La libertà di stabilimento delle società
La libertà di stabilimento delle società [nota 1]
di Cesare Licini
Notaio in Pesaro

Il presente intervento tratta l’ipotesi del trasferimento della sede di una società da uno Stato membro dell’Unione Europea ad un altro. Punto di partenza non è una norma societaria, ma la norma che riguarda il diritto di stabilimento nel territorio dei Paesi membri, ai sensi dell’articoli 43 e seguenti del Trattato di Roma, la quale afferma che devono essere garantite nello spazio di ciascun Paese nel quale l’operatore straniero comunitario abbia scelto di andare ad operare, le stesse condizioni che questo Paese riconosce agli operatori nazionali. Lo scopo non è solo di permettere l’esercizio di una libertà economica, ma anche di garantire - attraverso appropriate modalità - tempi, costi e complicazioni ridotti, nell’interesse della competitività dello stesso sistema economico europeo. Sotto l’etichetta della libertà di stabilimento, ricadono anche le manifestazioni della delocalizzazione transnazionale della sede, necessaria per attuare operazioni di riorganizzazione societaria senza dover essere sottoposti, in certi Paesi, allo scioglimento, alla liquidazione del patrimonio e alla ricostituzione di una nuova società, oppure, come ad esempio nel nostro Paese, senza dover riorganizzare lo statuto alla luce delle prescrizioni inderogabili. L’intervento sarà circoscritto alle vicende circolatorie transnazionali che riguardano solo le cosiddette società comunitarie all’interno dell’UE, alla luce della giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia in materia di applicazione del diritto di libertà di stabilimento, che è in un certo senso il paradigma del ruolo di supplenza che la Corte ha avuto, specialmente in tempi più recenti, rispetto a quei vuoti normativi dovuti all’inerzia del legislatore comunitario.

L’art. 43 del Trattato di Roma non si applica indistintamente, quanto alla libertà di stabilimento, a qualunque società straniera, ma solo alle cosiddette società comunitarie. Sono tali, ai sensi dell’art. 48 del Trattato, quelle società che rivestono contemporaneamente due requisiti. Il primo è di essere state costituite in conformità all’ordinamento di uno degli Stati membri dell’Unione. Il secondo è di avere contemporaneamente o la sede sociale o il luogo dell’amministrazione centrale o il centro dell’attività principale all’interno della Comunità, anche se non necessariamente nello stesso Stato. In presenza di enti che hanno queste caratteristiche, il modello comunitario che si è venuto formando amputa, non solo in Italia, buona parte delle prescrizioni nazionali inderogabili di adeguamento della struttura societaria imposte dal diritto internazionale privato a causa dei trasferimenti di sede e della delocalizzazione dell’attività principale e offre quella che è sostanzialmente una semplificazione della fattispecie.
In mancanza di specifica normativa comunitaria, la CGCE svolgendo una funzione supplente, ha delineato attraverso cinque sentenze denominate, secondo la prassi comunitaria, con il nome della parte ricorrente - la Daily Mail dell’88, la Centros del 99, la Uberseering del 2002, la Inspire Art del 2003 e ultima la Sevic del 2005 - le problematiche derivanti dalle vicende circolatorie transnazionali, solo delle c.d. “società comunitarie” all’interno della UE, nell’applicazione del diritto di libertà di stabilimento.
La sentenza Sevic in particolare, la C411 03 del 2005, è un caso che si svolge nell’ordinamento tedesco, ma presenta profili utili e conclusioni utilizzabili anche da noi, tanto che si tratta del comune territorio del mercato interno dove si confrontano principi nazionali per certi aspetti anche propri dell’ordinamento italiano. Il caso della sentenza Sevic è un caso di fusione per incorporazione. Una società tedesca, la Sevic AG, sottoposta all’ordinamento tedesco e con sede in Germania, incorpora una società di diritto lussemburghese. Di questa incorporazione viene rifiutata l’iscrizione nel registro tedesco delle imprese, perché la legge tedesca non consente queste operazioni con società che non abbiano nazionalità tedesca. La Corte di Giustizia sanziona il rifiuto, perché si configura una disparità di trattamento tra fusione interna e fusione transfrontaliera, in violazione della libertà di stabilimento di cui agli art.43 e seguenti del Trattato. Tale sentenza, come le altre citate, ha come scopo non disciplinare la struttura societaria, ma proteggere l’esercizio della libertà di trasferimento nel mercato interno e, quindi, favorire l’accesso alle stesse condizioni degli operatori nazionali. Tuttavia, l’attuazione di questo diritto di stabilimento rispetto alle società che trasferiscono la propria sede, nella declinazione della giurisprudenza comunitaria, ha finito, in un certo senso, per “debordare” rispetto all’area applicativa di riferimento, incidendo sul modo classico in cui la lex fori in diritto internazionale privato, cioè l’ordinamento dal punto di vista del quale ci si pone per valutare i profili di internazionalità rispetto ad una società straniera, reagisce all’importazione di una società straniera, e quindi all’importazione della lex societatis che regola la sua funzionalità, quando si verifica un cosiddetto fattore di contatto con il territorio del Paese che attiva i tradizionali criteri di collegamento del diritto internazionale privato.

Dal momento che questi fenomeni societari transfrontalieri riguardano il riconoscimento ed il trattamento della persona giuridica straniera nella lex fori, devo fare una breve precisazione di diritto internazionale privato e quindi uscire per un momento dalla materia comunitaria. Da noi il diritto internazionale privato, regolato dalla legge 218 del 1995, disciplina le società all’art. 25 che è una norma bipartita nel senso che, nella prima parte, è una norma di cosddetto conflitto bilaterale perché ascrive l’ordinamento italiano a quegli ordinamenti che seguono la dottrina della in corporation, cioè a quei Paesi che riconoscono la presenza della società straniera sul proprio territorio, in quanto regolata dal diritto che le ha incorporate. L’art. 25, nell’ultima proposizione del primo comma, introduce un’eccezione unilaterale e a favore dell’ordinamento italiano che si attiva ex nunc dal momento in cui la società straniera finisce per localizzare in Italia uno dei fattori di contatto rilevanti, che sono la sede o l’attività principale. Quindi, l’ente esiste secondo un diritto straniero se opera senza attuare in Italia alcuno dei fattori di contatto tipici, sede ed oggetto principale col territorio del foro, e non pone alcun problema particolare di adeguamento. Se, successivamente, si realizzano alcuni di questi fattori, la nostra legge non esclude per questo, da quel momento in poi, il rinvio alla lex societatis straniera, per cui l’ente mantiene lo statuto personale straniero con cui è nato e non deve ricostituirsi.
Tuttavia, quei fattori sopravvenuti lo faranno considerare in Italia non più solo straniero, ma anche nazionale, a titolo derivato, nel senso che la disciplina italiana si sovrappone come disciplina speciale all’ordinamento straniero, assoggettandolo alla disciplina italiana, per quanto riguarda le disposizioni inderogabili della legge italiana, allo stesso titolo che se fosse costituito in Italia. E’, quindi, un processo di assimilazione che per questi profili lo assimila completamente ai tipi italiani, ma non per questo esclude la permanente applicabilità delle norme straniere, in quanto compatibili con le norme italiane. Lo scopo è quello di tutelare il pubblico interesse, affinché siano rispettate quelle norme che sono considerate inderogabili per una stabile operatività in Italia e, in conformità a questa funzione, l’invadenza del diritto italiano sulla lex societatis non arriverà a disconoscere i fattori di costituzione e di esistenza derivanti dall’ordinamento straniero che ha riconosciuto la personalità. Questo è un dato ricostruttivo molto importante, perché questa è la condizione in cui si troverebbero anche le società comunitarie, senza gli effetti che sono stati tratti dalla Corte di giustizia, declinando la norma dell’art.43 sulla libertà di stabilimento. Se, arrivati a questo punto, torniamo ad osservare quelle società qualificate, che sono le società cosiddette comunitarie, ci troviamo in quel momento in cui le prescrizioni di adeguamento alle norme nazionali inderogabili - quindi con le conseguenze che discendono sulla stessa capacità della società dal mancato adeguamento -  vanno ad incrociarsi ed in un certo senso a scontrarsi con le regole sulla protezione sul diritto di stabilimento enunciate dal Trattato comunitario.

Per affrontare questo incrocio, torniamo al caso Sevic cercando di coglierne il dato normativo generalizzante, dal quale si potranno poi estrarre una serie di elementi di riflessione che richiamano idealmente le sentenze che hanno preceduto quest’ultima. Guardandole in modo unificato, infatti, non si può più parlare di una serie di sentenze slegate tra loro, ma di una vera e propria disciplina completa della circolazione transfrontaliera delle sedi nel mercato unico, rispetto alle società comunitarie, che ha dei riflessi importantissimi, per quanto riguarda la neutralizzazione dell’applicazione delle norme inderogabili. Il caso riguarda una fusione tra una società tedesca che incorpora una società lussemburghese, fattispecie che, secondo il lessico giuridico tedesco, è uno scioglimento senza liquidazione della società incorporata con trasmissione universale del suo patrimonio alla società incorporante. E’ chiaro che anche il diritto tedesco riconosce la capacità giuridica di una società costituita all’estero, ma il diritto tedesco è più drastico di quello italiano, per cui una società perde la sua esistenza e capacità giuridica estera, secondo il diritto dello Stato di costituzione, nel momento in cui realizzi un fattore di contatto in Germania, quale appunto il trasferirvi la sede. Dottrina e giurisprudenza tedesca, infatti, stabiliscono che la capacità giuridica di una società viene valutata in base al diritto del luogo, in cui si trova la sua sede effettiva. Dal momento in cui si attua un presupposto di attrazione all’ordinamento giuridico lussemburghese, la società non può più essere titolare di diritti ed obblighi, se non dopo essere stata sciolta e ricostituita ex novo, in modo da poter acquistare la capacità giuridica di diritto tedesco.
Il caso di fusione sembrerebbe non avere relazione con il caso di cui sto parlando, del trasferimento della sede. In realtà, la giurisprudenza della Corte ha detto che per un momento logico occorre supporre un passaggio della sede sul territorio tedesco e, quindi, il concetto del trasferimento di sede, anche se momentaneo e prodromico, non manca. Il contraddittorio viene incardinato utilizzando da parte della società Sevic l’argomento dell’impedimento di una manifestazione legittima della libertà di stabilimento di soggetti comunitari ai sensi dell’art.43 e la risposta, che viene data in continuità con le sentenze Centros, Ubersering e Inspire Heart, porta a termine un percorso, dal quale si può estrarre un dato normativo in materia di libertà di stabilimento, che realizza il paradigma pressoché completo dei limiti consentiti dal Trattato di Roma delle riqualificazioni imposte dai singoli Stati membri alle società straniere, ma comunitarie. La risposta data da questa giurisprudenza non è di diritto internazionale privato, perché in questo caso non si tratta più di svolgere un’operazione di qualificazione di una società in un ordinamento giuridico dato per individuare poi quale sia la legge di appartenenza. La lex societatis che impone originariamente personalità, struttura e caratteristica dell’ente è già individuata ed è un’ipotesi straniera, nel nostro caso lussemburghese rispetto alla lex fori tedesca. E’ proprio a causa di questa nazionalità straniera che la legge tedesca infligge ad una società legalmente costituita in un altro Stato membro la conseguenza della sua incapacità di compiere un atto giuridico da iscrivere in un pubblico registro. Quindi, lo scopo delle pronunce era in realtà la riaffermazione, una volta di più, di una libertà fondamentale del Trattato di Roma in corrispondenza di un’operazione tipica transnazionale. Quindi lo scopo si muove all’interno di logiche e dinamiche di mero trattamento non discriminatorio dei soggetti che sono squisitamente comunitari. Tuttavia, si pone in termini tali da emigrare dal proprio territorio. In forza dell’efficacia diretta ed immediata, incide in modo sostanziale sulle discipline nazionali che regolano gli effetti strutturali sulla personalità e sull’organizzazione, rispetto ad una società che ha realizzato un fattore di contatto reale all’estero, in conseguenza di una qualsiasi vicenda circolatoria all’interno dello spazio unico europeo. Così il formante comunitario cambia profondamente l’apprezzamento del fenomeno permesso alla lex fori. Queste norme di adeguamento sono e restano nella competenza dei singoli Stati membri, ma la loro efficienza è sottoposta criticamente al diritto materiale di origine comunitaria, che continua a non incidere direttamente sulla capacità degli Stati membri di organizzare liberamente le rispettive norme al realizzarsi di fattori di contatto reale. Tuttavia, impone agli ordinamenti nazionali una sorta di test di verifica dell’adeguatezza del rispetto della fonte sovranazionale. La conseguenza è che, a causa dell’efficacia sovraordinata delle norme comunitarie rispetto a quelle nazionali, le prime finiscono per imporre ab externo la disattivazione di cruciali segmenti di norme nazionali inderogabili di adeguamento in materia societaria e, in particolare, di quelle norme che non sono in grado di superare quella prova di conformità comunitaria perché risultano impeditive della libertà di stabilimento garantita nei movimenti transfrontalieri, senza che vi sia una giustificazione di tipo comunitario. Quindi, possono ancora contrapporsi norme nazionali restrittive, ma la loro efficienza non è più autoreferenziale ed è relativizzata alla loro capacità di superare questo test comunitario. Ciò avviene perché la normativa nazionale deve accettare pregiudizialmente di riconoscere come l’ambito nazionale di qualsiasi altro Stato membro all’interno dell’Unione è porzione di uno spazio giuridico comunitario ormai omogeneo e indifferente, all’interno del quale una società costituita in uno Stato membro deve potersi muovere in un altro Stato membro come se di questo avesse personalità, capacità e lo stesso corredo di facoltà, attivando anche una forma di concorrenza fra ordinamenti, quella che viene chiamata competition among groups , che serve a favorire l’adozione dei modelli più virtuosi, efficienti e dove l’efficienza è segnata dal successo che ha rispetto agli operatori. Questo spazio nazionale è sempre più circoscritto oggi, perché è fortemente consolidato un formante comunitario in materia di diritto di stabilimento riferito alle dinamiche imprenditoriali delle società comunitarie, frutto di una chiara strategia che sgombra sistematicamente il campo da tutti gli ostacoli, che appesantiscono la possibilità di usare all’estero, ma all’interno del mercato unico le strutture imprenditoriali societarie, secondo l’ordinamento che le ha generate. All’insegna dell’integrazione fra imprese societarie, le cinque sentenze che citate, quindi, restringono con costanza, in attuazione di questa strategia, ogni contrasto e forzano i modelli giuridici nazionali. L’ordinamento comunitario finisce per stravolgere i sistemi basati sul fattore di contatto della sede reale perché ne sterilizza alcune delle conseguenze tipiche. Per alcuni finisce, addirittura, per introdurre una nuova tecnica di regolazione dei problemi di estraneità alla lex fori, che viene definita in contrapposizione alle due tradizionali - la teoria della sede reale e dell’incorporazione - la teoria della costituzione comunitaria. In virtù di questo contesto uniformato, le società circolano nel territorio dell’Unione e non rischiano più la retrocessione. Ad esempio, in Italia, in mancanza di adeguamento, si parla di trattamento di una società irregolare o addirittura, come abbiamo visto in Germania, di scioglimento.
Enunciato questo contesto normativo dell’antagonismo o integrazione fra i due ordinamenti, quello nazionale e quello comunitario, vediamo molto brevemente come la Corte valuta volta per volta quando questa accertata disparità di trattamento costituisca un ostacolo alla libertà di stabilimento o possa essere ammessa.
Mi sembra che, in realtà, la Corte sistematicamente demolisca questa interpretazione. Secondo la Corte, la restrizione nazionale è legittima solo se persegue uno scopo compatibile con il Trattato, è giustificata da ragioni imperative di interesse generale (cioè da ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica), ma non da ragioni di natura economica, fermo restante, tuttavia, anche in tal caso, che la sua applicazione deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo in tal modo perseguito, deve essere proporzionata allo scopo e non deve eccedere quanto strettamente necessario per raggiungerlo. Nella sentenza Centros, in particolare, si raggiunge quello che si può definire il punto di non ritorno, perché si tocca il dato nevralgico del capitale sociale, per il modo in cui noi lo conosciamo. Questa sentenza ridimensiona la presunta irrinunciabile forza protettiva di un capitale sociale minimo a beneficio dei creditori perché coglie bene che questa misura in realtà non è nemmeno indispensabile per raggiungere l’obiettivo di tutela dei creditori, cui viene considerata preordinata, perché si afferma che il legittimo interesse alla protezione dei creditori di società di capitali può essere adeguatamente perseguito anche con mezzi meno restrittivi, come ad esempio, nelle società di diritto britannico, la previsione di tecniche basate su test economicistici di equilibrio fra mezzi propri e indebitamenti. Conclusivamente, il dato odierno è che il diritto comunitario, mediante questa sorta di grimaldello della libertà di stabilimento ex art.43 del Trattato comunitario, ha pressoché completato, rispetto alle società comunitarie, una neutralizzazione delle norme nazionali, che imporrebbero l’adattamento dello statuto originario alle norme imperative dell’ordinamento nazionale nel territorio del quale si fissano elementi reali che configurano in fattori di contatto, come nel caso specifico del trasferimento dalla sede effettiva. Sono evidenti le conseguenze semplificanti per gli atti notarili. Il processo non si può dire del tutto concluso, ma ritengo che la strategia sia ben delineata e, se si può fare una previsione, si può supporre che almeno rispetto alle società comunitarie, il sistema di adeguamento delle norme inderogabili sarà sempre smantellato.


[nota 1] Trascrizione a cura della Fondazione Italiana per il Notariato autorizzata dall’Autore.

PUBBLICAZIONE
» Indice
» Approfondimenti
ARTICOLO
» Note