La fusione transfrontaliera
di Massimo Benedettelli
Ordinario di Diritto Internazionale, Università di Bari
Introduzione
Il presente intervento sarà articolato in cinque parti (le fonti - il coordinamento delle fonti - il decreto legislativo: la fase preliminare - il decreto legislativo: la fase attuativa - questioni particolari) precedute da una breve introduzione.
La fusione transnazionale o transfrontaliera o internazionale è la fusione coinvolgente società (almeno una) costituite ai sensi di leggi diverse. Questa semplice definizione richiede però due chiarimenti. Il primo è la qualificazione dell’istituto. Per tradizione, la qualificazione, ossia l’individuazione della categoria alla quale ricondurre un determinato negozio per individuare la legge applicabile, va fatta lege fori e con una certa elasticità. Si sbaglierebbe a pensare che la fusione internazionale sia solo quella della 2.501. Bisogna risalire alle caratteristiche dell’istituto e non si tratta di un discorso puramente teorico. In passato, prima della Direttiva, sono state attuate fusioni fra l’Italia, che conteneva la sua disciplina, ed il Regno Unito che, invece, ignorava completamente l’istituto. Ciò è stato possibile perché è stato ricostruito l’istituto nelle sue caratteristiche essenziali che, a mio avviso, sono di operazioni finalizzate all’integrazione giuridica della base sociale dei mezzi patrimoniali di due o più società in un’unica organizzazione corporativa. Questa integrazione si realizza con il trasferimento della totalità del patrimonio, con un’estinzione senza liquidazione ed eventualmente con l’assegnazione di quote di partecipazione del capitale ai soci della società che viene meno. Quando si ha a che fare con una fusione internazionale - sia comunitaria che con società di Stati terzi -, sarebbe sbagliato pensare che si deve applicare la nozione della 2.501. Bisogna partire da quella nozione e mediare con i valori giuridici degli altri ordinamenti per capire se l’istituto è effettivamente lo stesso. Secondo elemento: quando una fusione è internazionale? Quando coinvolge società costituite ai sensi della legge di diversi Stati. Ma, è internazionale anche una fusione cui partecipano tutte ed esclusivamente società, ad esempio, di diritto italiano in vista della creazione di una società di diritto straniero? Secondo il mio parere e secondo quello del Prof. Rescio, la risposta è positiva. In questo modo, infatti, si realizza un’operazione di trasformazione societaria, partendo da società di un medesimo ordinamento, in vista della realizzazione dell’obiettivo di sottoporle, alla fine di questa integrazione, al diritto di un altro Stato. Non c’è ragione per la quale non sia possibile tecnicamente un’operazione di questo genere e sarebbe anch’essa una fusione internazionale.
Una volta chiarito cos’è la fusione internazionale, qual è il problema internazional-privatistico? Le società sono creazioni del diritto, sono la disciplina speciale che un determinato ordinamento dà ad un fenomeno di organizzazione, si risolvono nelle norme che ogni ordinamento detta per definire i rapporti fra i soci, gli organi e i terzi. La fusione tra società costituite da diversi ordinamenti ai sensi di leggi diverse pone necessariamente il problema del coordinamento tra valori giuridici del foro e valori giuridici stranieri, ponendo quattro ordini di questioni. La prima è se la lex societatis di tutte le società partecipanti conosca l’istituto. E’ ovvio, infatti, che se il diritto societario di una delle società partecipanti ignora l’istituto, sarà difficile immaginare che l’operazione possa avere luogo. Un secondo aspetto è relativo al fatto se l’istituto sia utilizzabile solo con riguardo a fusioni di diritto interno o anche a fusioni transnazionali. La quasi totalità delle normative in essere, in realtà, sono state scritte pensando a fusioni di diritto interno, non immaginando la complessità ed i problemi che sorgono quando una delle parti che partecipano all’operazione è di diritto straniero. Una volta verificato che esiste l’istituto e che esso è utilizzabile anche nei rapporti con società di diritto straniero, nasce il problema di stabilire qual è la disciplina materiale da applicare e, una volta individuate le norme, occorre capire se le diverse leges societatis in rilievo siano tra loro compatibili, e, in caso contrario, se e come risolvere il conflitto con tecniche interpretative cosiddette di adattamento. L’unica dottrina che si è posta seriamente questo problema è quella di Ballarino, il quale sostiene la tesi per cui si deve distinguere fra norme che regolano comportamenti comuni o rapporti tra le società - le quali devono essere applicate cumulativamente - e altre norme, le quali vanno applicate ad ogni società singolarmente. Secondo la mia opinione, questa impostazione non è ideale, perché non necessariamente una norma che disciplina un rapporto vuole disciplinare entrambe le parti del rapporto, quando una di queste parti non sia di diritto interno. Quindi, noi possiamo avere norme che disciplinano un rapporto fra società partecipanti alla fusione che vanno interpretate o nel senso che si applicano indipendentemente dalla legge regolatrice dell’altra società o che si applicano solo se anche l’altra società è anch’essa di diritto interno. La norma sulla fusione per indebitamento è un buon esempio di un problema interpretativo che si pone e che ha avuto, infatti, in dottrina, diverse risposte. Per la soluzione, bisogna partire dal contenuto delle norme materiali che ogni ordinamento offre nella disciplina della fusione (quando queste sono norme generali che non distinguono fusioni interne ed internazionali), cercare di capire qual è la volontà di applicazione della norma alla luce degli interessi da questa tutelati. Solo una volta compresa la volontà di applicazione della norma e compresi quali interessi essa tutela, posso capire anche se la norma si applicherà a tutte le parti del rapporto o solo alla società di diritto interno. Qui interviene il diritto comunitario. Già i fondatori della Comunità avevano visto la possibilità di un problema. Vi è una norma nel Trattato (ex art. 293), praticamente rimasta lettera morta, che prevedeva negoziati fra gli Stati membri per un trattato internazionale che avrebbe dovuto disciplinare anche la materia delle fusioni, ma che non esiste oggi. Invece, vi è stata un’attività molto intensa della Commissione con una policy che è variata nel tempo e che più di recente va nel senso di quella che si definisce “armonizzazione minima”: si riconosce, cioè, un notevole spazio all’autonomia dei singoli Stati nel fissare il proprio diritto societario, si definiscono alcune norme materiali uniformi e poi, soprattutto, si cerca di definire norme uniformi di conflitto, cioè di stabilire quale Stato ha competenza a disciplinare cosa in base alla sua legge. A questa policy della Commissione, si è aggiunta la giurisprudenza della Corte di Giustizia, attraverso varie sentenze, la Daily Mail, la Centros, Inspire Heart, Ubersering, Sević e da ultimo Cartesio, le quali lasciano all’operatore giuridico comunitario la possibilità di scegliere il diritto societario, prescindendo da qualunque collegamento e scegliendo la legge dello Stato ai sensi della quale si crea una società ed il luogo in cui si svolge l’attività d’impresa. Nella sentenza Centros, ad esempio, si trattava di cittadini danesi che volevano costituire un’attività per vendere vino in Danimarca e, quando nell’ambito delle udienze, la Corte chiede il motivo della scelta del diritto inglese, la risposta è molto semplice: costava di meno. Il capitale minimo iniziale era, infatti, notevolmente inferiore rispetto a quello richiesto dalla legge danese. Quindi, la sentenza Centros non ha a che fare con l’apertura di una sede secondaria, in realtà in Inghilterra non c’era niente, era tutto in Danimarca. Centros dice una cosa diversa, cioè che non è abuso del diritto il fatto di preferire un modello di diritto societario, perché evidentemente lo si ritiene migliore, e utilizzarlo in uno Stato che con quel diritto non ha nulla a che vedere. Gli Stati membri hanno ovviamente la possibilità di restringere la libertà, se esiste una esigenza imperativa, il cosiddetto mandatory requirement. Tuttavia, la misura deve essere non discriminatoria, necessaria, proporzionale e così via. E’ molto difficile passare questo test, perché la Corte è molto rigida nel verificare che non vi siano misure alternative possibili che lasciano ferma la libertà. Centros dice che si può usare il diritto societario che si vuole, senza muoversi. La mobilità di cui parliamo è una mobilità di diritti e di valori giuridici. Il trasferimento della sede può essere qualche cosa che accade senza che si muova nessun fattore della produzione, può essere semplicemente un’operazione di trasformazione societaria internazionale. Si tratta di una situazione rivoluzionaria per l’Europa, (in America non è invece una novità), soprattutto per alcuni Stati, che hanno il feticcio della sede reale, come la Germania. Dopo Centros, sono uscite circa duecento pubblicazioni di tedeschi, la maggior parte dei quali cercava di limitarne la portata, di reagire ad essa, reinterpretarla. Si stanno ora convincendo anche loro che, probabilmente, la teoria della sede reale non è scomparsa, come dimostra Cartesio, ma è senz’altro fortemente limitata da questa giurisprudenza.
Le fonti
L’art. 25 della legge di riforma del sistema di diritto internazionale privato (l. 218/1995) dal punto di vista della sua funzione di norma di conflitto, nel primo comma e poi nel secondo specificando le questioni, afferma la necessità con riguardo anche alle fusioni di consultare la legge di costituzione degli enti, perché la fusione è senz’altro un fenomeno che attiene alla modifica dello statuto ed è una fattispecie che rientra nell’ambito di operatività della legge di costituzione dell’ente. Il terzo comma è una norma materiale, la quale dice che l’ordinamento italiano – dal suo punto di vista, disinteressandosi delle valutazioni degli altri due o tre ordinamenti stranieri eventualmente coinvolti - riconosce e dà valore a delle fusioni, solo quando queste siano efficaci in base alle leggi di tutti gli ordinamenti. Se, quindi, uno di questi ordinamenti, disinteressandosi delle valutazioni dell’altro, ritiene al suo interno valido il fenomeno, ciò non è per il diritto italiano. Il terzo comma - che tocca le fusioni ed i trasferimenti di sede, indicando che per il nostro ordinamento il trasferimento in entrata ed in uscita è già un fenomeno lecito - per le fusioni dice di individuare il diritto applicabile, vedere cosa questo diritto dispone per poi assicurarsi che la fattispecie sia efficace in tutti gli ordinamenti coinvolti. Questa, dunque, è la prima fonte, da tenere sempre presente. Non è detto che le società che partecipano ad un’operazione di fusioni siano società beneficiarie di diritto comunitario. Possono essere società di Stati terzi oppure membri della Comunità che però non beneficiano della libertà di stabilimento. Quindi l’art.25, dal punto di vista dell’ambito di applicazione, è più ampio. Vengono subito dopo gli art.43 e 48 del Trattato Comunitario, che hanno un rango superiore per cui, in caso di conflitto con la norma interna, prevale il diritto comunitario. Pertanto, la seconda parte dell’art. 25 primo comma che dà rilevanza, quando la società è di diritto straniero, al fatto che abbia la sede amministrativa o il centro principale degli affari in Italia, per rendere applicabile apparentemente tutto il diritto societario italiano, se entra in rilievo una società di uno Stato membro è una norma che potrebbe forse operare se si riuscisse a dimostrare che c’è un’esigenza imperativa, cosa credo difficile da fare, visto che si tratta di società di altri Stati membri. Chi sono i beneficiari degli art.43 e 48 è già stato detto: società costituite ai sensi della legge di uno Stato membro, che abbiano anche uno di questi tre elementi di contatto con il territorio della Comunità ossia la sede legale, o l’amministrazione centrale, o il centro di attività principale. Questi articoli sono importanti per la giurisprudenza che, partendo da norme che la Corte ha sempre ritenuto avere effetto diretto, rende le situazioni di vantaggio derivabili dalle norme, azionabili di fronte al giudice nazionale. Il privato può avvalersi degli art. 43 e 48 per contestare qualunque norma del diritto societario che in ipotesi si opponga alla sua libertà di circolazione, in questo senso molto particolare, perché si tratta di circolazione di modelli giuridici, ancor prima che di merci, di persone o di attività. Questo aspetto va tenuto a mente, perché anche quando vi saranno dei dubbi nel funzionamento della normativa italiana che ha recepito la direttiva, le linee guida, i criteri interpretativi di base dovranno essere, se si parla di società beneficiarie del diritto comunitario, quelli che si ricavano dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Veniamo alla direttiva 2005/56/CE perché il problema di coordinamento delle fonti nasce dal fatto che la direttiva ha un suo ambito di applicazione che non coincide con l’ambito di applicazione dei beneficiari della libertà di stabilimento, perché la norma dell’art.43 e 48 in realtà fa riferimento alle società, quindi anche alle società di persone. Le sentenze con le quali la Corte di Giustizia ha affrontato il tema del diritto societario internazionale non distinguono. Il diritto di non avere ostacoli all’uso di un diritto societario straniero riconosciuto ai privati è riconosciuto anche quando i privati esercitano la loro attività economica nella forma di una società di persone. La Direttiva si occupa, però, soltanto di fusioni, assumendo una nozione abbastanza ampia, (ammettendo anche la possibilità di superare il limite del 10% del conguaglio, ove consentito dalla legislazione di «almeno uno» degli Stati membri interessati: si può discutere se basti una qualunque legge o se debba essere quella della risultante, a seconda dei principi che si seguono di interpretazione della direttiva). Si parla di fusioni fra società di capitali, che vengono individuate con il rinvio a quelle elencate nella prima Direttiva e poi con una clausola ‘di salvaguardia’ che dice: qualunque altra società « dotata di capitale sociale e avente personalità giuridica, che possiede un patrimonio distinto il quale risponde da solo dei debiti della società e che è soggetta, in virtù della sua legislazione nazionale alle condizioni di garanzia previste dalla direttiva 68/151/CEE per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi». La circostanza, quindi, di trovarvi di fronte ad una private limited company inglese che non rientra nella normativa non è di per sé ostativa alla possibilità di utilizzare la Direttiva se, chiedendolo ad un legale inglese, vi viene confermato che quelle caratteristiche, di separazione del patrimonio etc., sussistono anche con riguardo a quel tipo societario. La Direttiva, ovviamente, si applica soltanto a società beneficiarie, non si applica alle società cooperative, se lo Stato membro ha deciso di non renderlo applicabile alle società cooperative, né alle società aventi per oggetto un investimento collettivo di capitali raccolti presso il pubblico. La Direttiva è impostata in termini di armonizzazione minima, ci sono una serie di norme uniformi, però c’è un ampio rinvio al diritto nazionale che regola fusioni interne, ma c’è anche una ripartizione della competenza fra Stati membri che, in alcuni articoli base e nel considerando numero 7, trova la sua impostazione. Il concetto base è che ogni Stato, con le sue autorità - l’autorità in Italia è il notaio e non, come è stato affermato in altri Stati, l’autorità giudiziaria o quant’altro – verifica che siano stati rispettati i requisiti relativi alle disposizioni e alle formalità interne per la fusione, in base alla legge dello Stato di incorporazione dell’ente. Ciascuno Stato della società risultante dalla fusione, con la sua autorità - ed in Italia è nuovamente il notaio - , verifica la legittimità della fusione. Quindi, ci sono due momenti, uno dei quali è consegnato alla competenza delle autorità dello Stato, ai sensi del quale ogni società è costituita e quell’autorità applicherà la sua legge. C’è poi il momento finale per cui l’autorità dello Stato della società risultante della fusione fa una verifica, un controllo di legittimità che vale e circola in tutto il territorio comunitario. Ci sono poi altre norme, una delle quali, per esempio l’art.14, 2 dove vengono fatte salve le norme di Stati membri che prescrivono facoltà particolari per l’opponibilità a terzi e trasferimento di determinati beni. E’ evidente che non vengono fatte salve solo le norme di Stati membri, perché se uno Stato terzo ugualmente pone dei requisiti per il trasferimento di un bene immobile, non si vede perché anche quella norma non debba essere in qualche misura rispettata. Bisogna dare rilevanza nell’interpretazione della Direttiva ad alcuni principi che si trovano in qualche misura già nella Direttiva stessa: nel terzo considerando, si capisce che c’è un favor, una disposizione favorevole nell’ordinamento comunitario verso le fusioni, ma credo che ci sia anche un altro principio implicito nella giurisprudenza Centros e seguenti. Il principio che per l’opposto tutela l’identità che ogni Stato membro dà al suo tipo societario. Se vogliamo, infatti, mettere in concorrenza, come fossero dei prodotti, i diritti societari dobbiamo lasciare a chi questi prodotti li produce, nei limiti di un’armonizzazione che secondo me è sempre più verso un’armonizzazione minima, la libertà di definire il modello com’è. C’è spesso un equivoco nell’idea della concorrenza tra i diritti societari. Il privato non può prendersi le parti del diritto societario che gli piacciono maggiormente. Il privato può scegliere fra vari modelli, ma chi questi modelli li definisce resta sempre lo Stato e lo Stao può definire questi modelli anche in modo molto diverso. Le fusioni, dice la Direttiva, sono possibili solo tra tipi di società, alle quali la legislazione nazionale consente di fondersi. Sia chiaro che uno Stato membro non può vietare fusioni tra società interne e straniere. Sarebbe assurdo. Vuole dire solo che, se in uno Stato membro il tipo sociale non vede ammessa la possibilità, neanche in fusioni domestiche, di fondersi, questo viene considerato dal legislatore comunitario un qualche cosa che rende non operativa la disciplina di armonizzazione. Resta ferma la possibilità per gli Stati membri di porre divieti per motivi di interesse pubblico, che però non devono essere discriminatori in base alla nazionalità. Relativamente a cosa sia esattamente la fusione, il decreto dice che l’operazione 2.501 primo comma è, in realtà, modellata sulla Direttiva sulla fusioni interne. Quando la fusione è internazionale - soprattutto se la fusione coinvolge Stati terzi che non hanno subito il processo di armonizzazione - l’operatore non può fermarsi al 2.501 primo comma, ma deve capire se l’operazione, come risulta dall’integrazione delle normative, risponde a quelle caratteristiche fondamentali ed essenziali dell’istituto. Quali sono i tipi societari tra cui può aversi fusione? Le società di capitali diritto italiano, le società cooperative, (fatta eccezione per le società cooperative a mutualità prevalente ex art. 2512 c.c.), tutte le altre società previste dall’art. 2.della Direttiva, ed anche la società europea e la società cooperativa europea. Non si vede, infatti, il motivo per cui questi enti non possano anch’essi fondersi con società diverse. Si tratta, quindi, di valutare non tanto il momento della loro costituzione, perché lì c’è il regolamento, ma dopo che la società europea è nata, essa può benissimo partecipare ad operazioni di fusione ed essere inclusa tra le società che possono beneficiare. Qui veniamo ad una prima complicazione che spiega perché il discorso sulle fonti è importante. Il decreto legislativo 30 maggio 2008, n.108 estende la propria disciplina anche a fusioni non contemplate dalla Direttiva. Quindi, il legislatore italiano ha fatto la scelta di dire che la disciplina uniforme che io sarei obbligato, ex direttiva, ad applicare solo quando entrino in rilievo società di capitali che siano poi beneficiarie del diritto di stabilimento, dal mio punto di vista, la applico anche a società di persone di Stati membri (e ci si può chiedere se debbano essere o meno beneficiari della libertà di stabilimento) e a società di capitali di Stati membri non beneficiari della libertà di stabilimento, a condizione che l’altro Stato di incorporazione di tali enti abbia operato la stessa estensione. L’Inghilterra, ad esempio, ha esteso l’ambito di applicazione delle norme di recepimento della Direttiva. Abbiamo, quindi, un caso nel quale la Direttiva non si applicherebbe, ma il legislatore ha deciso di ampliare, comunque, l’ambito di operatività delle sue norme, salva quella sulla partecipazione dei lavoratori, a condizione che anche il diritto dell’altro Stato membro disponga la stessa estensione. Il nostro legislatore è andato ancora oltre: con riguardo a tutte le altre fusioni (ossia fusioni con società di Stati terzi o fusioni con società di Stati membri che non abbiano operato la stessa estensione che operiamo noi) alcune norme, di cui all’art.3 primo e secondo comma, all’art.4, 5, 6, 7, 8, 9 e 18 vengono dichiarate applicabili. La nostra auspicata estensione della disciplina di fusioni fra società di diritto italiano, ove la risultante sia il diritto straniero, non è stata recepita. Vi è esclusione delle SICAV ex art. 43 T.U.F. Il decreto stabilisce alcuni principi importanti. Il primo è che si dà prevalenza alla lex societatis della società risultante dalla fusione. Si trova una strana deroga: «fatto salvo l’art.11»: si tratta, però, dell’art. 11 del nostro vecchio testo, ossia l’articolo sull’atto di fusione, per cui si deve intendere: “fatta salva comunque la necessità dell’atto di fusione”, che potrebbe benissimo non essere previsto dalla legge dello Stato della risultante. La mancanza di questa previsione nella legge dello Stato della risultante della fusione non vuole dire assolutamente che l’art.12 possa essere superato, cioè possa esserci la non necessità di stipulare un atto di fusione. Fatto questo chiarimento, la legge che prevale in caso di conflitto è quella della risultante. Vi è poi un altro passaggio di non scarsa rilevanza. L’art.25 terzo comma, quello che imponeva ed impone tuttora, quando non si operi sotto la Direttiva ed il decreto, all’operatore italiano di verificare che la fusione sia efficace in base alle leggi di tutti gli Stati e non solo di quello italiano se partecipano società italiane, non opera perché si deve dare riconoscimento al valore giuridico della società straniera, quale esso risulta sulla base degli accertamenti che ha fatto l’autorità competente. Il certificato preliminare rilasciato dall’autorità competente straniera è rilasciato a titolo definitivo. L’operatore italiano non potrà sindacare di nuovo le valutazioni fatte dall’autorità straniera, così come non può avvenire il contrario. Quindi, quella parte dell’art.25, con riguardo a questo tipo di fusioni, cessa di operare. Poi, ovviamente c’è il rinvio a tutta la disciplina codicistica. Bisogna ricordare le norme fiscali, le normative speciali antitrust o contenute in leggi speciali che possono porre particolari problemi. Infine, vi è il diritto straniero che opera.
Il coordinamento delle fonti
Perché queste fonti vanno coordinate con attenzione? Ci sono tre diverse situazioni che si possono presentare e ciascuna di loro sollecita un diverso meccanismo di funzionamento delle fonti. Ci possono essere fusioni tra società italiane e società di Stati Membri che hanno recepito la Direttiva; fusioni tra società italiane e società di Stati Membri che non hanno recepito la Direttiva; fusioni con società di Stati terzi o con società di Stati membri non beneficiarie della libertà di stabilimento. Nel primo caso, si parte dal decreto, non opererà l’art. 25 ma il 2.501 e seguenti. Nello Stato membro di recepimento bisogna chiedere ad un consulente di diritto straniero qual è il diritto che si applica in quel Paese, fermo restando che l’interpretazione delle norme dovrà avvenire sulla base dei principi che si desumono dal diritto comunitario, dalla Direttiva e dall’art.43 del Trattato. Quindi, favor verso la fusione, tutela della identità dei diversi tipi di modello societario. Il secondo caso, si è verificato La questione non è per nulla teorica. Abbiamo avuto in Italia una situazione per vari mesi nei quali il termine di recepimento era scaduto, il decreto non era stato ancora approvato e gli operatori economici volevano già utilizzare la possibilità di dare vita a fusioni transfrontaliere in base alla Direttiva. Mi sono occupato concretamente di questo problema e vi posso dire che è risolvibile. Potreste anche trovarvi la questione ribaltata. Ad esempio, la Spagna so che sta per promulgare la legge di recepimento della Direttiva, ma ad oggi non ha ancora attuato la Direttiva. Potreste trovarvi con questo problema e non è detto che si debba tornare al vecchio regime. Si può cercare di beneficiare della Direttiva, usando di nuovo il diritto comunitario Infatti, se le norme della Direttiva sono precise e dettagliate, sono self-executing, per lo meno verso lo Stato producono un effetto diretto. Molte delle norme e delle Direttive possono dirsi estremamente dettagliate. Esiste anche una posizione che in qualche sentenza della Corte di Giustizia è emersa, per cui non necessariamente lo Stato membro deve recepire la Direttiva quando in modo chiaro il suo ordinamento già contiene norme che possono ritenersi attuative. Questo è stato l’argomento che abbiamo usato con un difficile Council inglese per dirgli, prima che il decreto venisse approvato, che in fondo in Italia c’era già l’autorità competente a rilasciare il certificato preliminare e questa autorità era il notaio. Non c’era bisogno di una norma italiana che indicasse il notaio, perché in base alla legge notarile il notaio già svolge questa funzione ed ha la possibilità di rilasciare certificati con riguardo agli atti che lo coinvolgono. Individuare un’autorità diversa forse sarebbe stato discriminatorio, perché sarebbe stato difficile capire la ratio di attribuire ad un organo diverso per le fusioni inter-comunitarie le funzioni che oggi svolge il notaio. Sulla base di questi argomenti, supportati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, abbiamo convinto il Council inglese che si poteva fare la fusione anche se in Italia mancavano norme di recepimento. Poi, nel frattempo è intervenuto il decreto. Il problema potrebbe porsi identico con riguardo ad altri Stati membri anche non di nuova entrata, come la Spagna, che sono più lenti, addirittura di noi, nel recepire le norme. Cosa succede quando la fusione interessa una società beneficiaria della libertà di stabilimento ma che non è una società di capitali? Abbiamo l’estensione volontaria italiana della propria disciplina e le norme italiane dicono che va bene, a condizione che anche l’altro Stato membro abbia esteso la disciplina. Cosa succede se l’altro Stato membro non ha esteso la propria disciplina? Abbiamo comunque un parametro fondamentale che è l’art.3 della Costituzione che al suo primo comma consente di censurare qualsiasi disparità di trattamento normativo che non abbia un fondamento razionale. Questo controllo di razionalità porterà probabilmente ad applicare il più possibile in via analogica le norme del decreto attuativo della Direttiva, proprio perché altrimenti si creerebbero regimi differenziati che non hanno ragione d’essere. Quindi, questo spiega anche l’estensione che il legislatore ha operato.
Il decreto legislativo
Il decreto disciplina una fase preliminare ed una fase esecutiva. Nella prima, c’è il progetto comune di fusione e questo ha un contenuto minimo con facoltà (delle società partecipanti, se consentito dalla lex societatis) di disciplinare altri aspetti (Direttiva, considerando n. 4, art. 5). Ha degli elementi nuovi rispetto a quelli del 2.501 ter (informazioni sulla valutazione degli elementi patrimoniali attivi e passivi trasferiti, le probabili ripercussioni sulla occupazione, i vantaggi particolari eventualmente attribuiti agli esperti che esaminano il progetto, informazioni sulle procedure relative al coinvolgimento dei lavoratori) si prevede la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di informazioni sulla fusione (art. 6.2 Direttiva, art. 7 Decreto). Qui c’è una prima questione sul rapporto tra pubblicità del progetto di fusione e derogabilità del termine (cf. massima Consiglio Notarile di Milano n.109). C’è la relazione dell’organo amministrativo, che deve essere messa a disposizione anche dei rappresentanti dei lavoratori, ove esistano, altrimenti dei lavoratori tout court, almeno un mese prima dell’Assemblea. Si può rinunciare a questa relazione, ma ovviamente, essendo tutelato anche l’interesse dei lavoratori, bisogna ottenere il loro consenso. Di nuovo, su questo c’è una massima del Consiglio Notarile di Milano (n. 113). E’ prevista una relazione di esperti indipendenti per ciascuna società (art. 8 Direttiva, art. 9 Decreto), ma c’è la possibilità, se tutte le società sono d’accordo, di avere una relazione unica da parte di esperti designati da autorità dello Stato di una delle società partecipanti o della risultante. E’ prevista l’approvazione da parte dell’Assemblea (art. 9 Direttiva; art. 10 Decreto): c’è una riserva di competenza assembleare (salvo il caso di procedura semplificata). Si può condizionare l’approvazione della fusione ad una (successiva) approvazione delle modalità di partecipazione dei lavoratori nella società risultante. Se la legge dell’altra società prevede la possibilità di attuare la fusione, mantenendo però aperto un possibile contenzioso su un rapporto di cambio, come ad esempio nel caso della Germania, ci vuole un’approvazione espressa di questa particolare situazione che si verifica e che vede un elemento fondamentale per il rapporto di cambio ancora, in qualche misura, sub iudice. C’è il certificato preliminare, che ciascuna società deve ottenere dalla sua autorità, in Italia il notaio, per la parte della procedura relativa a ciascuna società che andrà verificata volta per volta. Il certificato deve essere rilasciato senza indugio, attesta a titolo definitivo, quindi circola e deve essere riconosciuto da tutto l’ordinamento comunitario, in tutti gli Stati membri. Non può essere rimesso in discussione da un’altra autorità e pone il problema pratico di qual è il rapporto tra questo certificato preliminare e l’atto di fusione (cfr. Massima Consiglio Notarile di Milano n. 108). Perché questo crea problemi? Perché, apparentemente, nell’elenco di ciò che il notaio italiano deve dichiarare nel suo certificato preliminare, non si parla dell’intervenuta stipula dell’atto di fusione e, a livello di posizione, l’attribuzione sembra venire dopo il certificato preliminare. Ritengo opportuno, quando la società italiana si estingue nella società straniera, prevedere nell’atto di fusione l’obbligo che l’amministratore della società straniera dia comunicazione ed eventualmente la documentazione di supporto al notaio italiano dell’intervenuto perfezionamento dell’operazione, del fatto cioè che ci sia stato da parte dell’autorità competente straniera il rilascio dell’attestazione, seconda la quale l’operazione di fusione è avvenuta legalmente. In difetto di questa notizia, come è possibile sapere quando depositare l’atto al registro? Inserirlo a livello di obbligazione contrattuale nell’atto di fusione, prevedendo espressamente che ci debba essere quest’adempimento da parte di un organo amministrativo della società risultante, può essere utile. L’atto di fusione è stato imposto a tutto il mondo comunitario, non tutti gli ordinamenti lo conoscono. Abbiamo avuto, per dire, in Inghilterra qualche difficoltà a far capire al Counsel inglese che non si poteva immaginare che l’atto di fusione venisse redatto dal giudice inglese. La competenza del notaio italiano è esclusiva, se la società è la risultante di una fusione con lo Stato italiano. Se è di diritto straniero, bisogna verificare se la legge dello Stato straniero prevede anch’essa la stipula dell’atto di fusione, perché allora ovviamente sarà quell’autorità a procedere alla stipula, altrimenti dovrà essere il notaio italiano.
Questioni particolari
Esaminiamo alcune questioni particolari poste dal decreto legislativo. La prima è quella della fusione con indebitamento: cioè quanta e quale parte del 2.501 bis si applica quando la fusione interviene non fra una società italiana e un’altra italiana o l’italiana ed un’altra straniera? La scelta che è stata fatta, partendo dall’approccio che dà rilevanza agli interessi materiali tutelati dal legislatore con la norma, pensando alle fusioni interne, è di dire che si applica la 2.501 bis quando la target, cioè la società il cui patrimonio poi eventualmente entra a servizio per il pagamento del debito, è italiana. Potrebbe anche trattarsi di una fusione inversa, non importa se è un’incorporante oppure l’incorporata. E’ importante è che sia la target e non la società che si indebita. Questo non risolve tutti i problemi: quando si applica la norma, lo si fa solamente alla società italiana o anche alla società straniera? Il progetto di fusione deve contenere certe informazioni, il progetto è comune, per definizione anche nel progetto approvato dalla società straniera devono esserci quelle informazioni (cfr. Consiglio Notarile di Milano massima n. 111). Fusioni in presenza di azioni di categorie speciali: c’è bisogno dell’approvazione dell’assemblea? In dottrina, chi scrisse prima che uscisse il decreto, ha risposto in senso positivo perché, se si modifica la legge regolatrice dell’ente, se diventa cioè una fusione per cui la società italiana si estingue in quella straniera, si dovrebbe legittimare un interesse dei portatori delle azioni speciali ad esprimere la loro voice. La nostra scelta è stata però di tipo diverso. Noi non riteniamo, infatti, che sia così perché chi non ama il diritto straniero ha già comunque la possibilità di recedere. C’è la norma che lo dice espressamente. L’approvazione dovrà essere richiesta nei casi particolari in cui il contenuto dei diritti che vengono riconosciuti al portatore, in base alla legge della società risultante, effettivamente pregiudica il contenuto dei diritti esistenti. La materia dei diritti di partecipazione dei lavoratori non viene qui trattata. La tecnica seguita dalla Direttiva è una tecnica pessima, perché rinvia alla disciplina della Direttiva sulle società europee, modificando però una buona parte delle disposizioni e non richiamandole tutte. Per altro, il legislatore italiano, in sede di recepimento di quella Direttiva, quando vi erano delle opzioni sulle quali doveva operare una scelta, si era limitato a ripetere il testo dell’opzione per cui non si capisce oggi quale sia il regime. Il risultato è una materia di una complessità tale che potrebbe veramente, in sede di attuazione di queste norme, creare dei problemi. Questo è il punto sul quale molte operazioni di cross border cadono perché, se vi partecipa una società tedesca sottoposta ad un regime di cogestione, cioè di partecipazione dei lavoratori in seno agli organi amministrativi della società, l’imprenditore italiano può avere qualche riserva ed essere costretto ad importare questo modello di corporate governance. Ultimo punto è il tema del trasferimento della sede all’estero, che è un tema totalmente distinto, visto che non coinvolge il rapporto fra più società ma è una stessa società che trasferisce la sua sede. Anche qui c’è una grande confusione per il fatto che la nozione di sede è una nozione polimorfa. La sede può svolgere nel diritto funzioni diversissime. Può essere un criterio di giurisdizione, un criterio di collegamento, un elemento di norma materiale (pensate alla domiciliazione ai fini di individuare dove si adempiono le obbligazioni - il nostro c.c. dice a domicilio del creditore o del debitore -). Tutto questo fa sì che, quando si parla di trasferimento di sede sociale, ci si deve porre prima il problema di quale fosse la volontà dell’organo sociale che ha deliberato il trasferimento della sede. Non è detto che la volontà sia di trasformare la società da società di diritto interno a società di diritto straniero: questo è il senso comune del termine, spesso si vuole arrivare a quel risultato, questa è una trasformazione societaria a tutti gli effetti, non diversa dal punto di vista concettuale dal cambiamento di una s.r.l. in una s.p.a., salvo per il fatto che coinvolge il diritto straniero: Si può immaginare, tuttavia, una delibera societaria che vuole trasferire la sede all’estero, restando assoggettata al diritto di partenza, perché cambia il foro e vi sono una serie di conseguenze. Bisogna allora partire dalla volontà sociale e chiedersi se il diritto comunitario già oggi - la sentenza Cartesio dà delle indicazioni - non consenta in concreto di dar vita ad una operazione di questo genere, anche se il diritto straniero non la contempla in modo espresso. Detto questo, oggi abbiamo comunque un escamotage apparentemente. Cosa impedisce ad una società italiana che vuole trasferire la sede in Germania e si sente dire che non è possibile, di creare in Germania una newco di diritto tedesco e di fondersi per incorporazione nella newco di diritto tedesco? E’ un uso elusivo della disciplina? La disciplina presuppone società già operative, ma non c’è nessuna norma che dica questo espressamente. Ciò vuole dire che, nuovamente, i principi che vengono dalla Corte di Lussemburgo vanno in quel senso. Secondo la mia opinione, già oggi, il trasferimento della sede, grazie alla disciplina della fusione transfrontaliera, può attuarsi, oltre che ovviamente sulla base dei principi che consentirebbero di contestare la validità di ostacoli, se discriminatori, posti in essere dal diritto dello Stato di arrivo.
[nota 1] Trascrizione a cura della Fondazione Italiana per il Notariato autorizzata dall’Autore.
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