Tecniche di liquidazione del socio recedente
Tecniche di liquidazione del socio recedente
di Paolo Revigliono
Notaio in Torino, Associato di Diritto Commerciale, Università di Torino

Premessa

La locuzione che costituisce il titolo del presente intervento, "tecniche di liquidazione della partecipazione del socio recedente nella Srl", ricomprende, in realtà, due distinti profili: il primo, cui si riferisce espressamente il terzo comma dell'art. 2473, riguarda "le modalità" attraverso le quali viene concretamente attuato il rimborso del valore della partecipazione del socio recedente; il secondo, regolato dal quarto comma dello stesso art. 2473, attiene ai "criteri di determinazione" del suddetto valore.

In questa sede ci si soffermerà esclusivamente sul secondo aspetto; in particolare si procederà ad esaminare gli elementi che, sulla base della disciplina legale, concorrono a definire i criteri di valutazione, verificando se ed entro quali limiti possa esplicarsi l'autonomia statutaria e quindi individuando la tipologia di clausole che appaiono maggiormente funzionali al tipo di interessi coinvolti.

La comunicazione preventiva ai soci del valore della partecipazione e dei criteri utilizzati

Il primo dato che emerge dall'esame della disciplina in oggetto è rappresentato dall'assenza di due significative indicazioni che sono invece presenti nella disciplina della società azionaria.

Ci si riferisce, in primo luogo, alla mancanza di qualunque previsione che, analogamente a quanto stabilisce l'art. 2437-ter, comma 4, in relazione alla società per azioni, riconosca il diritto dei soci di conoscere anticipatamente il valore della partecipazione ed i criteri utilizzati per la sua determinazione.

Tale circostanza riflette senza dubbio una precisa intenzione del legislatore, ovvero quella di rendere più snello il procedimento di liquidazione nel contesto di un tipo societario in cui la centralità della persona del socio fa supporre un più diretto coinvolgimento dei soci stessi nell'attività sociale e quindi una ipotetica loro maggiore informazione sulla situazione, sulle condizioni e sulle dinamiche dell'impresa comune.

Se la suddetta osservazione, da un lato, non consente, evidentemente, di poter applicare in via analogica la disciplina relativa alla SpA, d'altro lato, lascia aperta la possibilità che l'atto costitutivo contenga una previsione volta a prevedere e a regolamentare il diritto dei soci ad essere preventivamente informati in ordine alla determinazione del valore della partecipazione; la piena legittimità di tale previsione è resa evidente dal fatto che il riconoscimento di quel diritto di informazione si traduce nell'ampliamento delle prerogative che spettano al socio e quindi, in definitiva, in un rafforzamento della tutela della sua sfera soggettiva.

La previsione cui si fa riferimento consiste dunque nell'imposizione a carico dell'organo amministrativo dell'obbligo di comunicare preventivamente ai soci, in un arco temporale sufficientemente congruo (eventualmente inferiore, tenuto conto delle caratteristiche che connotano il tipo sociale, a quello di quindici giorni previsto per la SpA in relazione alla data di svolgimento della riunione assembleare), il valore della partecipazione ed i criteri utilizzati per la sua determinazione; una siffatta clausola potrebbe rispondere, in taluni contesti, anche ad un'esigenza di rapidità e funzionalità, in quanto, mettendo il socio in condizione di conoscere e di analizzare preventivamente il valore della partecipazione e impedendo al medesimo di poter opporre successivamente alla società la sua mancata conoscenza di quel valore, determinerebbe un'indubbia riduzione dei tempi delle fasi successive del procedimento di liquidazione.

L'individuazione del soggetto legittimato alla valutazione

Il secondo elemento con riferimento al quale risulta assente qualunque riferimento nella disciplina della Srl attiene all'individuazione del soggetto cui spetta la determinazione del valore della partecipazione.

La lacuna legislativa può essere agevolmente colmata non tanto mediante l'applicazione analogica dell'art. 2437-ter1, quanto piuttosto osservando che la determinazione del valore della partecipazione ed il compimento delle operazioni che necessariamente precedono e seguono quella determinazione hanno natura prevalentemente organizzativa ed in parte anche gestoria e che quindi, in quanto tali, rientrano a pieno titolo nell'ambito delle competenze dell'organo amministrativo [nota 2].

È peraltro indubitabile l'opportunità di una previsione statutaria che espressamente assegni agli amministratori il compito di compiere la valutazione della partecipazione e che, nel contempo, regoli anche il profilo relativo alle modalità di comunicazione ai soci di tale valutazione; l'atto costitutivo potrà contenere una clausola del tipo di quella sopra esaminata, che impone una comunicazione preventiva al socio degli esiti della valutazione, come potrà invece stabilire che l'obbligo di comunicazione venga assolto soltanto successivamente alla realizzazione della causa di recesso (nella maggior parte dei casi l'adozione della decisione dei soci legittimante il recesso), entro un termine comunque congruo, anche alla luce dell'esigenza di rispettare il termine massimo fissato dalla legge per l'effettiva liquidazione del recedente.

Un ulteriore interrogativo che scaturisce dall'assenza di una espressa indicazione del tipo di quella presente nella disciplina della società azionaria riguarda la necessità o meno che la valutazione degli amministratori sia accompagnata dal parere del collegio sindacale e/o del soggetto incaricato della revisione contabile, qualora tali organi sussistano [nota 3]. In assenza di una regolamentazione statutaria, la soluzione della questione è alquanto incerta; stante tale incertezza e, più in generale, alla luce dell'esigenza di individuare una soluzione che rafforzi l'attendibilità della valutazione effettuata dagli amministratori e che quindi limiti la possibilità di una sua contestazione da parte del socio, appare opportuna una previsione statutaria che sancisca la necessità dell'acquisizione del parere degli organi sopra indicati.

Ci si deve, infine, domandare se l'operazione avente ad oggetto la valutazione della partecipazione possa essere demandata, mediante un'espressa previsione dell'atto costitutivo, ad un organo o ad un soggetto diverso dagli amministratori.

La risposta è, a mio avviso, sostanzialmente negativa se si intende attribuire ad un terzo l'integrale compimento dell'operazione valutativa, escludendo totalmente qualunque intervento dell'organo amministrativo; come si è osservato poc'anzi, l'operazione in esame è, in considerazione della sua natura (organizzativa e gestoria), tale da rientrare nell'ambito delle competenze esclusive degli amministratori; lo spostamento di tale competenza in favore di un soggetto diverso comporterebbe un sostanziale esonero degli amministratori da ogni responsabilità nei confronti della società, dei soci e dei creditori sociali in ordine agli obblighi relativi all'integrità del patrimonio sociale.

Tale conclusione non esclude che si possa attribuire statutariamente agli amministratori la possibilità di utilizzare l'attività valutativa di un soggetto esterno, ferma restando la loro responsabilità e quindi, evidentemente, la loro facoltà di disattendere la stima compiuta dal terzo.

I criteri di valutazione della partecipazione del recedente

Venendo ad esaminare i criteri di valutazione della partecipazione occorre, in primo luogo, considerare l'art. 2473, comma 3, ai sensi del quale il socio recedente ha diritto di conseguire il rimborso della quota «in proporzione del patrimonio sociale», con la precisazione che quest'ultimo ("esso") «è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso».

Ciò che la norma non chiarisce e che è stato oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza è se il valore (di mercato) da prendere in considerazione sia quello della partecipazione in quanto tale, ovvero quello del patrimonio sociale. Come è stato recentemente messo in luce, benché in dottrina siano state sostenute entrambe le posizioni [nota 4], la questione non va enfatizzata; se, da un lato, infatti la valutazione della partecipazione deve essere primariamente effettuata, anche alla luce delle acquisizioni della dottrina aziendalistica, sulla base di quello che viene definito "capitale economico aziendale" e che corrisponde a quello che, in un'ottica più propriamente giuridica, viene definito come patrimonio sociale, d'altro lato è pur vero, come si mostrerà tra breve, che proprio il riferimento legislativo al valore di "mercato" sembra legittimare la possibilità di tenere conto, nell'operazione di valutazione, di circostanze che incidono o che comunque influenzano, nel caso concreto, il valore economico della singola partecipazione.

La locuzione "valore di mercato", per quanto apparentemente ambigua, se si considera la mancanza o, quantomeno, la tendenziale insussistenza di un vero e proprio "mercato" della partecipazione di Srl, riveste, in realtà, un suo preciso significato, che trova conferma nelle parole contenute nella Relazione di accompagnamento alla legge di riforma; quella locuzione manifesta infatti l'esigenza che la liquidazione della partecipazione del recedente venga effettuata conformemente al valore effettivo di essa: intanto il recesso costituisce uno strumento di reazione del socio nei confronti di circostanze potenzialmente lesive del suo interesse e della sua sfera economica in quanto il disinvestimento della partecipazione si realizzi secondo modalità tali da garantirgli il conseguimento di una somma che rappresenti il valore effettivo ed equo della sua quota.

Chiarito ciò, si tratta di individuare i criteri che consentano di raggiungere l'obiettivo indicato dal legislatore.

Laddove l'art. 2473, comma 3, stabilisce che il rimborso della partecipazione deve avvenire in proporzione del patrimonio sociale, evoca, indubbiamente, quello che, nella letteratura aziendalistica, viene definito come metodo di valutazione "patrimoniale"; si tratta di valutare ciascuna componente, attiva e passiva, dello stato patrimoniale e quindi successivamente procedere alla rettifica (valutazione) dei valori ottenuti, in aumento o in diminuzione, sulla base di diversi criteri che variano in funzione delle singole poste.

Il quesito che immediatamente si pone riguarda la necessità o meno di tenere conto dell'eventuale avviamento dell'azienda sociale; se si considera la già rammentata esigenza di garantire al socio la realizzazione del valore effettivo della partecipazione nel senso sopra indicato, la risposta non può che essere di segno positivo. Ciònondimeno appare opportuno prevedere espressamente, nell'atto costitutivo, la necessità di includere l'avviamento tra gli elementi che concorrono nella determinazione del valore della quota.

La scienza aziendalistica conosce ulteriori criteri di valutazione che si affiancano ed integrano il metodo "patrimoniale"; si tratta di criteri che, sempre nell'ottica di realizzare una corretta e congrua valutazione della partecipazione (fair value), possono ed anzi debbono essere utilizzati nella operazione valutativa svolta dagli amministratori. In considerazione peraltro della loro eterogeneità e, quantomeno con riferimento ad alcuni di essi, di una non univoca considerazione da parte della dottrina specialistica, è auspicabile che in sede statutaria si proceda: i) ad una precisa individuazione e catalogazione dei metodi che si intendono utilizzare; ii) alla individuazione del rapporto, di gerarchia o di complementarietà, che li collega. Ci si riferisce, in primo luogo, al metodo reddituale, che consente di tenere conto delle prospettive reddituali e dei potenziali incrementi dovuti a presumibili flussi di redditi e che, in definitiva, consiste nella determinazione del valore dell'azienda (anche) in funzione del reddito che quest'ultima è in grado di generare, con riferimento ad un determinato arco temporale. Quindi al metodo finanziario, in base al quale il valore del patrimonio aziendale viene determinato in funzione della idoneità a produrre flussi di cassa, attualizzati in base a determinati tassi.

Per quanto riguarda il nesso che intercorre tra i suddetti metodi, è evidente che quello patrimoniale assume un ruolo di preminenza, non modificabile statutariamente, in quanto, come già si è sottolineato, la valorizzazione della componente patrimoniale del complesso aziendale rappresenta un elemento caratterizzante ed indefettibile della liquidazione della partecipazione del recedente, che traspare con evidenza dalla lettera della norma e che corrisponde alla ratio di quest'ultima; non sarebbe quindi legittima una clausola che, ad esempio, prevedesse l'utilizzazione del metodo reddituale come unico criterio di liquidazione in sostituzione di quello patrimoniale. Tanto il metodo reddituale che quello finanziario possono essere configurati dall'atto costitutivo o come criteri destinati ad integrare il metodo patrimoniale (metodi c.d. misti) o, più limitatamente, come strumenti volti a verificare la correttezza e la congruità dei risultati ottenuti mediante l'applicazione del metodo patrimoniale.

La rilevanza dei premi di controllo e degli sconti di minoranza

Ci si è domandati se, ai fini della valutazione della partecipazione, occorra tenere conto delle caratteristiche che concretamente connotano la partecipazione medesima e delle circostanze, delle condizioni e delle modalità con cui si realizza la liquidazione.

In particolare, con riferimento al caso in cui la liquidazione avvenga mediante l'acquisto della partecipazione del recedente da parte degli altri soci o di un terzo, si sono posti i seguenti quesiti: i) se la stima del valore della partecipazione comprenda non soltanto il valore economico di essa, quale frazione del patrimonio, ma anche il "beneficio del controllo" che il possesso di quella partecipazione attribuisce a chi ne diventa titolare; ii) se sia necessario (o semplicemente possibile) considerare gli sconti di minoranza, ovvero le decurtazioni del valore della partecipazione che si rivelino funzionali a compensare la difficoltà di negoziazione di una partecipazione che risulti di minoranza, in conseguenza della sostanziale mancanza di un mercato.

Benché l'orientamento prevalente fornisca ai quesiti posti una risposta tendenzialmente negativa [nota 5], non mi pare che si possa escludere in linea di principio, se non la necessità, quantomeno la possibilità di tenere conto, nella valutazione della partecipazione, delle singole peculiarità che caratterizzano la liquidazione.

Le argomentazioni addotte a sostegno della soluzione contraria non paiono infatti decisive.

L'osservazione secondo cui la locuzione utilizzata nell'art. 2473, comma 3, (il rimborso della partecipazione avviene «in proporzione del patrimonio sociale») escluderebbe in radice la possibilità di considerare elementi che non siano direttamente ricompresi nel patrimonio sociale, non appare fondata, in quanto, come si è altrove dimostrato [nota 6], quella locuzione deve essere intesa, nel nostro caso, non nella sua accezione matematica, ma in quella, più generale, di relazione, di corrispondenza, di legame fra due entità; in tal modo il rapporto che intercorre tra il valore della partecipazione e il valore del patrimonio sociale non deve essere interpretato in termini rigidi e matematici, tale cioè da escludere che la valutazione della partecipazione possa estendersi ad elementi che non fanno strettamente parte del patrimonio sociale.

Del resto tale conclusione è confermata dal già sottolineato riferimento della norma richiamata al "valore di mercato"; tale riferimento sottende infatti la necessità che il valore della partecipazione venga determinato tenendo conto di tutti i fattori, anche estranei al patrimonio sociale, che, direttamente od indirettamente, nel caso concreto, incidono sulla "negoziabilità" della partecipazione stessa.

Si è ulteriormente sostenuto che la possibilità di riconoscere una qualche rilevanza ai premi di maggioranza od agli sconti di minoranza non sarebbe compatibile con una delle modalità con cui si attua il rimborso del recedente, ovvero con l'acquisto proporzionale della partecipazione da parte dei soci; in tal caso infatti ciascun socio acquirente sarebbe tenuto a corrispondere un prezzo che tiene conto del plusvalore derivante dal controllo, mentre, in realtà, egli acquista, in base alla regola proporzionale, soltanto una frazione della partecipazione di maggioranza.

A parte l'ovvia considerazione che tale obiezione non si estende agli sconti di minoranza, si deve osservare, in generale, che essa si fonda sul presupposto che il valore della partecipazione debba essere necessariamente unitario e che non possa essere diversamente determinato in funzione delle diverse modalità con cui avviene il rimborso; si può invece ritenere che il valore di liquidazione, calcolato sulla base del patrimonio sociale alla luce dei metodi sopra richiamati, possa subire degli incrementi o delle diminuzioni a seconda del soggetto che acquista la partecipazione del recedente e delle condizioni in cui avviene l'acquisto.

È quindi possibile sostenere, in primo luogo, che il premio di maggioranza (o premio di controllo) debba essere riconosciuto ed applicato esclusivamente laddove: a) la partecipazione maggioritaria venga acquistata da un solo acquirente (socio o eventualmente terzo); b) per effetto dell'acquisto della partecipazione (minoritaria) del recedente o, nel caso di acquisto proporzionale, di una frazione di essa uno dei soci diventi titolare di una partecipazione che, complessivamente considerata, è idonea ad attribuirgli il controllo.

In secondo luogo, con riferimento all'ipotesi in cui la partecipazione del recedente sia minoritaria, si può ragionevolmente riconoscere come fondata la possibilità di tenere conto degli sconti di minoranza, legati essenzialmente, da un lato, ai "ridotti poteri" che quella partecipazione attribuisce, d'altro lato, alla già sottolineata mancanza di mercato e di negoziabilità della partecipazione stessa.

In relazione al primo aspetto si dovrà accertare: a) l'idoneità o meno della partecipazione minoritaria a determinare una posizione di controllo (in quanto, in caso affermativo, non solo sarà da escludersi lo sconto, ma si potrà eventualmente invocare, stante quanto sopra osservato, l'applicazione di un premio di controllo); b) la sussistenza di determinate prerogative sociali in capo ai soci minoritari, quale, ad esempio, un ampliamento dei diritti di controllo di cui all'art. 2476, comma 2; c) la consistenza della partecipazione, alla luce dell'osservazione per cui la misura dello sconto riferibile ai "ridotti poteri" può essere condizionata dall'entità dell'investimento; d) l'esistenza di eventuali patti parasociali volti a rafforzare la posizione di uno o più soci nel contesto dell'organizzazione della società.

In relazione al secondo aspetto si dovranno valutare: a) la dimensione della partecipazione, considerando il fatto che una partecipazione minoritaria "rilevante" ha, normalmente, una negoziabilità differente rispetto ad una partecipazione di minime dimensioni; b) la sussistenza di clausole limitative della circolazione delle partecipazioni e quindi l'intensità dei vincoli che ne derivano; c) la presenza nell'atto costitutivo di eventuali cause convenzionali di recesso, alla luce del fatto che un incremento di queste ultime concorre ad aumentare le occasioni di disinvestimento della partecipazione e quindi, in una certa misura, ne agevola la negoziabilità.

Un'ultima obiezione che è possibile muovere alla possibilità di tenere conto degli sconti di minoranza risiede nel fatto che, mediante l'applicazione di un eventuale sconto, la posizione del socio recedente verrebbe ad essere penalizzata, in contrasto con la funzione generale del recesso che, come si è sopra rammentato, consiste nel consentire al socio di realizzare il disinvestimento della propria partecipazione sulla base di un valore equo e corretto. In realtà questa obiezione può essere agevolmente confutata; in primo luogo sottolineando come la possibilità di discostarsi dal valore basato esclusivamente sul patrimonio sociale e di tenere conto di elementi a questo estranei sia giustificato proprio alla luce di quel riferimento al "valore di mercato" che, come si è visto, risulta contenuto nella norma più volte citata; in secondo luogo osservando come l'applicazione dello sconto di minoranza risponda anche ad un'ulteriore fondamentale esigenza, che caratterizza in modo altrettanto essenziale la vicenda in cui si sostanzia il recesso, vale a dire quella di agevolare al massimo grado l'acquisto della partecipazione da parte dei socio o di un terzo, nella prospettiva di scongiurare l'utilizzazione di risorse patrimoniali della società al fine di rimborsare il recedente.

Poiché il riconoscimento della rilevanza degli sconti di minoranza rappresenta comunque il risultato di una determinata opzione interpretativa, per quanto suffragata da indici significativi, pare opportuno che l'intenzione dei soci di rendere effettivamente applicabili quegli sconti si traduca in una specifica previsione dell'atto costitutivo; tale previsione, più che prevedere esattamente la percentuale di decurtazione rispetto al valore base di liquidazione (il che potrebbe tradursi, nel caso concreto ed alla luce del contesto in cui avviene il rimborso, in una ingiustificata penalizzazione della posizione del socio recedente) dovrebbe limitarsi a stabilire una percentuale minima e massima di decurtazione, lasciando agli amministratori il compito di fissare, al momento della dichiarazione di recesso, l'esatto importo dello sconto, alla luce di quei criteri che si sono sopra richiamati e che potrebbero essere utilmente esplicitati nell'ambito della clausola statutaria in oggetto.

La valutazione dei "diritti particolari"

Un ulteriore quesito in tema di liquidazione della partecipazione riguarda la necessità o, quantomeno, la possibilità di tenere conto del valore dei "particolari diritti" ex. art. 2468, ogniqualvolta la partecipazione del recedente venga rimborsata mediante l'acquisto della medesima da parte degli altri soci o di un terzo.

La risposta dipende dalla concreta configurazione di quei diritti nell'atto costitutivo e, in particolare, dalla loro trasferibilità.

Qualunque sia la tesi cui si intende aderire in ordine al problema della qualificazione dei diritti particolari [nota 7], si deve comunque affermare che il trasferimento della partecipazione sociale non comporta né può comportare un'automatica successione dell'acquirente nella titolarità di quei diritti, stante la regola della loro immodificabilità, sancita dall'art. 2468, comma 4.

Infatti la successione nel diritto particolare altro non è che una "modifica" del soggetto che ne ha la titolarità, ovvero di uno degli elementi costitutivi dell'attribuzione originaria del diritto: pertanto la trasferibilità dei diritti in esame è subordinata alla sussistenza del consenso di tutti i soci. Poiché la norma sopra richiamata fa salva una diversa disposizione dell'atto costitutivo, è certamente legittima tanto una previsione statutaria in forza della quale il trasferimento dei diritti particolari può essere realizzato anche con il consenso della mera maggioranza dei soci, quanto la clausola per cui il trasferimento di quei diritti avviene senza il consenso degli altri soci, unitamente al passaggio della titolarità della partecipazione.

Nei limiti e alle condizioni in cui i diritti particolari sono trasferibili, la valutazione della partecipazione non potrà non tenere conto del loro valore, che dovrà essere determinato sulla base del loro effettivo contenuto e del loro peso e significato nel contesto dell'organizzazione e dell'attività della società; con riferimento a tale profilo appare più che opportuno che l'atto costitutivo proceda all'individuazione dei criteri di valutazione, al fine di circoscrivere la discrezionalità degli amministratori.

La possibilità di tenere conto del valore dei diritti particolari è essenzialmente limitata all'ipotesi in cui la liquidazione del recedente avvenga mediante l'acquisto della sua partecipazione da parte degli altri soci o di un terzo; mentre infatti quella possibilità si presenta come poco realistica e praticabile nel caso in cui il rimborso si realizza mediante l'utilizzazione di riserve disponibili da parte della società (in tal caso si verifica un "accrescimento" proporzionale della partecipazione del recedente a favore di tutti i soci), essa deve essere radicalmente esclusa laddove la liquidazione avvenga mediante la riduzione del capitale, stante, in questo caso, l'annullamento della partecipazione del recedente.

In tutti i casi in cui si verifica un'estinzione dei diritti particolari, vuoi perché non vi sono le condizioni per il loro trasferimento, vuoi perché le modalità di liquidazione comportano il venir meno della partecipazione, non sarà evidentemente possibile tenere conto, in alcun modo, del loro valore, dal momento che, evidentemente, non vi sarebbe alcuna giustificazione nel pretendere che i soci, il terzo o la stessa società siano tenuti a corrispondere un plusvalore relativo a diritti che non esistono più e che non possono più essere esercitati.

La determinazione del momento rilevante ai fini della valutazione

In base all'art. 2473, comma 3, la determinazione del valore della partecipazione deve essere riferita al «momento della dichiarazione di recesso».

Tale momento deve essere identificato in quello in cui la società riceve la comunicazione del socio della propria volontà di recedere; è infatti in questo frangente che l'esercizio del recesso assume il significato di un evento rilevante per l'organizzazione della società.

In considerazione del fatto che il momento cui fa riferimento la norma sopra richiamata può non essere il medesimo per tutti i soci e allo scopo di evitare gli inconvenienti che una siffatta eventualità potrebbe determinare, è auspicabile che l'atto costitutivo contenga una specifica regolamentazione al riguardo, collegando eventualmente la valutazione della partecipazione al momento della scadenza del termine previsto per la dichiarazione di recesso; in tal modo si unificherebbe, per tutti i recedenti, il momento rilevante ai fini della determinazione del valore delle rispettive partecipazioni.

Non parrebbe invece legittima, in relazione alle cause legali di recesso, la clausola con cui si intendesse ancorare la valutazione della partecipazione al momento in cui si è verificato l'evento legittimante il recesso. La possibilità di anticipare, rispetto al momento fissato dal legislatore, la determinazione del valore della partecipazione, appare potenzialmente lesiva degli interessi del recedente, in quanto non consente di tenere conto delle variazioni patrimoniali che si verificano nell'intervallo compreso tra il momento considerato per la valutazione e quello in cui il socio dichiara di recedere; intervallo che, soprattutto laddove l'evento che legittima il recesso non consista in una decisione sociale, ma in una circostanza estranea all'organizzazione della società, potrebbe risultare molto lungo.

La derogabilità dei criteri di valutazione

Un'ultima questione in tema di valutazione della partecipazione attiene alla derogabilità o meno dei criteri (legali) sopra indicati.

Secondo l'orientamento prevalente e preferibile, il criterio legale di valutazione, sancito dall'art. 2473, comma 3, non potrebbe essere derogato, per quanto riguarda le cause legali di recesso, in maniera peggiorativa [nota 8]; così sarebbe sicuramente illegittima la clausola che ancorasse la valutazione della partecipazione a valori di bilancio.

A tale conclusione conducono due considerazioni. In primo luogo la possibilità di discostarsi dal valore "effettivo" della partecipazione contrasterebbe con la funzione generale del recesso, che, come già si è affermato, è quella di assicurare al socio uno strumento che gli consenta, di fronte ad eventi potenzialmente lesivi della sua posizione, di realizzare il disinvestimento della propria partecipazione sulla base di un valore equo ed aderente alla realtà effettiva.

In secondo luogo si può osservare che, mentre la modifica dei criteri di valutazione indicati nello statuto costituisce, secondo l'art. 2437, comma 1, lettera f), una causa di recesso nella società per azioni, nulla è previsto in tema di società a responsabilità limitata, con la conseguenza che, qualora fosse possibile introdurre nell'atto costitutivo criteri di valutazione penalizzanti per il socio, i soci di minoranza non avrebbero nemmeno la possibilità di uscire dalla compagine sociale.

L'inderogabilità dei criteri di valutazione non è da intendesi peraltro in senso assoluto.

Innanzi tutto perché non paiono esservi ostacoli ad ammettere, in linea di principio, la possibilità di introdurre deroghe migliorative rispetto ai criteri legali; secondariamente, in quanto la derogabilità, anche in peius, dei criteri legali, deve essere sicuramente ammessa in relazione alle cause di recesso eventualmente previste dall'atto costitutivo: così come l'autonomia statutaria è libera nella configurazione di cause di recesso ulteriori rispetto a quelle legali, a maggior ragione essa potrà esplicarsi nell'individuazione, in quelle ipotesi convenzionali, delle modalità di esercizio del recesso e dei criteri di valutazione della partecipazione del recedente.

L'introduzione nell'atto costitutivo, in relazione alle cause convenzionali di recesso, di criteri di valutazione peggiorativi rispetto a quelli originariamente previsti, solleva peraltro l'interrogativo circa la necessità o meno, in tal caso, di riconoscere ai soci non consenzienti, il diritto di recesso.

La risposta è di segno sicuramente positivo, in quanto l'operazione con la quale si modificano i criteri di valutazione, rendendoli meno vantaggiosi per i soci, deve essere sostanzialmente equiparata, in considerazione degli effetti pregiudizievoli che essa determina sulla sfera del singolo socio, all'eliminazione di una causa statutaria di recesso, ovvero ad una vicenda in relazione alla quale il legislatore prevede espressamente il diritto di recesso (art. 2473, comma 1).


[nota 1] In tal senso M.S. RICHTER, «Diritto di recesso e autonomia statutaria», in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 412.

[nota 2] Sia consentito rinviare a P. REVIGLIONO, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Milano, 2008, p. 366 e ss.

[nota 3] L'interrogativo è sollevato da F. ANNUNZIATA, Recesso del socio, in Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, in Commentario alla riforma delle società, a cura di P.G. Marchetti, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2008, p. 521, nota 171.

[nota 4] Sul punto mi permetto di rinviare a P. REVIGLIONO, Il recesso…, cit., p. 372 e ss., v. anche F. ANNUNZIATA, op. cit., p. 520 e ss.

[nota 5] Sia consentito rinviare, per le opportune citazioni, a P. REVIGLIONO, Il recesso…, cit., p. 380, nota 157.

[nota 6] P. REVIGLIONO, Il recesso…, p. 380 e ss.

[nota 7] Sul punto rinvio ancora al mio, Il recesso…, cit., p. 140 e ss.

[nota 8] V., per tutti, F. ANNUNZIATA, op. cit., p. 523 e ss.

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