Divisione transattiva e transazione divisoria
Divisione transattiva e transazione divisoria
di Giuseppe Antonio Michele Trimarchi
Notaio in Gragnano

Introduzione al problema: nomofilassi e modernità del rapporto tra transazione e divisione

Il complesso rapporto tra contratto di divisione e contratto di transazione non costituisce certo una novità per l'interprete e l'operatore pratico [nota 1].

Si tratta di un intreccio ad elevata soglia di criticità rinveniente già nella legislazione pre-codicistica, rifluito nel codice civile del 1942, la cui complessità risulta accentuata dall'ambiguità della disciplina positiva vigente, e, il cui fondamento riposa nella molteplicità e diversità delle fattispecie applicative. Questione, quest'ultima, che se non preclude l'opera di sussunzione della vicenda negoziale nell'uno o nell'altro "tipo" contrattuale, la rende, quantomeno, problematica.

La difficoltà è noto, investe la "semplice" questione dell'individuazione della disciplina degli atti diversi dalla divisione. Rispetto a questi, infatti, si registra un generale conflitto: da un lato si avverte la necessità di rintracciare, nel sistema, una disciplina omogenea che caratterizzi tutti gli atti che si propongono, in generale, lo scopo della divisione; d'altra parte, però, il legislatore ha considerato, parimenti, rilevante l'esigenza connessa alla specialità dell'atto transattivo con il quale «si è posto fine alle questioni insorte a causa della divisione o dell'atto fatto in luogo della medesima, ancorchè non fosse al riguardo cominciata alcuna lite» rispetto al quale non è ammessa rescissione (art. 764 secondo comma c.c.).

Vale, in via del tutto preliminare, ricordare che la norma da ultimo richiamata è inserita nel capo V, titolo IV, libro II del codice civile, dedicato, com'è noto, all'annullamento ed alla rescissione della divisione (di comunione ereditaria). In altri termini la norma è inquadrata tra quelle preordinate alla disciplina della patologia dell'atto divisorio riferito alla comunione ereditaria (artt. 761 - 768 c.c.).

Essa rappresenta, unitamente alle altre del capo ora citato, il "sistema speciale" della disciplina della patologia della divisione detta che pur non contrapponendosi, tuttavia, completa quella della patologia del contratto in generale [nota 2], e che va considerata, del pari, alla luce della disciplina del contratto di transazione (artt. 1965 e ss. c.c) la quale, peraltro, non contempla la rescindibilità del contratto (art. 1970 c.c.) [nota 3]. Il quadro deve completarsi considerandosi anche la disciplina della divisione della comunione ordinaria, rectius non ereditaria, misurando il valore del richiamo di cui all'articolo 1116 c.c. che impone l'applicabilità delle norme in materia di divisione ereditaria alla divisione "ordinaria" in «quanto … non in contrasto con quelle» relative, appunto, allo scioglimento della comunione ordinaria .

Non risulta,infine, di minor peso la richiamata circostanza secondo la quale la norma esprime la singolare assimilazione tra divisione ed atti diversi che producono l'effetto divisorio sia pure al solo fine dell'applicazione dell'azione di rescissione.

Emerge con evidenza la necessità d'individuare l'area operativa della transazione da assegnare alla soggezione del secondo comma.

A questo riguardo vale ricordare che il problema dell'individuazione dell'area intermedia in cui transazione e divisione si "congiungessero" non sfuggiva, già, al codice del 1865 che si occupava della vicenda all'articolo 1939. La norma prevedeva, al comma 1 che: «L'azione di rescissione si ammette contro qualunque atto, che abbia per oggetto di far cessare tra i coeredi la comunione degli effetti ereditari, ancorché fosse qualificato con titoli di vendita, di permuta, di transazione, od in qualunque altra maniera ... ». Poi al comma 2 proseguiva sancendo che: « ... Ma dopo la divisione o dopo l'atto fatto in luogo della medesima, l'azione di rescissione non è più ammessa contro la transazione fatta sopra le difficoltà reali che presentava il primo atto, ancorché non fosse cominciata alcuna lite sopra tale oggetto».

Due sono gli imprescindibili profili che emergevano dalla richiamata disciplina:

a. che l'azione di rescissione fosse proponibile contro la divisione o contro qualunque atto con effetti divisori tra cui si annoverava anche la transazione;

b. che detta azione restasse preclusa solo allorchè si fosse stipulata una transazione, su di una divisione o su di un atto equipollente già concluso, destinata a prevenire liti (ancorchè non iniziate) sulle difficoltà del primo atto.

Lo scopo del legislatore del 1865 appariva piuttosto evidente:

- da un lato si apriva alla rescindibilità dell'atto divisorio con un profilo ontologicamente inclusivo, tant'è che tra gli atti astrattamente rescindibili si menzionava anche la transazione;

- dall'altro, però, s'impediva il travolgimento del contratto di transazione allorchè esso fosse stato stipulato successivamente ad una divisione o ad altro atto divisorio e fosse causalmente chiamato a comporre, con il sistema delle reciproche concesssioni, le "difficoltà reali" dell'atto di divisione.

L'interesse perseguito è evidente, il legislatore trovò un compromesso tra la necessità di adottare una disciplina severa dell'azione di rescissione della divisione riducendone l'impatto allorchè sulla divisione, o sul negozio lato sensu divisorio, intervenisse una transazione a comporre difficoltà reali.

Non è questa la sede per studiare i tentativi effettuati da autorevole e risalente dottrina per superare il rilievo del momento temporale positivamente recepito dal legislatore in ordine all'applicazione della rescissione, vale però segnalare che da più lati si ebbe occasione si esprimere insoddisfazione per la disciplina adottata. L'individuazione, infatti, di un momento temporale che assurgeva a discrimen dell'applicazione dell'azione di rescissione restava insoddisfacente in quanto finiva per sottrarre alla rescissione molte attività negoziali che successivamente intervenute tra i condividenti recavano la "maschera" della transazione su difficoltà reali dell'atto divisorio.

Insomma la soluzione prescelta - pur apprezzabile per il criterio semplice adottato riassumibile nell'inciso «tutto è rescindibile anche la transazione, salvo quando venga stipulata dopo una divisione o un atto divisorio» - finiva per avere proprio in questa semplicità un limite notevole, prestandosi a meccanismi eversivi della stessa regola d'apparente severità che essa adottava [nota 4].

Diversamente, per il profilo al vaglio, la lettera dell'art. 764 c.c., che facendo riferimento, al comma 2, «alle questioni insorte a causa della divisione o dell'atto fatto in luogo della medesima», consente di ipotizzare che la volontà del legislatore sia stata quella di innovare rispetto al passato, abbandonando il riferimento a criteri rigidamente precostituiti, e così fissando il "presupposto" per l'esclusione dell'azione di rescissione nella sostanza del negozio.

Appare incontestabile che l'obiettivo perseguito consiste nella tendenziale esclusione dell'applicazione del rimedio rescissorio contro quegli atti che, variamente riconducibili all'accordo transattivo, abbiano ad oggetto questioni di natura sostanzialmente divisoria.

Occorre, quindi, considerare in modo specifico il senso dell'innovazione, ed in specie, le sue ricadute operative, foriere di non poche difficoltà come dimostrano i frequenti interventi delle giurisprudenza in materia [nota 5].

La valutazione dell'impatto normativo, specie in punto applicativo, risulta più chiara ove si consideri che la rescissione, com'è noto, è un rimedio generale di quella patologia del contratto, individuata dal legislatore nel concorso di circostanze obiettive e subiettive consistenti nello stato di pericolo o di bisogno di una parte, nella conoscenza di tale status dell'altra che ne approfitti per trarne vantaggio, ed infine nella sproporzione tra prestazioni. Sproporzione che deve eccedere il rapporto di un mezzo tra l'una e l'altra, tal che l'azione resti preclusa se il valore della prestazione dell' "approfittatore" non superi della metà il valore della prestazione del "bisognoso" (artt. 1447 e soprattutto 1448 c.c.). Non è certo questa la sede per indagare le ragioni a fondamento del rimedio rescissorio [nota 6], ma esso, almeno dal punto di vista empirico esprime la necessità ordinamentale di evitare che il contratto possa, a certe condizioni, essere agevole strumento d'abuso, favorendo sperequazioni tra il valore delle prestazioni dei contraenti che si trovino in certe situazioni soggettive.

Vale, ora, sottolineare che la transazione costituisca uno dei contratti espressamente sottratti all'operatività del rimedio generale dell'azione di rescissione come risulta dalla lettera dell'art. 1970 c.c., ove testualmente si esclude che la transazione possa essere «impugnata per lesione».

La previsione, peraltro, è stata sottoposta ad autorevole critica specie sotto il profilo della incompatibilità tra il rimedio rescissorio e la causa transattiva, evidenziandosi che più che di ontologica incompatibilità debba parlarsi di «ragioni di politica legislativa» [nota 7].

Considerato che dunque con ogni probabilità, in astratto, non v'è incompatibilità tra transazione e rimedio rescissorio non può, qui, che sottolinearsi che il legislatore italiano abbia optato per un regime di sostanziale non rescindibilità della transazione allo scopo di favorire la stabilità del contratto transattivo.

Nella bilancia degli interessi, cioè, il legislatore ha ritenuto che in sede transattiva sia più corretto sacrificare l'esigenza di tutela del contraente in "stato di pericolo o bisogno" che contragga assumendo prestazioni sperequate sul piano quantitativo a beneficio del valore della stabilità che s'è inteso riconnettere al regime applicativo della transazione.

D'altro canto però, quanto alla divisione ed agli atti equipollenti, il legislatore del 1942 adotta un sistema ampliato rispetto al rimedio generale: infatti la divisione e gli atti equiparati sono rescindibili «quando taluno dei coeredi prova di essere stato leso oltre il quarto» il che val quanto dire che sul piano oggettivo la divisione è rescindibile più facilmente rispetto al contratto generale. In questo, infatti, la sproporzione è causa rescissoria ad una condizione significativa sul piano della quantità: un mezzo. Per la divisione, sul piano quantitativo è sufficiente una sperequazione di un quarto, quindi di un valore più basso.

In sintesi la divisione e gli atti equipollenti declinano, nel disegno legislativo, una maggiore attitudine alla rescindibilità [nota 8].

Ciò che, peraltro, risulta accentuato dalla circostanza per cui la rescissione della divisione non esige, al contrario di quella del contratto in generale, di stati soggettivi. Per essa infatti la legge non pretende la ricorrenza dello stato di pericolo o bisogno, nè l'approfittamento dell'una parte a danno dell'altra.

Se fosse consentita una metafora potrebbe sostenersi che rispetto alla linea mediana della rescissione, la divisione e la transazione sono situate ai poli opposti: l'una rappresenta, infatti, il tipo contrattuale più facilmente rescindibile, l'altra quello meno rescindibile, essendo, addirittura preclusa la rescissione.

In questo contesto resta da spiegare il secondo comma dell'articolo 764 c.c.

Risulta, infatti, più chiaro, ora, che il profilo dell'incipit consistente nell'esclusione della rescindibilità della transazione che opera nell'area di negozi divisionali rappresenterebbe una norma inutile dal momento che l'articolo 1970 c.c. già di per sè pone il divieto del rimedio rescissorio a carico del negozio transattivo, celebrando così il principio di conservazione della causa transattiva come più meritevole degli interessi protetti dal rimedio della rescissione.

È chiaro allora che, almeno in prima approssimazione, la norma esiga di essere indagata, in punto operativo, nella parte in cui esprime l'interferenza tra la causa transattiva e l'effetto divisorio, giacchè è solo in questa area opaca che essa assume uno specifico rilievo.

Il precetto ha un ruolo tutt'altro che insignificante nella sua valenza negativa: se,infatti, da un lato si afferma che la rescissione non si applica alle transazioni relative «alle questioni insorte a causa della divisione o dell'atto fatto in luogo della medesima» è evidente che, per il legislatore, vi devono essere transazioni che invece possono scontare - a dispetto dell'articolo 1970 c.c. - il rimedio rescissorio. Emerge allora in tutta evidenza l'esigenza di comprendere l'area applicativa di un campo affidato ad una sintassi involuta e complessa nel quale si ritagliano ampi segmenti d'intervento concernenti attività negoziali positivamente e tradizionalmente affidate alle cure del notaio.

La divisione transattiva e la transazione divisoria tra rappresentazione dottrinale e soluzioni giurisprudenziali

Come anticipato, la novità legislativa dell'articolo 764 c.c. suole ricondursi alla circostanza per cui rinviene un'area negoziale in cui l'intersecarsi delle cause transattiva e divisoria rende rescindibile talune transazioni, escludendone altre. Assume così un senso la distinzione tra divisione transattiva e transazione divisoria che vada oltre l'eco del richiamo suggestivo sul piano dell'eleganza formale.

Il fondamento positivo della stessa è proprio nell'articolo 764 c.c. che, dopo avere esteso, al primo comma, l'azione di rescissione (di cui all'articolo 763 c.c.) anche «contro ogni altro atto che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione di beni ereditari» [nota 9], introduce, al comma 2, una regola invero diversa, che esclude, appunto, l'esperibilità dell'azione di che trattasi contro la transazione, all'uopo specificando che l'esclusione opera solo se e nella misura in cui detta transazione sia stata conclusa per porre fine « ... alle questioni insorte a causa della divisione o dell'atto fatto in luogo della medesima, ancorché non fosse al riguardo incominciata alcuna lite».

Rispetto all'ambiguità del dato letterale, quel che sembrerebbe possibile desumere con sufficiente certezza dal capoverso della norma da ultimo citata è che l'esclusione del rimedio della rescissione riguarda le transazioni concluse successivamente al perfezionamento della divisione o dell'atto ad essa equiparato [nota 10], ossia a comunione ormai sciolta.

A questo riguardo si deve tuttavia precisare che il momento temporale [nota 11] non costituisce di certo un criterio sicuro per operare una distinzione, poiché è ben possibile che i privati possano concludere accordi di natura sostanzialmente transattiva anche nel corso dell'iter divisorio [nota 12], rispetto ai quali si pone con altrettanta forza la questione della esclusione o meno del rimedio rescissorio.

Peraltro, vale anche sottolineare che il primo comma dell'articolo 764 c.c. non individua, al contrario del "vecchio" articolo 1039 del codice del 1865, quali siano gli atti equiparati alla divisione che alla disciplina di questa soggiacciono in ragione dell'identità dell'effetto. Elemento, questo che lascia impregiudicata l'ulteriore questione se sia ravvisabile tra questi atti la transazione stessa come accadeva apertis verbis per l'abrogato codice. Il che accentua la difficoltà d'esegesi e le connesse ricadute applicative, dal momento che se quanto ora esposto fosse condivisibile, potrebbero esservi transazioni non rescindibili e transazioni rescindibili.

In dottrina, le aggettivazioni "transattiva", per la divisione, e "divisoria", per la transazione, vengono diffusamente utilizzate per qualificare, rispettivamente, una peculiare finalità transattiva collegata allo scioglimento della comunione, ed una peculiare finalità divisoria collegata alla conclusione di una transazione [nota 13].

La specificità che giustifica, già sul piano della qualificazione e definizione, l'opportunità di ricorrere a diversa terminologia viene prevalentemente individuata nella differente natura dei fenomeni richiamati; infatti, pur essendo entrambe collegate, o meglio, occasionate, da un accordo in senso lato riconducibile ad un fenomeno (rectius effetto) divisorio, sarebbero teleologicamente dirette a realizzare interessi diversi, in ragione dei quali deriverebbe una diversa colorazione causale.

Ed infatti, secondo la ricostruzione più diffusa [nota 14], riconosciuta la rilevanza causale e la meritevolezza di entrambe le fattispecie negoziali [nota 15], il discrimen tra divisione transattiva e transazione divisoria sarebbe il seguente:

- la c.d. divisione transattiva ha natura di negozio divisorio in quanto non ha la funzione di comporre una lite, ma di "superare amichevolmente" questioni afferenti le operazioni divisionali [nota 16];

- la transazione divisoria, diversamente, è una vera e propria transazione: il negozio, sia esso concluso durante o successivamente alla divisione, ha la funzione di comporre (o di prevenire) una lite sorta sull'esistenza o sull'entità del diritto di chi pretende di partecipare al riparto, determinando altresì l'effetto della cessazione della comunione [nota 17].

Sebbene chiara in punto descrittivo, la distinzione dottrinale tutta concentrata sul principio della rilevanza causale corre il rischio dell'astrattezza.

L'esperienza insegna, infatti, che non sempre risulta facile "pesare" la preponderanza della causa divisoria rispetto a quella transattiva per consegnare la fattispecie alle cure del primo, piuttosto che del secondo comma dell'articolo 764 c.c., con quali ricadute in termini di certezza del negozio, e poi del rapporto, è facile intuire.

D'altro canto, non può neppure essere svilita la rilevanza della ricerca di una matrice unitaria, di un "minimo comune denominatore", che costituisca "un dato immanente", "una costante" dello scopo perseguito dal legislatore.

La specifica rilevanza del profilo rescissorio avuto riguardo all'effetto divisorio più che al contratto di divisione amichevole tout court esprime, una particolare qualificazione della causa divisionale il cui risultato, nella ricostruzione positiva, merita di essere conseguito più di ogni altro contratto.

In altri termini il legislatore sacrifica l'effetto divisionale che non sia conseguito con una specificità d'elevato grado, ed esige la massima correttezza nel conseguimento dell'effetto divisionale più che per altri effetti commutativi-corrispettivi.

E siccome l'effetto divisionale consiste nell'assegnare al titolare della quota (ideale) quella parte materiale del tutto che corrisponda all'astratta porzione detenuta in contitolarità, risulta, del pari evidente, che la legge considera che tale effetto meriti di essere conservato solo quando si realizzi in termini di significativa precisione d'ordine quantitativo, tant'è che ne ammette rescissione se al condividente venga assegnata una pars materiale che sia inferiore di un quarto rispetto a quella ideale.

Risulta patente la succedaneità della conservazione dell'effetto divisionale alla sua realizzazione corretta [nota 18].

Per questo aspetto diventa, pure significativo l'uso della locuzione di atto diverso dalla divisione di cui al primo comma dell'articolo 764 c.c. che radica, appunto, l'idea dell'irrilevanza del nomen del negozio mettendo al centro della disciplina l'effetto divisionale. Il che non esclude, per giunta, che lo stesso concetto di «atto diverso dalla divisione» possa essere rivisitato, in guisa che assurga a paradigma generale di riferimento costante in un contesto destinato a valutare le più diverse forme di negozio produttive dell'effetto divisorio [nota 19].

Per queste ragioni appare cogliere un dato maggiormente qualificante la distinzione diffusamente accolta in giurisprudenza.

Quest'ultima, anche in tempi recenti, ha avuto occasione di ribadire che ricorre la fattispecie della divisione transattiva quando i contraenti superano e compongono in via amichevole controversie insorte in sede di divisione e l'atto negoziale di scioglimento della comunione comunque assegna ai condividenti parti concrete corrispondenti alle quote di diritto a ciascheduno spettanti, in guisa che anche mercè il ricorso a conguagli a carico dei condividenti stessi vi sia, per l'appunto, la corrispondenza tra porzione materiale assegnata e parte ideale detenuta dal condividente sino al momento dello scioglimento della divisione [nota 20]. E ciò, si ribadisce, quand'anche venisse stabilito un conguaglio delle quote poste a carico dell'assegnatario o degli assegnatari.

Sempre ad avviso della giurisprudenza, poi, ricorre la fattispecie della transazione divisoria quando i contraenti al fine di comporre o prevenire una lite concernente l'esistenza o la misura del diritto dei condividenti, «procedono all'attribuzione di beni o di un bene senza tener conto delle quote di partecipazione, conseguendo l'effetto solutorio della comunione» [nota 21].

Nell'esegesi giurisprudenziale si rivela così un minimo comune denominatore consistente nella presenza di un contrasto in entrambe le fattispecie che cessa di esistere con lo scioglimento della comunione, e la differenza, è colta in ciò: si ha sempre divisione (sia pure transattiva) quando la sorte del negozio è quella strettamente inerente alla causa divisoria, ossia quando il negozio produce l'effetto dell'attribuzione di quantità materiali di beni comuni coerenti con le porzioni ideali delle stesse. Laddove, invece, l'originario contrasto venga sanato con attribuzione di valori non proporzionali alle quote, ovvero si proceda ad attribuzione di beni senza proprio procedere al preventivo calcolo del rapporto tra porzioni materiali e quote ideali, l'atto, benché produca un effetto divisorio mostra una significativa insensibilità alla causa divisoria limitandosi a produrne al più gli effetti coincidenti con lo scioglimento della comunione. Bene, allora è stato evidenziato che « ... il discrimine fra le due figure negoziali non è la composizione di una controversia insorta in sede divisionale, ma, essenzialmente, l'obliterazione o non delle ragioni proporzionali di partecipare alla comunione che comunque si intende, anche parzialmente, sciogliere» [nota 22]. La prospettiva dell'individuazione della transazione divisoria nella non coerenza con la causa dividendi in senso stretto risulta oramai acquisita anche alla giurisprudenza di merito: «La transazione divisoria, che per espressa previsione dell'art. 764 comma 2 c.c., non è rescindibile in caso di lesione oltre il quarto, si differenzia dalla divisione transattiva, in quanto, oltre a porre in essere una divisione (parziale o totale) dell'asse, ed a prevenire o a porre termine ad una lite tra i condividenti, perviene alla formazione delle quote senza il ricorso a criteri aritmetici, ma in maniera bonaria e senza corrispondenza tra entità delle porzioni e misura delle quote spettanti ai comunisti» [nota 23].

Mi sembra che la soluzione prescelta dalla giurisprudenza mostri un'elevata sensibilità alla ratio legis: se l'innovazione del codice del '42 rispetto alla disciplina previgente consiste nell'assegnare stabilità all'atto divisionale solo quando esso risulti eseguito con particolare correttezza quantitativa, il legislatore mostra di perseguire quest'obiettivo a carico di qualunque strumento divisorio quand'anche in esso si riverberi una causa diversa (vendendi, permutandi, e finanche transigendi). Resta esclusa, in tale ultima ipotesi la transazione che non sia una modalità della divisione vera e propria quanto piuttosto un'autentica transazione destinata a produrre anche l'effetto dello scioglimento della comunione.

In tale ultima circostanza che ricorre allorché nel procedersi al componimento di una lite si assegnino beni prescindendo dal rapporto proporzionale tendenzialmente "perfetto" tra pars quota e pars quanta torna ad applicarsi il generale regime di non rescindibilità del contratto di transazione già espresso nell'articolo 1970 c.c.

Il secondo comma dell'articolo 764 c.c. lungi, quindi, dal profilarsi come mera ripetizione della norma ultima citata, rappresenta il corollario dello sforzo fortemente innovativo del legislatore di connettere la rescindibilità propria della divisione a qualunque atto di scioglimento della comunione quand'anche consista in un atto a carattere transattivo purchè, in quest'ultimo caso, destinato a produrre non semplicemente l'effetto dello scioglimento della comunione, bensi l'effetto proprio della divisione, in perfetta coerenza con lo sfavor del legislatore del 1942 verso l'applicabilità tout court dell'istituto della rescissione alla transazione.

In questa prospettiva si ritiene debbano esaminarsi, oltre ai tradizionali istituti in cui si realizza la distinzione di cui in questo paragrafo s'è ragionato anche moderne fattispecie che presentano tratti d'indubbio interesse sul piano dell'effetto divisorio, sol che si pensi all'area applicativa dei c.d. "accordi integrativi della legittima", ovvero al patto di famiglia solo per citare alcuni dei più significativi esempi della prassi notarile.

I criteri applicativi ed i riflessi sull'attività notarile. Generalità

Da quanto finora esposto risulta chiaro che l'articolo 764 comma primo c.c. ha una funzione inclusiva, essendo compresi, in esso, tutte le fattispecie che abbiano lo scopo di far cessare la comunione. Inoltre, non esclude che la stessa transazione possa avere il carattere di "surrogato della divisione".

Tuttavia non può negarsi che esista una differenza tra i negozi in generale definibili surrogati della divisione ai fini dell'articolo 764 primo comma c.c. e la divisione transattiva: nella generale categoria di "surrogato della divisione" risulta incluso qualsiasi atto che produce il più generale effetto dello scioglimento della comunione, laddove la transazione per essere considerata tale deve produrre lo specifico ed ulteriore effetto proprio della divisione, il quale, per le cose dette, oltre a determinare lo scioglimento della comunione deve, altresì, produrre l'assegnazione ai comunisti di porzioni materiali tendenzialmente "equivalenti" alle porzioni ideali.

In altri termini se due fratelli hanno ereditato per un mezzo ciascuno il bene Alfa e lo vendono ad un estraneo [nota 24], la vendita produce l'effetto dello scioglimento della comunione, ed è, perciò, sotto l'egida del primo comma dell'articolo 764 benchè non contenga l'ulteriore effetto divisorio (ossia quello dell'apporzionamento a ciascuno di una pars quanta). La transazione invece per essere assoggettata alla norma ultima citata deve, al contrario, produrre l'effetto ultimo detto. Diversamente, allorchè essa si limiti a produrre l'effetto dello scioglimento della comunione resterà sotto la disciplina del secondo comma dello stesso articolo [nota 25].

Inoltre, sembra opportuno segnalare che la norma non resta, più in generale, esente da altri problemi, primo tra tutti quello concernente la corretta individuazione della natura giuridica del negozio transattivo di cui si discorre, il che, peraltro, influisce non poco sulla sua disciplina [nota 26]. L'elencazione delle diverse fattispecie ricondotte sotto il paradigma dell'art. 764 c.c. non può certo costituire, per ragioni di tempo, oggetto specifico del presente lavoro, stante la molteplicità delle ipotesi e la problematicità di ciascuna di queste. Vale sottolineare, comunque, che è comune opinione ricondurre nell'alveo de quo negozi, atti giuridici, provvedimenti giudiziali; nè mancano ipotesi controverse: si pensi all'istituto della commutazione di cui all'art. 537 c.c. [nota 27]

Risulta allora doveroso sgombrare il campo da un equivoco di fondo e chiarire l'ambito di operatività dell'istituto: la disciplina di cui agli artt. 763 e 764 c.c., e conseguentemente le problematiche connesse alla c.d. la transazione divisoria ed alla c.d. divisione transattiva, possono riguardare qualsivoglia divisione, a prescindere dal titolo che abbia determinato lo stato di comunione. A questa conclusione induce con sufficiente certezza la più generale considerazione che la fattispecie divisoria debba essere considerata sotto un profilo unitario [nota 28], sia pure caratterizzato da una molteplicità di strumenti negoziali mercé i quali si addiviene allo scioglimento della comunione. D'altra parte è lo stesso legislatore a non distinguere in maniera così netta tra divisione ordinaria o divisione giudiziale.

Per questo aspetto è preferibile la ricostruzione tradizionale [nota 29] che nega l'esistenza nel nostro ordinamento di due forme di divisione, o di molteplici forme di divisione. Invero, non v'è chi non veda che il concetto di divisione nel nostro ordinamento abbia carattere unitario, dovendosi ricavare la disciplina dello scioglimento della contitolarità di diritti, qualunque sia il titolo che abbia determinato la stessa, dal complesso quadro normativo delineato dal legislatore del 1942, a nulla rilevando che le disposizioni in tema di divisione piuttosto che essere racchiuse in un organico corpo di norme, risultano «sparse nel codice civile» [nota 30].

Il carattere tendenzialmente unitario della disciplina della divisione giustifica l'estensione, a tutte le ipotesi di divisione, della speciale disciplina dell'azione di rescissione per lesione.

Fermo quanto detto, a tacer d'altro, non si può trascurare che l'ultimo comma dell'art. 1448 c.c., espressamente prevede che «Sono salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione», il cui contenuto precettivo, com'è noto, ricalca sostanzialmente quello della vecchia disciplina rescissoria, atteso il rilievo del solo elemento oggettivo della lesione oltre il quarto.

L'irrilevanza delle sole lievi differenze di valori si giustifica, per l'intento di garantire quanto più è possibile la funzione degli accordi divisionali.

Secondo autorevole dottrina, alla medesima esigenza presiederebbe anche il diverso termine di prescrizione dell'azione di rescissione della divisione, ove, proprio per «il minor dinamismo del fenomeno divisorio» il legislatore avrebbe previsto un termine di due anni, piuttosto che quello annuale come per l'azione generale di rescissione [nota 31].

In questo contesto, peraltro, giova sottolineare che deve escludersi che il condividente che abbia concluso l'accordo divisorio in stato di bisogno possa agire in rescissione ai sensi dell'art. 1448 c.c., sia perché la disciplina dettata sedes materiae per la divisione non regolamenta questa fattispecie, sia perché in sede di disciplina generale della rescissione (art. 1448 c.c., ultimo comma) si attribuisce prevalenza alla disciplina speciale.

È comune opinione, poi, quella secondo la quale l'effettiva sussistenza della lesione oltre il quarto sia subordinata alla valutazione del divario tra porzione assegnata e porzione complessiva [nota 32].

Introduce alla tematica dei profili applicativi la questione delle modalità dell'applicazione del rimedio rescissorio alla divisione testamentaria (art. 763, comma 2, c.c.).

Ed infatti, le peculiarità dell'istituto sono tali da rendere difficoltosa una conclusione univoca tanto per la divisione con predeterminazione di quote che per la divisione senza determinazione di quote. Al riguardo si sostiene [nota 33] che il rimedio rescissorio sarebbe escluso nel caso di divisione del testatore senza predeterminazione di quote perché, in tale ipotesi, il diverso valore delle porzioni formate dal testatore è espressione della libertà del testatore di distribuire il proprio patrimonio secondo quote disuguali, al limite potendosi discutere solo dell'esattezza della valutazione dei beni che sono stati inclusi nelle varie porzioni divisorie.

Diversa la soluzione per la divisione del testatore con predeterminazione di quote. Qui, infatti, la funzione dell'istituto si può estrinsecare (potendovi essere contrasto, nell'ambito della stessa volontà del testatore) tra determinazione della quota e formazione delle porzioni, di guisa che con l'azione di rescissione si adeguerà l'apporzionamento concreto alla predeterminazione della quota astratta.

Conclusioni queste che potrebbero essere riesaminate in chiave critica ove si tenga conto della circostanza secondo la quale il diverso regime della disciplina del rimedio rescissorio è riconnesso nel linguaggio legislativo, e non solo, alla diversa incidenza della sola causa transattiva sullo scioglimento della comunione, laddove, al contrario, tutti gli scioglimenti della comunione sono accomunati dalla equivalente soggezione al rimedio della rescissione oltre il quarto.

Si apre così il varco alla discussione concernente le molte ipotesi non regolate, tra le quali occorre ricordare che l'esperibilità dell'azione di rescissione è stata, tendenzialmente, esclusa [nota 34] contro una divisione che contenga una donazione indiretta, ovvero contro le divisioni giudiziali regolarmente approvate dall'autorità giudiziaria [nota 35]; oppure, ancora avverso lo scioglimento di società.

A dire il vero, le conclusioni ora rassegnate sembrano difettare di un presupposto di carattere sistematico. La giurisprudenza, infatti, si è accorta che l'accordare o meno l'azione di rescissione a fattispecie divisorie, assorbendole nell'alveo della disciplina degli artt. 763 c.c. e 764 primo comma dipende in larga misura dall'esito divisionale del contratto o dell'atto [nota 36].

Consegue a questo ragionamento che la soluzione del problema in ordine alla rescindibilità di un atto che abbia (anche) esiti divisionali deriva non dalla misurazione dell'incidenza delle diverse sfere causali da cui una fattispecie potrebbe risultare composta, quanto piuttosto dall'effetto dello scioglimento della comunione che quell'atto è idoneo a produrre coerentemente con il disposto dell'articolo 763 primo comma c.c. D'altra parte appare ora evidente che l'incidenza della sfera causale risulta apprezzata dal legislatore nell'unica ipotesi in cui la fattispecie declini l'intreccio tra la causa transattiva e quella divisoria e non in altre circostanze.

Sicchè, se in un atto rifluiscono la causa della donazione indiretta e quella dello scioglimento della comunione non v'è ragione sistematica per escludere l'applicabilità del rimedio rescissorio speciale. Anzi.

Diventa così centrale il ruolo svolto dal notaio, nell'elaborazione della volontà delle parti: ogni qualvolta si riceva un atto che abbia anche la potenzialità dello scioglimento di una comunione, diventa essenziale valutare e "pesare" l'inferenza della causa transattiva. L'emersione di quest'ultima, infatti, consente di escludere l'esperibilità dell'azione di rescissione speciale (e generale) avverso uno scioglimento della comunione che avvenga e in funzione di prevenzione o risoluzione di lite, e senza apporzionamento dei condividenti (ossia senza considerare le quote a ciascheduno spettanti). Laddove, al contrario, la causa transattiva pure espressa si combini con l'effetto della divisione vera e propria trova la generale applicazione del principio del primo comma dell'articolo 764 c.c.

Ricorrendo, quindi, una volontà transattiva, appare tutt'altro che di stile inserire nel contratto destinato a produrre scioglimento di con titolarità

- e una clausola che rappresenti expressio causae della stessa;

- e quella che declini con chiarezza la ricorrenza della perfetta (almeno tendenziale) coerenza tra porzione materiale assegnata e porzione ideale posseduta.

Lì dove manchi, infatti, questa seconda clausola potrebbe divenire delicata l'interpretazione del contratto in ordine ad eventuali "asimmetrie" tra le quote specie quando ricorrano i c.d. "conguagli".

Questi ultimi, infatti, per il profilo all'esame, non alterano la fattispecie divisoria vera e propria, salvo che non vengano utilizzati a prescindere dalla rispondenza tra pars quota e pars quanta.

Il semplice rischio della difficoltà esegetica e le conseguenze connesse all'applicazione del rimedio rescissorio inducono a considerare la centralità del contributo legato alla formulazione contrattuale.

In questo contesto è, altresì, opportuno prendere in considerazione quell'attività ricorrente nelle fattispecie divisionali vere e proprie che si sostanzia, sovente, nell'aumento dei valori fiscali dei beni a dividersi, sì da evitare la ricorrenza dei conguagli. Se da un lato, infatti, il risultato dell'assoggettamento dell'atto al miglior trattamento fiscale previsto per la divisione [nota 37] è salutato con favore dai condividenti, d'altro canto, non può tacersi del rischio derivante dall'aumento inopinato del valore dei beni stessi. Quest'aumento, infatti, finisce per determinare l'attribuzione ad uno o più condividenti di beni dal valore (effettivo) di gran lunga inferiore [nota 38] al valore della quota e cionondimeno le parti desiderano tener fermo il risultato dello scioglimento della comunione. Se in fattispecie di tal fatta ricorresse un elemento transattivo verrebbe declinata una fattispecie assai più vicina alla transazione divisoria di quanto non ci si aspetti prima facie, con la conseguenza dell'insensibilità dell'atto all'esperimento dell'azione di rescissione.

Dunque, la delicatezza dell'articolazione delle varie fattispecie in relazione all'inquadramento nel primo piuttosto che nel secondo comma della norma al vaglio ribadisce la centralità e la modernità dell'assistenza notarile ed il significativo contributo di chiarezza interpretativa della volontà delle parti che ne deriva.

Solo per completezza d'insieme non può tacersi, da ultimo, la questione dell'incidenza del divieto di convalida di cui è parola all'art. 1451 c.c. agli atti di cui fin ora s'è ragionato.

Una parte della dottrina, argomentando dalla differenza dei presupposti richiesti per l'azione generale di rescissione [nota 39] ha sostenuto la tesi negativa, riconoscendo al condividente leso oltre il quarto, il potere di convalidare la divisione. Convalida che si ritiene debba soggiacere alla disciplina dell'art. 1444 c.c.

Vale segnalare, inoltre, che il dibattito sulla convalidabilità riguarda anche gli atti diversi dalla divisione ex art. 764 c.c., rispetto ai quali da taluni si è negata la legittimità della convalida, sostenendo che sarebbe concessa solo la possibilità di transigere le controversie concernenti una divisione rescindibile [nota 40].

Anche queste conclusioni risultano asimmetriche rispetto ad un sistema che detta una disciplina della rescissione dell'effetto divisionale più severa di quella della rescissione del contratto in generale.

Infatti, assegnando alla disciplina speciale la funzione di prediligere l'effetto divisionale proprio, ossia il corretto apporzionamento, rispetto alla conservazione del negozio, che pure è centrale nel nostro ordinamento, è difficile negare che tale ratio risulti frustrata ove si conceda al condividente leso un generale potere di convalida pari a quello che l'ordinamento riconosce al contraente legittimato all'esercizio dell'azione di annullamento. L'analogia della immediata produzione degli effetti del contratto annullabile come di quello rescindibile specie avuto riguardo alla divisione risulta del tutto inconferente posto che il divieto di convalida è assunto proprio nella generale disciplina dell'istituto rescissorio.

Né la peculiare disciplina della transazione divisoria o degli atti diversi dalla divisione appare d'effettivo ausilio al sostegno della tesi qui revocata in dubbio, dal momento che l'influenza della causa transattiva rapportata all'effettivo conseguimento del risultato divisorio proprio (ossia dell'apporzionamento) incide sull'applicazione o meno dell'azione della rescissione e non sulla convalidabilità (o meno) dell'atto che ne risulti soggetto.

La meritevolezza della conservazione del negozio di che trattasi, infatti, è garantita dalla sola prevalenza della funzione transattiva ove essa non si accompagni all'effetto divisorio proprio.

Quanto ora esposto induce a condividere la tesi di chi, a proposito della rinunziabilità preventiva all'azione di rescissione da parte dei condividenti, da risposta negativa alla sua configurabilità in ragione dell'esistenza dell'interesse pubblico alla base dell'azione di rescissione per lesione della divisione e\o degli atti equiparati consistente nell'evitare che si turbi oltre certi limiti l'equilibrio economico delle prestazione, e l'eguaglianza delle quote [nota 41].

Le "nuove" ipotesi applicative: in particolare, la riduzione negoziale ad equità del contratto rescindibile e della divisione in particolare

Occorre, ora, chiedersi, se anche la rescissione della divisione possa trovare il suo "epilogo" nella riduzione ad equità del contratto di cui all'art. 1450 c.c.; ed ulteriormente interrogarsi in ordine alla facoltà del coerede di dare il supplemento previsto dall'articolo 767 c.c.

Nel più ampio contesto volto ad esaminare unitariamente le diverse forme di riduzione ad equità presenti nel nostro codice civile, è stato evidenziato che il rapporto tra l'istituto di cui all'art. 1450 c.c. e la facoltà di dare il supplemento della porzione "ereditaria" nella divisione ex art. 767 c.c., non trovi risposta unanime in dottrina, stante la presenza di contrastanti orientamenti in merito.

Dal punto di vista squisitamente applicativo sembra condivisibile la conclusione giurisprudenziale secondo cui:

- a riconduzione ad equità di cui all'articolo 1450 c.c. e l'offerta di supplemento di cui all'articolo 767 c.c. si differenziano per la circostanza che con il primo rimedio le parti procedono in sede giudiziale o stragiudiziale ad una modifica del contratto soggetto a rescissione, in guisa che la previsione dell'articolo 1450 c.c. - allorché si realizzi in sede stragiudiziale - esiga i termini e la struttura di un contratto modificativo vero e proprio, ed inoltre che la modifica abbia ad oggetto l'originaria iniquità ridotta ad equità per intesa delle parti;

- l'offerta di supplemento, invero, declina solo «la dazione della porzione, in denaro o in natura, idonea alla reintegrazione della quota lesa» [nota 42].

Avuto riguardo alla fattispecie propriamente negoziale, la differenza tende a rivelarsi e sul piano strutturale [nota 43] e su quello del perfezionamento, assumendo l'accordo di cui all'articolo 1150 c.c. la facies di negozio consensuale cui potrebbe sembrare contrapporsi la realità del negozio di cui all'articolo 767 c.c. il quale esige, appunto che l'erede debba "dare" il supplemento in danaro o in natura. Quest'ultimo aspetto, in particolare, secondo condivisibile giurisprudenza manifesta, altresì, un ulteriore carattere, consistente nel fatto per cui «il rimedio previsto in materia divisionale si distingue nettamente da quello applicabile ai contratti, in quanto, a differenza di quest'ultimo, avente la finalità di rendere la lesione tollerabile, esso è diretto a ricostituire la completa uguaglianza tra il valore delle quote e quello delle porzioni» [nota 44].

Ne deriva che la riduzione negoziale ad equità possa essere considerata, a prescindere del nomen, quale uno dei possibili segmenti dell'iter divisorio. Essa si manifesta, quindi, sia come momento del giudizio divisorio, ma anche quale atto di volontà negoziale, i cui effetti trovano comunque la propria fonte in una manifestazione di volontà fermo - nel caso di giudizio rescissorio - il ruolo del giudice nella valutazione della congruenza dell'offerta. Dunque, non può escludersi che la riduzione ad equità "speciale" al vaglio possa realizzarsi anche a prescindere dalla proposizione dell'azione: si pensi alla richiesta stragiudiziale del condividente leso cui faccia seguito la riduzione ad equità ad opera dell'altro contraente.

Restano da considerare le modalità applicative di tale ultima fattispecie ed il suo rapporto, eventuale, con la funzione transattiva.

L'idea della datio del bene in natura o del danaro volta a precludere la continuazione dell'esercizio dell'azione di rescissione che è assunto a paradigma generale nella norma dell'articolo 767 c.c. sembra escludere, in linea di principio, che vi possano essere aspetti transattivi nella fattispecie ipotizzata dal legislatore: infatti, promossa l'azione da uno dei coeredi che assuma di essere stato leso oltre il quarto, al convenuto, al fine di precluderne la continuazione, non resta che l'offerta, rectius la datio di beni o danaro tali da soddisfare esattamente il quantum richiesto.

L'aspetto quantitativo rappresenta, quindi, l'id quod plerumque accidit dal momento che l'obiettivo del legislatore è stato quello di perseguire la stabilità dell'accordo divisionale realizzandone appieno l'effetto proprio. Eppure una volta che si ammette la facoltà in parola fuori dal processo non può sfuggire che sulla congruità dell'offerta, specie avuto riguardo al valore dei beni in natura, la non opposizione, il non rifiuto del coerede che lamenta la lesione, e la sua desistenza dal proposito di dare inizio all'azione giudiziaria, contengono un quid che declina aliquid datum e aliquid retentum più vicini alla funzione transattiva di quanto non appaia ad un primo e più superficiale esame [nota 45].

Trascurando il dato strutturale ed estrinseco, per la fattispecie al vaglio, che allude empiricamente più ad uno schema unilaterale che bilaterale dal momento che il supplemento è contenuto in un'offerta con dazione di beni o danaro rispetto alla quale l'altra parte, quanto meno, non si opponga, emerge la circostanza secondo cui la reciprocità delle concessioni rilevi non in relazione al diritto che realmente compete, ma rispetto alla «pretesa che ciascuno intende far valere» [nota 46].

Insomma è agevole intravedere nell'ipotesi, al vaglio, di dazione di supplemento una circostanza in cui «ciascuno … consegua un minor vantaggio rispetto a quanto pretendeva di realizzare, regolando i propri interessi in conflitto con reciproche concessioni comportanti perdite e vantaggi per entrambe le parti…» [nota 47].

Resta da esaminare lo schema necessario al conseguimento del fine al vaglio considerata la circostanza pacifica in dottrina ed in giurisprudenza secondo cui le reciproche concessioni, in sede transattiva, qualificano una struttura contrattuale.

In altri termini, nella transazione, tutti i protagonisti della vicenda devono "rinunziare" a qualcosa.

Ebbene, quando il supplemento è offerto nell'ambito di una vicenda processuale la valutazione dell'offerta, s'è detto, è affidata al giudice, l'attore subisce l'attività della datio del supplemento e, al tempo stesso, la supervisione del giudice. Allorchè costui valuti come congrua l'offerta, il danaro o i beni oggetto del supplemento s'intendono trasferiti e l'effetto preclusivo del prosieguo dell'azione giudiziaria sarà realizzato.

Nella omologa vicenda negoziale e\o stragiudiziale, la congruità dell'offerta è affidata all'oblato dell'offerta di supplemento, sicchè delle due l'una:

- o costui l'accetta trovandola coerente con i propri interessi;

- o la rifiuta, e, in tale ultima circostanza il rifiuto esclude l'effetto preclusivo del supplemento.

Non si tratta, quindi di una fattispecie nella quale il sacrificio incombe solo sull'offerente che si accinga alla datio di beni pur di non subire il prosieguo dell'azione di rescissione, ma di una vicenda che esige una valutazione ad opera del destinatario del supplemento in guisa che si deve ritenere potersi intravedere anche nell'atteggiamento concludente rifluente nella mancata opposizione al supplemento quel «regolamento di interessi che ha come oggetto la lite attuale o potenziale, attraverso la creazione di una nuova situazione giuridica, che si sostituisce alla precedente per la parte in cui questa è litigiosa» [nota 48].

Ne deriva coerentemente che

- il supplemento ex 767 c.c. in sede stragiudiziale declina un'ipotesi di transazione divisoria al perfezionamento della quale concorrono l'offerta (proposta) e mancato rifiuto (accettazione per facta concludentia);

- non è soggetto a rescissione;

- il notaio che lo riceva specie quando si tratti di offerta avente ad oggetto beni immobili avrà cura di verificare i criteri indicati dall'offerente per la valutazione dei beni specie in correlazione alla domanda del destinatario [nota 49];

- esso deve contenere un termine nel quale il destinatario possa esercitare il suo legittimo diritto di rifiuto [nota 50].

Resterebbe da verificare la possibilità della riduzione ad equità della divisione dopo il passaggio in giudicato della sentenza di rescissione ovviamente «fino a stipula di una nuova divisione» [nota 51].

Le nuove ipotesi segue: il riflesso della disciplina sugli accordi integrativi della legittima

È opinione diffusa e condivisa quella secondo cui la riduzione dei legati e delle donazioni lesive dei diritti dei legittimari (pretermessi o lesi) possa essere messa al centro di atti d'autonomia privata [nota 52].

In prima approssimazione può dirsi che si tratta di accordi [nota 53] con finalità identiche alla riduzione giudiziale di disposizioni lesive dei diritti dei legittimari volti alla "integrazione " o alla "reintegrazione" dei diritti detti.

La dottrina che affronta il tema non ha mancato di segnalarne la contiguità con la causa dell'accertamento e\o con quella della transazione.

È noto, infatti, che destinatario della disposizione lesiva e legittimario per pervenire all'accordo di che trattasi debbano rivolgere il loro consensus all'accertamento della lesione dei diritti del secondo, cui segua, appunto, la reintegra.

Insomma la preesistenza di una res dubia pare assurgere nella ricostruzione di taluni a presupposto dell'accordo al vaglio.

È noto, tuttavia, che l'ampiezza del negozio di accertamento è assai discussa nella letteratura civilistica [nota 54].

Ove si approcci al tema con una visione "dichiarativa" del negozio di accertamento, l'accordo di reintegrazione di legittima gioverebbe soltanto alla corretta individuazione del rapporto sottostante (la res dubia) che poi sarebbe fonte di ogni ulteriore effetto giuridico, in primis, dell'assegnazione della quota o del trasferimento dei beni al legittimario pretermesso o leso.

Questi ultimi, in altre parole, acquisterebbero mortis causa per effetto di delazione ex lege la quale avrebbe, appunto, loro consentito di costituirsi quali parti del negozio di accertamento suindicato [nota 55].

La diffusa idea secondo cui il legittimario pretermesso non possa essere considerato, al momento dell'apertura della successione, erede, o, se più semplicemente sia stato leso, debba considerarsi tale nel solo limite della delazione testamentaria a lui riferibile, in forza della norma per la quale l'eredità si devolve solo per legge o per testamento, induce ad escludere che sia ammessa altra fonte di delazione.

Per l'argomento all'esame le sintetiche osservazioni testè svolte hanno indotto a considerare l'accordo di reintegra nella prospettiva di un atto di accertamento con efficacia reale in quanto il titolo dell'acquisto sarebbe l'accordo e non altro.

Non è questa la sede per indagare sulla natura preclusiva e sull'idoneità del negozio di accertamento alla produzione di effetti nuovi, anche reali, vale tuttavia ricordare che la giurisprudenza non ha esitato a sottolineare che quando si accerta si emette una « … dichiarazione di volontà diretta a realizzare effetti giuridici, [che][n.d.r.] può svolgere i propri effetti anche per il passato, assumendo la natura di negozio di accertamento, il quale può avere anche una struttura unilaterale (Cass. 29 ottobre 1979, n. 5643), assumendo la funzione di fissare il contenuto d'un rapporto giuridico preesistente, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo (Cass. 10 gennaio 1983, n. 161) … » [nota 56]. In questo contesto non è mancata dottrina secondo la quale, nella fattispecie al vaglio, il momento dichiarativo sia almeno strumentale ad un nuovo assetto di interessi meritevole di tutela. Quindi «le parti, rendendo certi i reciproci diritti, ne dispongono» [nota 57].

La prospettiva preclusiva o dispositiva del negozio d'accertamento pur nelle molteplici sfumature esige di considerare che fonte dell'effetto reale sia l'atto integrativo di legittima e che il legittimario debba considerarsi erede solo se leso.

Più di recente s'è avanzata l'ipotesi secondo la quale l'accordo integrativo di legittima abbia una causa complessa consistente nella soddisfazione del diritto del legittimario e nel sottrarsi, da parte del destinatario delle disposizioni lesive, alle conseguenze del giudizio dell'azione di risoluzione [nota 58]. Si tratterebbe di una causa "atipica" e meritevole di tutela basata sull'esistenza del rapporto fondamentale, ossia sulla certezza che un certo soggetto sia legalmente da considerarsi legittimario preterito o leso. Il che val quanto dire che nell'ipotesi in cui la lesione manchi l'accordo sarebbe nullo per difetto di causa [nota 59] .

Molta dottrina e qualche pronunziato giurisprudenziale più risalente ha differenziato l'ipotesi all'esame dalla transazione assumendo a fondamento di tale conclusione l'assenza delle reciproche concessioni, in quanto se,da un lato, potrebbe sostenersi che il destinatario della disposizione lesiva conceda qualcosa, non si rintraccia concessione nel legittimario pretermesso o leso il quale riceve, in forza dell'accordo de quo, quanto gli spetta per tale sua qualità.

Il che varrebbe quanto dire che «la preclusione dell'azione di riduzione, che ne deriva, non è l'effetto di alcuna rinuncia o concessione, ma segnatamente la conseguenza dell'esaurimento delle ragioni ereditarie: l'interesse ad agire viene definitivamente meno» [nota 60].

Siano consentite, tuttavia, talune riflessioni: non sfugge a chi ha frequentazione pratica che l'accordo integrativo di legittima abbia una duplice direzione:

- quella del riconoscimento più che della qualità di legittimario, dell'ammontare della lesione dallo stesso subita che ha un "range" corrente da un valore massimo, consistente nella pretermissione, ad uno più contenuto consistente nell'assegnazione di beni per un valore inferiore a quello stesso spettante all'avente diritto;

- quella della assegnazione di beni a soddisfazione del diritto di chi assume la propria lesione.

Ragionare sull'accordo integrativo di legittima esaltando il contenuto volto a considerare res dubia la qualità di legittimario significa non cogliere il reale aspetto per cui questi atti atipici si sono imposti all'attenzione della prassi notarile: salvo ipotesi statisticamente eccezionali, infatti, non è mai in dubbio la qualità di legittimario di un soggetto [nota 61]. Vero è, invece, che l'accordo ruota sulla quantità e\o sul valore dei beni che devono soddisfare i diritti che la legge riconosce come protetti in sede d'esercizio d'azione di riduzione.

In altri termini l'accordo più che sciogliere dubbi [nota 62] previene o chiude una lite. E precisamente risolve quella derivante dall'esercizio attuale o potenziale dell'azione di riduzione attraverso il reciproco riconoscimento e consolidazione di due, contrapposte, posizioni giuridico-soggettive:

- da un lato quella del legittimario che riceve beni ereditari a lui graditi e per un valore dal medesimo ritenuti congrui alla soddisfazione del diritto di legittima;

- dall'altro quella del destinatario della diposizione lesiva che evita o chiude la lite dipendente dalla lesione e dall'esercizio dell'azione di riduzione.

Entrambi procedono a reciproche concessioni consistenti nella desistenza e\o rinunzia a domande giudiziali anche riconvenziali, e nel riconoscimento della corrispondenza dei valori assegnati e trattenuti con le quote astratte derivanti dall'incidenza del diritto del legittimario sull'asse ereditario.

In sostanza ritengo che l'accordo integrativo di legittima sia accordo principalmente sui "valori" e sui "beni", e che esso verta e, naturalmente, su quelli assegnati al legittimario, e, inevitabilmente su quelli trattenuti dal destinatario della disposizione lesiva.

Pur possibile in linea teorica, non si ha notizia di accordi integrativi di legittima con i quali i destinatari della disposizione lesiva non trattengono nulla per sé!

Ma quand'anche ricorresse quest'ipotesi pur sempre verrebbe all'evidenza la causa transattiva rifluendo la reciprocità delle concessioni nello scambio tra trasferimento del bene e la rinunzia all'esercizio dell'azione di riduzione o la chiusura del giudizio già cominciato [nota 63].

Consegue a quest'indirizzo la piena validità dell'accordo integrativo di legittima quand'anche l'attribuzione dei beni non tenda a realizzare la perfetta corrispondenza con le quote astratte.

Coerentemente con la soluzione ora indicata l'accordo integrativo della legittima sembra sottratto all'azione di rescissione e ciò sia che lo si consideri transazione in generale, in conseguenza dell'applicazione dell'articolo 1970 c.c., sia se lo si consideri atto diverso dalla divisione, specie ove si abbia riguardo all'ipotesi di accordo tra coeredi di cui uno o più legittimari lesi. Nel caso in cui, infatti, l'accordo assegni al o ai legittimari uno o più beni a soddisfazione del loro diritto, e l'atto sia destinato allo scioglimento di una comunione, le attribuzioni prescindono dalla realizzazione della funzione divisoria propria, ossia l'apporzionamento, tra quota e beni e vanno nella diversa direzione della transazione divisoria nell'ottica indicata in tempi recenti dalla giurisprudenza, il che esclude l'applicazione del rimedio rescissorio speciale di cui all'articolo 763 c.c. per effetto dell'applicazione dell'articolo 764 comma secondo del codice civile.

Le nuove ipotesi, segue: il riflesso della disciplina sul patto di famiglia

È noto che con il patto di famiglia il legislatore ha inteso bilanciare l'interesse riconducibile ai successibili "necessari" con quello inferente l'unità di un complesso produttivo o di una partecipazione societaria, avuto riguardo al passaggio di detto "oggetto" dall'ascendente al discendente. è parimenti noto che in tale bilanciamento ha mostrato una spiccata predilezione verso il secondo. Pur di cogliere l'obiettivo sopra empiricamente indicato, il legislatore ha declinato finanche l'irrilevanza, quantunque eventuale, del conflitto tra il c.d. "patto di famiglia" ed il divieto dei patti successori, o meglio, ed i "divieti" dei patti successori [nota 64].

È, quindi, difficilmente contestabile che la legge abbia posto al centro della nuova disciplina giuridica il "valore" della stabilità ciò che risulta:

- dall'evidente finzione dell'anticipazione dell'apertura della successione del disponente sia pure al solo fine del calcolo delle quote di legittima spettanti ai "legittimari" non assegnatari;

- dalla rinvenuta necessità di assegnare all'azienda e alle partecipazioni societarie un valore da cui desumere le quote di cui agli artt. 536 e ss.;

- dall'enunziato secondo cui ciò che i contraenti ricevono resta esente da "riduzione e collazione";

- dal ridotto termine di prescrizione delle azioni proponibili avverso il patto di famiglia;

- dalla circostanza per la quale, all'apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari «che non abbiano partecipato» al contratto possono chiedere soltanto la somma spettante secondo i calcoli effettuati al fine della valutazione dell'oggetto del patto, per i diritti di ciascuno, aumentata degli interessi legali.

In questa sede giovi solo richiamare all'attenzione le più diffuse ed accreditate ricostruzioni in tema di natura giuridica dell'istituto al vaglio al solo fine di coglierne taluni rilevanti dati applicativi in coerenza con l'argomento all'oggetto di questo lavoro.

È noto che il patto in questione sia stato studiato in una prospettiva "unitaria", contrapposta ad altra definibile, con una certa approssimazione, "atomistica" [nota 65].

Nella direzione della necessaria partecipazione di tutti coloro che sarebbero legittimari del disponente se si aprisse la sua successione al momento della stipula si sono indirizzati quanti sono disponibili a sacrificare la stabilità del patto e la sua efficienza in termini economico-giuridici, ad un raccordo con il sistema successorio nel quale si considera poziore, nonostante il patto di famiglia, il principio dell'intangibilità del diritto del legittimario [nota 66].

Quest'ottica tende a considerare la funzione del patto caratterizzata da una spiccata vocazione divisoria, peraltro non estranea alla nostra tradizione legislativa [nota 67].

Peraltro si ricorda che, per molti, confortino tale funzione divisoria:

- il richiamo alla finzione d'apertura della successione di cui è parola nell'articolo 768-quater comma primo;

- l'espresso riferimento alla collazione, che è istituto tipico della divisione ereditaria.

Va da sé, quindi, che la ricostruzione sintetizzata evoca la necessità

- della partecipazione al patto di famiglia, di tutti i soggetti legittimari (coniuge e tutti i discendenti, compresi i nascituri concepiti) (questa, in particolare a pena di nullità);

- che vengano individuati uno o più discendenti assegnatari dell'azienda (tutta o di un ramo di essa);

- che sia formulata una valutazione del bene oggetto del patto contestualmente individuando il valore delle quote da attribuire ai legittimari non assegnatari salvo che questi vi rinunzino espressamente;

- che i beni attribuiti ai non assegnatari dell'azienda in forza dell'articolo 768-quater comma 3 siano dell'imprenditore giacchè si sta procedendo alla divisione di una parte del suo patrimonio e solo rispetto a costui è concepibile «l'imputazione alle quote di legittima» spettanti a costoro [nota 68].

Si è altrove sottolineato come questa ricostruzione non mostri alcun imbarazzo di fronte all'obiezione dell'asserita esistenza di una divisione in assenza di una comunione preventiva. è stato, infatti, da taluni osservato che una comunione preventiva mancherebbe anche nella divisione del testatore di cui all'articolo 734 c.c., e soprattutto in ragione della circostanza per cui la funzione degli atti divisori sarebbe quella di soddisfare l'interesse all'assegnazione e quindi alla tacitazione proporzionale di un diritto spettante ad un soggetto, rispetto alla quale la circostanza della preventiva esistenza "dello stato di indivisione" è fenomeno strumentale, ma non necessario.

Per contro chi, condivisibilmente, coglie la ratio della novità nel tentativo di rendere più efficiente l'impresa, anche dal punto di vista della sua «capitalizzazione» [nota 69], rendendo appetibile il momento del passaggio generazionale anche in funzione dello sviluppo degli investimenti ad essa riferibili, e comunque afferma che lo scopo della norma consista nell'«evitare la frammentazione di beni ed entità, direttamente o indirettamente produttivi» [nota 70] considera che il patto di famiglia consenta, inter vivos, un accordo tra imprenditore o titolare di partecipazioni sociali ed assegnatario, o più assegnatari, volto ad eleggere questi ultimi alla "successione" nell'azienda e\o nelle partecipazioni sociali in ragione di una scelta rimessa all'ascendente che seleziona la generazione successiva chiamata alla titolarità del bene produttivo.

Le conseguenze di questa ricostruzione, possono riassumersi come di seguito:

a. il patto di famiglia consente la deduzione dell'azienda o delle partecipazioni sociali come massa autonoma, isolandola rispetto alla restante massa patrimoniale del disponente fissandone il valore immediatamente, e ciò allo scopo di valutare la quota spettante agli "altri legittimari". Quest'ultima, quindi, è da calcolarsi sulla sola azienda e\o partecipazione sociale;

b. ai legittimari non assegnatari si attribuisce una pretesa creditoria nei confronti dei discendenti assegnatari;

c. è possibile una tendenziale irreversibilità ed inattaccabilità dell'accordo de quo, proprio allo scopo di rafforzare il bene imprenditoriale rispetto ai rischi che il medesimo corre quando ed ove dedotto nella successione dell'imprenditore secondo le comuni regole successorie [nota 71].

La ricostruzione al vaglio, sia pure con sfumature disomogenee, individua nella natura liberale l'attribuzione prevista dalla disciplina del patto di famiglia, che viene allocato nel più ampio genus della donazione modale [nota 72].

Nella direzione della natura liberale sembra, peraltro, indirizzato anche il legislatore fiscale [nota 73].

Nella prospettiva qui all'attenzione occorre prendere in considerazione la disciplina della patologia del patto di famiglia e sottolineare che il legislatore ha adottato una disposizione, quella dell'articolo 768-quinquies c.c. a mente del quale il patto sarebbe esposto all'impugnativa per errore violenza e dolo sia pure con un termine di prescrizione piuttosto breve: un anno.

In linea generale non può non condividersi l'idea di chi ha sottolineato la superfluità della prima parte della norma, dal momento che non si riscontrano ragioni specifiche per le quale dovrebbe escludersi che il patto di famiglia, in quanto contratto, non sia esposto all'annullabilità di cui agli artt. 1427 e ss. c.c. [nota 74], come alle altre patologie del contratto in generale (si pensi ai vizi di capacità). Forse l'esigenza del richiamo sta nel termine prescrizionale assegnato alla relativa azione che, per il patto di famiglia, è di un anno in luogo di quello ordinario che, com'è noto, è quinquennale.

Vale per quest'aspetto sottolineare come la dottrina abbia ricondotto la brevità del termine in questione all'esigenza di conseguire in tempi rapidi la definitiva stabilità del patto stesso [nota 75].

La disciplina dell'annullabilità nel suo specifico richiamo agli artt. 1427 e ss. c.c. (segnatamente dolo, violenza ed errore) impone di considerare la rilevanza dell'errore sul valore ovvero sul calcolo.

Invero, da un lato il richiamo contenuto nel più volte citato art. 768-quinquies agli artt. 1427 e ss. induce a considerare applicabile, tra gli altri, anche l'articolo 1430 c.c., il quale, com'è noto a proposito dell'errore di calcolo ne sancisce l'irrilevanza al fine dell'annullabilità [nota 76] salvo che concretandosi in errore sulla quantità non sia stato determinante alla formazione del consenso.

Dall'altro, però, non può, al fine al vaglio, ritenersi del tutto privo di significato il disposto dell'articolo 768-quater comma 2 c.c. nella parte in cui stabilisce espressamente la rilevanza della corrispondenza tra le somme che gli assegnatari dell'azienda o delle quote devono agli altri partecipanti al patto e "valore" delle quote di questi ultimi.

In questo contesto, infatti, non può nemmeno trascurarsi che la legge ammette che la liquidazione (delle quote degli aventi diritto) possa avvenire in natura.

Difficile negare che il pagamento delle somme di danaro, ovvero, il trasferimento di beni in natura debba rispondere al criterio dell'assegnazione di valori equivalenti alla quota dei non beneficiari del patto. Correttamente da taluni s'è sottolineato, al riguardo, che ove non si considerasse rilevante l'errore sul valore risulterebbe frustrata la funzione liquidatoria che è propria del patto all'esame [nota 77].

D'altro canto la rilevanza generale della funzione liquidatoria impone di considerare che una conclusione siffatta sia valida per ogni caso in cui una quota sia destinata ad essere soddisfatta con assegnazione di beni in quanto l'errore sulla valutazione del bene inibisce la piena realizzazione della causa dell'attribuzione del bene stesso: si pensi, a tacer d'altro all'assegnazione di danaro o beni a beneficio del socio receduto o escluso da società di persone o capitali, ovvero alla ripartizione di beni in natura in sede di scioglimento e liquidazione di società. Che, poi, ciò declini la rilevanza costante nelle ipotesi di cui in precedenza dell'errore sul valore come errore (essenziale) sulla quantità determinante il consenso oppure no, non è questione da risolvere in questa sede. Qui valga solamente sottolineare che la stabilità del patto di famiglia appare con chiarezza, sul piano della disciplina positiva, subordinata all'esecuzione di una corretta funzione di liquidazione dei diritti di chi dovrebbe avere in futuro dei beni ma non li avrà per effetto della loro assegnazione (anticipata) ad alcuni "legittimari".

La questione ora esaminata sembra avere alcune conseguenze in materia di rescissione: l'essere il patto di famiglia un accordo privo di prestazioni tra loro legate in termini di corrispettività esclude di considerare che l'istituto generale della rescissione di cui agli artt. 1447 e ss. possa trovare applicazione.

Resta da valutare l'applicazione del rimedio rescissorio proprio degli atti a carattere divisionale (artt. 763 e 764 c.c.).

È singolare osservare che l'idea secondo la quale l'articolo 768 quinquies c.c. costituisca norma speciale epperciò destinata ad escludere l'operatività di ogni altra norma prevista dal legislatore in materia di patologia sia diffusa anche tra i sostenitori della natura, lato sensu, divisoria del patto di famiglia [nota 78], purtuttavia la tesi non convince fino in fondo.

Innanzitutto giova segnalare come il patto di famiglia pretenda, per il perseguimento dei suoi scopi, l'esatta correlazione delle somme o dei beni assegnati ai legittimari non beneficiari alle quote ai medesimi spettanti.

Solo i legittimari non assegnatari possono "rinunziarvi in tutto o in parte".

La conseguenza sul piano dogmatico, oltre che applicativo è che il trasferimento dell'azienda o delle quote ai beneficiari del patto, e la corresponsione di somme o beni da questi ultimi ai legittimari non assegnatari consente l'assegnazione anticipata di beni particolarmente qualificati sul piano dell'unità economico-funzionale evitando che su di essi si formi la comunione ereditaria con tutte l implicazioni che ne potrebbero derivare.

Per l'aspetto all'attenzione è possibile intravedere una sorta di assegno divisionale in cui il ruolo del "testatore" è tanto più accentuato ove sia egli stesso a provvedere alla soddisfazione dei diritti dei beneficiari con beni provenienti dal proprio patrimonio. Rispetto a tale evenienza, come più in generale quando siano i beneficiari a soddisfare i diritti dei partecipanti - legittimari - non assegnatari è difficile negare il valore della rilevanza dello scopo di apporzionamento che il legislatore persegue.

A prescindere, infatti, da ogni considerazione sull'ammissibilità di divisioni, o di atti equiparati, in assenza di comunione non v'è chi non veda che nel disegno dell'articolo 768-quater c.c. l'idea della finzione di cui al primo comma si spinga oltre la semplice considerazione della apertura della successione, non fosse altro che per la significativa circostanza per cui ove si finga l'apertura della successione si determina la premessa logica e giuridica del titolo per cui esiste un "finto legittimario" titolare di una quota da soddisfare con somme o beni. il che implica, giocoforza, che si sta, parimenti, fingendo l'esistenza di una comunione da sciogliere. E se l'aspetto non appare preponderante sul piano causale per il quale, come dai più osservato, la ragione dell'attribuzione dal disponente al beneficiario va rintracciata nell'attribuzione liberale gravata da onere, non può trascurarsi, del pari, che il criterio dell'apporzionamento governi la diversa attribuzione ai partecipanti non beneficiari.

Opinare che il patto in tale contesto resti immune dalla disciplina della rescissione oltre il quarto è petizione di principio difficilmente raccordabile con il condiviso esame delle varie vicende cui esso dà luogo [nota 79].

Né lascia indifferenti la locuzione pure contenuta nell'articolo 768-quater comma IV secondo cui si affida ai partecipanti al patto il potere di disporre di assegnazione di beni in luogo di somme per la soddisfazione delle quote dei legittimari non beneficiari.

La disposizione ove letta in coordinamento con il potere riconosciuto dalla legge a questi ultimi di rinunziare in tutto o in parte al diritto di che trattasi impone di considerare che il diritto positivo non esclude, nemmeno, che il patto possa contenere, avuto riguardo al rapporto somme o beni - quote un contenuto di carattere transattivo. Se, infatti i legittimari non beneficiari possono rinunziare al proprio diritto è evidente che possano disporne in sede transattiva magari accettando somme o beni di valore diverso e più precisamente inferiore a quello loro spettante a tacitazione della quota di legge obbligandosi dal loro canto a non esercitare l'azione d'annullamento per errore di cui poc'anzi s'è dato conto.

E se così fosse, va da sé che l'atto sarebbe definitivamente sottratto all'esercizio dell'azione di rescissione dal momento che un accordo di questo tipo non potrebbe che rientrare tra le fattispecie qualificate dalla giurisprudenza di transazione divisoria perseguendo lo scopo dello scioglimento della comunione, rectius, nel nostro caso dell'inibizione della sua formazione, a prescindere dalla corrispondenza tra pars quanta e pars quota.

Ancora una volta il delicato equilibrio degli interessi in giuoco esige un attento esercizio del controllo di legalità: il richiamo alla volontà transattiva, infatti, non va fatto nell'applicazione leguleia di clausole di stile, dal momento che la sua incidenza segna il discrimen di gravi conseguenze patologiche e dell'applicazione dei relativi rimedi.


[nota 1] La disamina delle fattispecie negoziali comunemente definite come "divisione transattiva" e "transazione divisoria" è al centro di riflessioni elaborate da autorevole dottrina, specie nel più ampio contesto della disamina di problematiche concernenti l'azione di rescissione. Sul tema cfr. G. MIRABELLI, «Transazione e divisione», in Foro it., 1952, I, c. 39; ID., Divisione, dir. civ., in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, p. 37; A. CICU, La divisione ereditaria, Milano, 1947, p. 36 e ss.; ID. Successione per causa di morte, Parte generale, II ed., in Tratt. dir. civ. comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1961, p. 494 - 498; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1962, p. 601; GIANNATTASIO, Delle successioni, sub art. 764, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, p. 180 e ss.; P. FORCHIELLI, Della divisione, sub art. 764, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1978, p. 516 e ss.; G. GAZZARA, Divisione, dir. priv., in Enc. dir., Milano, 1964, p. 419 e ss.; G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, p. 758 - 759; G. BONILINI, voce Divisione, in Dig., sez. civ., Torino, 1990, p. 494 e ss.; M.R. MORELLI, «La comunione e la divisione ereditaria», in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da W. Bigiavi, Torino, 1998, II ed., p. 220 e ss.; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II ed., tomo II, Milano, 2002, p. 708 - 711; G. TRAPANI, La divisione ordinaria o comune e la divisione ereditaria: regola ed eccezione nella circolazione dei terreni, Studio n. 5453/C/2005, p. 14, consultabile in www.notariato.it; L. MOSCARINI, «Gli atti equiparati alla divisione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, p. 533; C. M. BIANCA, La proprietà, IV, Milano, p. 497. Per le posizioni stratificatesi sul tema in giurisprudenza, cfr. infra paragrafo La divisione transattiva e la transazione divisoria tra rappresentazione dottrinale e soluzioni giurisprudenziali.

[nota 2] Non si può trascurare, nello specifico, che l'azione di rescissione è, in generale, disciplinata agli artt. 1447- 1452 c.c. con regole sostanzialmente diverse da quella cui fa riferimento l'articolo 764 citato.

[nota 3] Adottando, per altri versi, una disciplina a sua volta "speciale" dell'errore (art. 1969 c.c.), oltre che della risoluzione per inadempimento ove si voglia avere riguardo non al negozio ma ai suoi effetti (art. 1976 c.c.).

[nota 4] La tesi che incentrava il rilievo temporale in ordine all'applicazione dell'azione di rescissione risultava prevalente sotto l'impero del vecchio codice, nonostante non mancassero voci contrarie. Per un richiamo alle diverse opinioni si rinvia a F. ANGELONI, Sub art. 764, cit., p. 746, testo e note 2 e 3; si veda anche G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, cit., p. 758, testo e nota n. 1.

[nota 5] Ex multis Cass. civ., 6 agosto 1997, n. 7219, in Giust. civ. Mass., 1997; Cass. civ., 2 febbraio 1994, n. 1029, in Giust. civ. Mass., 1994; Trib. Napoli 18 febbraio 2002, in Giur. nap., 2002, p. 436 e ss.; Trib. Avezzano 27 dicembre 2001; Trib. Napoli, 4 dicembre 2003, in Giur. nap., 2004, p. 5 e ss. ; Cass. civ., 20 marzo 1995, n. 3227, in Giust. civ., 1995, 12, p. 3027. Resta, peraltro aperto il problema relativo all'individuazione della disciplina applicabile ad una transazione che astrattamente possa costituire "surrogato" di divisione ai sensi del citato art. 764, comma 2, c.c , ciò non senza trascurare la significativa circostanza per cui gli atti di cui al comma 1 dell'art. 764 c.c. costituiscano "surrogati" della divisione è considerazione condivisa in dottrina: in tal senso P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, Della divisione, Sub artt. 713 -736, cit., p. 21.

[nota 6] Per una disamina dei caratteri dell'azione generale di rescissione, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, cfr., ex multis, L. CORSARO, voce Rescissione, in Digesto, disc. priv., Torino, 1997, p. 628 e ss.; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Esi, 2006; R. SACCO, Il contratto, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 1975, VI, tomo 2, p. 356 e ss.

[nota 7] Così G. MIRABELLI, La rescissione del contratto, Napoli, 1962, p. 332, ivi l'autore, con accurata ricostruzione, anche richiamando la storia del rapporto tra rescissione per lesione e transazione, afferma addirittura che è « ... errata l'opinione di coloro che considerano la rescissione per lesione incompatibile con il contenuto della transazione ... », affermando che « ... in linea teorica non è impossibile l'applicazione del rimedio rescissorio alla transazione ... », dovendo, invece, l'esclusione discendere solo quando l'ammissibilità del rimedio rescissorio osti «gravemente alla soddisfazione» dell'esigenza della «pacifica composizione delle controversie». Vale qui anticipare che l'Autore, sia pure formulando la sua conclusione con riferimento alla c.d. divisione transattiva, intesa come « ... transazione nella pattuizione della divisione stessa ed avente ad oggetto, quindi, la valutazione dei beni e la fissazione della proporzionalità tra porzione divisoria e quota ... », qualifica espressamente la fattispecie come «transazione» (cfr. p. 333), ma ne esclude la rescindibilità, sia pure sottolineando la necessità di indagare quale sia la volontà delle parti. Il che avviene in ragione della centralità assegnata al profilo causale. Risulta così giustificata l'esclusione dalla rescissione della fattispecie al vaglio, in ragione della considerazione che « ... questa transazione tende, infatti, sostanzialmente ad eliminare una controversia, che potrebbe dar luogo ad un giudizio divisorio ed alla pronuncia di una decisione di una divisione giudiziale. Non si vede perché in rapporto a tale transazione debba venir meno la tutela della esigenza di favorire la pacifica composizione delle controversie, che suggerisce il divieto generale di rescindibilità della transazione. è questione di interpretazione della volontà dei condividenti stabilire se essi, nel pervenire ad una divisione consensuale, abbiano inteso semplicemente riconoscere l'esattezza della ripartizione, salvo impugnazione per lesione, ovvero transigere su ogni controversia relativa alla formazione delle porzioni; ma, nel caso che l'intento transattivo resti dimostrato, non può non avere vigore anche in questo caso l'esclusione della rescindibilità … ».

[nota 8] Il «diverso fondamento che ha l'azione nella divisione» veniva evidenziata, fin dall'entrata in vigore del codice del 1942, da A. CICU, La divisione ereditaria, Milano, 1948, p. 94 - 95, ivi l'insigne autore, analizzando la disciplina dell'azione di rescissione della divisione con specifico riferimento al suo fondamento, dopo aver constatato il radicale mutamento del legislatore del 1942 in tema di rescissione, divenuta « ... Non più rimedio eccezionale, ma normale per ogni contratto a prestazioni corrispettive ... », individua già nella Relazione al Re (n. 145) un sia pur «vago cenno al diverso fondamento che ha l'azione», ed afferma come l'analogia tra i due istituti risieda nel "problema politico", la cui incidenza giustifica la circostanza per la quale, a differenza della rescissione contrattuale, nell'azione di cui all'art. 764 c.c. si prescinda da elementi soggettivi di valutazione. E nella ricostruzione al vaglio si giustifica ancora con una scelta politica (« ... l'interesse politico della stabilità degli atti compiuti e della tutela dei terzi ... ») la diversa misura della lesione rilevante ai fini dell'azione di rescissione della divisione: « ... Si prescinde anzitutto nella divisione da ogni elemento soggettivo, che nella divisione giudiziale ed in quella operata dal testatore, non potrebbe neppure venire in considerazione. D'altra parte il problema di equivalenza non è qui problema di equivalenza delle porzioni fra di loro, ma di equivalenza di ciascuna porzione alla relativa quota del tutto. Se il rimedio della rescissione non è accordato per ogni lesione, ma solo per quella che supera il quarto, ciò è solo per la ragione politica accennata». Così A. CICU, op. cit., p. 96.

Per la specialità dell'azione ex art. 764 c.c. conclude, peraltro anche con maggiore decisione, G. MIRABELLI, La rescissione del contratto, cit., p. 181 e ss., ove si evidenzia la profonda differenza che intercorre tra la rescissione della divisione e quella degli altri contratti. Si afferma, infatti, che: « ... la rescissione della divisione, nella costruzione presentata dalla codificazione, si può dire che non abbia in comune con altre figure di rescissione altro che il nome ... », continuando successivamente l'esame partito degli elementi di differenziazione impressi dal legislatore del 1942.

Pur non qualificandola come azione speciale, ma nel contesto dell'esame dei «limiti all'applicazione dell'art. 1448» evidenzia l'inapplicabilità « ... di tutte o talune delle norme ... » dettate in tema di azione di rescissione c.d. generale alla rescissione della divisione: R. SACCO, Il contratto, cit., p. 366; ivi l'autore afferma che la divisione « ... può essere rescissa in base ad elementi puramente oggettivi ... », con ciò implicitamente evidenziandone una differenza tale da giustificare deroga (rectius non applicazione) della disciplina generale. La particolare funzione della divisione ereditaria è evidenziata anche nel diverso contesto volto ad esaminare la possibilità di ricondurre ad unità le diverse ipotesi di riduzione ad equità del contratto, da F. PANUCCIO, voce Riduzione ad equità, in Dig., disc. priv., XVII, Torino, 1998, p. 603, testo e nota n. 2, ivi ult. rif.; nello stesso senso G. BONILINI, voce Divisione, cit., p. 494. Cfr. pure la Relazione del Guardasigilli, n. 337, (cit. in Mirabelli): « ... Essendo stata ammessa l'azione generale per lesione si è soppressa la rescissione per lesione ultra dimidium che si sarebbe praticamente risolta in un duplicato del rimedio di carattere generale ... La lesione generale, da cui la lesione speciale viene astratta, si mantiene in un campo più ristretto e rigoroso; e perciò non può esserci contraddizione tra lo sfavore per l'azione di lesione immobiliare e l'introduzione di quella generale. Né mi ha impressionato il considerare che il libro delle successioni ha conservato la rescissione speciale per la divisione: l'istituto trova nella materia successoria, per l'esigenza di garantire l'obiettiva rispondenza delle quote ereditarie, gravi ragioni favorevoli che non militano egualmente per la vendita ... ». Considerazioni, quelle desumibili dalla lettera del testo appena riportato, desumibili già nel ragionamento di G. MIRABELLI, op. cit., p. 181, nota 2.

[nota 9] Sul tema specifico del rapporto tra divisione ed atti ad essa equiparati, cfr. G. BONILINI, voce Divisione, cit., p. 495 - 496; e, più di recente, F. ANGELONI, Sub art. 764, in P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, Della Divisione, in Comm. cod. civ. Scialoja - Branca, a cura di F. Galgano, Art. 713 - 768, II ed., Bologna - Roma, 2000, p. 741 e ss.

[nota 10] In tal senso, F. ANGELONI, Sub art. 764, cit., p. 745.

[nota 11] Insoddisfacente perfino sotto la vigenza del vecchio codice nel quale il dato letterale era d'estrema chiarezza al riguardo, cfr. supra paragrafo Introduzione al problema: nomofilassi e modernità del rapporto tra transazione e divisione.

[nota 12] Che siano solo le transazioni stipulate a divisione conclusa ad essere considerate nel comma 2 dell'art. 764 c.c., che riproporrebbe nel nostro ordinamento la stessa disciplina dell'abrogato art. 1039 c.c. 1865, è sostenuto da G. GAZZARA, Divisione, dir. priv., in Enc. dir., cit., p. 428. Sul tema, cfr. anche F. ANGELONI, op. loc. ult. cit.; ivi l'autore ciò afferma, peraltro riproponendo sostanzialmente la tesi sostenuta dal FORCHIELLI nella precedente edizione del testo prima citato.

[nota 13] Cfr., per tutti, G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 710; per un resoconto sul dibattito, e per l'indicazione delle diverse opinioni, si veda pure P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, op. ult. cit., p. 745 e ss.

Si precisa che già in P. FORCHIELLI, Divisione, in Comm. cod. civ., I ed., cit., p. 517, si utilizzava una diversa aggettivazione, e precisamente: «transazione interdivisoria e postdivisoria». Scelta, quella dell'insigne autore - peraltro ribadita anche nella seconda edizione citata in questa nota - che, probabilmente, è il frutto di un approccio al problema fortemente influenzato dalla tradizione, con ciò riferendosi al rilievo della demarcazione dell'elemento temporale della conclusione del negozio diverso dalla divisione ai fini della rescindibilità dello stesso di cui v'era testuale riferimento nell'art. 1039 del codice civile del 1865. (Sul punto amplius infra).

[nota 14] Ex multis, G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 710; L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, Parte generale, Napoli, 1977, p. 744 - 745; M. R. MORELLI, «La comunione e la divisione ereditaria», cit., p. 220 - 223.

[nota 15] Piace ricordare che nel vigore del codice civile del 1865, la figura della divisione transattiva era stata delineata da autorevolissima dottrina (cfr., per tutti, BIGIAVI, «Divisione transattiva o transazione divisoria», in Temi emil., 1930, I, 1, p. 121) che, peraltro, ne ammetteva la rescindibilità. Si precisa, tuttavia, che la fattispecie a cui si faceva riferimento veniva qualificata come "transazione interdivisoria" (distinzione, questa, come già anticipato, presente anche in P. FORCHIELLI, Divisione, in Comm. cod. civ. Scialoja - Branca, 1978, p. 517).

[nota 16] Cfr., ex multis, G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 710; G. BONILINI, voce Divisione, cit., p. 495; C. M. BIANCA, Diritto civile, 4, La proprietà, cit., p. 498 e ss., il quale sostiene la rescindibilità della c.d. "divisione transattiva" e, delineando il contenuto del negozio, afferma che essa ricorre quando « ... tra i compartecipi sorgono questioni anteriormente o contestualmente alla divisione e queste sono risolte direttamente mediante la formazione delle porzioni».

[nota 17] Cfr., ex multis, G. BONILINI, op. loc. ult. cit.; G. CAPOZZI, op. loc. ult. cit.; in senso parzialmente diverso C. M. BIANCA, op. loc. ult. cit., il quale sembra escludere che la transazione di che trattasi possa essere anteriore alla divisione.

[nota 18] Che almeno secondo un principio di politica legislativa, è fissato, quantitativamente, nella misura del quarto detto.

[nota 19] Quanto sopra può farsi anche discendere da una constatazione di carattere pratico . è noto come anche negli ultimi decenni il tema della individuazione degli atti diversi dalla divisione di cui è parola nell'art. 764 c.c. abbia visto sempre più frequentemente - e peraltro non senza incertezze - "l'incremento" delle ipotesi come tali qualificabili e per le quali si invoca l' estensione la disciplina della comunione. A fronte di questa tendenza pratica, la dottrina ha operato una forte rivisitazione del criterio interpretativo di guisa che la genericità della lettera della legge (art. 764 c.c.), tradizionalmente interpretata come espressione della volontà del legislatore di estendere la disciplina della divisione - in specie sotto il profilo della rescindibilità - a qualunque atto comunque produttivo dell'effetto dello scioglimento della comunione, viene ora considerata, sia pure con diverse sfumature, nel senso che l'applicazione della disciplina tipica della divisione presuppone che l'atto preso in considerazione, oltre allo scopo, peraltro non meramente occasionale di sciogliere la comunione, presenti quale ulteriore elemento l'attribuzione di valori corrispondenti alla quota. Sul tema, P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, op. cit., p. 20 e ss., e, in particolare p. 28, testo e nota 16, ivi ult. rif.

[nota 20] Così Cass. civ., 6 agosto 1997, n. 7219, in Giust. civ. Mass., 1997.

[nota 21] Cass. ult. cit.

[nota 22] Cass. ult. cit.

[nota 23] Trib. Napoli 18 febbraio 2002, in Giur. nap., 2002, p. 436 e ss., nello stesso senso il Trib. Avezzano 27 dicembre 2001 a giudizio del quale « Ai sensi del comma 1 dell'art. 764 c.c. l'azione di rescissione per lesione di quota ereditaria è ammessa anche contro ogni altro atto diverso dalla divisione che abbia effetto risolutivo della comunione di beni, alla condizione che l'atto stesso contenga una divisione transattiva caratterizzata dalle attribuzioni di valori proporzionali alle quote ereditarie. Invece, se nell'atto che pone fine alla comunione i condividenti, allo scopo di evitare una lite o di comporne una già sorta, si accordino sull'attribuzione di beni senza procedere al calcolo delle porzioni corrispondenti alle quote di partecipazione alla comunione, si ha una transazione divisoria avverso la quale l'azione di rescissione non è consentita dal divieto contenuto nel comma 2 dell'art. 764 c.c. …».

[nota 24] Per la vendita di diritti ereditari tra coeredi si applica, invero, l'articolo 765 c.c. che esclude la rescindibilità.

[nota 25] Pur non costituendo oggetto specifico del presente lavoro la trattazione della disciplina della transazione, sembra necessario richiamare, ai fini che qui rilevano, alcuni dati essenziali dell'istituto. All'uopo, prescindendo dal richiamo della definizione positiva di cui all'art. 1965 c.c., giova rilevarne la funzione di strumento "principe" accordato ai privati per la soluzione di controversie giuridiche; e ciò in ragione della tipologica attitudine del contratto di transazione a raggiungere la suindicata finalità prescindendo dall'accertamento giudiziale della ragione e del torto. E si tratta di uno schema contrattuale che è positivamente individuato non già in base al contenuto di una o entrambe le prestazioni, ma descritto quale funzione assolvibile da qualsiasi prestazione di cui le parti possano disporre. Nonostante sia fortemente discusso, vi è chi ha autorevolmente sostenuto che la transazione possa essere considerata come "causa generica" di attribuzioni patrimoniale, in quanto tale idonea ad improntare della propria funzione altri contratti tipici o atipici (cfr. F. SANTORO PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1986, rist., p. 202 e ss.). Con riferimento al presupposto della transazione, basti qui rilevare che secondo l'opinione prevalente non è sufficiente un semplice conflitto economico, essendo questo un elemento che rappresenta l'oggetto di tutte le trattative contrattuali, alla cui composizione tende la formazione dell'in idem placitum. Presupposto della transazione è, invece, un conflitto giuridico, ossia l'affermazione di un diritto, che si esterna in una pretesa, e la contestazione della sussistenza o della misura di tale diritto; e l'elemento che consentirebbe di distinguere la transazione da altre figure negoziali è l'esistenza di reciproche concessioni e della lite già sorta o che può sorgere. Sul punto si evidenzia l'imbarazzo della dottrina a delineare il significato di lite che può sorgere, investendo la questione detta anche quella più generale dei rapporti tra transazione e negozio di accertamento, che, è noto, è ancor oggi particolarmente complessa, sia in punto dogmatico che pratico, e con precipuo riferimento alla rilevanza della res dubia o res certa nei negozi al vaglio.

Sul tema più generale della transazione, cfr., ex multis, E. DEL PRATO, Transazione, dir. priv., in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, p. 813 e ss., ivi ult. rif.; in particolare p. 826 - 827, ove si affronta il tema del rapporto tra transazione ed altri contratti, sostenendo che «in un'operazione complessa, la transazione può coesistere con altri contratti senza porre problemi di mistione, cioè di concorso e conflitto di discipline speciali. Ciò avviene nel concorso con la divisione contrattuale, dove la composizione della lite può attenere alla determinazione delle quote, e pertanto precedere la divisione, o comunque riguardare le questioni insorte a causa di quest'ultima (cfr. art. 764, comma 2, c.c.), senza che ne venga meno l'irrescindibilità». E, in una prospettiva che costituisce sicuro conforto alla tesi esposta nel testo circa la natura di atto equiparato alla divisione della transazione che produca effetto divisionale proprio, l'autore, sia pure facendo riferimento al concetto di "sovrapposizione" più che a quello di autonomo atto equiparato alla divisione afferma che « … Si sovrappone, invece, alla divisione la transazione che, componendo la lite insorta intorno al diritto di un comproprietario, al diritto di dividere o ad altre modalità dello scioglimento della comunione, realizzi quest'ultimo direttamente. Mancando la preventiva determinazione delle quote nonché la conseguente attribuzione a ciascun condividente di una porzione pari alla sua quota astratta (cosiddetto apporzionamento) rimane la sola funzione transattiva ad informare l'operazione, a prescindere da ogni corrispondenza fra quote e porzioni: sicché il contratto non può farsi rientrare fra gli atti equiparati alla divisione (art. 764 comma 1) e pertanto non soggiace al regime della rescissione ultra quartum (art. 763 e 764 comma 1)».

Al fine al vaglio sarebbe anche opportuno riflettere sulla configurazione della transazione in altri ordinamenti giuridici, in taluni dei quali si assiste a parificazione tra negozio di accertamento e transazione : Cfr. il titolo 21 § 779 del codice civile tedesco - Transazione, che viene definita: « (1) Un contratto con cui mediante reciproche concessioni si pone fine ad una controversia o all'incertezza delle parti su un rapporto giuridico (transazione), è inefficace se il fatto che, secondo il contenuto del contratto, ne costituisce il presupposto non corrisponde alla realtà ovvero la controversia o l'incertezza non sarebbero sorte qualora si fosse conosciuta la situazione. (2) All'incertezza su un rapporto giuridico è equiparato il caso in cui sia incerta l'attuazione di una pretesa», in codice civile tedesco - Traduzione e presentazione a cura di S. PATTI, Milano, 2005, p. 569. In Italia, al contrario, appare recepita la differenza tra transazione ed accertamento: sul punto POLACCO, Del contratto di transazione, Roma, 1921, p. 7 e ss.; COSTANZA, in Comm. cod. civ. a cura di Cendon, p. 1784 e ss.; P. RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1992, p. 783. Cass. 623/1978. P. CARRESI, La transazione, in Tratt. dir. civ., Torino, Utet, 1966, p. 57.

Per una recente lettura del "fenomeno" dell'accertamento, anche in una prospettiva volta ad ampliarne la portata applicativa a fattispecie sempre più diffuse nella pratica, evidenziando, peraltro, fin da ora che si tratta di strumento probabilmente utilizzabile anche nell'iter divisorio (sicuramente in un momento immediatamente precedente alla divisione quale possibile strumento per l'attuazione della collazione volontaria), cfr. CACCAVALE, «Gli atti unilaterali di mutuo nel credito bancario», in Riv. dir. priv., 2001, 2, p. 307 e ss.

[nota 26] è stato precisato, infatti, al riguardo, che il dubbio si pone non solo per l'azione di rescissione, ma anche per l'azione di annullamento per errore, l'azione di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, la garanzia per evizione di cui agli art. 758 e 759 c.c.; per la disamina di queste problematiche sia consentito rinviare, ancora una volta, a P. FORCHIELLI - P. ANGELONI, op. loc. ult. cit.

[nota 27] Sul tema, cfr. L. MENGONI, Successione per causa di morte, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu - F. Messineo, continuato da L. Mengoni, XLIII, tomo 1, Successione legittima, VI ed., Milano, 1999, p. 74 e ss. (in generale), e in particolare p. 78 - 79. Ivi, infatti, l'autore, dissertando intorno alla natura giuridica della commutazione, ne evidenzia le affinità sostanziali con la datio in solutum piuttosto che con la divisione in senso stretto, affermando che la fattispecie darebbe vita ad una dazione in pagamento (meglio solutio): « ... eccezionalmente concessa dalla legge in luogo della solutio della quota ereditaria … », e ciò in quanto, come la datio in solutum non attua il contenuto del diritto di credito, così la commutazione della quota « … non attua il diritto del titolare sui beni comuni concretandolo in una porzione pro diviso, ma attribuisce al figlio naturale un diritto diverso in luogo del diritto di quota, che rimane estinto». Si vedano tuttavia le considerazioni esposte ulteriormente in particolare a p. 81, testo e nota n. 48.

[nota 28] Sul punto giova richiamare le illuminanti pagine di P. FORCHIELLI, Divisione, cit., p. 1 e ss., (prima e seconda ed.), ove l'insigne autore nell'esaminare il fenomeno successorio, con particolare riguardo alla funzione dell'iter divisorio, evidenzia come esso rievochi una duplice idea: da un lato, lo scioglimento di un preesistente stato di comunione, dall'altro, « ... l'idea strettamente collegata, di un'equa distribuzione tra tutti i compartecipi dei beni sino a quel momento comuni ... ». Vale, a questo riguardo, ulteriormente precisare che l'autore non trascura di evidenziare l'imbarazzo che il fenomeno divisorio presenta sotto il profilo della struttura. Difficoltà che, secondo questa ricostruzione, dovrebbero essere individuate: - nell'eterogeneità dei fenomeni che possono astrattamente dare luogo allo scioglimento della comunione - rilevando al riguardo che si tratterebbe di atti che « ... con l'autentico fenomeno divisorio non hanno null'altro in comune se non il risultato ... »; è sia la pratica che la legge a conoscere diversi tipi di comunione; e poi, la stessa disciplina legale della divisione, « ... anche se non priva di un certo disegno unitario, non è certo un modello di organicità e racchiude, per giunta, istituti - come la collazione e l'imputazione dei debiti - che hanno un respiro loro proprio e che solo dal punto di vista funzionale presentano qualche addentellato con l'autentico fenomeno divisorio; racchiude altresì almeno un istituto, il retratto successorio, che nulla, proprio nulla, ha in comune col fenomeno divisorio ... ».

[nota 29] Cfr. G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 679 e ss., testo e note, ove ult. rif.; G. BONILINI, voce Divisione, cit., p. 482 e ss.

[nota 30] Cfr. G. BONILINI, voce Divisione, cit., p. 483, ivi anche l'espresso riferimento al carattere unitario del concetto di divisione.

[nota 31] Così, P. FORCHIELLI, Della divisione, sub art. 763, cit., p. 731.

[nota 32] Nonostante la specialità della disciplina si ritiene che alcuni aspetti non espressamente regolati possano trovare nella disciplina generale della rescissione adeguata soluzione: così sembra possa essere per la rilevanza delle variazioni dei valori successivamente alla divisione, cui si ritiene applicabile per analogia la regola di cui all'art. 1448, comma 3, c.c., che richiede che la lesione perduri fino al momento in cui la domanda è proposta. Così tra gli altri P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, op. cit., II ed., p. 735.

[nota 33] P. FORCHIELLI, op. cit., II ed., p. 734, testo e nota 2, ivi ult. rif., in giurisprudenza Cass. 8 gennaio 1969, n. 37, in Giust. civ., 1969, I, p. 1930 e ss.

[nota 34] Per un resoconto su questo aspetto specifico della disciplina si rinvia a F. ANGELONI, op. cit., p. 736 e ss.

[nota 35] Richiedendosi, peraltro, al fine dell'ammissibilità dell'azione, che il provvedimento che chiude il giudizio si ricollegasse all'accordo degli interessati, presentando sostanziale natura contrattuale.

[nota 36] Particolarmente significativo, sembra, sul punto il ragionamento incidentalmente svolto dalla Suprema Corte a proposito della "rescissione del rapporto sociale": cfr. Cass. civ., 8 luglio 1994, n. 6452, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 938 e ss.

[nota 37] L'aliquota dell'imposta di registro è,infatti, l'uno per cento contro quelle ben più significative proprie dei trasferimenti.

[nota 38] Per alcuni e superiori per altri.

[nota 39] P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, Della divisione, Sub art. 763, cit., p. 738.

[nota 40] P. FORCHIELLI - F. ANGELONI, op. ult. cit., p. 738, nota n.1.

[nota 41] G. MINERVINI, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 45. contra F. ANGELONI, op. cit., p. 738.

[nota 42] Cass. civ., 19 ottobre 1998, n. 10333, in Giust. civ., 1999, I, p. 88.

[nota 43] Risultando evidente la contrapposizione, almeno descrittiva, della bilateralità dell'uno accordo rispetto all'apparente unilateralità della seconda attività negoziale,

[nota 44] Cass. civ., 19 ottobre 1998, n. 10333, op. loc. ult. cit. Per la tesi della negozialità dell'articolo 767 c.c. si veda pure di recente Trib. Ascoli Piceno 29 dicembre 2004, in Dir. e lav. Marche, 2005, 1, p. 80 e ss.

[nota 45] L'art. 1965, comma 1, c.c., definisce la transazione «il contratto col quale le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già insorta o prevengono una lite che può sorgere tra loro».

[nota 46] CARNELUTTI, «La transazione è un contratto?» in Riv. dir. proc., 1953, I, p. 581.

[nota 47] RADOCCIA, «Transazione e accertamento», Giur. merito, 2005, 5, p. 1264.

[nota 48] RADOCCIA, op. cit., p. 1265 ed ivi bibliografia specie note 39 e 41.

[nota 49] Non potendosi trascurare che, pur non obbligatoria, appare opportuna l'allegazione di una perizia di stima che contenga l'indicazione dei criteri di valutazione adottati peri beni offerti.

[nota 50] Non è certo questa la sede per indagare la congruità del perfezionamento del contratto per facta concludentia, ovvero la compatibilità della fattispecie al vaglio con il disposto dell'articolo 1327 c.c, o con quello dell'articolo 1332 c.c., e quindi, ulteriormente approfondire la questione alla luce della sovrapposizione con la causa transattiva. Quel che giova, qui rimarcare è la circostanza per la quale il diritto al supplemento è assegnato dal legislatore al condividente destinatario di un'azione di rescissione, con effetti preclusivi, in relazione ai quali la volontà di colui che esercita l'azione o che dichiari di volerla esercitare non sembra giocare un ruolo determinante se non nei termini, appunto, della valutazione della congruità dell'offerta o meno. Potrebbe trattarsi, in altri termini, di un'ipotesi in cui il "mancato rifiuto" assume significato per il riconoscimento positivo del potere assegnato al destinatario dell'azione di rescissione.

[nota 51] Sul punto cfr. CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 711.

[nota 52] Di recente cfr. GENOVESE, «L'atipicità dell'accordo di reintegrazione della legittima», in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 507 e ss.

[nota 53] Termine sul piano positivo utilizzato dal D.lgs. 346\90 ovviamente sul piano fiscale.

[nota 54] Solo per dare conto dell'ampiezza del problema si evidenziano solo alcuni dei contributi più noti al dibattito : A. CATRICALà, voce Accertamento (negozio di), in Enc. giur. Treccani, I, 1988; CORRADO, voce Negozio di Accertamento, in Nuovissimo Digesto, XI, 1965 p. 196 e ss.; FALZEA, voce Accertamento: a) Teoria Generale, in Enc. dir., 1958, p. 205 e ss.; GIORGIANNI, voce Accertamento (negozio di), in Enc. dir., I, 1958, p. 227 e ss.; BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico, Torino, 1960, p. 256 e ss.; BOZZI, Accertamento negoziale e astrazione materiale, Padova, 2000; DAMBROSIO, Il negozio di accertamento, Milano, 1996; FURNO, Accertamento convenzionale e confessione stragiudiziale, Milano, 1993; E. PAOLINI, Il contratto di accertamento, Padova, 1997; F. CARNELUTTI, «Note sull'accertamento negoziale», in Riv. dir. proc. civ., 1940, I, p. 3 e ss.; E. MINERVINI, «Il problema dell'individuazione del "negozio di accertamento», in Riv. dir. civ., 1986, VII, 3, p. 581 e ss.; F. GAMBINO, «La potenziale efficacia traslativa del negozio di accertamento e la teoria della forma», in Contr. impr., 1999, p. 1295 e ss.; G. BRANCA, Delle promesse unilaterali, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja e G. Branca, Artt. 1960-1991, 1974 ; C.A. GRAZIANI, Il riconoscimento dei diritti reali- contributo alla teoria dell'atto ricognitivo, Padova, 1979 .

[nota 55] è stato opportunamente messo in evidenza che « l'atto in questione, secondo la dottrina c.d. dichiarativa, sortirebbe dunque effetti in certo modo analoghi alla divisione: attribuisce diritti senza attuarne la trasmissione, l'effetto traslativo non scaturisce dall'accordo, i beni provengono dal de cuius per effetto della successione necessaria. La posizione del legittimario sembra dunque parallela a quella del condividente, cui venga assegnata una quota di beni comuni …», SALVATORE, «Accordi di reintegrazione di legittima: accertamento e transazione», in Riv. not., 1996, 1-2, p. 216. In senso analogo sia pure in una prospettiva dichiaratamente fiscale Cass. 18 giugno 1956, n. 2171, in Foro pad., 1957, I, p. 816.

[nota 56] Cass. civ., 20 maggio 2004, n. 9651. Resterebbe da chiarire se il limite dell'accertamento, nel contesto che ne occupa possa ravvisarsi nella costituzione di un rapporto originariamente inesistente. Un significativo contributo al riordino delle opinioni in materia di ricognizione ed atti ricognitivi, ed alla loro distinzione con gli atti di accertamento, peraltro arricchito da un'attenta analisi della giurisprudenza che ha affrontato la tematica da varie angolazioni, oltre che da tratti e spunti di significativa originalità si deve a C. CACCAVALE in «Gli atti unilaterali di mutuo nel credito bancario», in Riv. dir, priv., 2, 2001, p. 307 e ss. ed in particolare ivi par. II.1 nota 16 e p. 316 e ss., ivi in particolare note 20 e 23.

[nota 57] SALVATORE, op. cit., p. 818.

[nota 58] Così UNGARI-TRANSATTI, L'accordo di integrazione della legittima, per il dottorato di ricerca in Autonomia individuale ciclo XIX Università di Studi Roma Tor Vergata (tutore Prof. Carpino), 2006, in corso di pubblicazione nel testo, provvisorio, messo gentilmente a disposizione dell'autore p. 86.

[nota 59] UNGARI-TRANSATTI, op. cit., p. 87.

[nota 60] SALVATORE, op. cit., p. 819. Anche se in questo contesto la stessa giurisprudenza non ha escluso il ricorrere della fattispecie transattiva quando nell'accordo di reintegra diventi irrilevante il «momento conoscitivo» e lo scopo sia «quello di raggiungere rapidamente un soddisfacente assetto delle rispettive pretese, e non delle verità giuridiche», Cass. 14 luglio 1981, n. 461/2, in. Giur. it. Rep, 1981.

[nota 61] Lo status familiae infatti ha sistemi di dimostrazione agevoli e peraltro non sembra possibile oggetto di un accertamento privatistico.

[nota 62] Chè, anzi, il suo presupposto sembra essere la certezza della qualità di legittimario del soggetto che assume di esserlo.

[nota 63] Recentemente opina per una ricostruzione generale in termini di transazione, Trib. Milano 10 maggio 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 502 e ss.

[nota 64] Cfr. art. 458 c.c. che, ora, esordisce sancendo «Fatto salvo quanto disposto dagli art. 768-bis e ss. è nulla …».

[nota 65] I contributi dottrinali teorici e pratici in materia di patto di famiglia sono numerosi. Si ricordano, tra gli altri: AA.VV. (ATTANZIO, MASCHERONI, CACCAVALE, AMADIO, FIETTA, MERLO, VALERIANI, DI GIANDOMENICO, TASSINARI, DE ROSA, FRIEDMANN, BASILAVECCHIA, PURI, D'IMPERIO-PEZZETTA-SICILOTTI, BARALIS, RIZZI, PENE-VIDARI, ZOPPINI, MAGLIULO, LA PORTA, PISCHETOLA, BRUNELLI, LUPETTI, OCKL, BUSANI), Patti di Famiglia per l'impresa, ne I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2/3, 2006; CACCAVALE, Appunti per uno studio sul patto di famiglia, consultabile in www.notariato.it; DI MAURO, MINERVINI, VERDICCHIO, Il patto di famiglia, ne Le nuove leggi civili, 2006; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, consultabile in www.judicium.it; DE NOVA-DELFINI-RAMPOLLA-VENDITTI, Il patto di famiglia, Milano, 2006; RIZZI, I Patti di famiglia. Analisi dei contratti per il trasferimento dell'azienda e per il trasferimento di azioni societarie, Padova, 2006; ZOPPINI, Profili di governance del "patto di famiglia": il ruolo del cedente dopo la stipula del patto, 2006; MANES, «Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare», in Contr. impr., 2006, p. 539; PETRELLI, «La nuova disciplina del "patto di famiglia"», Riv. not., 2006, p. 401 e ss.; DI SAPIO, «Osservazioni sul patto di famiglia, brogliaccio per una lettura disincantata», in Dir. fam., 2007, 1, p. 289 e ss.; BALESTRA, «Prime osservazioni sul patto di famiglia», in Nuova giur. civ., 2006, II, p. 369 e ss.; G. PERLINGIERI, «Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principi e valutazione comparativa degli interessi», in Rass. dir. civ., 1, 2008, p. 146 e ss.; AVAGLIANO, «Patti di famiglia e impresa», Riv. not., 2007, 1, p. 1 e ss.; mi sia permesso di ricordare anche il mio G.A.M. TRIMARCHI « "Con l'auspicio che in Italia non tutto sia vietato, specie quel che è permesso: questioni pratiche sul patto di famiglia"», in Analisi interpretative e novità della circolare 3 E/2008 dell'Agenzia delle Entrate, ne I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2008.

[nota 66] Del resto è dato cogliere non poca incertezza nello stesso contesto letterale dell'innovazione legislativa: l'articolo 768-quater c.c. segnala che al patto devono partecipare il coniuge e tutti i legittimari che tali sarebbero se si aprisse la successione del c.d. "disponente" al momento della stipula.

[nota 67] Vale ricordare, infatti, che il codice del 1865 già conosceva la c.d. divisio inter liberos (artt. 1044 e ss.).

[nota 68] Ne deriva, coerentemente, un'interpretazione "restrittiva" dell'articolo 768-sexies che sarebbe limitato ai "soli" legittimari sopravvenuti (poco importa se coniuge o figli) e che per questa ragione (ossia in conseguenza della loro originaria inesistenza) non poterono partecipare all'originario patto di famiglia.

[nota 69] L'espressione è di CACCAVALE, op. cit., p. 4.

[nota 70] L'espressione è di AVAGLIANO, op. cit., p. 7.

[nota 71] Corollari applicativi sarebbero in punto operativo: a) che conformemente alla precisa lettera dell'articolo 768-bis comma 1 contraenti del patto sono l'imprenditore ed i discendenti assegnatari; b) che il coniuge e gli altri legittimari sarebbero meri partecipanti il cui consenso inciderebbe esclusivamente al fine di determinare la valutazione del bene oggetto del patto e segnatamente le quote degli stessi, e ciò a tutela del credito che il legislatore ha inteso loro assegnare con il meccanismo del patto.

[nota 72] Più controversa è la riconducibilità del patto de quo alla fattispecie della stipulazione a favore di terzo. Si ricordi, qui, sinteticamente, che non bisogna trascurare che in essa v'è traccia di favor (per i legittimari non assegnatari) come talora di effetti sfavorevoli! Qui valga richiamare alla memoria che la sovrapposizione alla donazione modale, secondo alcuni impone dal punto di vista strutturale la presenza dei testimoni.

[nota 73] Cfr. comma 78 articolo unico della legge 27 dicembre 2006, n. 296.

[nota 74] Così, ad esempio MINERVINI in DI MAURO, MINERVINI, VERDICCHIO, Il patto di famiglia, cit. p. 132.

[nota 75] Resterebbe da chiarire se le altre patologie siano assoggettate ai termini ordinari loro propri o se, invece, la specialità di cui all'articolo 768-quinquies c.c. possa, in qualche modo interpretarsi estensivamente o analogicamente. Nel primo senso, con decisione, MINERVINI, op. ult. cit., p. 134.

[nota 76] Considerato che detto errore determina rettifica.

[nota 77] Così CACCAVALE, op. cit., contra MINERVINI ad avviso del quale mancherebbero "appigli testuali" alla conclusione ora rassegnata.

[nota 78] Cfr. tra gli altri BARALIS, op. cit., p. 242, conforme MINERVINI, op. cit., p. 137.

[nota 79] Nella direzione dell'applicazione della disciplina della rescissione AMADIO, op. ult. cit., p. 77 sia pure di seguito ad un approfondimento caratterizzato da tratti diversi.

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