ministero dell'Interno al pagamento dell'intero debito per l'indennità di accompagnamento spettante alla defunta genitrice.
La Cassazione, accogliendo il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno, afferma quanto segue: «Non essendo contestata in causa la qualità di coerede e non trattandosi nella specie di una situazione di credito solidale, escludendone la valenza l'art. 566 c.c., che sancisce il principio della successione in parti eguali dei figli ai genitori, ne consegue, come mette in rilievo l'Avvocatura che l'odierno intimato non poteva agire per l'intero, non essendo egli investito di un titolo idoneo per esercitare anche il diritto del fratello, ma solo pro quota. La condanna del Ministero pertanto deve essere limitata alla quota ereditaria afferente l'odierno intimato».
Come è evidente, tale pronuncia pur senza esplicitarlo, presuppone operante nel nostro ordinamento il principio della divisione automatica dei crediti ereditari divisibili in proporzione alle quote ereditarie e di conseguenza decide il caso proposto.
Il richiamo all'art. 566 c.c. relativo all'uguaglianza delle quote ereditarie appare peraltro inconferente al fine di limitare la legittimazione ad esigere del coerede ad una sola parte del debito ereditario corrispondente alla quota di pertinenza del coerede istante: infatti la spettanza di una quota dell'eredità non equivale necessariamente ad un diritto attuale dell'erede su di una parte divisa di ciascun bene e diritto ereditario divisibile, come appunto nella specie era il credito, trattandosi di credito pecuniario: ciò è appunto il thema decidendum.
La Corte, dunque, se voleva ribadire quanto da lei stessa negato pochi anni prima e cioè che i crediti ereditari divisibili si dividono ipso iure poteva forse anche tentare di farlo, ma non certo sulla base dell'art. 566 c.c., in quanto trattasi di articolo estraneo alla risoluzione della problematica in esame.
La scarsità di argomenti offerti dalla sentenza testé richiamata e soprattutto l'assenza di riferimenti normativi convincenti e adeguati sono sembrate ai più ragioni sufficienti per negare rilevanza a tale pronuncia della Cassazione.
A conferma di ciò vanno segnalate alcune successive pronunce, precisamente la n. 640/2000 e la n. 19062/2006, nelle quali la Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla medesima questione tornando però a riaffermare il principio della inclusione nella comunione ereditaria dei crediti (divisibili) del de cuius.
Anche in tale occasione la Corte ha basato le proprie affermazioni sulle norme contenute negli artt. 727, 757 e 760 c.c., avendo peraltro cura di esplicitare quello che, a suo avviso, è l'interesse tutelato dal principio della non automatica divisione dei crediti tra gli eredi e precisamente: l'«esigenza di conservare l'integrità della massa e di evitare qualsiasi iniziativa individuale idonea a compromettere l'esito della divisione stessa». Da ciò la Corte ha poi tratto la ulteriore conseguenza, in ambito processuale, secondo la quale i coeredi «assumono la veste di litisconsorzi necessari nei giudizi diretti all'accertamento dei crediti ereditari ed al loro soddisfacimento».
A chiudere tale evoluzione giurisprudenziale è di recente intervenuta la Cassazione, con una pronuncia a Sezioni Unite [nota 24], la cui massima afferma:
«I crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell'art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757, il quale, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l'unico credito succede nel credito al momento dell'apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall'art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli art. 1295 e 1314 stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il de cuius ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale; conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito».
Con tale pronuncia le Sezioni Unite della Cassazione riaffermano l'indirizzo interpretativo e i percorsi argomentativi fatti propri dalla sopra citata Cass. 92/11128 e dalle successive Cass. 640/2000 e Cass. 19062/2006 circa l'inclusione dei crediti, anche divisibili, nella comunione ereditaria, con una importante differenziazione, però, da un punto di vista processualistico e di tutela giudiziale del credito: le Sezioni Unite ritengono, infatti, che l'affermato regime di comunione cui sono soggetti i crediti ereditari, ancorché divisibili, non comporti altresì la necessaria partecipazione di tutti i coeredi all'azione promossa contro il debitore del de cuius [nota 25]; ciò in quanto, anche in tale ipotesi, sarebbe applicabile il principio generale, affermato dalla costante giurisprudenza della Corte [nota 26], secondo il quale ciascun partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, perché il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza; pertanto ciascun erede, secondo le Sezioni Unite, può agire singolarmente per far valere l'intero credito ereditario comune o anche la sola parte del credito proporzionale alla quota ereditaria, fermo restando che il pagamento effettuato dal debitore non ha effetti nei rapporti interni con gli altri coeredi.
Questioni in tema di partecipazioni sociali e pluralità di eredi nella società a responsabilità limitata
Oggetto di comunione tra gli eredi non sono però solo i diritti reali e, per quanto detto in precedenza, anche i crediti (divisibili): vi si includono, infatti, tra gli altri, l'azienda, realtà quest'ultima per sua natura composita, i diritti personali di godimento che non si estinguono con la morte del titolare (arg. ex art. 1614 e 1627 c.c.) [nota 27] e, per quanto qui ci interessa, le partecipazioni sociali che siano trasmissibili mortis causa secondo le regole societarie adottate.
Si trova così affermato che costituiscono oggetto di comunione ereditaria [nota 28] sia la singola azione (per sua natura indivisibile) sia, interpretando estensivamente l'art. 2347 c.c., il pacchetto azionario già detenuto dal defunto [nota 29]; per quanto concerne, invece, la partecipazione in una Srl, si ammette che la stessa costituisca oggetto di comunione tra gli eredi nella misura in cui non la si ritenga automaticamente divisa tra gli stessi in proporzione alle quote ereditarie di spettanza. Su questo specifico punto avremo modo di soffermarci più avanti.
In particolare, con riguardo all'art. 2347 c.c., la riforma del diritto societario, con ciò ponendo fine ai dubbi interpretativi sorti sotto la vigenza del precedente testo [nota 30], nel prevedere espressamente che il rappresentante comune dei comproprietari dell'azione debba essere nominato secondo le modalità previste dagli artt. 1105 e 1106 c.c., viene a confermare la prevalenza dell'interesse del gruppo su quello dei singoli.
La riforma del diritto societario ha peraltro preso espressamente posizione anche sul problema circa la compatibilità dei principi del diritto successorio con le limitazioni statutarie ai trasferimenti mortis causa delle azioni, ammettendo all'art. 2355-bis c.c. la possibilità di sottoporre a particolari condizioni tali trasferimenti; possibilità, quest'ultima, invero in parte già consentita, dopo alterne vicende giurisprudenziali ed entro certi limiti, anche dalla Cassazione che aveva, infine, stabilito la non contrarietà al divieto dei patti successori della c.d. clausola di riscatto [nota 31]; le limitazioni statutarie ai trasferimenti mortis causa delle partecipazioni azionarie, benché ora consentite, sono tuttavia inefficaci ove non accompagnate dai criteri correttivi rappresentati dal diritto di recesso ovvero dall'obbligo di acquisto [nota 32].
Ciò premesso la regola è tuttavia quella della naturale trasmissibilità mortis causa delle azioni e, in tal caso, l'erede (e il legatario) dovranno presentare la documentazione indicata nell'art. 7 del R.D. 239 del 1942 al fine di poter essere annotati a libro soci.
Analogamente, anche nelle società a responsabilità limitata, la regola di "default" è rappresentata dalla libera trasferibilità, anche mortis causa, della partecipazione (art. 2469, primo comma c.c.) e l'erede dovrà presentare la documentazione richiesta dall'art. 2470 secondo comma ultima parte c.c. che sostanzialmente rinvia a quanto disposto dal predetto art. 7 del R.D. 239/42.
Ma concentriamoci ora - vistane l'ampia diffusione nel contesto economico nazionale - sulle questioni che si pongono in caso di morte del socio di Srl in presenza di una pluralità di eredi.
Il primo interrogativo è se la partecipazione sociale sia, in quanto tale, trasmissibile mortis causa e la risposta, ai sensi dell'art. 2469 c.c., dipende appunto dal contenuto dello statuto sociale.
Ove quest'ultimo disponga, infatti, l'intrasmissibilità mortis causa della partecipazione [nota 33], il legislatore accorda in tale ipotesi agli eredi il diritto di recesso, recesso che, come ha precisato la dottrina, non è in realtà un recesso in senso tecnico non essendo gli eredi, in tal caso, mai divenuti parte del contratto sociale [nota 34]; si è ritenuto pertanto che il significato di tale norma vada inteso nel senso che gli eredi divengono, in tal caso, creditori della società per il credito alla liquidazione della quota secondo i medesimi criteri valevoli per il socio receduto.
Credito quest'ultimo che, stante l'attuale indirizzo sopra ricordato fatto proprio dalla giurisprudenza della Cassazione, cade in comunione tra gli eredi non dividendosi ipso iure tra gli stessi con la conseguenza, ad esempio, che la società dovrà pagare a tutti gli eredi congiuntamente perché il pagamento sia pienamente liberatorio o anche ad uno solo di essi ove, però, quest'ultimo, sia legittimato a ricevere per tutti.
Viceversa, ove lo statuto non vieti la trasmissibilità mortis causa della partecipazione e la successione si apra a favore di una pluralità di eredi, le questioni che si pongono sono molteplici e si possono sintetizzare come segue:
1) la quota di Srl (rectius partecipazione) è per sua natura divisibile o indivisibile?
2) e se divisibile, la quota si divide automaticamente, cioè ipso iure, tra gli eredi (e quindi anche a prescindere da una diversa volontà degli stessi) in proporzione alle quote ereditarie di spettanza ovvero necessita di un successivo atto divisionale, volontario o giudiziale che sia e quindi, fintantoché tale atto divisionale non si attui, si deve ritenere esistente una contitolarità pro indiviso sulla quota con conseguente necessità che i diritti dei comproprietari siano esercitati da un rappresentante comune ai sensi dell'art. 2468 ultimo comma codice civile? [nota 35]
Per rispondere a tali interrogativi, giova qui richiamare, sia pur brevemente, il dibattito circa la natura della quota di Srl, se da ricondurre alla categoria dei meri diritti di credito, ovvero a quella della più complessa posizione contrattuale od infine - sottolineandone la concezione unitaria ed obiettivata, desumibile in modo particolare, oggi, dagli artt. 2466, 2468 e 2471 c.c. - alla diversa categoria dei beni mobili, sia pure immateriali. Tale ultima è indubitabilmente la ricostruzione fattane dalla giurisprudenza già prima della riforma [nota 36], come testimonia la nota massima secondo la quale «la quota di società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell'art. 812 c.c., onde ad essa possono applicarsi, a norma dell'art. 813 c.c., le disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene, giacché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell'azione, ha tuttavia un valore patrimoniale oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti e non come un mero diritto di credito; ne consegue che le quote di partecipazione ad una società a responsabilità limitata possono essere oggetto di sequestro giudiziario e, avendo il sequestro ad oggetto i diritti inerenti la suddetta quota, ben può il giudice del sequestro attribuire al custode l'esercizio del diritto di voto nell'assemblea dei soci ed eventualmente, in relazione all'oggetto dell'assemblea, stabilire i criteri e i limiti in cui tale diritto debba essere esercitato nell'interesse della custodia».
La riforma del diritto societario [nota 37], oltre a risolvere diverse questioni di notevole rilevanza pratica in tema di modalità del pignoramento della partecipazione e di soggezione della stessa al sequestro giudiziario, grazie all'introduzione degli articoli 2471 e 2471-bis c.c., è venuta a confermare la tendenza, già emersa nella più recente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, all'oggettivazione della quota, quanto meno ai fini circolatori, come invero confermato anche dall'utilizzo, nel nuovo articolo 2468 c.c., del termine "comproprietà", il quale appunto lascerebbe trasparire una configurazione in termini proprietari della relazione tra il socio e la res oggetto del suo diritto [nota 38].
Proprio la non assimilabilità della quota di Srl ad un mero diritto di credito e in particolare la sopra citata concezione unitaria e obiettivata della stessa, quasi alla stregua di una res, concezione che sottolinea la distinzione di tale entità rispetto anche alla mera posizione contrattuale di socio, rendono decisamente problematica l'applicazione tout court alla quota di Srl del principio nomina hereditaria ipso iure dividuntur, e ciò quand'anche si volesse ritenere tale principio ancora oggi operante nel nostro ordinamento da un lato e dall'altro si ritenesse per sua natura divisibile la quota.
È evidente, infatti, che di divisione automatica (come peraltro anche di divisione volontaria) si può parlare nella misura in cui la quota sia divisibile.
Su tale questione è noto come la soppressione, da un lato, della norma contenuta nel previgente art. 2482 c.c che disponeva la divisibilità della quota, salvo diversa previsione statutaria, unitamente alla mancata riproposizione, dall'altro, della norma già contenuta nel previgente art. 2474 secondo comma c.c. secondo la quale le quote dovevano avere un valore nominale minimo o multiplo di quel minimo hanno indotto gli interpreti ad interrogarsi circa la natura divisibile o meno della quota di Srl. E diverse sono, sul punto, le opinioni in dottrina.
Vi è chi, anche alla luce della modifica normativa di cui sopra, ha concluso per la naturale indivisibilità della quota [nota 39]: il che significa, in presenza di quote trasmissibili mortis causa, che gli eredi del socio defunto subentreranno pro indiviso nella titolarità della quota e non diverranno singolarmente titolari di tante distinte quote frazionate.
La natura indivisibile della quota viene altresì desunta dall'unitarietà della partecipazione quale discende dalla lettera dell'art. 2463 n. 6 c.c. che parla di «quota di partecipazione di ciascun socio», dal carattere personalistico della società a responsabilità limitata quale emerge dalla legge delega, dalla ammissibilità della previsione di particolari diritti; in tale prospettiva di naturale indivisibilità della partecipazione le disposizioni degli att. 2473 comma quarto e 2466 comma secondo circa il proporzionale accrescimento della quota degli altri soci vengono visti come l'espressione del principio di parità di trattamento tra coloro che sono già soci, anziché quali indici favorevoli alla tesi della divisibilità della quota.
Inoltre, sempre ad avviso della dottrina che mette in dubbio la naturale divisibilità della quota, si osserva come tale caratteristica mal si coordinerebbe con gli ampi poteri di ingerenza concessi al socio di Srl in quanto tale: si pensi ai diritti di informazione, di ispezione, alla possibilità di promuovere l'azione sociale di responsabilità contro amministratori, liquidatori o soci che hanno autorizzato atti dannosi.
All'interno di tale filone interpretativo che afferma la naturale indivisibilità della quota, si ritiene, peraltro, che tale effetto sia derogabile statutariamente mediante la previsione espressa della divisibilità [nota 40].
All'opposto, altri interpreti riconoscono, invece, alla quota di Srl natura divisibile e quindi tale anche nel silenzio dell'atto costitutivo [nota 41]; a detta conclusione giungono argomentando sia dalla lettera dell'art. 2466, secondo comma c.c. sia dalla norma in tema di recesso, oltre che dalla considerazione che oggi non è più necessaria una norma espressa che sancisca la divisibilità della quota visto che è venuto meno l'obbligo di rispettare valori minimi.
L'assenza - dopo la riforma - di una previsione normativa specifica circa la divisibilità della quota non viene dunque vista come un ostacolo alla divisibilità della quota stessa, ma come una conseguenza appunto dell'abrogazione dell'art. 2474 c.c. da un lato e della naturale divisibilità della quota dall'altro; si aggiunge, inoltre, che negare la naturale divisibilità della quota condurrebbe altresì ad «escludere anche la cessione parziale della partecipazione, al di fuori di ogni logica accettata dalla realtà economica» [nota 42].
La rilevanza - per la società - della questione circa la divisibilità o meno della quota si pone, essenzialmente, con riferimento ai diritti soggettivi che spettano a ciascun socio in quanto tale, - quali ad esempio i diritti di controllo, il diritto di chiedere, a determinate condizioni, la revoca dell'amministratore ovvero di promuovere l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori; minore è, invece, la rilevanza di detto interrogativo con riferimento ai diritti che spettano proporzionalmente all'entità della quota [nota 43], diritti la cui misura non muta sebbene ne possa cambiare la modalità di esercizio per il tramite del rappresentante comune. In altre parole e per esemplificare, per la società, non è indifferente trovarsi di fronte a due o a sette soci.
Anche per i sostenitori della tesi da ultimo riportata rimarrebbe tuttavia consentita, come confermato anche dall'art. 2468 c.c., la possibilità di prevedere nell'atto costituivo l'indivisibilità della partecipazione, indivisibilità però che, in tale ricostruzione, per poter operare, deve essere espressa: devono pertanto ritenersi lecite le clausole che prevedano l'indivisibilità della partecipazione e ciò sia in generale, sia limitatamente ai fenomeni successori mortis causa, con conseguente applicazione appunto dell'art. 2468 c.c. ultimo comma c.c. [nota 44]
Alla luce delle diverse e contrastanti interpretazioni sopra illustrate, si comprende come la questione circa la divisibilità o meno della quota si risolva, in sintesi, nei seguenti interrogativi: se, perché la quota si divida, sia necessario e sufficiente il mero trasferimento della stessa a più persone ovvero perché tale divisione avvenga sia necessaria anche una clausola ad hoc nello statuto che preveda espressamente la divisibilità della quota; inoltre, nella specifica ipotesi di successione mortis causa - analogamente a quanto abbiamo visto accadere in tema di crediti ereditari divisibili - ci si chiede se una clausola statutaria ad hoc nel senso della divisibilità della quota sia di per sé sola sufficiente per il prodursi anche di una divisione automatica della quota tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie (con conseguente applicazione del principio dell'ipso iure dividuntur, principio la cui tenuta, peraltro, si è visto essere stata messa in forte debbio con riguardo ai crediti), divisione automatica che - se operante - eviterebbe l'instaurarsi di una situazione di contitolarità tra gli eredi e quindi la necessità di un successivo atto divisionale tra gli stessi [nota 45].
A tale proposito va ricordato come la riforma del diritto societario, oltre a introdurre espressamente nel nuovo art. 2468 c.c., anche per la Srl, un autonomo rinvio alle norme sulla comunione per la nomina del rappresentante comune in caso di contitolarità della partecipazione, ha espressamente eliminato dall'articolo in oggetto ogni espresso riferimento alla divisibilità della partecipazione nel caso di successione mortis causa: tale omissione è stata interpretata da parte della dottrina come una conferma della tesi, già peraltro autorevolmente sostenuta prima della riforma del diritto societario, della non automatica divisione della partecipazione tra gli eredi del socio defunto [nota 46].
Come si è già visto, altra parte della dottrina, invece, spiega il mancato riferimento nel nuovo art. 2468 c.c. alla divisibilità della quota come una mera conseguenza del venir meno del limite del valore nominale, con la conseguenza che la divisibilità della quota sarebbe la regola, salvo diversa previsione legale ovvero statutaria (si pensi ad una clausola di indivisibilità).
Come si è anticipato, in realtà già prima della riforma del diritto societario, parte della dottrina [nota 47] negava la divisione automatica delle quote di Srl non solo per la formulazione letterale del testo dell'art. 2482 c.c. (ante riforma), ma soprattutto argomentando dalla diversa natura della quota rispetto al credito, (credito cui, a sua volta, si riteneva allora applicabile il principio dell'ipso iure dividuntur, principio oggi invece respinto dalla giurisprudenza di cassazione come si è visto sopra); si osservava, in aggiunta, che sarebbe stato singolare pensare ad una quota di Srl che si divide automaticamente, quando invece il pacchetto azionario, benché formato da un numero di azioni perfettamente divisibile per il numero degli eredi cade in comunione ereditaria e abbisogna di un successivo atto divisionale per giungere alla titolarità individuale. In tale ricostruzione, dunque, sono gli eredi del socio a dover promuovere la divisione della partecipazione nelle forme di legge, sempre che tale divisibilità sia consentita dalle norme sociali, dovendosi altrimenti fare applicazione dell'ultimo comma dell'art. 2468 c.c.
Altra parte della dottrina, invece, assimilando la quota di Srl ad un diritto di credito - credito cui si riteneva allora applicabile il principio dell'ipso iure dividuntur - giungeva, sempre prima della riforma, ad affermare che non solo la quota, salvo il valore minimo, era divisibile, ma che in caso di successione mortis causa tale divisione era pure automatica [nota 48].
Sulla specifica questione, in giurisprudenza, sempre prima della riforma, si segnala la pronuncia del Trib. Roma del 2 maggio 2001 [nota 49] secondo la quale gli eredi del socio di una Srl deceduto ab intestato acquistano la titolarità indivisa della quota relitta e devono procedere necessariamente alla iscrizione dell'acquisto in comune, pena la violazione del principio generale di continuità delle iscrizioni; l'atto di divisione avente ad oggetto lo scioglimento della comunione relativa ad una quota di Srl è, a sua volta, soggetto ad iscrizione nel Registro imprese ai sensi (allora) dell'art. 2479 c.c. Nello specifico era accaduto che il Tribunale in via cautelare aveva ordinato all'organo amministrativo di iscrivere l'intervenuto acquisto degli eredi per successione pro indiviso della quota già spettante al defunto ed ordinato di annotare l'illegittimità dell'iscrizione a libro soci dell'acquisto frazionato sulla base di un semplice verbale di assemblea ordinaria con cui si dava atto che la quota era frazionata in parti uguali; nel caso di specie, dunque, l'accordo di divisione tra gli eredi era intervenuto, ma non era stato assoggettato a pubblicità commerciale.
Si tratta di un problema, quello pubblicitario, che si ripropone anche oggi specie qualora si aderisca alla tesi della non automatica divisione della partecipazione e quindi si ritenga necessario un atto di divisione tra gli eredi: tale atto di divisione, infatti, di per sé, non richiede forma scritta ai fini della validità, ma quanto meno la forma autentica ai fini dell'iscrizione al Registro delle imprese qualora si ritenga che l'atto con cui si passa da una situazione di contitolarità di un'unica partecipazione ad una situazione di titolarità esclusiva di parti frazionate della stessa rientri nella nozione di trasferimento ai sensi dell'art. 2470 c.c. e ciò anche prescindere da ogni questione circa la natura dichiarativa o traslativa della divisione [nota 50].
Sembra difficile, dunque, negare che ogni qualvolta l'organo amministrativo abbia provveduto ad annotare a libro soci l'instaurarsi di una comunione ereditaria tra gli eredi del socio defunto, possa poi prescindersi da una successiva iscrizione di avvenuto scioglimento della comunione ereditaria e ciò per garantire la legittimazione individuale all'esercizio dei poteri sociali correlati alle singole partecipazioni frazionate [nota 51].
Per evitare di incorrere in tutte le sopra indicate incertezze operative, specie qualora le vicende della delazione ereditaria e delle operazioni divisionali si prolunghino nel tempo, sarebbe forse utile pensare alla possibilità di prevedere in statuto - con ciò risolvendo a monte la questione - la automatica divisione, in proporzione alle quote ereditarie, della partecipazione del socio defunto.
A questo punto, però, si potrebbe porre all'interprete l'interrogativo se una clausola di tal genere sia da ritenere consentita alla stregua del divieto dei patti successori ed in particolare della norma che dispone che sono nulli i patti con cui taluno dispone della propria successione: il punto è se nel concetto di disporre della propria successione possono essere fatte rientrare anche le norme con cui il soggetto regola, in via contrattuale, la divisione (in questo caso disponendone l'automaticità, anche contro e a prescindere dalla diversa volontà degli eredi) di alcuni suoi beni dopo la morte. Per rispondere a tale quesito si può innanzitutto osservare che nel pattuire una tale clausola il futuro ereditando si vincola con soggetti (gli altri soci) che non sono necessariamente coloro che saranno i beneficiari della sua successione, anzi normalmente sono proprio estranei.
Vero è che lo strumento offerto dal nostro ordinamento per dettare norme sulla divisione dei propri beni dopo la morte è il testamento e che pattuire, per statuto, la divisione automatica della partecipazione vorrebbe dire per il socio essersi precluso, per contratto, la facoltà altrimenti consentitagli in via generale dall'art. 713 terzo comma c.c., ciononostante per la ammissibilità di una tale clausola ci sembrano invece deporre le osservazioni che seguono.
Innanzitutto nella fattispecie proposta, ove la clausola statutaria si limitasse a prevedere la divisione automatica della quota tra gli eredi del socio defunto in proporzione a quelle che saranno le quote ereditarie - senza indicare né gli eredi e senza incidere sull'entità delle quote che rimarrebbero entrambi rimessi all'individuazione legislativa o testamentaria - non sembra possano ravvisarsi gli estremi di un'attribuzione patrimoniale mortis causa vietata [nota 52] alla stregua dell'art. 458 c.c., in quanto non pare ravvisabile, in tale ipotesi, alcuna attribuzione in senso tecnico, risultando piuttosto una tale clausola meramente conformativa delle situazioni soggettive e dei beni che saranno poi oggetto di successione [nota 53] secondo la legge o il testamento.
A favore della liceità di una tale clausola ci sembra soccorrere anche la seguente considerazione: se all'autonomia privata è consentito escludere a priori la trasmissibilità mortis causa della quota, a fortiori dovrebbe esserle consentito regolamentarne la trasmissibilità sotto il profilo del regime di appartenenza individuale piuttosto che collettivo, sempre che da tale regolamentazione esuli ogni aspetto attributivo nel senso sopra chiarito; non si vede, infatti, quale sarebbe la situazione degli eredi che potrebbe essere lesa da una tale clausola, quando è, a monte, consentito ai soci prevedere l'intrasmissibilità della quota stessa e quindi l'ingresso in società agli eredi del socio defunto, fermo restando il credito alla liquidazione della quota [nota 54]. I soci nel disporre nel contratto sociale la divisione automatica della partecipazione in proporzione a quelle che saranno le quote ereditarie non vengono infatti ad incidere sulla successione quanto piuttosto sulla conformazione del regime di appartenenza (frazionata e individuale anziché collettiva e comune) del bene-quota, bene che poi, così conformato, andrà devoluto in successione secondo le regole proprie - legittime o testamentarie - di quest'ultima.
D'altronde che il criterio del favor societatis debba ritenersi prevalente sulle regole proprie del regime successorio volte a presidiare l'interesse individuale degli eredi del socio defunto è affermazione conforme anche allo spirito della riforma: se infatti quest'ultima ha tutelato ampiamente l'interesse individuale del socio, attraverso il recesso, a non rimanere prigioniero della società, dall'altro è anche vero che tale interesse, come è stato osservato, ha ricevuto tutela in un'ottica macroeconomica non in quanto tale, ma in via strumentale all'interesse generale alla migliore distribuzione delle risorse nel finanziamento alle imprese, imprese nelle quali poter riposizionare i propri investimenti grazie ad un "exit" non punitivo [nota 55].
Questioni in tema di partecipazioni sociali e pluralità di eredi nelle società di persone
L'art. 2284 c.c. - la cui rubrica è intitolata "Morte del socio" - dispone che «Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano». La disposizione, dettata in tema di società semplice, si applica anche alle società in nome collettivo in forza del rinvio operato dall'art. 2293 c.c. ed alla società in accomandita semplice, limitatamente alla quota del socio accomandatario, in forza del rinvio operato dall'art. 2315 c.c.
Per quanto concerne, invece, la quota del socio accomandante (art. 2322 c.c.) il codice, all'art. 2322, ne prevede la trasmissibilità mortis causa agli eredi [nota 56].
Nelle società di persone, dunque, salvo diversa disposizione dei patti sociali [nota 57], in caso di morte del socio, si aprono tre alternative ai soci superstiti: liquidare la quota agli eredi, sciogliere la società ovvero continuarla con i successori stessi che vi acconsentano.
La ratio della naturale intrasmissibilità mortis causa della partecipazione sociale viene ravvisata da un lato nella tutela dell'interesse dei soci superstiti, stante la rilevanza intuitu personae del contratto e dall'altro nella tutela dell'impresa [nota 58].
Secondo una lettura dell'art. 2284 c.c. [nota 59] le tre alternative di cui sopra non sarebbero in realtà sullo stesso piano, poiché la morte del socio produrrebbe lo scioglimento automatico e immediato del rapporto sociale tra il socio deceduto e la società che, dunque, continuerebbe in tal modo tra i soci supersiti; all'evento morte importante ex lege lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio defunto conseguirebbe, pertanto, la nascita in capo agli eredi di un diritto di credito verso la società [nota 60] ad una somma di denaro rappresentativa del valore della quota. Si ritiene che tale diritto di credito (alla liquidazione della quota) sia risolutivamente condizionato alla scelta, da parte dei soci superstiti, di avvalersi di una delle altre (due) alternative consentite dall'art. 2284 c.c.; ora tale credito, benché per sua natura divisibile - stando alla recente giurisprudenza di legittimità, da ultimo confermata anche dalle Sezioni Unite, come si è visto sopra in punto di crediti ereditari - non si divide ipso iure tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie, ma entra a far parte della comunione ereditaria e come tale spetta agli eredi quale gruppo fino al successivo atto divisionale.
Le alternative di cui all'art. 2284 c.c. non starebbero sullo stesso piano, in quanto il suddetto obbligo di liquidare la quota agli eredi non discenderebbe dall'esercizio di un potere di scelta dei soci supersiti, ma rappresenterebbe un obbligo discendente ex lege ed automaticamente dall'evento morte: in tale prospettiva, ai soci superstiti è dunque consentito scegliere (in senso tecnico) solo per le altre due soluzioni alternative e cioè tra mettere in liquidazione la società ovvero continuarla con gli eredi che vi consentano.
Accolta tale ricostruzione, in seguito alla morte del socio la società continua tra i soci supersiti i quali possono sottrarsi all'obbligo legale di liquidazione della quota optando per una delle due soluzioni alternative predette: ne consegue che il diritto di credito degli eredi alla liquidazione della quota è da ritenersi sottoposto sia alla condizione risolutiva potestativa [nota 61] della decisione dei soci superstiti di mettere in liquidazione la società sia, in alternativa, della sopravvenienza di un accordo di continuazione tra i soci superstiti e gli eredi del socio defunto, accordo che non farebbe nascere un nuovo rapporto ma si limiterebbe a far proseguire in capo agli eredi, con efficacia ex tunc, e quindi fin dall'apertura della successione l'originario rapporto sociale.
In entrambe le ipotesi opzionali da ultimo riportate, l'acquisto del credito alla liquidazione della quota del defunto si risolve: più precisamente nel primo caso (messa in liquidazione della società) il credito dei successori alla liquidazione della quota, sorto con la morte del proprio dante causa, viene sostituito dal credito alla quota di liquidazione [nota 62], nel secondo caso, invece, gli eredi divengono soci di una società attiva [nota 63].
Il consenso alla continuazione [nota 64] presuppone o implica, ai sensi dell'art. 476 c.c., l'avvenuta accettazione dell'eredità da parte degli eredi, ma non è conseguenza necessitata di quest'ultima: la volontà di acquisire la posizione di socio, infatti, richiede un autonomo atto volitivo in forza del quale gli eredi subentrano nella società [nota 65] con effetto a far data dall'apertura della successione. Ciò non toglie però - come è stato sottolineato in dottrina [nota 66] - che una volta entrati in società, gli eredi del socio defunto assumono, anche la veste di nuovi soci, con rilevanti conseguenze pratiche in termini di disciplina applicabile: gli eredi che pure abbiano accettato l'eredità con beneficio di inventario, infatti, si ritiene non possano pretendere di rispondere intra vires hereditatis delle obbligazioni sociali esistenti alla morte del de cuius, dovendosi dare prevalenza in tal caso alla norma di cui all'art. 2269 c.c. che non opera alcuna distinzione tra gli eventi in base ai quali il nuovo socio entra in società; altra rilevante conseguenza è la prevalenza dell'art. 2269 c.c. e quindi della regola della solidarietà della responsabilità per le obbligazioni sociali, sia tra gli eredi sia tra gli eredi e gli altri soci, rispetto alla opposta regola della parziarietà che tradizionalmente si fa discendere dagli artt. 752 e 754 c.c. nel caso di debiti ereditari.
Alla luce di quanto sopra esposto, veniamo ora alle due specifiche questioni che si pongono - in assenza di deroghe al regime legale delineato dall'art. 2284 c.c. - in caso di continuazione della società con gli eredi del socio defunto, quando appunto questi siano più d'uno.
In primo luogo qualora gli eredi siano più d'uno [nota 67] sorge l'interrogativo se sia necessario o meno il loro consenso unanime ai fini della continuazione e quindi del subentro in società.
La lettera del codice non è risolutiva sul punto: l'art. 2284 c.c., infatti, richiede semplicemente che gli eredi acconsentano alla continuazione, senza specificare se il diniego anche di uno solo di essi valga a paralizzare o meno la volontà di continuazione degli altri ovvero se sia necessaria e sufficiente la maggioranza degli eredi per decidere la continuazione.
Strettamente correlata alla domanda che precede è poi quella circa le modalità del subentro degli eredi in società: se cioè gli eredi entrino in società uti singuli, ciascuno divenendo individualmente titolare di una partecipazione frazionata rispetto alla quota prima spettante al defunto ovvero se la partecipazione debba ritenersi indivisibile e come tale nella titolarità della stessa succeda il gruppo degli eredi con necessità di procedere alla nomina di un rappresentante comune al fine di esprimere la volontà unitaria collegata alla titolarità collettiva della quota [nota 68].
È chiaro che i rapporti di forza all'interno della società rimarrebbero inalterati, nonostante la morte del socio, solo ove gli eredi entrassero in società «come gruppo in regime di comunione di quota, avendo come esponente un rappresentante comune» [nota 69].
In quest'ottica è evidente che una supposta divisione automatica della quota tra gli eredi del socio defunto, a prescindere da ogni consenso espresso o implicito dei soci superstiti, contrasterebbe da un lato con l'interesse sociale e appare dall'altro altresì contrario al principio per cui, nelle società di persone, la modifica nella titolarità della quota rappresenta una modifica del contratto sociale che, di regola (art. 2252 c.c.), richiede il consenso unanime dei soci ed è soggetta a pubblicità presso il Registro imprese a norma dell'art. 2300 c.c.; anzi proprio a questo fine dovrebbe essere richiesto almeno l'atto autentico [nota 70], fermo restando che è opinione diffusa sia in dottrina che in giurisprudenza che il patto di continuazione non sia soggetto a vincoli formali, a condizione che la volontà di entrare in società emerga in modo inequivoco [nota 71].
In dottrina è stato osservato che, come i soci superstiti possono rinunziare alla naturale intrasmissibilità della quota - posta dalla legge nel loro esclusivo interesse - acconsentendo alla continuazione del rapporto sociale con gli eredi del socio defunto, così deve ritenersi loro consentito di modulare tale rinunzia secondo l'interesse loro più rispondente [nota 72]: se gli eredi, senza il placet dei soci superstiti non possono entrare in società, si ritiene che a fortiori non possano nemmeno unilateralmente mutare il contenuto della manifestazione di volontà dei soci superstiti così come da questi ultimi espressa e strutturata nell'invito rivolto agli eredi stessi ad entrare in società.
Pertanto, sulla base di tale premessa, si è di conseguenza ritenuto in dottrina [nota 73] che detto invito alla continuazione potrà essere rivolto dai soci superstiti ora a tutti gli eredi, sia riuniti in gruppo sia per quote frazionate, ora ad uno solo o ad alcuni tra loro e ciò in base ai contingenti e di volta in volta mutevoli interessi della società. Il fatto che i soci superstiti possano incidere, in senso lato, sulla devoluzione ereditaria disponendo nell'invito a continuare che la partecipazione già spettante al socio defunto venga assunta dagli eredi in regime di comunione piuttosto che per parti frazionate ovvero anche per intero da uno solo di essi si è ritenuto non contrastante con i principi del diritto successorio in quanto è il legislatore stesso a rimettere ai soci superstiti la scelta di rendere trasmissibile o meno mortis causa la partecipazione sociale con ciò decidendo altresì la sua inclusione o meno tra i cespiti ereditari [nota 74].
Partendo da tali premesse, in dottrina si è indi affermato che, ove i soci superstiti - in seguito all'evento morte - abbiano condizionato, come pure si ritiene possano fare, l'invito ad entrare in società alla accettazione di tutti gli eredi o all'accettazione di un dato erede, non verificandosi tale condizione (per il rifiuto rispettivamente di uno degli eredi o di quel dato erede), l'invito ad entrare in società deve considerarsi privo di effetti.
Secondo una tesi emersa in dottrina, qualora i soci superstiti abbiano rivolto l'invito a tutti gli eredi a continuare e però solo alcuni di questi vi abbiano aderito, si è altresì ritenuto che, pur in assenza di una esplicita condizione nel senso di cui sopra, i soci superstiti, ciononostante, siano da ritenere autorizzati a valutare nuovamente la situazione e quindi liberi di decidere, anche in tal caso, se l'accettazione di uno solo o di alcuni soltanto tra gli eredi corrisponda al loro interesse [nota 75]: in tale ultima evenienza, si è detto che i soci superstiti (rectius la società) [nota 76] devono liquidare agli altri eredi che hanno rifiutato la continuazione il controvalore della frazione di quota loro spettante e la continuazione avverrà con gli altri coeredi accettanti - sia pure per una quota minore di quella già spettante al de cuius - in quanto ridotta della frazione corrispondente a quella liquidata ai coeredi contrari alla continuazione. Nell'ambito di tale ampia autonomia riconosciuta ai soci supersiti si ritiene, inoltre, possibile che i coeredi favorevoli alla continuazione siano ammessi in società per l'intera quota spettante al defunto e siano allora essi stessi a dover liquidare il coerede contrario alla continuazione e ciò nonostante la lettera dell'art. 2289 c.c. [nota 77]
Da altra parte della dottrina, seguita dalla rara giurisprudenza sul punto, si è, invece, sostenuto che per la continuazione della società sia necessario comunque l'accordo di tutti gli eredi [nota 78], poiché la continuazione importa non solo disposizione del valore della quota, ma altresì assunzione di obblighi derivanti dal contratto sociale.
La tesi secondo la quale sarebbe necessaria l'unanimità dei consensi degli eredi potrebbe oggi trovare ulteriore argomento nella recente giurisprudenza sopra ricordata in tema di non automatica divisione dei crediti ereditari: infatti, se si parte dall'idea che l'accordo di continuazione va ad incidere sul credito degli eredi alla liquidazione della quota e quindi su di una posizione comune, detto accordo sembrerebbe richiedere, in applicazione del principio desumibile dall'art. 1108 c.c., l'unanimità dei consensi: applicando i principi della comunione non sarebbe consentito, dunque, ai successori di subentrare autonomamente ciascuno per la propria porzione se non previo accordo divisorio tra gli eredi, accordo che, in quanto tale, richiederebbe l'unanimità [nota 79].
In realtà, il contrasto tra chi ritiene necessaria e chi no l'unanimità dei consensi degli eredi è più apparente che reale, poiché tutti invero sono concordi nell'affermare che nessuno degli eredi può essere costretto dalla maggioranza dei coeredi ad entrare in società contro la sua volontà; la divergenza di opinione risiede, semmai, nell'individuazione delle conseguenze - sia per i soci superstiti sia per gli altri eredi - del rifiuto di un erede al subentro: impossibilità, in tal caso, di ogni continuazione e quindi liquidazione per intero agli eredi della quota già spettante al defunto, ovvero possibilità per l'erede che acconsente alla continuazione di pretendere il subentro parziale pro quota nella società ovvero diritto dei soci superstiti di pretendere il subingresso per l'intera quota già spettante al defunto da parte dei coeredi favorevoli alla continuazione.
Come si è visto in precedenza, secondo un'opinione diffusa in dottrina - quantunque non pacifica - ai soci superstiti viene riconosciuta ampia autonomia nel modulare - dopo l'evento morte - il subentro in società degli eredi del socio defunto, fino al limite di impedirlo ovvero all'opposto di consentirlo sia a tutti, sia solo ad alcuni per parti frazionate corrispondenti alle rispettive quote ereditarie o anche ad uno solo degli eredi per l'intera quota detenuta del defunto, fermo rimanendo il diritto degli eredi non subentranti alla liquidazione del valore economico della parte di quota di loro rispettiva spettanza.
Si comprende, dunque, come in tale prospettiva sia sempre al contenuto di tale accordo con i soci superstiti che si ritiene debba risolversi anche l'ulteriore questione sopra indicata circa le modalità del subentro degli eredi, se cioè unitariamente come gruppo o ciascuno individualmente per parti frazionate [nota 80]. Ove nulla sia detto nell'invito ad entrare in società in ordine alla posizione che assumeranno gli eredi si ritiene, da alcuni, che la regola sia quella per cui gli eredi divengono soci uti singuli per parti frazionate, dovendo essere il subentro collettivo espressamente voluto dai soci superstiti; in tale ultimo caso se gli eredi vogliono entrare in società dovranno appunto anche accettare tale "effetto-condizione" [nota 81].
Se fino ad ora si è parlato di subentro degli eredi "nel sistema di legge", veniamo ora a considerare le modalità dello stesso nell'ipotesi in cui nel contratto sociale sia contenuta una clausola di continuazione, perlomeno nella forma pacificamente ammessa della c.d. clausola di continuazione facoltativa, clausola vincolante solo i soci superstiti, rimanendo gli eredi liberi di decidere se entrare in società o meno [nota 82].
In tale ipotesi la scelta dei soci di continuare la società con gli eredi del socio defunto viene presa non dopo la morte del socio, ma in via preventiva in sede di costituzione della società ed inclusa nel contratto sociale, in modo vincolante per i soci stessi: si sarebbe in presenza, secondo la ricostruzione fattane da una parte della dottrina, di una proposta irrevocabile che gli eredi hanno facoltà di accettare o meno secondo lo schema dell'art. 1331 c.c., ovvero, secondo altra ricostruzione, di un contratto a favore di terzi in cui stipulante è il socio che poi premorirà, promittenti sono gli altri soci, mentre gli eredi del socio che premorirà sono i terzi beneficiari [nota 83].
In tale ipotesi dunque l'invito ad entrare in società viene effettuato una volta per tutte a priori dai soci in sede di contratto sociale: in tal caso, qualora gli eredi siano più d'uno e nel termine congruo prefissato non si mettano d'accordo, si ripropongono sotto nuova forma le due questioni problematiche di cui sopra.
Ogni erede, come si è visto in precedenza, è libero di decidere individualmente se assumere la qualifica di socio di società personale con i conseguenti diritti, obblighi e responsabilità; si ritiene non interferiscano, a tale riguardo, le regole della comunione ereditaria e pertanto non si può ipotizzare che la maggioranza dei coeredi abbia il potere di decidere, con effetto vincolante per la minoranza, circa l'accettazione della proposta di continuazione. L'atto di accettazione della proposta di continuazione, si è osservato in dottrina, è atto inter vivos dell'erede il quale in tal modo non dispone di un cespite ereditario e pertanto non sono rinvenibili limiti all'esercizio di tale facoltà dai principi in tema di comunione ereditaria bensì, semmai, da quelli derivanti dal diritto delle società [nota 84].
Che effetti ricollegare, pertanto, in tal caso, al rifiuto di uno degli eredi al subentro? E, viceversa, in caso di continuazione, gli eredi subentrano come gruppo o individualmente?
Al primo dei due interrogativi, sarebbe applicabile, secondo una tesi, il principio desumibile dall'art. 1507 c.c. secondo il quale i soci superstiti non possono essere costretti a subire la continuazione della partecipazione solo per una parte [nota 85]: pertanto si ritiene che l'erede che intende subentrare in società deve subentrare nell'intera posizione del defunto, essendo altrimenti legittimo il rifiuto dei soci superstiti.
Secondo altra tesi, invece, è quanto mai dubbio che i soci superstiti possano rifiutare l'adesione del singolo erede al subingresso in proporzione alla sua quota, in mancanza di una disposizione del contratto sociale che preveda che la facoltà di continuazione debba essere esercitata congiuntamente dagli eredi: tale affermazione viene giustificata con la circostanza che nelle società di persone non esiste una quota come entità astratta, la quota è in realtà la partecipazione del socio e pertanto se ad un socio succedono più soci, ciascuno assume in società una posizione autonoma e non è applicabile il principio di indivisibilità dell'azione di cui all'art. 2347 c.c. [nota 86]; ne consegue, in tale prospettiva, che ognuno dei coeredi è da considerare socio distinto e per questo non sembrano esservi ostacoli ad un subentro frazionato e persino parziale degli eredi, beninteso sempre in assenza di una diversa volontà espressa nel contratto sociale [nota 87].
Secondo la tesi da ultimo riportata, pertanto, in assenza di tale diversa volontà emergente dal contratto sociale in cui sia contenuta una clausola di continuazione facoltativa, non sarebbe legittimo il rifiuto dei soci superstiti al subingresso pro quota.
Con riguardo al secondo degli interrogativi sopra indicati, si è sostenuto in dottrina che, una volta che gli eredi abbiano aderito alla facoltà di continuazione contenuta nella omonima clausola inserita nel contratto sociale ed operante in seguito alla morte del socio, gli stessi debbono ritenersi divenuti soci uti singuli per parti frazionate, in proporzione alle quote ereditarie, dell'originaria partecipazione spettante al defunto [nota 88]; si ritiene tuttavia salva una diversa volontà espressa nel contratto sociale qualora la clausola di continuazione contenga una specifica regolamentazione circa le modalità di subentro degli eredi [nota 89].
Alla luce delle incertezze interpretative sopra esposte, appare pertanto quanto mai opportuno, al fine di evitare paralizzanti incertezze, specie nel caso in cui siano inserite nel contratto sociale delle clausole di continuazione, che sia altresì prevista a priori una regolamentazione pattizia completa volta ad operare una selezione tra gli eredi nel caso di loro pluralità: ad esempio prevedendo, e con ciò espressamente consentendo, che ciascuno degli eredi possa autonomamente stipulare con i soci superstiti un accordo di continuazione pro quota con conseguente proporzionale riduzione della liquidazione dovuta ai coeredi non subentranti [nota 90] senza che via necessità di un accordo unanime sul punto.
In tal modo, in caso di divergenza di vedute tra i successori circa la continuazione della società con i soci superstiti, il diniego di alcuni non rischierebbe di paralizzare la volontà di continuare degli altri da un lato e, dall'altro eviterebbe di imporre alla società la liquidazione integrale della quota del de cuius .
Con riguardo, infine, alla successione di più coeredi nella quota del socio accomandante ex art. 2322 c.c., parte della dottrina, argomentando dall'unicità e indivisibilità della quota, ha ritenuto che la medesima costituisca oggetto di comunione tra gli eredi con conseguente necessità della nomina di un rappresentante comune per l'esercizio dei diritti sociali [nota 91], dovendo il frazionamento automatico ritenersi incompatibile con la natura personale di taluni diritti attribuiti al socio quali, ad esempio, il controllo sull'amministrazione.
Più in particolare, ai fini del subingresso in società degli eredi del socio accomandante, qualora questi siano più d'uno e intendano assumere ciascuno una autonoma posizione di socio accomandante, con conseguente aumento del numero complessivo dei soci, e quindi ai fini della divisione della quota stessa, contrastanti sono le opinioni circa la sufficienza o meno, in tal caso, del consenso espresso dalla maggioranza dei soci superstiti ai sensi dell'art. 2322 c.c., ovvero della necessità del consenso unanime dei medesimi ai sensi dell'art. 2252 c.c., trattandosi di una modifica del contratto sociale [nota 92]: in tale ultimo senso si osserva che, in difetto di una tale modificazione dell'atto costitutivo che aumenti il numero dei soci, gli eredi succederanno come gruppo e non come singoli, nella quota sociale del defunto accomandante e dovranno nominare un rappresentante comune ai fini dell'esercizio dei diritto sociali, analogamente a quanto disposto dall'art. 2347 c.c. [nota 93]
Altra parte della dottrina ritiene, invece, che in caso di morte del socio accomandante, si verifichi un frazionamento automatico della quota e pertanto ciascun erede diverrebbe socio accomandante in proporzione alla quota ereditaria di spettanza [nota 94]; la ragione dell'affermato frazionamento legale della quota risiederebbe nel fatto che la quota dell'accomandante non costituisce di per sé un nucleo unitario e inscindibile, ma si limita solo ad esprimere la partecipazione concreta del socio, a differenza dell'azione che rappresenta una quota astratta di capitale che prescinde dalle persone dei soci.
[nota 1] Sulla non equivalenza dei concetti di coeredità e comunione ereditaria v. G. AMADIO, Divisione ereditaria e collazione, Padova, 2000, p. 47 e ss.
[nota 2] Così A. BURDESE, La divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, XII, tomo 5, Torino, 1980, p. 189, p. 18 e ss.; ID., voce Comunione e divisione ereditaria, cit., p. 2 e ss; G. GROSSO - A. BURDESE, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, XII, tomo 1, Torino, 1977, p. 377 e ss.; V.R. CASULLI, voce Divisione ereditaria, dir. civ., in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, p. 40 e ss.; A. CICU, Successioni per causa di morte, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, XLII, Milano, 1961, p. 364 e ss.; G. AZZARITI, La divisione, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, Successioni, VI, tomo 2, Torino, 1997, p. 391 e ss.; D. BARBERO, Il sistema del diritto privato italiano, Torino, 2001, p. 1153 e ss.; P. FORCHIELLI- F. ANGELONI, Della divisione, Delle successioni, Artt. 713-768, libro secondo, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 2000, p. 42 e ss. e p. 214 e ss.; L. FERRI, Disposizioni generali sulle successioni, Delle successioni, artt. 456-511, libro secondo, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 49 e ss., il quale in particolare osserva che per i crediti non si dovrebbe parlare di successione in senso tecnico da parte degli eredi, bensì di acquisto derivativo-costitutivo; C. GIANNATTASIO, Delle successioni. Divisione-Donazione, Libro secondo, in Comm. cod. civ., tomo 3, Torino, 1980, p. 152 e ss.; G. BONILINI, voce Divisione, in Digesto, disc. priv., sez. civ., VI, Torino, 4 ed., 1990, p. 483; C. M. BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, Milano, 2005, p. 652 e ss.; G. GAZZARA, voce Divisione ereditaria, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 429 e ss e ivi p. 431; A. PALAZZO, Le successioni, in Tratt. dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, II, Milano, 2000, p. 958 e ss. Per quanto riguarda la letteratura non specificatamente rivolta al diritto ereditario cfr. M. FRAGALI, La comunione, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, XIII, Milano, 1983, p. 119 e ss. e p. 125 e ss.; A. GUARINO, voce Comunione, dir. civ., in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 252 i quali negano in generale che i crediti possano essere oggetto di comunione, sia essa ordinaria che ereditaria; nello stesso senso anche G. DE FERRA, Sulla contitolarità del rapporto obbligatorio, Milano, 1967, p. 2.
[nota 3] Nega che la comunione ereditaria sia una sottospecie della comunione ordinaria D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, dir. civ., in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 278 e ss. il quale parla anzi di autonomia dogmatica della comunione ereditaria, e tra gli elementi in cui tale autonomia si rivela vi sarebbe appunto anche l'oggetto della stessa. Sulla natura sui generis della comunione ereditaria, date le sue peculiarità, v. P. SCHLESINGER - A. TORRENTE, Manuale di diritto privato, Milano, 2007, p. 299: la comunione ereditaria, infatti, secondo il testo citato, non potrebbe essere inclusa né tra le comunioni incidentali - come invece fa la prevalente dottrina - perché il suo formarsi presuppone un atto volontario quale è l'accettazione dell'eredità, né tra quelle volontarie perché essa comunque presuppone un fatto estraneo alla volontà degli eredi quale è, per converso, la chiamata ereditaria.
[nota 4] Nel senso che sia i crediti che i debiti del de cuius, benché divisibili, non si dividono automaticamente si pronunciano F. D. BUSNELLI, L'obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, Milano, 1974, p. 470 e ss.; ID., voce Comunione ereditaria, cit., p. 277 e ss.; G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, cit., p. 193 e ss.; ci sia in oltre consentito il rinvio L. BULLO, Nomina et debita hereditaria ipso iure non dividuntur: per una teoria della comunione ereditaria come comunione a mani riunite, Padova, 2005, p. 61 e ss.; sul punto si vedano anche le osservazioni critiche di P. SCHLESINGER, voce Successioni, dir. civ., parte generale, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 762. Negano invece valore al tradizionale principio ipso iure dividuntur con riferimento ai soli crediti ereditari, essenzialmente argomentando dall'art. 727 c.c., L. CARIOTA - FERRARA, Le successioni per causa di morte, Napoli, 1977, p. 603; P. CARUSI, Le divisioni, in Collana di studi notarili diretta da G. Gallo-Orsi, Torino, 1978, p. 215 e ss.; G. DE CESARE - T. GAETA, La comunione e la divisione ereditaria, in Successioni e donazioni, II, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, p. 3 e ss.; L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, p. 309 e ss. ed ivi p. 314 e ss.: secondo tale A. a negare ingresso nel nostro ordinamento al principio di origine romana secondo cui i nomina ercta sunto sarebbe proprio il principio della dichiaratività della divisione ereditaria.
[nota 5] Il riferimento all'art. 1772, comma 2, c.c. - disciplinando la successione di più eredi al depositante di cosa indivisibile e richiedendo il loro consenso unanime - lascerebbe intendere che, nell'ipotesi di deposito di cosa divisibile, ciascun coerede sarebbe legittimato a chiedere la restituzione della propria parte.
[nota 6] Così espressamente CAPOZZI-AUCIELLO, Successioni e donazioni. Casistica, Milano, 2004, p. 628 e G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2006, p. 679 e ss.
[nota 7] Cfr. A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 17 e ss.
[nota 8] L'art. 1318 c.c. contiene una norma in forza della quale il vincolo di solidarietà opera anche nei confronti degli eredi del debitore e del creditore del rapporto obbligatorio indivisibile a differenza di quanto previsto, invece, in via generale dall'art. 1295 c.c. con riguardo ai debiti e crediti originariamente solidali del defunto ed aventi ad oggetto prestazioni divisibili. Sempre tra le peculiarità della disciplina, rispetto al normale regime della solidarietà, che caratterizzano le obbligazioni plurisoggettive indivisibili, figura anche quella prevista nella seconda parte dell'art. 1319 c.c.: secondo tale previsione, l'erede del creditore di una prestazione indivisibile che agisce per il soddisfacimento dell'intero credito deve dare cauzione a garanzia dei coeredi.
[nota 9] Ne consegue che nella prospettiva della dottrina tradizionale gli artt. 1315 e 1295 costituiscono semplicemente delle eccezioni al principio della divisione ipso iure dei rapporti obbligatori divisibili: v. per tutti A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 14.
[nota 10] Sulle "fortune" e "sfortune" di tale principio nell'esperienza giuridica continentale ci sia consentito di rinviare a L. BULLO, Nomina et debita hereditaria ipso iure non dividuntur …, cit., p. 61 e ss.
[nota 11] Cfr. per tutti M. GIORGIANNI, voce Obbligazione solidale e parziaria, dir. civ., in Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1980, p. 675 e ss.; C. M. BIANCA, Diritto civile, 4, L'obbligazione, Milano, 1995, p. 764.
[nota 12] Sulla rilevanza dell'omissione nel testo dell'art. 1314 c.c. del riferimento agli eredi del creditore (o del debitore) quale indice del definitivo abbandono, da parte del nostro legislatore, della concezione romanistica basata sul dogma dell'indipendenza degli eredi v. F. D. BUSNELLI, L'obbligazione soggettivamente complessa, cit., p. 471 nota 54 e p. 473; ci sia altresì consentito rinviare a L. BULLO, Nomina et debita hereditaria ipso iure non dividuntur…, cit., p. 258 e ss.
[nota 13] In realtà, più che dal complesso delle norme esistenti in materia di comunione e divisione ereditaria, una delle principali ragioni di resistenza all'abbandono, da parte della dottrina, del principio nomina hereditaria ipso iure dividuntur deriva dalle difficoltà, specie in termini di individuazione della disciplina applicabile, cui si andrebbe incontro se si negasse la divisione automatica dei debiti e dei crediti ereditari: è evidente, infatti, che in tal caso questi ultimi costituirebbero oggetto di comunione tra gli eredi e, a questo punto si porrebbe un problema di interferenza tra la disciplina prevista per le obbligazioni solidali da un lato e il diverso regime dettato dagli artt. 1100 e ss.
[nota 14] Sul punto v. S. PATTI, «Note sul pagamento dei debiti ereditari: la disciplina italiana a confronto con alcuni modelli europei», in Familia, 2006, p. 1091 e ID., «Il pagamento dei debiti ereditari», in Fam., pers. succ., 2006, p. 6 e ss. Sulla derogabilità dell'art. 754 c.c. v. A. RIZZIERI, «Sulla derogabilità dell'art. 754 c.c. in tema di pagamento dei debiti ereditari», in Riv. dir. priv., 2005, p. 873 il quale ritiene necessario che la deroga sia contenuta in un testamento; L. PADULA, «Debiti e pesi ereditari: profili di derogabilità al principio della divisione ipso iure e pro quota», in Vita not., 1990, p. 307 e ss. Si vedano tuttavia le osservazioni critiche di F.D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, cit., p. 280 il quale sottolinea il contrasto tra gli artt. 752 e 754 c.c. da un lato e l'art. 723 c.c. dall'altro il quale sembra dare indicazioni in senso contrario.
[nota 15] Tradizionalmente l'art. 754 c.c., ed in particolare il primo comma dello stesso, viene appunto interpretato come espressione normativa del principio per cui i debiti ereditari si dividono ipso iure, cioè automaticamente, tra gli eredi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, e di tale parte di debito ciascun coerede - in assenza di un'accettazione di eredità con beneficio di inventario - risponde, ai sensi dell'art. 2740 c.c., con tutti i propri beni, siano essi provenienti dal de cuius o anche personali. è chiaro che tale principio di divisione automatica è ritenuto operante solo in ordine ai debiti divisibili del de cuius: in ordine a quelli indivisibili, invece, non potendosi evidentemente applicare l'art. 754 c.c., viene richiamata la disciplina delle obbligazioni plurisoggettive aventi ad oggetto prestazioni indivisibili e cioè, ai sensi dell'art. 1317 c.c., la disciplina della solidarietà con la particolarità di cui all'art. 1318 c.c.; articolo, quest'ultimo che perpetua il regime della solidarietà anche nei confronti degli eredi del debitore o del creditore del debito indivisibile a differenza di quanto previsto in generale dall'art. 1295 c.c. per i debiti (e crediti) solidali che, invece, si dividono tra gli eredi di uno dei creditori o di uno dei condebitori in solido.
[nota 16] Negano valore al tradizionale principio dell' ipso iure dividuntur, ma con riferimento ai soli crediti ereditari, essenzialmente argomentando dall'art. 727 c.c., L. CARIOTA - FERRARA, Le successioni per causa di morte, cit., p. 603; P. CARUSI, Le divisioni, cit., p. 215 e ss.; G. DE CESARE - T. GAETA, La comunione e la divisione ereditaria, cit., p. 3 e ss.; L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, cit., p. 309 e ss. ed ivi p. 314 e ss. Negano la divisione automatica, anche con riferimento ai debiti divisibili, F. D. BUSNELLI, L'obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, cit., p. 470 e ss. e ID., voce Comunione ereditaria, cit., p. 277 e ss.; G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, cit., p. 193 e ss.; e, ci sia consentito il rinvio, L. BULLO, Nomina et debita hereditaria ipso iure non dividuntur…, cit., p. 205 e ss.; sul punto si vedano anche le osservazioni di P. SCHLESINGER, voce Successioni, dir. civ., parte generale, cit., p. 762. Per una ampia ricognizione e sintesi delle diverse tesi formulate in dottrina circa il regime dei debiti e dei crediti del de cuius v. A. MORA, Il contratto di divisione, Milano, 1995, p. 162 e ss.
[nota 17] Così A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 262 e ss. ed in particolare p. 266 e ss.
[nota 18] In tal senso v. F. D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, cit., p. 280 e G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, cit., p. 211 nota 41. V. anche A BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 22 il quale nega, in via generale, che gli atti dispositivi sulla quota di un diritto ereditario abbiano immediata efficacia traslativa, stante il principio dell'universalità anche oggettiva della comunione ereditaria.
[nota 19] Così Cass. 24 luglio 1945, n. 608, in Foro it. Rep., 1943-1945, voce Successione legittima e testamentaria, n. 126.
[nota 20] Si tratta della Cass. 13 ottobre 1992, n. 11128, pubblicata in Foro it., 1993, I, c. 1289, in Giust. civ., 1993, p. 1563 e ss. con nota di N. DI MAURO, p. 1566 e ss., in Corr. giur., 1993, p. 55 e ss., con commento di U. TAFURI, p. 57 e ss., nonché in La nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 583 e ss. con nota di F. REGINE, «Comunione ereditaria e diritti di credito», p. 586 e ss. Ulteriori considerazioni su tale pronuncia si leggono nel commento di G. AZZARITI, «Sul diritto o meno del coerede a riscuotere anche prima della divisione la quota parte di un credito ereditario (in superamento della massima nomina hereditaria ipso iure dividuntur)», in Riv. dir. civ., 1994, p. 361 e ss.
[nota 21] Cfr. A. CICU, Successioni per causa di morte, cit., p. 366 e ss.
[nota 22] Si tratta della medesima argomentazione utilizzata da F. D. BUSNELLI, voce Comunione ereditaria, cit., p. 280 per replicare alla nota tesi di CICU sopra ricordata.
[nota 23] Si tratta di Cass. 5 maggio 1999, n. 4501, in Giust. civ. Mass., 1999, p. 1017. Sempre in materia di prestazioni previdenziali e assistenziali, la sezione lavoro della Cassazione con la pronuncia n. 12128/2002 ha, anche più recentemente riaffermato il diritto di ogni singolo coerede ad ottenere la prestazione nei limiti della propria quota ereditaria con conseguente insussistenza di un litisconsorzio necessario tra gli eredi, motivando tali affermazioni sulla base del richiamo ai «principi generali vigenti in materia successoria». Il punto è però che tali principi, peraltro non scritti dal legislatore, non vengono affatto ricostruiti ma solo supposti e supposti nel senso dell'accoglimento del broccardo nomina hereditaria ipso iure dividuntur, broccardo che con ampiezza di argomentazioni era stato rifiutato prima da Cass. 13 ottobre 1992, n. 11128 e poi da Cass. 21 gennaio 2000, n. 640, entrambe illustrate nel testo, nonchè da Cass. 5 settembre 2006, n. 19062.
[nota 24] Cass. S.U., 28 novembre 2007, n. 24657 in Fam. pers. succ., 2008, p. 33 con ampia nota critica di N. DI MAURO, «Crediti del de cuius e pluralità di eredi», ivi, p. 37 e ss.; in Riv. not., 2008, 4, p. 944 e ss. con ampio commento di E. TAMPONI, «La comunione ereditaria si apre ai crediti: le Sezioni Unite sanciscono il superamento del principio nomina ipso iure dividuntur», ivi, p. 947 e ss.
[nota 25] Diversamente invece Cass. 11128/1992 la quale pur partendo dal medesimo assunto della inclusione dei crediti nella comunione ereditaria aveva rigettato la domanda di un coerede che chiedeva il pagamento della propria quota di credito ereditario. Anche Cass. 640/2000 e Cass. 19062/2006 che pure avevano affermato che il mantenimento della comunione ereditaria dei crediti fino alla divisione soddisfa l'esigenza di conservare l'integrità della massa e di evitare qualsiasi iniziativa individuale idonea a compromettere l'esito della divisione stessa, hanno affermato che i coeredi assumono la veste di litisconsorti necessari nei giudizi diretti all'accertamento dei crediti ereditari e al loro soddisfacimento.
[nota 26] Recentemente in tal senso si veda Cass., sez. II, 6 ottobre 2005, n. 19460 secondo la quale «Il diritto di ciascun condomino ha per oggetto la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui, con la conseguenza che egli può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che si renda necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non doversi procedere all'integrazione del contraddittorio, avendo alcuni dei condomini agito nei confronti di altri per far accertare la proprietà condominiale del sottotetto sovrastante gli appartamenti siti all'ultimo piano dello stabile, illegittimamente occupato dai proprietari di questi, che assumevano di averne la proprietà esclusiva)».
[nota 27] Così espressamente A. LENER, La comunione, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, Proprietà, VIII, tomo 2, Torino, 2002, p. 283 e ss. e ivi p. 286. Per una puntuale trattazione dei rapporti tra la norma codicistica di cui all'art. 1614 c.c. e la disciplina speciale di cui all'art. 6 della L. 392/78 v. G. MUSOLINO, «La successione mortis causa nel contratto di locazione di immobili ad uso abitativo», in Riv. not., 2002, p. 771 e ss. il quale conclude per la permanente validità della norma codicistica con funzione concorrente integrativa della normativa speciale. Contra v. però Cass. 22 maggio 2001, n. 6965, in Riv. not., 2002, p. 766 e ss.: secondo la Corte alla morte del conduttore di un immobile adibito ad uso abitativo legittimati a succedere nel rapporto di locazione sono esclusivamente i soggetti indicati all'art. 6 L. n. 392 del 1978 (e quindi il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini abitualmente conviventi con il conduttore), mentre in assenza dei predetti soggetti il contratto si estingue. Ne consegue che l'erede non convivente del conduttore di immobile adibito ad abitazione non gli succede nella detenzione qualificata poiché il titolo (contrattuale) si estingue con la morte del titolare del rapporto: egli è dunque un detentore precario della res locata al de cuius, sì che nei suoi confronti sono esperibili le azioni di rilascio per occupazione senza titolo e di responsabilità extracontrattuale. In particolare sul potere di recesso riconosciuto agli eredi dell'inquilino v. G. GABRIELLI- F. PADOVINI, La locazione di immobili urbani, Padova, 2001, p. 741 e ss.
[nota 28] Così G. IUDICA, Impugnative contrattuali e pluralità di interessati, cit., p. 205 e ss.
[nota 29] Che la disciplina di cui all'art. 2347 c.c. sia applicabile non solo al caso di comproprietà di un'azione, ma anche nella distinta ipotesi di una pluralità di azioni in comproprietà indivisa, quale è ad esempio anche quella derivante da una successione ereditaria v. G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2006, a cura di M. Campobasso, p. 202 e ID., «Comunione coniugale e partecipazioni in società di capitali», in Riv. dir. priv., 1996, p. 458 e ss.; G. COTTINO, voce Società per azioni, in Noviss. Dig. it., XVII, Torino, 1970, p. 570 e ss. e ivi p. 598. Si ritiene, inoltre, che detta norma, pur esprimendosi in termini di comproprietà, sia applicabile anche in caso di dematerializzazione e di non emissione dei titoli: sul punto v. M. CIAN, Sub art. 2347, in Commentario breve al codice civile, a cura di G. Cian, Padova, 2007, p. 2365.
[nota 30] Per quanto concerne i rapporti tra gli art. 2347 c.c. "vecchia" formulazione e 1100 e ss. c.c., si era sostenuto che, a prescindere dalla discussione se l'azione potesse essere considerata o meno una res, non poteva che prendersi atto che per gli aspetti di immediata rilevanza organizzativa la contitolarità di azione (e sotto questo profilo anche di quota di Srl) poneva problemi da un lato diversi rispetto a quelli derivanti da una situazione di contitolarità nel rapporto obbligatorio e dall'altro più assimilabili a quelli della comunione dei diritti reali di cui all'art. 1100 c.c.: così C. ANGELICI, Della società per azioni. Le azioni, artt. 2346-2356, in Comm. cod. civ. diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, p. 40 e ss. il quale, già prima della riforma, riteneva dunque giustificata, in caso di lacune, una applicazione analogica della disciplina di cui agli art. 1100 e ss. c.c. Si pensi, ad es., al silenzio dell'art. 2347 ante riforma, circa le modalità con cui procedere alla nomina (e revoca) del rappresentante comune: si trattava di decidere se fossero applicabili i principi del mandato collettivo (art. 1726 c.c.) con necessità quindi dell'unanimità ovvero quelli della comunione e quindi nomina a maggioranza calcolata ex art. 1106 c.c. In quest'ultimo senso era orientata - già prima della riforma - la prevalente dottrina: oltre appunto al sopra citato C. ANGELICI, Della società per azioni. Le azioni, cit., p. 42, v. anche G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2002, p. 202; M. BIONE, Le azioni, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, II, tomo 1, Torino, 1991, p. 25; G. COTTINO, voce Società per azioni, cit., p. 598. Circa l'individuazione delle conseguenze derivanti dalla mancata nomina del rappresentante comune, la giurisprudenza di legittimità - v. Cass. 16 luglio 1976, n. 2815, in Giust. civ., 1976, I, p. 1580 e ss. - riteneva che ciò non precludesse ai contitolari dell'azione l'esercizio personale dei diritti individuali connessi alla posizione di socio e in particolare la loro tutela attraverso l'azione giudiziaria. Diversamente orientata era, invece, parte della dottrina la quale riteneva che nell'ipotesi di mancata nomina non sarebbe stato possibile esercitare i diritti sociali: v. G.F. CAMPOBASSO, Diritto delle società, cit., p. 202. Secondo un'altra tesi invece, in questa ipotesi, si sarebbe dovuto operare una distinzione a seconda dei contenuti dei diritti connessi alla partecipazione, dal momento che se alcuni diritti ben avrebbero potuto essere esercitati solo congiuntamente da parte di tutti i comproprietari, di altri ne sarebbe stato, invece, consentito a ciascun contitolare un esercizio disgiunto e, quale esempio, si citava l'ipotesi della percezione del dividendo deliberato: così C. ANGELICI, Della società per azioni. Le azioni, cit., p. 43 e ss. Anche M. BIONE, Le azioni, cit., p. 28 afferma che le attribuzioni del rappresentante comune non portano ad una necessaria esclusione di una concorrente legittimazione dei comproprietari, talora uti singuli e tal'altra collettivamente, all'esercizio dei diritti sociali. Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, prima della riforma, era prevalente l'opinione che in caso di comproprietà di azioni, se non fosse stato nominato il rappresentante comune, ciascun comproprietario avesse comunque il diritto di impugnare le deliberazioni invalide della società: v. Trib. Milano 28 giugno 2001, in Giur. it., 2001, c. 2323; sul punto si v. però Cass. 26 marzo 1964, n. 679 in Riv. dir. comm., 1964, II, p. 332 con nota di G. FERRI. Più in generale, nel caso di azioni di SpA in comunione - sempre senza distinguere tra comunione ereditaria e non - la giurisprudenza formatasi prima della riforma, riteneva che potessero essere esercitati direttamente dai soci, e non necessariamente dal rappresentante comune di cui all'art. 2347 c.c., tutti quei diritti derivanti dalla partecipazione sociale la realizzazione dei quali non presupponesse una determinazione di volontà unitaria; quindi, si riteneva che se la quota di contitolarità delle azioni spettanti ad un socio corrispondesse idealmente al quinto del capitale sociale, prima ed indipendentemente dalla divisione, il singolo socio comunista fosse individualmente legittimato a chiedere la convocazione giudiziale dell'assemblea dei soci ai sensi dell'art. 2367 c.c.: in tal senso v. App. Bologna 12 aprile 1999, in Notariato, 2000, p. 158, con nota di DI MARIA. In caso di disaccordo tra i contitolari, la giurisprudenza di merito, già prima della riforma, riconosceva a ciascun contitolare delle azioni la possibilità di rivolgersi al Tribunale che avrebbe provveduto in camera di consiglio ai sensi dell'art. 1105, comma 4, c.c.: così Trib. Roma 18 febbraio 1987, in Giur. di merito, 1987, p. 575 e ss. e, con riferimento ad una quota di Srl, in tal senso v. anche Trib. Roma 8 novembre 1999, in Società, 2000, p. 881 e ss. Con l'entrata in vigore del nuovo diritto societario, come si è già detto nel testo, molte delle questioni testé riferite sono state espressamente risolte dal legislatore: il nuovo art. 2347 c.c. prevede, infatti, espressamente che «Nel caso di comproprietà di un'azione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli articoli 1105 e 1106». Sull'incidenza della riforma sulla norma in oggetto v., in particolare, R. BOCCA, Il nuovo diritto societario, artt. 2325-2409 c.c., in Comm. diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna, 2004, p. 256 e ss. e, in senso analogo, dispone ora espressamente anche per le Srl il nuovo art. 2468 c.c.
[nota 31] V. Cass. 16 aprile 1994, n. 3609 in Banca borsa tit. cred., 1996, II, p. 161 la cui massima recita: «La clausola statutaria che attribuisce ai soci superstiti di una società di capitali, in caso di morte di uno di essi, il diritto di acquistare - entro un determinato periodo di tempo e secondo un valore da determinarsi secondo criteri prestabiliti - dagli eredi del de cuius le azioni già appartenute a quest'ultimo e pervenute iure successionis agli eredi medesimi, non viola il divieto di patti successori di cui all'art. 458 c.c., in quanto il vincolo che ne deriva a carico reciprocamente dei soci è destinato a produrre effetti solo dopo il verificarsi della vicenda successoria e dopo il trasferimento (per legge o per testamento) delle azioni agli eredi, con la conseguenza che la morte di uno dei soci costituisce soltanto il momento a decorrere dal quale può essere esercitata l'opzione per l'acquisto suddetto, senza che ne risulti incisa la disciplina legale della delazione ereditaria o che si configurino gli estremi di un patto di consolidazione delle azioni fra soci, caratterizzandosi, invece, la clausola soltanto come atto inter vivos, non contrastante, in quanto tale, neanche con la norma dell'art. 2355 comma 3, c.c., che legittima disposizioni statutarie intese a sottoporre a particolari condizioni l'alienazione di azioni nominative».
[nota 32] Per una ampia ricognizione delle clausole di predisposizione successoria sia nelle società di capitali che nelle società di persone v. M. PALAZZO, «La circolazione delle partecipazioni e la governance nelle società familiari in prospettiva successoria», in Riv. not., 2007, p. 1375 e ss.; M. IEVA, «Le clausole limitative della circolazione delle partecipazioni societarie: profili generali e clausole di predisposizione successoria», in Riv. not. 2003, p. 1361 e ss.; A. BORTOLUZZI, voce Successione nell'impresa, in Digesto, disc. priv., sez. commerciale, 4 ed., Aggiornamento, Torino, 2003, p. 871 e ss., p. 886 e ss.
[nota 33] Qualora si scelga la previsione della intrasmissibilità mortis causa della quota, è stata segnalata l'esigenza di chiarire nello statuto se l'impedimento al subentro in società degli eredi sia un accadimento automatico per effetto dell'evento morte e dell'esistenza di una tale clausola statutaria ovvero richieda una decisione ad hoc dei soci supersiti: così M. PALAZZO, «La circolazione…», cit., p. 1391.
[nota 34] F. MAGLIULO, Il recesso e l'esclusione, in La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2003, p. 212 e ss. e G.C.M. RIVOLTA, «Profilo della nuova disciplina della società a responsabilità limitata», in Banca borsa tit. cred., 2003, I, p. 695 il quale osserva che qualora l'atto costituivo, ai sensi dell'art. 2469 c.c. disponga un termine non superiore a due anni dalla costituzione della società ovvero dalla sottoscrizione della partecipazione prima del quale il recesso non può essere esercitato e il socio muore proprio in quell'arco temporale, non appare chiara la sorte della quota intrasmissibile. In tale specifica ipotesi si è ritenuto che debbano intendersi differiti solo gli effetti economici del recesso nei confronti del patrimonio sociale e quindi gli eredi non potranno chiedere alla società il rimborso della quota del socio defunto prima del decorso del predetto termine, fermo restando che in pendenza di detto termine gli eredi del socio defunto non possono essere considerati soci: così F. MAGLIULO, Il recesso e l'esclusione, cit., p. 214.
[nota 35] Sulla specifica questione si v. A. BUSANI, La riforma delle società. Srl, Milano, 2003, p. 220 e ss. e p. 300 e ss, nonché l'ampio articolo di G. MARGIOTTA, «La divisibilità e la cessione parziale della quota di Srl», in Società, 2006, p. 425 e ss.
[nota 36] Si veda Cass. 26 maggio 2000, n. 6957, in Giur. it., 2000, p. 2309.
[nota 37] Sulla riforma e sulla collocazione sistematica della "nuova" Srl si vedano le considerazioni di F. MAGLIULO e F. TASSINARI, Evoluzione storica e tipo normativo, in La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2003, p. 10 e ss. e di O. CAGNASSO, Il nuovo diritto societario, artt.-2409-bis - 2483 c.c., in Comm. diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna 2004, p. 1705 e ss.
[nota 38] Così P. REVIGLIONO, Il nuovo diritto societario, artt. 2409-bis - 2483 c.c., in Comm. diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, cit., p. 1816; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2006, a cura di M. Campobasso, p. 561. è stato, invero, anche osservato, che la riforma in punto di Srl si caratterizza anche per la sostituzione quasi generalizzata dell'espressione quota con quella di partecipazione (del socio). Preferisce parlare di unitarietà più che di oggettivizzazione della partecipazione M. MALTONI, La partecipazione sociale in La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2003, p. 151. Sulle diversi tesi formulate in dottrina, prima della riforma del diritto societario, circa la natura giuridica della quota di Srl v. l'ampia disamina critica condotta da G.C.M. RIVOLTA, La società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 1982, p. 183 e ss. il quale, ferma restando l'eterogeneità delle situazioni soggettive del socio scaturenti dal contratto sociale, afferma l'esistenza in capo al socio di un unico diritto patrimoniale cui si affiancano però, seppure in posizione di strumentalità, altre situazioni soggettive e cioè quelle organiche, amministrative e passive. Per una concezione della quota quale oggetto unitario di diritti v. G. LAURINI, La società a responsabilità limitata, Milano, 2000, p. 66 e ss. In senso contrario v., invece, G. SANTINI, Società a responsabilità limitata, Del lavoro, artt. 2472-2497-bis, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro Quinto, Bologna-Roma, 1992, p. 20 e ss. il quale propende per una visione della quota quale fascio di diritti e di rapporti aventi la loro fonte direttamente nel contratto sociale.
[nota 39] Così G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, Milano, 2004, p. 108-109; G.C.M. RIVOLTA, «Profilo della nuova disciplina…», cit., p. 695 e ss. V. anche infra note 46 e 47.
[nota 40] In tal senso v. G. SANTONI, Le quote di partecipazione nella Srl, in Il nuovo diritto delle società diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, III, Torino, 2007, p. 391.
[nota 41] M. MALTONI, op. cit., p. 175.
[nota 42] Così M. MALTONI, op. ult. cit., p. 175.
[nota 43] Così G. SANTONI, op. ult. cit., p. 390.
[nota 44] Così M. MALTONI, op. cit., p. 175.
[nota 45] Sul punto O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. comm. diretto da G. Cottino, V, Padova, 2007, p. 142 il quale ritiene che la divisione avvenga solo in presenza di una clausola ad hoc. Osserva inoltre come l'art. 2468 c.c. non richiami la regola disposta dall'art. 2347 secondo comma che stabilisce che in caso di mancata nomina rappresentante comune, la dichiarazione fatta a uno dei comproprietari è efficace per tutti, con la conseguenza che le dichiarazioni della società, nella Srl dovranno essere effettuate a tutti i contitolari.
[nota 46] In tal senso v. P. REVIGLIONO, Il nuovo diritto societario, artt. 2409-bis - 2483 c.c., in Comm. diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, cit., p. 1816. Nel senso che in caso di decesso del socio l'evento successorio non rappresenti di per sé solo il presupposto dell'operare di una divisione automatica dell'unica e unitaria quota in più quote quanti sono gli eredi, con la conseguenza dell'insorgere di una comunione pro indiviso sulla partecipazione v. A. BUSANI, op. cit., p. 222. Prima della riforma del diritto societario, in dottrina negava la divisione automatica delle quote di Srl G.C.M. RIVOLTA, La società a responsabilità limitata, cit., p. 277 e ss. non solo per la formulazione letterale del testo dell'art. 2482 c.c. (ante riforma), ma soprattutto per la diversa natura della quota rispetto al credito, (credito che secondo la opinione all'epoca prevalente si riteneva diviso ipso iure tra gli eredi); inoltre, osservava sempre l'A., che sarebbe stato singolare pensare ad una quota di Srl - caratterizzata dalla unitarietà della posizione del titolare a differenza della pluralità e indipendenza delle partecipazioni azionarie di cui è titolare il socio di una SpA - che si divide automaticamente, quando invece il pacchetto azionario, benché formato da un numero di azioni perfettamente divisibile per il numero degli eredi cade in comunione ereditaria; concludeva pertanto che saranno gli eredi del socio a dover dunque promuovere la divisione nelle forme di legge; negavano la divisione automatica tra gli eredi della quota di Srl, prima della riforma, anche G. AULETTA, Appunti diritto commerciale, imprenditori e società, Napoli, 1946, p. 129 e G. LAURINI, La società a responsabilità limitata, cit., p. 67; in giurisprudenza v. App. Trieste 22 novembre 1957 in Giust. civ., 1958, I, p. 177. Contra v., invece, G. SANTINI, op. cit., p. 174 e ss.
[nota 47] Così G. C. M. RIVOLTA, op. ult. cit., p. 277 e ss.; G. AULETTA, op. cit., p. 129; G. LAURINI, op. cit., p. 67 il quale osserva che, ciononostante il testatore può lasciare in eredità o legato frazioni della propria quota a diverse persone, nel qual caso ogni frazione di quota caduta in successione formerà una quota a sé; in giurisprudenza v. App. Trieste 22 novembre 1957, in Giust. civ., 1958, I, p. 177. Contra v., invece, G. SANTINI, op. cit., p. 174 e ss.
[nota 48] Così G. SANTINI, op. cit., p. 174 e ss. il quale, precisava, peraltro, che tale automatica divisione era tuttavia impedita ogniqualvolta detta divisione avesse come risultato un quoziente non intero e quindi vi fosse "matematicamente" un resto, non potendosi ritenere corretta la diversa tesi che riteneva che nella suddetta ipotesi la divisione avrebbe potuto comunque avvenire ipso iure, fermo restando che il "resto" sarebbe rimasto in comunione tra gli eredi.
[nota 49] Pubblicata in Società, 2002, p. 609 e ss. con nota di CIVERRA e su Riv. not., 2003, p. 206 e ss.
[nota 50] Si segnala che il comma 1-bis dell'art. 36, come inserito dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008 di conversione del D.l. 12/2008, dispone, con una formulazione che può dar luogo a contrastanti interpretazioni, quanto segue: «L'atto di trasferimento di cui al secondo comma dell'articolo 2470 del codice civile può essere sottoscritto con firma digitale, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione dei documenti informatici, ed è depositato, entro trenta giorni, presso l'ufficio del Registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale, a cura di un intermediario abilitato ai sensi dell'articolo 31, comma 2-quater, della legge 24 novembre 2000, n. 340. In tale caso, l'iscrizione del trasferimento nel libro soci ha luogo, su richiesta dell'alienante e dell'acquirente, dietro esibizione del titolo da cui risultino il trasferimento e l'avvenuto deposito, rilasciato dall'intermediario che vi ha provveduto ai sensi del presente comma. Resta salva la disciplina tributaria applicabile agli atti di cui al presente comma». Sul punto si segnala l'ampio commento di E. MACCARONE e G. PETRELLI, «Le cessioni di quote di Srl dopo la conversione del D.l. 112/2008», in Notariato, 2008, p. 533 e ss. Secondo le istruzioni provvisorie emanate sia con la nota operativa 17/2008 dalla CCIAA di Brescia il 27 Agosto 2008 sia con la circolare emanata dai Conservatori del Registro delle imprese delle Camere di commercio del Triveneto, il comma 1-bis dell'art. 36 in oggetto andrebbe inteso nel senso che i soli atti per i quali è applicabile la nuova normativa sono quelli che trasferiscono il diritto di piena proprietà sulla quota per atto tra vivi e a titolo oneroso; rimarrebbero pertanto esclusi, tra gli altri, anche gli atti di divisione della comunione ereditaria; in tal senso v. anche le indicazioni emesse da Unioncamere il 22 settembre 2008.
[nota 51] In tal senso v. la Risposta al quesito n. 5298/I/2006 a cura di C. LOMONACO.
[nota 52] Sulla distinzione tra attribuzioni patrimoniali post mortem e mortis causa v. G. GIAMPICCOLO, voce Atto mortis causa, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 232 e ss.; R. NICOLò, «Attribuzioni patrimoniali post mortem e mortis causa», in Vita not. 1987, CIX e ss.
[nota 53] Sulla distinzione tra clausole meramente conformative delle situazioni giuridiche soggettive destinate a cadere in successione che, in quanto tali, non si pongono in contrasto né in concorrenza con il testamento ai fini dell'attribuzione e dell'individuazione del beneficiario v. amplius F. TASSINARI, «Clausole in funzione successoria negli statuti delle società di persone», in Giur. comm., 1995, I, p. 935 e ss. e spec. 944 e ss.
[nota 54] Per una proposta redazionale di tale clausola v. C. CACCAVALE - F. MAGLIULO - M. MALTONI - F. TASSINARI, La riforma della società a responsabilità limitata, cit., Appendice, p. 561 per la Srl connotata in senso capitalistico.
[nota 55] Sul punto v. amplius P. MENTI, «Socio d'opera e conferimento del valore nella Srl», in Quad. Giur. comm., 2006, p. 237 e ss.
[nota 56] Sulla derogabilità di tale norma v. F. TASSINARI, «Clausole contrattuali in tema di morte del socio», in Notariato, 1995, p. 60 e ss.
[nota 57] Sui limiti imposti all'autonomia privata sia dai principi generali e sia, nello specifico, dal divieto dei patti successori nella predisposizione delle c.d. clausole di continuazione v. F. TASSINARI, «Clausole contrattuali…», cit., p. 60 e ss. e, con specifico riferimento alle c.d. clausole di consolidazione v. ID., «Clausole in funzione successoria negli statuti delle società di persone», cit., p. 935 e ss. e A. FUSARO, «La consolidazione delle quote a favore dei soci superstiti», in Vita not., 1994, p. 932 e ss.; F. MAGLIULO, «Il divieto del patto successorio istitutivo nella pratica negoziale», in Riv. not., 1992, p. 1443 e ss.; M. IEVA, «I fenomeni c.d. parasuccessori», in Riv. not. 1988, p. 1169 e ss.
[nota 58] La regola per cui la morte del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale con riguardo al socio defunto è prevista anche in tema di cooperative dal primo comma dell'art. 2534 c.c.; tuttavia il secondo comma di detto articolo consente l'introduzione di una clausola di continuazione con riferimento agli eredi provvisti dei requisiti per l'ammissione in società e, in tale ipotesi, in caso di pluralità di eredi, il terzo comma del medesimo articolo prevede la nomina di un rappresentante comune, salvo che la quota sia divisibile e la società consenta la divisione. Sulle implicazioni teoriche ed applicative di tale norma si rinvia all'ampio studio monografico di G.A.M. TRIMARCHI, Le nuove società cooperative, cit. p. 105 e ss. ove si precisa come detta previsione sia da ritenersi naturalmente riferita ai soci cooperatori e non a quelli finanziatori, le cui quote e/o azioni sono di regola liberamente trasmissibili mortis causa.
[nota 59] In tal senso v. M.GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 480; F. FERRARA- F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2006, p. 283 e ss. L'automatismo dello scioglimento risulterebbe chiaramente sia dal tenore degli artt. 2284, 2289 e 2290 c.c. che dall'elemento personale che distingueva la partecipazione del socio defunto; nello stesso senso, tra gli altri, G.F. CAMPOBASSO, Diritto delle società, cit., p. 114; in giurisprudenza, v. Cass. 16 giugno 1978, n. 2987, in Giur. comm., 1978, II, p. 631 e ss.
[nota 60] è ormai prevalente, stante la riconosciuta soggettività giuridica delle società di persone, la tesi che ritiene che l'obbligo di liquidazione della quota sia a carico della società e non dei soci: in tal senso v. Cass. S.U., 26 aprile 2000, n. 291, in Società, 2000, p. 1200; Cass. 13 dicembre 1999, n. 13954, in Giur. it., 2000, p. 1215; Cass. 19 novembre 1999, n. 12833, ibidem; Cass. 10 giugno 1998, n. 5757, in Notariato, 1999, p. 27. In dottrina v. F. FERRARA - F. CORSI, Gli imprenditori e le società, cit., p. 293 e ss.; R. RORDORF, «Liquidazione della quota agli eredi del socio defunto», in Società, 1987, p. 352. Contra v. M. GHIDINI, op. cit. p. 479, il quale imputa ai soci superstiti e non alla società l'obbligazione in oggetto.
[nota 61] Così M. GHIDINI, op. cit., p. 480.
[nota 62] Controversa in dottrina è la posizione degli eredi del socio defunto qualora i soci superstiti optino per lo scioglimento della società: da taluni si ritiene, infatti, che gli eredi divengano in tal caso soci di una società in liquidazione e in tal senso v. M . GHIDINI, op. cit., p. 481. Altri, invece, escludono che il subingresso degli eredi in società possa basarsi sulla sola volontà dei soci superstiti, come si evincerebbe anche dalla lettera dell'art. 2284 c.c., con il rischio di esporre in tal modo gli eredi alla responsabilità per le obbligazioni sociali contratte dalla società durante la liquidazione: per tutti in tale ultimo senso v. G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società [nota 6], cit., p. 114. Sul punto v. anche F. FERRARA - F. CORSI, Gli imprenditori e le società, cit., p. 283 nota 3 ove si osserva che i diritti e gli obblighi inerenti alla partecipazione di una società in liquidazione non hanno carattere personale e come tali sono trasmissibili; si aggiunge altresì che in caso di scelta per la liquidazione della società l'identità di posizione degli eredi con i soci superstiti è limitata alle sole finalità liquidative e pertanto gli eredi non sono da ritenere divenuti soci in seguito alla delibera di scioglimento.
[nota 63] M. GHIDINI, op. cit., p. 480 e ss.
[nota 64] Nel senso che la duplice manifestazione di volontà dei soci superstiti e degli eredi non dia luogo ad incontro dei consensi proprio del contratto, bensì a due distinti atti unilaterali v. M. GHIDINI, op. cit., p. 96 nota 45.
[nota 65] Sul punto v. amplius M. GHIDINI, op. cit., p. 496.
[nota 66] M. GHIDINI, op. cit., p. 497; G. FERRI, Delle società, Del lavoro, artt. 2247-2324, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 309.
[nota 67] Sulle diverse ricostruzioni del modo di operare dello scioglimento v. G. CARLINI - F. CLERICò - C. UNGARI TRASATTI, «Morte del socio, diritti dei successori e modalità del subentro nelle società di persone», in Riv. not., 2003, p. 1443 e ss.
[nota 68] M. GHIDINI, op. cit., p. 498.
[nota 69] M. GHIDINI, op. cit., p. 499.
[nota 70] In tal senso v. anche la Risposta al quesito n. 8/2007/I dell'Ufficio studi del Consiglio Nazionale del Notariato.
[nota 71] In senso dubitativo circa la necessità dell'atto scritto ad substantiam ai sensi dell'art. 1350 n. 3) e 9) qualora nel patrimonio della società ricadano beni immobili v. G. FERRI, op. cit., p. 308 e ss.
[nota 72] Sulla diversa questione se ai fini della decisione di continuare con gli eredi del socio defunto sia richiesto il consenso unanime dei soci superstiti ovvero sia sufficiente la maggioranza dei consensi qualora questa sia prevista per le modificazioni del contratto sociale v. P. PITTER, sub art. 2284, in Commentario breve al codice civile, cit., p. 2527.
[nota 73] M. GHIDINI, op. cit., p. 500 e ss.
[nota 74] M. GHIDINI, op. cit., p. 500.
[nota 75] M. GHIDINI, op. cit., p. 501.
[nota 76] V. supra nota 60.
[nota 77] Così M. GHIDINI, op. cit., p. 501.
[nota 78] Così F. FERRARA- F. CORSI, Gli imprenditori e le società, cit., p. 285. In giurisprudenza v. Cass. 11 ottobre 1957, n. 3758, in Giust. civ., 1958, I, p. 66 e ss.
[nota 79] Sul punto si vedano le osservazioni critiche di G. CARLINI - F. CLERICò - C. UNGARI TRASATTI, op. cit., p. 1453 e ss.
[nota 80] M. GHIDINI, op. cit., p. 500; G. FERRI, op. cit., p. 308, il quale osserva come in realtà tale questione assuma pratico rilievo nel caso in cui sia prevista in contratto la clausola di continuazione.
[nota 81] Così M. GHIDINI, op. cit., p. 500; F. FERRARA - F. CORSI, op. cit., p. 284; G. F. CAMPOBASSO, op. cit., p. 114.
[nota 82] Su tali clausole, in particolare, v. G. F. CAMPOBASSO, op. cit., p. 115 e F. TASSINARI, «Clausole contrattuali…» cit., p. 60 e ss.
[nota 83] Per la tesi dell'opzione v. F. FERRARA- F. CORSI, op. cit., p. 285; G. FERRI, op. cit., p. 310 nota 3; contra nel senso che si tratti, invece, di un contratto a favore di terzi v. M. GHIDINI, op. cit., p. 503 e ss., in cui stipulante è il socio che poi premorirà, promittenti sono gli altri soci, mentre gli eredi del socio che premorirà sono i terzi beneficiari.
[nota 84] G. FERRI, op. cit., p. 316.
[nota 85] Così F. FERRARA- F. CORSI, op. cit., p. 285.
[nota 86] G. FERRI, op. cit., p. 316.
[nota 87] G. FERRI, op. cit., p. 317.
[nota 88] M. GHIDINI, op. cit., p. 508.
[nota 89] M. GHIDINI, op. cit., p. 509.
[nota 90] Per un esempio di tecnica redazionale di una clausola di tal genere v. F. TASSINARI, «Clausole contrattuali…», cit., p. 63.
[nota 91] M. BUSSOLETTI, voce Società in accomandita semplice, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. 971; F. DI SABATO, Società in generale. Società di persone, in Tratt. dir. civ. a cura del Consiglio nazionale del Notariato, Napoli, 2004 p. 260 e ss.; P. MONTALENTI, «Il socio accomandante», in Quad. giur. comm., 1985, p. 302; F. GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, in Tratt. dir. civ. e comm. già diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2007, p. 494.
[nota 92] Ritiene che per la divisione della quota comune sia sufficiente il consenso della maggioranza dei soci superstiti F. Di SABATO, Società in generale. Società di persone, cit., p. 260 e ss.; contra F. GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, cit., p. 493 per il quale, aumentando in tal caso, il numero dei soci, si sarebbe in presenza di una modifica dell'atto costitutivo che, in quanto tale, richiederebbe il consenso unanime dei soci superstiti.
[nota 93] F. GALGANO, op. cit., p. 493 e ss.
[nota 94] In tal senso G. FERRI, op. cit., p. 502. Sul punto si vedano anche le affermazioni contenute nella pronuncia del Tribunale Torino 27 febbraio 1978, in Giur. comm., 1979, II, p. 697 con ampia nota di P. BOERO, «Accomandita semplice con unico accomandatario socio d'opera: spunti interpretativi», ivi, p. 697 e ss. il quale mette in luce gli inconvenienti cui conduce la tesi della divisione automatica in un tipo sociale dove ciò che rileva è la figura del socio come persona fisica e non la misura della sua partecipazione.
|
|
|