Il valore attribuito ai diritti assegnati tra diritto tributario e impugnative negoziali
Il valore attribuito ai diritti assegnati tra diritto tributario e impugnative negoziali
di Giampiero Petteruti
Notaio in Castelnuovo di Garfagnana

I valori e lo scioglimento della comunione

Lo scioglimento della comunione, nella multiformità delle fattispecie che possono realizzarla, presuppone di massima, anche dove l'atto conclusivo non la esponga, una valutazione dei beni da dividere come elemento imprescindibile di raffronto tra quote e porzioni, onde addivenire al giusto apporzionamento.

Che l'apporzionamento debba essere tendenzialmente giusto emerge dalla disciplina della rescissione della divisione: se la divisione è rescindibile per lesione oltre il quarto vuol dire che - salva la disciplina della transazione - normalmente non è sufficiente la concorde volontà dei contraenti (nel formare le porzioni) ad assicurare la stabilità del congegno contrattuale divisorio. Vuol dire, invece, che nonostante l'accordo, il regolamento pattizio è destinato a cadere, allorché vi sia sperequazione e questa superi il limite considerato patologico dal legislatore.

Nel diritto tributario, tale sperequazione assume valenza particolare, comportando l'obbligo di corrispondere l'imposta indiretta sull'atto divisionale in misura normalmente [nota 1] aggravata, considerandosi vendita l'assegnazione per il valore eccedente la quota (art. 34 comma 1 T.U.R.) ed applicandosi ai conguagli superiori al 5% del valore della quota di diritto (ancorché attuati mediante accollo dei debiti della comunione) l'imposta con l'aliquota stabilita per i trasferimenti.

Nel diritto privato [nota 2], la sproporzione patologica comporta lo scioglimento del contratto su domanda giudiziale (art. 2652 n. 1 c.c.), salva la facoltà di troncare il corso dell'azione di rescissione dando il supplemento (art. 767 c.c.).

Tra questi due criteri, sostanziale e tributario, si sviluppa il discorso riguardante la valutazione dei beni assegnati, che qui sarà affrontato in relazione alla divisione contrattuale, indagando se il precetto tributario (art. 51 T.U.R.) sia l'unico a pretendere l'esposizione del valore e se la dichiarazione di valori determinati sulla base di criteri eminentemente fiscali possa nuocere alla compiutezza civilistica del regolamento contrattuale.

Le diverse fattispecie

Sullo sfondo della materia al vaglio vi sono le consuete questioni sui tipi divisionali, prima fra tutte quella sull'identificazione della divisione contrattuale che ricorrerebbe secondo alcuni solo in presenza di distribuzione dei beni in natura e per altri anche tutte le volte che sia perseguito lo scopo di realizzare lo scioglimento della comunione mediante assegnazione di un valore corrispondente alla quota [nota 3].

Si ammette, in tal ultimo senso, che permanga la natura divisoria anche in presenza di conguagli e cioè quando lo scioglimento della comunione sia attuato attingendo all'esterno della massa comune [nota 4].

Viene poi in rilievo la contrapposizione tra le ipotesi di scioglimento che avvengano secondo quanto delineato dagli artt. 1111 e ss. del c.c. e dagli articoli 713 e ss. e gli «atti equiparati alla divisione» (contemplati dall' art. 764 c.c.) aventi in comune con le prime l' effetto di far cessare la comunione.

Questi ultimi includono tutte le tipologie estranee alla divisione in senso tecnico e cioè gli atti che da un lato non si risolvano nell'accidentale cessazione della comunione (come accade, ad esempio, in caso di alienazione del bene da parte di tutti i comunisti, di distruzione della cosa, di usucapione da parte di un terzo, di concentrazione della titolarità in capo ad uno dei due comunisti che succeda mortis causa all'altro, di concentrazione della titolarità in capo ad uno solo per esclusione dell'altro dalla comunione a causa di indegnità) e dall'altro mirino a realizzare lo stato finale della cessazione dello stato di comunione senza un apporzionamento diretto ma con un effetto sostanzialmente distributivo [nota 5] (come nel caso di più permute di quote indivise miranti proprio ad ottenere lo scioglimento dello stato di comunione) [nota 6].

Figure che hanno gli immediati precedenti nel codice del 1865 (art. 1039) e precedentemente nel Code Napoleon (art. 888) e nei codici pre-unitari (Codice di Napoleone il Grande per il Principato di Lucca del 1806, art. 888) [nota 7].

Una particolare fisionomia assumono, poi, i negozi transattivi aventi per oggetto situazioni di comunione.

La dottrina si è dimostrata divisa nell'individuare i limiti di applicazione dell'art. 764 alle transazioni anteriori allo scioglimento della comunione, reputandosi da alcuni che solo la transazione posteriore a tale scioglimento sia indenne da rimedio rescissorio e da altri che detto rimedio sia inapplicabile alla transazione in qualunque epoca stipulata, anteriormente alla divisione, interdivisoria e post-divisoria.

La giurisprudenza, dal canto suo, affrontando l'individuazione del discrimen tra divisione transattiva e transazione divisoria, ha escluso di rinvenirlo nella natura transattiva di una controversia divisionale, ricorrente in entrambi i negozi, e lo ha rintracciato nell'esistenza (nella prima) o meno (nella seconda) di proporzionalità tra le attribuzioni patrimoniali e le quote di ciascuno dei partecipanti alla comunione [nota 8].

Il ruolo dei valori nello scioglimento della comunione

Sulla base di questo sintetico quadro, è da indagare quale ruolo giochino i valori dei beni divisi nei diversi tipi di fattispecie sopra delineate.

In generale, il valore incide sull'economia del negozio in termini di misura dell'equilibrio tra le prestazioni, tutte le volte che si tratti di atto a titolo oneroso non aleatorio.

Nel caso della divisione contrattuale, è corrente l'affermazione della sua natura onerosa [nota 9], così come quella della sua sinallagmaticità [nota 10], individuandosi il nesso di corrispettività, più che nella "rinunzia reciproca" ai beni attribuiti agli altri (che sarebbe artificiosa), nella interdipendenza delle porzioni attribuite [nota 11]. Secondo tale impostazione, l'equilibrio negoziale poggia sulla corrispettività e quindi sul rapporto di tendenziale equivalenza tra le attribuzioni.

Pure seguendo le più convincenti teorie che fondano la qualificazione della fattispecie sulla natura distributiva e non attributiva, rifiutandone la classificazione in termini di onerosità/gratuità [nota 12], nulla muta a proposito dell'equivalenza tra le assegnazioni a parità di quota di diritto, che è naturalmente connaturata al congegno distributivo.

Quanto giochi in questa equivalenza il giudizio di stima delle stesse parti è tutt'altro che chiaro.

Bisogna allora rintracciare i criteri che regolano la tenuta dell'equilibrio, ovvero vedere in che misura possa attribuirsi prevalenza alla valutazione condivisa dalle parti (valore soggettivo), piuttosto che a quella di mercato (valore oggettivo).

Se valesse il solo giudizio sul valore derivante dal comune intento dei condividenti circa la corrispondenza tra quote e porzioni, il congegno contrattuale risulterebbe sempre inattaccabile.

Invece, come già accennato, proprio la presenza del rimedio rescissorio costituisce l'indice della limitata valenza riconosciuta dal legislatore al giudizio delle parti (la cui eventuale accettazione della stima avvenuta precedentemente allo scioglimento della comunione normalmente non preclude l'esperimento dell'azione di rescissione) [nota 13], senza che acquisisca uno specifico ruolo l'errore e, per contro, assumendo rilievo il semplice scostamento nella misura di legge, che si ritiene possa essere anche il frutto di mera debolezza di un contraente [nota 14].

Per meglio percepire l'incidenza dell' operazione di "valutazione", è utile evidenziare che il procedimento disciplinato dal codice per giungere all'apporzionamento giudiziario si sviluppa in un percorso che parte dalla individuazione dei beni da dividere e la stima di essi secondo il loro valore venale (tutte le volte che non si tratti di beni fungibili), per poi passare alla resa dei conti ed alla formazione delle porzioni, onde giungere, infine, all'assegnazione mediante estrazione a sorte (in presenza di porzioni uguali o di beni costituenti frazioni uguali di quote disuguali) o mediante attribuzione (per le porzioni disuguali).

Ebbene, tale procedimento, all'esito del quale nella divisione giudiziale si giunge allo scioglimento della comunione, non è ritenuto obbligatorio per la divisione contrattuale od amichevole, pur ammettendosene la normale applicazione dovuta all'essere lo schema più logico per la razionale distribuzione dei beni [nota 15].

Ne deriva che i condividenti sono liberi di ripartire i beni comuni nel modo da essi ritenuto opportuno e quindi anche a prescindere dalla preventiva stima secondo il valore venale.

Quindi, la valutazione dei beni non è elemento indispensabile per giungere allo scioglimento della comunione, essendo sufficiente l'accordo sulla formazione ed assegnazione delle porzioni; però, come insegna la giurisprudenza, «la stima dei beni, che costituisce elemento preparatorio necessario della divisione contrattuale, può anche essere sottintesa quando vi sia una determinazione concreta delle porzioni, essendo questa inattuabile senza un preventivo accordo sul valore dei beni» [nota 16].

D'altra parte, la disciplina del vizio genetico - che trova tutela rimediale nell'azione di rescissione - è stata conservata per il contratto di divisione in modo del tutto scollegato dallo stato di bisogno [nota 17] (stato di bisogno che invece è stato introdotto dal codice nella regolamentazione della rescissione del contratto in genere) con la conseguenza che vale il solo dato oggettivo dello scostamento di valori, senza che incidano i fattori soggettivi che rilevano in generale per il contratto a prestazione corrispettive (ex art. 1448 c.c.) e questo, per altro, può essere considerato anche un momento di emersione della diversa natura della divisione rispetto al negozio sinallagmatico.

Da tutto ciò risulta che il giudizio sul valore, benché condiviso, non è di regola sufficiente a sorreggere la stabilità dell'accordo se si discosti di oltre il quarto anche per una sola porzione [nota 18].

Argomentando dall'art. 1448 c.c., si ritiene, poi, che la lesione debba perdurare al tempo della domanda giudiziale.

Quanto alla comparazione tra valori per verificare il superamento del quarto, essa deve avvenire tra porzione e porzione e non riguardo al singolo bene che componga la porzione.

Infine, l'art. 726 c.c. è la disposizione che accredita come criterio di stima quello del valore venale, per cui «i beni oggetto di divisione devono essere stimati in base al loro valore di mercato. L'uso di criteri diversi e concorrenti, non risponde alla previsione legislativa e quindi altera la corretta determinazione del valore dei beni oggetto di divisione. In particolare il richiamo alla valutazione desunta dalla rendita catastale introduce un criterio valido soltanto ai fini fiscali, così come il criterio della capitalizzazione della rendita derivante da un possibile fitto, pur essendo inerente al dato della possibile utilizzazione degli immobili, si rivela comunque estraneo al valore venale di essi» [nota 19].

La materia delle "valutazioni" chiama a ricordare che non tutte le sperequazioni sono ascrivibili ad errore: dal momento che la rescissione per lesione oltre il quarto è diretta a proteggere l'interesse del condividente, è pacifico che l'azione non sia esperibile allorché il divario sia voluto e, in particolare, sia frutto della volontà di realizzare una donazione indiretta a favore del condividente apporzionato per eccesso [nota 20].

Per contro, si ritiene che tale rimedio possa essere fatto valere anche in caso di giudizio divisorio, allorché il procedimento si chiuda con ordinanza e si ricolleghi all'accordo tra gli interessati, cui è da attribuire valore sostanzialmente contrattuale [nota 21].

Il ruolo dei valori, come sopra tratteggiato per la divisione in natura, è mantenuto dal legislatore anche negli altri atti equiparati alla divisione con la sola eccezione della transazione.

A questo proposito, si richiama la già cennata distinzione tra divisione transattiva e transazione divisoria [nota 22], poiché solo quest'ultima è propriamente il congegno che prescinde dalla comparazione tra quota (pars quota) e porzione (pars quanta) e mira a fare a meno della "giusta" valutazione, per privilegiare la prevenzione o la soluzione della lite a prescindere dalla proporzionalità tra quota e porzione.

Conseguentemente, mentre la divisione transattiva è sicuramente rescindibile (art. 764, comma 1, c.c.) la transazione divisoria è ritenuta non rescindibile (art. 764, comma 2, c.c.) né annullabile per errore (art. 1969 c.c.) [nota 23].

Una volta acceduto alla distinzione giurisprudenziale tra i due tipi di negozio transattivo, può dirsi che solo la transazione divisoria consente di assicurare la stabilità dell' apporzionamento, evitando qualunque revisione della stima. Ed è a questa tipologia negoziale che bisognerebbe ricorrere tutte le volte che si voglia giungere ad uno scioglimento della comunione con immediato carattere di definitività (salvo tenere conto della relativa disciplina fiscale).

Ma anche con riferimento alla c.d. convalida della divisione rescindibile (che alcuni avversano) [nota 24], seguendo la tesi che la ritiene ammissibile [nota 25], potrebbe fondarsi sul relativo potere la possibilità di rafforzare il vincolo negoziale con apposita pattuizione transattiva (interdivisioria) che chiuda ogni questione sulla stima dei beni, integrando una rinunzia alla rescissione [nota 26].

Divisione parziale e rescissione

Di fronte ad una divisione parziale parrebbe inappropriato parlare di lesione e di rescindibilità, poiché il divario tra porzione e quota dovrebbe rilevarsi, appropriatamente, solo all'esito dello scioglimento dell'intera comunione.

Sennonché, la giurisprudenza sostiene che «l'art. 762 c.c. (stabilendo che l'omissione di uno o più beni dell'eredità non è causa di nullità della convenuta divisione ma determina esclusivamente la necessità di procedere ad un supplemento della divisione stessa) sancisce, implicitamente, la indiscutibile validità ed efficacia dell'atto parziale così compiuto, escludendo ogni possibilità di considerarlo come struttura negoziale non dotata di propria autonomia, tale, cioè, da rendere comunque necessario attendere lo scioglimento della comunione sui residui beni per potere proporre la eventuale azione di rescissione per lesione oltre il quarto, azione che sarà, pertanto, legittimamente esperibile anche in relazione alla sola divisione parziale» [nota 27].

Diverso è il caso dell' assegnazione in conto di futura divisione, ipotesi in cui l'assegnazione è in acconto e non consente verifiche intermedie, dovendosi intendere tutte rinviate al momento della divisione definitiva [nota 28].

Il tempo della valutazione

Nessuno dubita che l'epoca di riferimento della stima dei beni da dividere sia quella del giorno della divisione e non quello dell'apertura della successione (per la divisione ereditaria) o dell'instaurarsi della comunione (per la divisione relativa a comunione ordinaria) [nota 29].

Eppure, il discorso sui valori mette in campo un problema di non poco momento allorché vengano in rilievo le regole della collazione.

Infatti, la collazione (per imputazione) si fa avendo riguardo al valore al tempo dell'apertura della successione, come recita l'art. 747 c.c. e come ribadisce, per i mobili, l'art. 750 c.c.

Come si combinano questi due criteri, quando i due momenti del titolo (della comunione) e della divisione siano lontani al punto da rendere dissimili le valutazioni?

È evidente che, per beni simili, calcolare il valore venale con riferimento a date diverse può avere conseguenze aberranti.

Ad esempio, apertasi una successione ante-guerra e dovendosi far luogo a collazione di immobili, come possono armonizzarsi le valutazioni, ove la divisione si operi nell'epoca attuale? [nota 30]

È, questo, uno dei punti critici del profilo valutativo, che dottrina e giurisprudenza hanno conciliato in vario modo.

Secondo una teoria, la duplicità di criteri stabiliti dal legislatore, uno esplicito (per la collazione, ex art. 747 e 750 c.c.) e l'altro implicito (per la divisione, ricavabile dalla mancata introduzione di deroghe, come invece accade per la collazione), comporta proprio la necessità di seguire distinti metodi e riferimenti temporali, pur in presenza dei segnalati inconvenienti [nota 31]. Tale linea di pensiero valorizza la ripartizione del rischio, giustificando la valutazione alla data di apertura della successione con il rischio che fa carico al conferente (mentre per i beni relitti esso fa carico alla massa).

Secondo altra preferibile teoria, accolta dalla giurisprudenza, la collazione, come operazione divisionale che prelude ai prelevamenti, comporta che questi ultimi debbano farsi utilizzando lo stesso metro di misura.

Quindi: valutazione al tempo dell' apertura della successione anche per i beni oggetto di prelevamento [nota 32].

Profili tributari

Come già segnalato, i principi civilistici non sono automaticamente trasponibili nel diritto tributario, il quale espone regole proprie riguardo ai criteri di qualificazione delle fattispecie al vaglio, in vista dell' applicazione delle imposte indirette.

In particolare, a fronte della ridotta misura del prelievo stabilita per la divisione [nota 33], il diritto tributario vive con particolare disagio l'inquadramento del fenomeno divisorio, sia per quanto riguarda il novero dei beni divisi, sia per quel che attiene al rapporto di valore tra quota e porzione.

Riguardo al novero dei beni oggetto della divisione, mentre nelle comunioni non ereditarie la massa è composta dai beni risultanti da precedente atto che abbia scontato l'imposta propria dei trasferimenti [nota 34], in quella ereditaria essa è identificata «dal valore, alla data della divisione, dell'asse ereditario netto determinato a norma dell'imposta di successione»; pertanto nella divisione ereditaria non abbraccia (non può abbracciare, fiscalmente) i beni oggetto di collazione [nota 35], i quali, in quanto donati direttamente o indirettamente, non sono incisi dall'imposta di successione.

Per contro, ciò che non rileva per le successioni, non rileva neanche per le divisioni e, in particolare, l'avviamento aziendale non risulta computabile nella valutazione della massa dividenda per la ragione che esso è escluso dall'imposizione successoria, ex art. 8 comma 1-bis D.lgs. 346/90 [nota 36].

Quanto al rapporto tra quota e porzione, i fenomeni della divisione con conguagli sono visti fiscalmente con sfavore, reputandosi che possano nascondere intenti elusivi e stabilendosi, pertanto, la limitata tolleranza del 5%, con l'aggravante che si considerano conguagli anche le differenze di valore che emergano dalla rettifica operata dall'Ufficio ai sensi dell'art. 52 T.U. Registro (D.P.R 131/86, d'ora in poi: T.U.R.).

Conseguenza dell' impostazione data ai conguagli è anche il fenomeno delle c.d. masse plurime, reputandosi permutativa l'attribuzione che non segua rigorosamente il criterio «una divisione per ciascuna massa» e che, invece, attribuisca a ciascun condividente più beni di una massa e meno di altra [nota 37], con l'unico temperamento accordato (in termini di unificazione) per le masse originate da più titoli ove l'ultimo acquisto di quote derivi da successione a causa di morte (art. 34 T.U.R.).

Riguardo alle masse plurime, è da segnalare che l'impostazione della questione parrebbe matura per una profonda revisione, poiché quella attuale non consente di valorizzare la funzione dei conguagli tutte le volte che essi siano reciproci e vengano estinti per compensazione, fenomeno che socialmente non è agevole ricondurre a doppio trasferimento se non privilegiando aprioristicamente la massimizzazione dell'imposizione.

A proposito di masse plurime, non sembra sia stata adeguatamente valorizzata, nella dottrina e nella prassi, la riunificazione della masse per volontà dei comunisti, la quale evenienza trova fondamento testuale, ove si volesse dubitare della sua plausibilità, anche nell'art. 1350 n. 3 c.c. [nota 38] e può attuarsi pure in occasione della divisione contrattuale, precedendo logicamente e cronologicamente lo scioglimento.

Con tale riunificazione non vi sarebbe più spazio per una imposizione che consideri permutative le varie assegnazioni, in quanto il titolo della comunione - questa volta inequivocabilmente unico - diverrebbe proprio l'atto di riunificazione.

E se si volesse analizzare la portata di tale atto dal punto di vista dell'imposizione indiretta tutte le volte che le quote dei singoli comunisti non vengano ad essere modificate, non sembra che esso sia suscettibile di essere inciso con l'imposta proporzionale, poiché non ricorrerebbe né l'atto di "trasferimento", né quello "dichiarativo" e nemmeno l'atto avente per oggetto "prestazioni" a contenuto patrimoniale.

Un cenno va fatto alla transazione divisoria.

Tale strumento contrattuale consente, come si è detto, di sciogliere la comunione senza il retaggio della proporzionalità alle quote.

Però, qualora tale proporzionalità risulti in fatto violata, l'imposta indiretta dovuta sulle "eccedenze" ritornerebbe ad essere quella propria del "conguaglio" e cioè verrebbe calcolata come se la parte eccedente il 5% della quota di diritto fosse una vendita.

Valori dei beni e dei diritti: potere di rettifica e prezzo valore

Per quanto attiene al potere di rettifica dei valori dichiarati dalle parti, le modifiche apportate dal D.l. 223/06 all'art. 52 T.U.R. hanno comportato - per le cessioni di immobili - la soppressione del limite al potere di rettifica del valore dei beni dichiarato in misura non inferiore a quello c.d. "tabellare" [nota 39].

Il venir meno del limite al potere di rettifica significa, più chiaramente, che esso potere di rettifica è stato ripristinato in maniera generalizzata per le cessioni e non incontra più l'ostacolo del valore non inferiore a quello "tabellare" (facendo eccezione solo il caso di cessione previsto dall'art. 1 comma 497 L. 266/2005 e cioè il caso in cui sia applicabile il sistema "prezzo-valore").

Ma, riguardo alle divisioni, la loro estraneità al concetto di cessione lascia invariato il sistema precedente e quindi per esse vale ancora il limite al potere di rettifica allorché il valore degli immobili dichiarato dalle parti sia pari o superiore a quello "tabellare" [nota 40].

Non contraddice tale affermazione la risoluzione n. 136/E del 14 giugno 2007 dell' Agenzia delle entrate - Dir. normativa e contenzioso, poiché in essa è stato esaminato il diverso problema dell'applicabilità del sistema "prezzo-valore" alle divisioni senza conguagli, asserendosi che per tali fattispecie non valga il criterio tabellare, da intendersi in questo caso come applicazione dell'aliquota alla base imponibile costituita dal valore "tabellare", a prescindere dal valore dichiarato nell'atto. In altre parole, benché sia stato utilizzato in modo inappropriato lo stesso termine, con quella risoluzione non volle asserirsi un inaccettabile venir meno del limite al potere di rettifica, ma solo escludere la possibilità di liquidare l'imposta sulla divisione su una base imponibile diversa dal valore dichiarato dalle parti.

Infatti, una cosa è stabilire se per le divisioni viga ancora il limite al potere di accertamento sopra illustrato (dovendosi rispondere che il limite vige ancora), altro è verificare se per esse sia possibile calcolare l'imposta dovuta sul valore catastale o tabellare indipendentemente dal valore dichiarato in atto dalle parti (dovendosi rispondere negativamente, dal momento che il sistema prezzo-valore si può applicare solo alle "cessioni", mentre la divisione può qualificarsi fiscalmente "cessione" solamente quando vi siano conguagli e limitatamente ad essi per la parte cui sia applicabile l'imposta di trasferimento).

Conguagli

Le differenze di valore tra porzioni e porzioni a fronte di quote di diritto uguali determinano i c.d. conguagli.

Di conguagli si può correttamente parlare allorché il denaro occorrente per le sistemazioni delle ineguaglianze sia denaro estraneo alla comunione [nota 41]. Diversamente, si tratterebbe di attribuzione di denaro "comune".

Nel diritto tributario, la regola che lega la massa da dividere all'asse ereditario comporta che la mancata indicazione nella dichiarazione di successione di denaro non dovrebbe consentire di farlo emergere in sede di divisione. Vero è, però, che una cosa è la mancata indicazione nella dichiarazione di successione, altra la presunzione che il denaro sia extra-ereditario, potendosi agevolmente eccepire che vada eventualmente sanzionata la mancata dichiarazione di poste attive (poi emerse in sede divisionale) non che si tratti di fattispecie traslativa (per il contratto di divisione che distribuisca denaro attribuendolo in misura maggiore a chi riceva quantità minori di altri beni).

Ovviamente, tale impostazione è condizionata, nella pratica applicazione, dalla tecnica redazionale, non potendosene fare utilizzo tutte le volte che l'atto qualifichi proprio come conguagli le somme di denaro utilizzate per equilibrare le porzioni.

La misura dei conguagli che comporta l'applicazione delle imposte dovute per i trasferimenti è quella che eccede il cinque per cento. Conseguenza di tale tolleranza è, secondo la dottrina più attenta, che l'imposta di trasferimento sia dovuta solo per la parte eccedente il cinque per cento [nota 42].

I conguagli possono emergere anche in sede di rettifica dei valori.

In proposito, si ritiene che la revisione della stima da parte del Fisco non obblighi quest'ultimo a rivedere tutti i valori, ben potendosi limitare solo ad alcuni ed anche se da tale parziale revisione emerga la disparità che comporti il conguaglio presunto.

Collazione e divisione ereditaria nel diritto tributario

Volendo dar conto dell'incidenza della collazione sull'economia del negozio divisorio, nel diritto tributario, con riguardo al fenomeno più ricorrente della collazione per imputazione [nota 43], deve dirsi che l'obbligo di conferire viene in rilievo nel procedimento divisorio determinando effetti nella fase preparatoria della fattispecie negoziale e, più precisamente, ai sensi degli artt. 723 e ss. c.c., dopo la resa dei conti e dopo la formazione dello stato attivo e passivo dell'eredità, in vista dei prelevamenti (art. 725 c.c.) che preludono alla formazione delle porzioni ereditarie in proporzione alle quote (art. 726 c.c.).

Inquadrata in tal modo, la collazione per imputazione gioca un ruolo principalmente sulla determinazione dei diritti degli altri condividenti, incrementandone le aspettative economiche.

Ma, pur nella chiarezza di tale sistema, i riflessi tributari risultano tutt'altro che chiari, a causa di risalente posizione del Fisco del tutto sfavorevole a ricondurre al criterio civilistico la sistemazione tributaria del fenomeno [nota 44].

Pur nella consapevolezza della problematicità della questione, appare possibile giungere in modo appropriato ad equa soluzione osservando come le regole della divisione giudiziale siano applicabili alla divisione amichevole, ma conservano natura dispositiva, per cui la fase del prelevamento non è necessaria e ben può essere assorbita nella mera fase di accertamento dell'obbligo di conferire, cui consegua la fase altrettanto di accertamento, e quindi dichiarativa, della reale entità delle quote spettanti ai condividenti sui beni "costituenti l'asse ereditario", inteso come relictum, avente la "dimensione" determinata a norma dell'imposta di successione.

In questo senso, si riuscirebbero a coniugare fiscalmente la regola della determinazione dell'asse e quella della proporzionalità alle quote, scollegando queste ultime dalla mera misura numerica stabilita dal titolo (legge o testamento) per il concorso tra coeredi.

D'altra parte, l'art. 726, nel riferirsi alla formazione delle porzioni in proporzione alle quote, non deve necessariamente considerarsi come se avesse l'univoco significato di richiamo alle quote spettanti nell'eredità.

Letto come riferimento alle quote che, all'esito delle operazioni preliminari, risultino spettanti a ciascuno sui beni da dividere, il citato criterio mette capo ad una diversa determinazione delle "proporzioni" in cui ciascun coerede concorra alla distribuzione del relictum [nota 45].

Considerazioni finali

Illustrati gli aspetti rilevanti dell' elemento "valore", non resta che trarre alcune brevi conclusioni.

In primo luogo, può dirsi che non trova controindicazioni l'indicazione di valori solamente in funzione delle esigenze tributarie, poiché la "dichiarazione fatta a fini fiscali" mira a soddisfare le regole di applicazione dell'imposta, mentre la mancata esposizione del valore venale non nuoce - come sopra detto - alla tenuta dello strumento contrattuale.

In secondo luogo, è d'uopo segnalare come possa costituire una criticità del congegno contrattuale il tacere del procedimento preparatorio.

Una divisione che taccia sulla collazione (per imputazione) può rendere difficile ricostruire l'iter logico posto a base dell'apporzionamento e, in rapporto al problema del computo dei beni conferiti (valore riferito al tempo dell'apertura della successione o al tempo della divisione), qualora non espliciti il criterio di valutazione utilizzato, può rendere più debole il congegno contrattuale di fronte ad una eventuale azione di rescissione.

In terzo luogo, la dichiarazione del valore delle porzioni fatta «ai soli fini fiscali» ed in modo che esse risultino corrispondenti alle quote di diritto deve rispecchiare la reale assenza di conguagli. Diversamente, verrebbe in rilievo la regola che vieta l'occultazione del "corrispettivo" (art. 72 T.U.R.) (mentre appare dubbia l'applicabilità delle regole portate dall'art. 35 comma 22 D.l. 223/2006 alla divisione con conguagli) [nota 46].


[nota 1] L'imposta sul conguaglio eccedente il 5% può risultare anche inferiore a quella ordinariamente dovuta per la divisione, dal momento che pure al conguaglio sono applicabili agevolazioni fiscali, tra cui quelle comportanti esenzioni o imposizioni in misura fissa (ad es. trasferimenti di terreni in zona montana, compendio unico, terreni in zona soggetta a piano di recupero ecc.).

[nota 2] Nell'ambito del diritto privato, il diritto commerciale espone, all'art. 2283 c.c., il richiamo delle disposizioni sulla divisione della cosa comune riguardo alla ripartizione dei beni in natura.

[nota 3] Cfr. FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2000, p. 26.

[nota 4] MIRABELLI, Intorno al negozio divisorio, cit., da FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2000, p. 26; dubitativamente FEDELE, La comunione, Torino, 1986, p. 445; inquadrano tale negozio negli atti equiparati DE CESARE-GAETA, Le ipotesi divisionali, in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, Padova, 1994, p. 32; FRAGALI, La comunione, tomo 3, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu-Messineo-Mengoni, Milano 1983, p. 553.

[nota 5] FRAGALI, La comunione, cit., p. 553.

[nota 6] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 742.

[nota 7] http://it.wikisource.org/wiki/Codice_di_Napoleone _il_grande

[nota 8] Cass. 6 agosto 1997, n. 7219, in Giust. civ. Mass., 1997, p. 133; in Giur. it., 1998, p. 900 in Vita not., 1998, p. 201; Cass. 2 febbraio 1994, n. 1029, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 103; in Giust. civ., 1994, I, p. 2263, con nota di CONTINO e in Riv. not., 1994, p. 101; Cass. 3 settembre 1997, n. 8448; Trib. Napoli 18 febbraio 2002, in Giur. nap., 2002, p. 436 («La transazione divisoria, che per espressa previsione dell'art. 764 comma 2 c.c., non è rescindibile in caso di lesione oltre il quarto, si differenzia dalla divisione transattiva, in quanto, oltre a porre in essere una divisione (parziale o totale) dell'asse, ed a prevenire o a porre termine ad una lite tra i condividenti, perviene alla formazione delle quote senza il ricorso a criteri aritmetici, ma in maniera bonaria e senza corrispondenza tra entità delle porzioni e misura delle quote spettanti ai comunisti»).

[nota 9] Favorevoli, FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 19; CICU, Successioni, Milano, 1947, p. 415; GAZZARA, voce Divisione, dir. priv., in Enc. dir., Milano, 1964, p. 422; CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2002, p. 693; DE CESARE-GAETA, Le ipotesi divisionali, cit., p. 29.

Contrari, MESSINEO, Manuale, vol. VI, n. 204, Milano, 1962; OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 294; FRAGALI, La comunione, cit., p. 506.

[nota 10] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 18-19; BURDESE, Divisione ereditaria, Torino, 1980, p. 121; CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 696; DE CESARE-GAETA, Le ipotesi divisionali, cit., p. 29. Contra, FRAGALI, La comunione, cit., p. 506.

[nota 11] CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 696.

[nota 12] Trib. Messina 11 ottobre 2004, in Giurisprudenza locale - Messina, 2004; App. Milano 3 febbraio 1999, in Foro it., 2000, I, c. 2980; Trib. Roma 22 marzo 1994 in Notariato, 1995, p. 53.

[nota 13] Cass. 6 marzo 1959, n. 645, in Foro it. Mass., 1959.

[nota 14] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p.732.

[nota 15] CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 698; FRAGALI, La comunione, cit., p. 507.

[nota 16] Cass. sez. II, 9 febbraio 1980, n. 905.

[nota 17] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 730.

[nota 18] Altra questione è quella della possibilità data alle parti di adottare di comune accordo un criterio diverso dal valore venale: cfr. CICU, Successioni per causa di morte, Milano, 1961, p. 421. Sembrerebbe adottabili, quindi, correttivi per dare spazio a fattori non ancora entrati in gioco nelle valutazioni di mercato ma che, a giudizio dei condividenti, giustifichino un diverso apprezzamento (ad esempio, imminenza di crisi economiche non ancora conclamate) od a fattori soggettivi (ad es. interesse di un singolo ad acquisire un bene perché strategico per l'amenità di altro già dallo stesso posseduto).

[nota 19] Cass., sez. II, 31 ottobre 2006, n. 23496.

[nota 20] In presenza di donazione indiretta realizzata mediante il negozio di divisione l'azione di riduzione comporterebbe una impugnativa parziale del contratto, colpendo quella parte che determini un oggettivo arricchimento: CATAUDELLA, La donazione mista, Milano, 1970, p. 152; MENGONI, Successione necessaria, Milano, 2000, p. 253 e nota 83.

Ben più complesso è stabilire se tale azione porti all'acquisizione di diritti reali sui beni o di semplice diritto di credito, problema che da un lato vede in campo la questione della natura unitaria o duplice del negozio misto con donazione e dall'altro quella dell'incidenza della riduzione sull'atto divisionale.

Riguardo al primo punto, la dottrina prevalente ritiene che il negozio sia unitario e ciò in linea con la migliore ricostruzione del fenomeno della donazione indiretta, che si fonda sul collegamento negoziale (cfr. TORRENTE, La donazione, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu-Messineo-Mengoni, seconda edizione a cura di Carnevali e Mora, Milano, 2006, p. 51).

Riguardo al secondo punto, ma in stretta connessione al primo, posto che l'esperimento vittorioso dell'azione di riduzione produce l'effetto dell'inopponibilità, nel caso del negozio divisorio dovrebbe determinare - nei confronti dell'attore - il ripristino della comunione, incidendo anche sull'apporzionamento proporzionale alla quota. Ma si tratterebbe di effetto inappropriato all'azione di riduzione, per cui appare preferibile considerare l'operatività di detta azione come diretto a "recuperare" il conguaglio non corrisposto da chi sia stato apporzionato per eccesso, costituendo il titolo per un diritto di credito. Sull'azione di riduzione relativamente al negotium mixtum cum donatione, v. DELLE MONACHE, Successione necessaria e sistema di tutele del legittimario, Milano, 2008, p. 115. Secondo CATAUDELLA, La donazione, Milano, 2005, p. 60 nota 238, l'attitudine dell'accordo sulla liberalità a modificare la funzione del contratto (che secondo l'autore sarebbe caratteristico del negotium mixtum) «non si esplica nei contratti c.d. neutri, vale a dire non caratterizzati né dall'onerosità, né dalla gratuità».

[nota 21] BURDESE, Divisione ereditaria, cit., p. 234-235.

[nota 22] Su cui cfr. la relazione di G. TRIMARCHI, «Divisione transattiva e transazione divisoria», in questo volume.

[nota 23] V. giurisprudenza citata alla nota 6.

[nota 24] CASULLI, CASULLI, voce Divisione ereditaria, dir. civ., in Novissimo Dig. it., Torino, 1964, p. 55.

[nota 25] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 739-740; BURDESE, Divisione ereditaria, cit., p. 246; CICU, Successioni, cit., p. 501; GAZZARA, voce Divisione, cit. p. 427 nota 47.

[nota 26] MORA, Contratto di divisione, Milano, 1995, p. 384; FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 753.

[nota 27] Cass. 3 settembre 1997, n. 8448, in Vita not. 1998, p. 200 e in Giur. it. 1998, p. 1108.

[nota 28] CANNIZZARO, Quesito n. 123-2006/T, Trattamento fiscale della divisione operata con più atti successivi. Atto di assegnazione in conto di futura divisione. Atto di divisione definitivo, in Bdn.

[nota 29] Cfr. FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 202 ed ivi in nota 2 ampi riferimenti di giurisprudenza e dottrina.

[nota 30] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 643.

[nota 31] FORCHIELLI-ANGELONI, Divisione, cit., p. 652; CASULLI, Divisione ereditaria, cit., p. 49-50 e ss.

[nota 32] BURDESE, Divisione ereditaria, cit., p. 172; GIANNAT-TASIO, Delle successioni, III, Torino, 1964, p. 54 e 141; Cass. 28 giugno 1976, n. 2453 e Cass. 9 marzo 1979, n. 1481; Trib. Roma 19 maggio 2003, in Giur. merito, 2003, p. 2175; Cass. 18 marzo 2000, n. 3235, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 596; Cass. 31 marzo 1990, n. 2630.

[nota 33] Nel diritto tributario è pacifica la qualificazione della divisione come "atto di natura dichiarativa", cui è applicabile l'art. 3 della Tariffa, parte prima, del T.U.R. (D.P.R. 131/86): Cass. 7 maggio 2007, n. 13009 (dep. il 4 giugno 2007); Cass. 26 ottobre 1981, n. 5578; Cass. del 15 dicembre 1980, n. 6493; Comm. Trib. Centr. del 7 ottobre 1988, n. 7498 (dep. l'8 novembre 1988); URICCHIO, La divisione, in La nuova disciplina dell'imposta di registro a cura di D'Amati, Torino, 1989, p. 483; IANNIELLO-MONTESANO, Imposta di registro, Milano, 2003, p. 480; ARNAO, Manuale dell'imposta di registro, Milano, 1999, p. 166.

[nota 34] Incidentalmente si ricorda che, secondo il Fisco, la mancata indicazione del titolo di provenienza della massa comune legittima a pretendere l'imposta di trasferimento: risoluzione 251399 del 14 gennaio 1979 Ministero delle Finanze.

[nota 35] Di parere diverso, FORMICA, voce Divisione nel diritto tributario, in Dig., disc. priv., sez. comm., Torino, 1990, p. 101 .

[nota 36] FORMICA, In tema di divisione ereditaria, Quesito n. 282-2007/T, in Bdn.

[nota 37] Sulle masse plurime v. la recente Cass. 7 maggio 2007, n. 13009 (dep. il 4 giugno 2007); Commissione studi tributari Studio n. 20-bis/1989 - Risposta al quesito del 6 settembre 1989, in Bdn: «Si può parlare di masse plurime, che eventualmente potrebbero essere considerate come unica massa ai fini fiscali, solo ove vi siano più masse o comunioni di beni diversi tra loro (non si deve pensare cioè a diverse provenienze di quote degli stessi beni)»; risoluzione n. 334/E del 16 novembre 2007; FORMICA, Studio 89/2003/T, Divisione- Masse plurime, in Bdn; BUSONI, «Il problema delle masse plurime», in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, p. 17 e ss.; CIGNARELLA, Divisione. Applicabilità del principio delle masse plurime, Studio 151/2006/T in Bdn; FORMICA, Quesito n. 1-2008/T, In tema di masse plurime, in Bdn; MAGURNO-LANZILLOTTI, Il notaio e le imposte indirette, Roma, 1998, p. 428; SCARANO, Delle masse plurime, in La nuova disciplina dell'imposta di registro a cura di D'Amati, Torino, 1989, p. 229; CINTI, «La divisione a masse plurime secondo il nuovo T.U. dell'imposta di registro», in Boll. trib., 1988, p. 617; BARALIS e PODETTI, «La nuova disciplina tributaria della divisione delle masse plurime nel testo unico dell'imposta di registro», in Riv. not., 1988, p. 611; FEDELE, «Sulla nozione di massa ai fini dell'applicazione dell'imposta del registro nelle comunioni ereditarie», in Riv. not., 1991, p. 1182; circolare Ministero delle Finanze 12 giugno 1986 n. 37/220391; Commissione tributaria centrale n. 5888 del 18/9/1990, in Foro it. Rep., 1990, voce registro, n. 105; SCORDINO, «Sull'imposizione della divisione di comunioni plurime», in Il fisco, 1991; ARMATI, La disciplina tributaria della divisione, in Successioni e Donazioni a cura di Rescigno, vol. II, Padova, 1994, p. 396; Comm. trib. Centr. del 16 novembre 1991, n. 7118, in Foro it. Rep., voce registro, 1992, n. 95; Comm. Trib. Centr. del 5 mag-gio 1989, n. 3077, in Rassegna tributaria, 1989, 2, p. 1074; Comm. Trib. Centr. del 12 ottobre 1988, n. 6691, in Rassegna tributaria, 1989, 2, p. 188; CAPURRO, «La divisione in presenza di comunioni plurime», in Il fisco, 1991, p. 6334; ANDRINI, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale, Relazione tenuta alla Giornata di studio organizzata dall'Associazione sindacale dei Notai delle Tre Venezie a Mestre il 1° aprile 2006 dal titolo "Novità legislative di interesse notarile: atto di destinazione e trust- Patti di famiglia"; CINTI, «L'imposta di registro nella divisione di masse plurime», in Riv. dir. fin. e sc. fin., 1979, 2, p. 4.

Per gli aspetti civilistici e le regole di negoziazione dei terreni, TRAPANI, La divisione ordinaria o comune e la divisione ereditaria: regola ed eccezione nella circolazione dei terreni, Studio n. 5453/C, in Bdn.

[nota 38] Cass. 15 maggio 1992, n. 5798, in Giust. civ. Mass., 1992, p. 5 e Cass. 21 maggio 1979, n. 2937, in Riv. not., 1979, p. 1494.

[nota 39] Ovviamente, per applicarsi il limite del valore tabellare devono ricorrere i presupposti di legge e cioè che si tratti di immobile censito in catasto con attribuzione di rendita o con rendita attribuibile ex D.l. 70/88 art. 12 e che esso non sia un terreno a destinazione edificatoria (né un immobile non censito o non censibile, perché incompleto).

Il valore "tabellare" in questione è quello che si determina applicando alla rendita catastale dell'immobile (rivalutata ex art. 3, commi 48 e 51, della L. 23 dicembre 1996, n. 662 ) i moltiplicatori, anch'essi da ultimo incrementati dall'art. 2, comma 63, della L. 24 dicembre 2003, n. 350 per i soli immobili diversi dalla prima casa e relative pertinenze - dall'art. 1-bis , commi 7 e 8, del D.l. 12 luglio 2004, n. 168 , convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2004, n. 191.

[nota 40] Ovviamente, in tutti i casi in cui tale valore "tabellare" sia computabile e quindi allorché non si tratti di beni privi di reddito o rendita, né di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria. Cfr. anche PISCHETOLA, I limiti ai poteri di rettifica dell'amministra-zione finanziaria e valutazione catastale "automatica" dopo il "decreto Bersani" n. 223/2006, Studio n. 117/2006/T, in Bdn.

[nota 41] Circa l'incidenza della regola "nomina et debita ipso iure dividuntur", si rinvia alla relazione di BULLO «L'oggetto della divisione ereditaria: questioni in tema di crediti e partecipazioni sociali», in questo volume.

[nota 42] FORMICA, Tassazione dei conguagli nelle divisioni, Studio n. 73/2005/T, in Bdn.

[nota 43] Cass. 28 giugno 1976, n. 2453 (fonte Ced Cassazione).

[nota 44] Risoluzione 12 maggio 1987, n. 250249, Dir. TT.AA. - Imposta di registro - Divisione di masse ereditarie convenute tra coeredi destinatari di precedenti donazioni effettuate in vita dal de cuius - Determinazione della massa comune - Istituto della collazione - Rileva ai soli fini dell'aliquota applicabile all'asse ereditario globale netto - Art. 32, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 - Art. 7, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637 - Art. 34, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.

Con la nota in riferimento, diretta per conoscenza a questa Direzione generale, codesto Ispettorato ha risolto un quesito formulato dall'Ispettore in verifica presso l'Ufficio del registro di C., in merito al criterio impositivo da adottare nell'applicazione dell'imposta di registro sulle divisioni di masse ereditarie, convenute tra coeredi destinatari di precedenti donazioni effettuate in vita dal de cuius. Codesto Organo ispettivo ha manifestato in particolare il convincimento che, nel caso di divisioni relative a successioni legittime di discendenti in linea retta, ai fini della determinazione della massa comune da dividere, occorresse tener conto, in base all'istituto della collazione, di tutte le donazioni effettuate dall'ascendente a favore dei figli. Le predette conclusioni troverebbero il proprio supporto, secondo codesto Ispettorato, in una corretta interpretazione dell'art. 32 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (trasfuso, secondo codesto Ispettivo Ufficio, nell'art. 34 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) il cui testo fa riferimento, secondo la modifica apportata dall'art. 3 della legge 23 dicembre 1977, n. 953, al valore «dei beni esistenti alla data di apertura della successione». Tale inciso dovrebbe infatti essere interpretato a parere di codesto Ispettorato - «alla luce della disciplina civilistica in materia di divisioni ereditarie con donazioni soggette a collazione». Nell'esempio riportato nella nota si configura l'ipotesi di un atto di divisione stipulato da due successori in linea retta i quali, dopo aver premesso di essere entrambi a conoscenza di precedenti donazioni effettuate in vita dall'ascendente a favore del figlio maggiore per un valore di L. 10.000.000, procedono di comune accordo alla divisione dei beni relitti compresi nell'asse ereditario del valore complessivo di L. 20.000.000, mediante formazione di due quote del valore rispettivamente di L. 5.000.000 e L. 15.000.000. In tale evenienza, al fine di ricostruire la massa dividenda sulla quale vanno calcolate le quote di diritto, occorrerebbe sommare, ad avviso di codesto Ispettorato, il valore dell'asse ereditario con quello delle donazioni precedenti (nell'esempio L. 20.000.000 + L. 10.000.000 = L. 30.000.000). Il valore delle quote di diritto risulterebbe così di L. 15.000.000 ciascuna e corrisponderebbe a quello delle quote di fatto (il condividente A avrebbe ricevuto L. 10.000.000 con donazione e L. 5.000.000 per successione, mentre il condividente B avrebbe ugualmente ricevuto L. 15.000.000 solo per successione). Nella predetta ipotesi, non si legittimerebbe in alcun modo, secondo codesto Ispettorato, l'applicazione dell'imposta proporzionale di trasferimento, riscontrandosi piena corrispondenza fra quote di fatto e quote di diritto. Esaminata la questione, la scrivente non ritiene di poter condividere la prospettata soluzione ed esprime l'opinione che la citata normativa debba essere diversamente interpretata. Al riguardo, occorre preliminarmente rilevare che la soggetta materia rimane regolata, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, dall'art. 34 di detto decreto, il quale ha modificato, per la parte che interessa, la formulazione letterale del corrispondente art. 32 del previgente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, così come modificato dall'art. 3 della legge 23 dicembre 1977, n. 953. Ed invero, il predetto art. 34 prescrive espressamente che la massa comune deve essere costituita nelle comunioni ereditarie «dal valore dell'asse ereditario netto determinato a norma dell'imposta di successione». Il criterio impositivo viene pertanto stabilito attraverso una norma di rinvio, richiamando cioè una nozione derivante dalla normativa che regola l'imposta di successione. è a quest'ultima che occorre pertanto fare riferimento per ricavare il vero significato dell'espressione usata dal legislatore. Ebbene, in base al sistema normativo di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, l'imposta di successione è applicabile solo in quanto l'asse ereditario relitto abbia un valore economico positivo e sia idoneo a determinare un effettivo incremento patrimoniale a favore dei successori. La base imponibile del tributo si identifica perciò col valore netto dell'asse ereditario e delle singole quote e quindi col valore complessivo dei beni e diritti costituenti l'attivo ereditario, diminuito delle passività (art. 7, primo comma). Il valore delle donazioni soggette a collazione viene invece aggiunto al valore dell'asse ereditario globale netto nonché a quello delle singole quote, secondo la formula usata dal legislatore all'art. 7, quarto comma, ai soli fini della determinazione della aliquota, fermo restando che le aliquote così determinate si applicano al solo valore dei beni caduti in successione. In altri termini l'istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell'asse ereditario e nel calcolo delle quote su cui verranno applicate le aliquote d'imposta. Gli stessi principi debbono essere applicati, in base al rinvio operato dall'art. 34, anche per la individuazione della massa comune ereditaria sulla quale verranno calcolate le quote di diritto, mentre ogni diversa interpretazione, dato il chiaro tenore letterale della norma, si rivelerebbe contra legem. Va peraltro rilevato che la diversa formulazione testuale assunta dall'art. 34 citato, rispetto a quella del previgente art. 32 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, induce a ritenere che il legislatore abbia inteso affermare più esplicitamente un principio che era in realtà già contenuto nell'espressione letterale usata nella precedente disposizione. Infatti, la formula che identificava il valore della massa comune con quello dei «beni esistenti alla data di apertura della successione» indicava, con sufficiente chiarezza, che il criterio impositivo prescritto fosse imperniato esclusivamente, anche sotto l'abrogata normativa, sul dato rilevato ai beni relitti dal de cuius, senza tener conto dell'istituto della collazione. Tale convincimento è determinato da un duplice ordine di considerazioni. Sotto un primo profilo si osserva che la dizione «beni esistenti alla data di apertura della successione» faceva riferimento evidentemente al patrimonio del de cuius ed escludeva a fortiori l'istituto della collazione, dato che quest'ultima opera anche nei confronti dei beni alienati a terzi prima dell'apertura della successione, naturalmente nella forma dell'imputazione (art. 746, secondo comma, del codice civile).

In secondo luogo la possibilità di ricorrere alla collazione sembrava già in base al ricordato art. 32 - negata in radice anche per un concorrente rilievo: in una delle due forme della collazione, quella cioè per imputazione, il bene rimane sempre in proprietà del coerede donatario, che lo trattiene in virtù della donazione ricevuta e deve versare alla massa solo l'equivalente pecuniario (v. per tutti Cass. 15 ottobre 1956, n. 3598). I beni donati non rientrano pertanto nelle masse ereditarie e non possono considerarsi "esistenti" alla data di apertura della successione. In conclusione, si deve ritenere, a parere della scrivente, che, in base alla normativa vigente (art. 34 del D.P.R. 1986, n. 131), nelle comunioni ereditarie la massa comune da dividere va determinata secondo gli stessi criteri seguiti per l'individuazione del valore imponibile dell'asse ereditario ai fini dell'imposta sulle successioni, astraendo cioè dalla collazione disciplinata dal codice civile. Nell'esempio riportato in premessa quindi, le quote di diritto verranno calcolate solo sulla base del valore dell'asse ereditario netto, talché la rilevante sproporzione con le quote di fatto assegnate darà luogo, ai sensi dell'art. 34, ad imposta proporzionale di trasferimento.

Favorevoli all'inclusione dei beni donati nella massa rilevante per l'imposta di registro, SCARANO, Delle masse plurime, in La nuova disciplina dell'imposta di registro, a cura di D'Amati, Torino, 1989, p. 229, e FORMICA, voce Divisione nel diritto tributario, in Dig., disc. priv., sez. comm., Torino, 1990, p. 101.

[nota 45] V. anche l'opinione di NOTARO, «Ancora sull'art. 34, comma 1, del testo unico della legge di registro», in Il fisco, n. 27 dell'11 luglio 1994, p. 6477 e Comm. trib. centr., sez. V, 27 aprile 1992, n. 5500 (dep. il 13 ottobre 1992).

[nota 46] Prudentemente favorevole all'applicabilità anche alle divisioni con conguagli del citato comma 22, KROGH, Profili giuridici delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio prescritte dal comma 22 dell'art. 35 del D.l. 223 del 2006, in atti del convegno della Fondazione Italiana per il notariato tenuto a Roma il 22-23 settembre 2006.

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