La Società Europea: una società poco amata dagli italiani?
La Società Europea: una società poco amata dagli italiani? [nota 1]
di Giuseppe Rescio
Ordinario di Diritto Commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

I. La diffusione della Società Europea

A partire dall’8 ottobre 2004 - data di entrata in vigore, a tre anni dalla sua adozione, del Regolamento CE 2157/2001 relativo allo statuto della Società Europea (SE) – sono state costituite circa trecentoquaranta Società Europee, a cui si aggiunga una ventina di casi in cui è stato manifestato interesse per la costituzione di una Società Europea. I dati riferiti sono tratti dal sito www.seeurope-network.org. Se si comparano questi dati con il numero di Società Europee esistenti all’inizio dell’anno 2007, non superiore a settanta secondo la medesima fonte all’epoca consultata nell’ambito della mia partecipazione ad un’indagine commissionata dal Ministro della Giustizia francese [nota 2], ne risulta che il numero delle Società Europee, nel giro di un paio d’anni, è quintuplicato.
Gli Stati che a tale forma societaria fanno maggiormente ricorso sono la Germania e la Repubblica Ceca. Quanto alla Germania, è ipotizzabile che la ragione del successo sia da porre in relazione in primo luogo con la maggiore elasticità della Società Europea, la quale può essere strutturata anche secondo il sistema monistico, rispetto alla Aktiengesellschaft (la tradizionale società azionaria tedesca) che invece continua a conoscere soltanto il sistema dualistico. In secondo luogo, se è vero che nella Società Europea con sede in Germania deve essere assicurata la partecipazione dei lavoratori in modo non dissimile da quanto avviene nelle Aktiengesellschaften, c’è tuttavia la possibilità che in un momento successivo si attui un trasferimento di sede in altro Stato membro, seguito a tempo debito da una trasformazione della SE in società azionaria di diritto nazionale, le cui regole consentano di eliminare le modalità di coinvolgimento dei lavoratori (quella descritta è una delle ragioni per cui la Società Europea è stata accolta con sospetto soprattutto all’interno degli Stati che prevedono forme di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione societaria).
Al riguardo è bene ricordare che il coinvolgimento dei lavoratori richiesto dal Regolamento sulla Società Europea può articolarsi secondo tre modalità: informazione, consultazione e partecipazione agli organi sociali. E’ obbligatorio, nella fase di costituzione di una Società Europea, avviare negoziati tra i lavoratori e gli organi sociali finalizzati a determinare forme di coinvolgimento dei lavoratori in termini di informazione e consultazione, al punto che, se i negoziati falliscono, si applicano comunque disposizioni di riferimento volte a prevedere e regolare modalità minime di coinvolgimento. Non è, invece, obbligatorio che si attuino forme di partecipazione dei lavoratori agli organi sociali, salvo il caso in cui le società che costituiscono la Società Europea già conoscano forme di partecipazione, di tal che la costituzione della Società Europea non può servire ad eliminare o rendere meno pregnanti le forme di partecipazione preesistenti in base alle rispettive leggi nazionali.
Una terza ragione per la quale in Germania la Società Europea ha notevole diffusione risiede probabilmente nella difficoltà che incontra una società tedesca a trasferire la propria sede all’estero. Il Regolamento 2157/2001, invece, mette a disposizione una normativa che agevola, adeguatamente regolandone gli interessi coinvolti, il trasferimento della sede della SE nel territorio di altri Stati membri.
Al di là dell’analisi della situazione tedesca, va detto molti altri Stati ospitano Società Europee: dall’Olanda alla Francia, dal Regno Unito ai Paesi Scandinavi, senza tralasciare la diffusione constatabile nei Paesi dell’Est, dove forse la motivazione alla base della scelta è più legata ai vantaggi garantiti dall’etichetta europea e dalla più facile identificazione delle modalità di funzionamento di una SE da parte degli operatori dell’Europa occidentale in confronto alle incertezze che potrebbero avvolgere le strutture societarie messe a disposizione da paesi da poco entrati a far parte del consesso europeo senza consolidate tradizioni di diritto societario.
Desta comunque non poche perplessità la constatazione che, mentre anche in Spagna si registra l’esistenza di una Società Europea, l’unico degli Stati di risalente partecipazione alla Comunità che non ospita alcuna SE è l’Italia. Qui sono riscontrabili due soli casi di costituzione di Società Europea “in uscita”: in entrambi i casi, cioè, una società italiana ha partecipato alla costituzione di una Società Europea per fusione, ma la SE neocostituita ha posto la sua sede in un altro Stato membro (si tratta dei due noti casi della SE, con sede in Austria, che gestisce la galleria del Brennero [nota 3] e della fusione transfrontaliera del gruppo assicurativo Allianz-Ras da cui è nata la Allianz SE, con sede in Germania).
Potrebbe essere interessante verificare quali siano i settori in cui la Società Europea sia stata utilizzata. Uno sguardo rapido permette di notare che la SE è presente nei settori più disparati: dai servizi finanziari – inclusi quelli bancari e assicurativi – al settore commerciale, dall’industria chimico-farmaceutico a quella metallurgica, dalle attività alimentari e agricole al settore della intermediazione immobiliare, dai trasporti all’impresa edile, ecc. Non esiste, insomma, uno specifico settore di riferimento in cui può dirsi consigliabile la forma della Società Europea rispetto ad altre. La sua particolare diffusione nel settore dei servizi finanziari è probabilmente dovuta al semplice fatto che le società operanti in questo settore investono in consulenza e sono quindi più pronte di altre nel recepire le novità e attuare le modifiche ritenute più adeguate alla propria situazione.
A questo punto viene da chiedersi perché non siano finora nate Società Europee con sede in Italia. Intravedo tre ragioni; le prime due sono tra loro strettamente collegate.
Un primo problema è rappresentato da ciò, che la Società Europea è disciplinata dal regolamento comunitario istitutivo in modo altamente incompleto, sì da richiedere una notevole integrazione ad opera delle normative nazionali del luogo in cui la Società Europea pone la sua sede (statutaria e reale, essendone prescritta la posizione nel medesimo Stato). Una serie di argomenti rilevanti - dal capitale alle azioni, dalle obbligazioni alla protezione dei creditori, dalla responsabilità degli amministratori e dei componenti degli organi di controllo ai bilanci, etc. - sono rimessi alle normative nazionali. Da qui sorge la necessità di comprendere sin dove arriva il diritto comunitario e da dove parte l’operazione integrativa volta ad innestare norme e principi (e ragionamenti tipici dell’interprete) del diritto nazionale.
Questo problema di fonte comunitaria - che evidentemente non si pone solo in Italia, ma vale per tutti gli Stati membri – è nel panorama italiano aggravato da un secondo problema: l’incompletezza della regolamentazione nazionale del fenomeno. Mentre, infatti, gli altri Stati membri hanno proceduto ad accogliere la Società Europea e il suo Regolamento, dettando una serie di disposizioni atte a favorire la costituzione e la operatività delle Società Europee nel loro territorio, il legislatore italiano, sotto questo profilo, ha mantenuto un atteggiamento quasi passivo, limitando il proprio sforzo all’attuazione della Direttiva 2001/86, coeva al Regolamento e relativa al coinvolgimento dei lavoratori nella SE (cfr. il d.lgs. 188/2005). Per contro non sono mai stati realizzati gli interventi normativi sollecitati dallo stesso Regolamento 2157/2001 (per certi versi una qualche “responsabilità” è ascrivibile anche al notariato il quale, pur avendo più volte segnalato il problema e sollecitato l’intervento legislativo, non ha preso l’iniziativa – che ha invece avuto, con felice esito, nell’attuazione della Direttiva sulla fusione transfrontaliera - di presentare un proprio disegno di legge in materia; ma non è detto che ciò non possa in futuro avvenire).
Il terzo problema è rappresentato dalla percezione della Società Europea come forma societaria destinata soprattutto alle medio-grandi imprese. In un panorama, come quello italiano, dove pullulano le piccole e medie imprese (PMI), è sembrato che la Società Europea costituisse un’alternativa esorbitante ed eccessivamente “costosa” (in senso lato) rispetto alle effettive necessità. Con riguardo alle PMI molte speranze sono riposte nella Società Privata Europea (SPE), quale evoluzione, di prossima realizzazione, della Società Europea, tale da risolvere i problemi sopra accennati: la SPE, infatti, aspira a presentarsi come tipo societario regolato interamente (o quasi) a livello comunitario (senza integrazione ad opera dei diritti nazionali), più semplice e più adatto ad essere utilizzato, anche per il fatto che non dovrebbe prevedere il coinvolgimento dei lavoratori, dalle piccole e medie imprese e da quei gruppi di società che, altrimenti, troverebbero più comodo e meno costoso – si allude ai costi transattivi da sostenere tutte le volte che si vuole costituire una società in uno Stato diverso secondo il diritto locale – rivolgersi ai tipi societari domestici. Disponendosi di un’unica forma societaria utilizzabile dappertutto in Europa, molti problemi dovrebbero scomparire (pur potendone altri farsi avanti).

II. Gerarchia delle regole

L’art. 9 del Regolamento SE fonda la gerarchia delle regole che disciplinano la Società Europea.
Al livello più alto vi sono le norme del Regolamento stesso, che sono tutte inderogabili quando non affermano la propria derogabilità per opera dello statuto della singola società o per opera dei diritti nazionali. Sullo stesso piano si pongono i principi provenienti dal diritto societario comunitario e che si traggono dal Trattato, dalle direttive e dagli orientamenti interpretativi della Corte di Giustizia.
Scendendo di livello, vengono in considerazione le regole espresse dall’autonomia privata in clausole contenute nello statuto della SE - intendendo per “statuto” i documenti unitariamente considerati e normalmente denominati atto costitutivo e statuto in senso stretto - quando tali clausole sono espressamente consentite dal Regolamento SE. Le regole in discorso prevalgono sulle disposizioni imperative/inderogabili dell’ordinamento interno, proprio perché direttamente autorizzate da norme comunitarie e pertanto a queste parificate nel rapporto con le normative nazionali.
Sul medesimo piano delle descritte regole di autonoma produzione occorre porre quelle contenute negli accordi tra i lavoratori, le loro delegazioni e gli organi sociali, concernenti il coinvolgimento dei lavoratori: particolarmente quando questo coinvolgimento non si esaurisse nell’informazione preventiva da dare ai lavoratori sul compimento di operazioni ed eventi relativi alla società o nella loro consultazione per assumere pareri in ordine a determinate operazioni/scelte gestionali da compiere, ma si spingesse fino a forme di partecipazione all’interno del consiglio di amministrazione o dell’organo di direzione o dell’organo di vigilanza della società. Quando accordi in materia non vengono raggiunti, subentrano nel medesimo grado gerarchico le regole contenute nelle “disposizioni di riferimento” dettate dai legislatori nazionali in attuazione della direttiva sul coinvolgimento dei lavoratori.
Scendendo ulteriormente di livello, si giunge alle materie non disciplinate dal Regolamento o dal diritto comunitario in genere, e agli aspetti ivi non regolati di materie parzialmente disciplinate: qui c’è spazio per il diritto locale, costituito in primo luogo dalle norme nazionali di “accoglimento” della SE, che in Italia non ci sono ma che esistono in altri Stati membri. In secondo luogo, là dove manchino norme domestiche dettate ad hoc, vengono in evidenza le norme inderogabili del diritto nazionale delle società azionarie, perché la Società Europea è una società per azioni o anonima.
Dove poi difettano norme interne inderogabili, trovano applicazione le regole contenute in clausole statutarie ammesse dalle norme derogabili interne sulla s.p.a. ovvero, nella misura in cui clausole divergenti non siano contenute nello statuto, le disposizioni derogabili (in quanto in fatto non derogate).

III. Conseguenze della mancanza di norme interne di “accoglimento”

La mancanza di norme interne di “accoglimento” nel nostro sistema determina importanti conseguenze.
Innanzitutto, una delle modalità costitutive della Società Europea non risulta praticabile. Secondo il Regolamento istitutivo la Società Europea può essere costituita in quattro modi: tra questi vi è il procedimento di costituzione di una SE holding. Si tratta di un procedimento piuttosto elaborato a cui possono partecipare anche le società a responsabilità limitata (oltre alle s.p.a.) e che ha l’obiettivo di creare una società holding in forma di SE la quale detenga tendenzialmente tutte (o almeno la maggior parte delle) azioni o quote delle società nazionali che la costituiscono, conseguendone il controllo di diritto. A tal fine i soci delle società costituenti la Società Europea dovrebbero conferire le loro azioni/quote nel patrimonio della costituenda SE. Il procedimento costitutivo si perfeziona solo se l’apporto supera la soglia necessaria per il controllo di diritto, che l’art. 32, § 2, individua nella soglia minima data dal superamento del 50% dei “diritti di voto permanenti” in ognuna delle società fondatrici.
.La regolamentazione comunitaria di questo procedimento costitutivo, tuttavia, è insufficiente perché incompleta, e non v’è modo di completarla sul piano interpretativo, trattandosi di fattispecie costitutiva non prevista né da altre fonti comunitarie né da molti ordinamenti nazionali, tra cui il nostro. Mentre gli ordinamenti che hanno dettato norme di accoglimento e adattamento della Società Europea, hanno provveduto a fornire indicazioni per la costituzione di SE holding, quello italiano, avendo trascurato di intervenire in materia, pone l’interprete e l’operatore italiano in estrema difficoltà: può infatti ben dirsi che questo è forse l’unico caso, o uno dei pochissimi casi, in cui l’interpretazione integrativa non riesce a colmare le lacune della normativa comunitaria, onde dar luogo alla costituzione di una SE holding con sede in Italia. Questa è almeno la mia personale convinzione, per la cui più analitica motivazione rinvio ad un mio precedente studio [nota 4].
Un altro inconveniente è rappresentato dal fatto che non è possibile strutturare la Società Europea secondo il modello tradizionale italiano, che vede accanto all’organo amministrativo il collegio sindacale. La configurabilità di una SE strutturata secondo il modello tradizionale italiano è per il vero un punto discusso. Alcuni, tra cui il sottoscritto, sostengono che il nostro legislatore potrebbe sfruttare la norma contenuta nell’art. 39, § 2, del Regolamento SE, per consentire l’attribuzione della nomina dell’organo di controllo all’assemblea in un sistema di tipo dualistico; e, poiché non vi sono norme che spiegano come il controllo vada attuato, il controllo in tal caso potrebbe essere del tutto corrispondente a quello che, in termini di contenuti e di funzioni, effettua il collegio sindacale in una società per azioni [nota 5]. Altri non condividono questa interpretazione e ritengono che la Società Europea possa essere strutturata esclusivamente secondo il sistema dualistico in senso stretto ovvero secondo il sistema monistico [nota 6]. In ogni caso, il silenzio del legislatore italiano esclude, al momento attuale, l’opportunità della costituzione di una SE con la presenza e le tipiche funzioni del collegio sindacale.
In terzo luogo può rilevarsi che il mancato intervento del legislatore italiano in sede di adattamento della Società Europea al nostro sistema comporta la perdita di una serie di opzioni che il Regolamento lascia agli Stati membri su diversi aspetti di disciplina. Il Regolamento detta anche norme che dichiara derogabili dai legislatori nazionali, lasciando a questi ultimi spazi di libertà e di autonomia. Ma, se si vogliono sfruttare quelle opzioni, bisogna intervenire; non facendolo, si perdono delle opportunità. Così, ad esempio, avviene per il diritto dei membri dell’organo di vigilanza ad esercitare individualmente il potere di chiedere al consiglio di direzione ragguagli necessari al controllo.

IV. Incertezze accentuate dal difetto di norme interne di “accoglimento”

Alcune incertezze tipiche derivanti dalla incompletezza del Regolamento istitutivo potrebbero essere rimediate, o almeno rese meno problematiche, da un adeguato intervento del legislatore. La mancanza del quale accresce le difficoltà e rende meno appetibile il ricorso alla Società Europea.
In particolare, punto fondamentale è capire quali sono gli aspetti di una materia non totalmente regolata a livello comunitario per i quali ai sensi dell’art. 9, § 1, lett. c, Regolamento SE, vi sarebbe spazio per l’applicazione del diritto nazionale.
Si prenda come esempio il problema della revoca dei componenti delle cariche sociali. Il Regolamento istitutivo della Società Europea regola in parte l’organo amministrativo e l’organo di controllo, ma non detta alcuna regola sulla revoca, salva la individuazione dell’organo competente nella SE a struttura dualistica (cfr. art. 39 ss.). Che cosa se ne deve ricavare? La revoca dei componenti degli organi di gestione e controllo è o no un aspetto (di una materia parzialmente regolata) per la quale i diritti nazionali hanno voce in capitolo?
Gli interpreti si sono pronunciati in maniera non uniforme [nota 7]. Alcuni sostengono che il silenzio del Regolamento porterebbe alla conclusione che la revoca non è ammessa. Altri, al contrario, ritengono che dal silenzio dovrebbe ricavarsi un’opzione comunitaria per la revocabilità ad nutum. Ma può essere fondata una terza ipotesi interpretativa, secondo la quale la mancanza di una presa di posizione del legislatore comunitario si traduce nella individuazione di un aspetto non regolato (di una materia parzialmente regolata), con conseguente applicabilità delle norme giuridiche nazionali. Questa posizione, da me sostenuta, si fonda altresì sulla giusta valorizzazione di una importante norma del Regolamento, l’art. 10, la quale pone il “principio di non discriminazione” tra SE e società azionarie nazionali: salvo quando diversamente disponga il Regolamento, in via tendenziale una Società Europea deve essere trattata come una società per azioni e quest’ultima come una Società Europea. Un intervento del nostro legislatore, volto a precisare che la revoca dei componenti degli organi di gestione e controllo di una SE con sede in Italia è disciplinata dalle stesse regole della revoca dei membri dei medesimi organi nella s.p.a., avrebbe eliminato ogni incertezza al riguardo nel rispetto del richiamato principio di non discriminazione.
Un altro “aspetto”, fonte di incertezza interpretativa, si connette al disposto dell’art. 48 del Regolamento SE. Nella SE a struttura dualistica la citata norma impone ai soci di definire, in statuto, le operazioni per le quali occorre l’autorizzazione dell’organo di controllo affinché l’organo gestorio possa realizzarle.
Il problema che potrebbe porsi in una SE con sede in Italia è se tali autorizzazioni possano essere previste anche per operazioni non rientranti nella lettera f) bis dell’art. 2409-terdecies c.c., norma che pare circoscrivere l’ammissibilità degli interventi dell’organo di controllo a limitazione dei poteri dell’organo gestorio soltanto in relazione alla determinazione dei piani industriali e finanziari e al compimento di operazioni strategiche
Nella lettera dell’art. 48 SE, invece, non sembra porsi alcun limite all’autonomia statutaria. Donde il dilemma se, anche tenuto conto del principio di non discriminazione, valga anche per le Società Europee con sede in Italia la limitazione posta dall’art. 2409-terdecies, lett. f-bis, c.c. ovvero se le Società Europee sfuggano a tale limite essendo la materia esaustivamente regolata a livello comunitario. Sebbene la seconda tesi possa sembrare, almeno a prima vista, più convincente, l’assenza di una presa di posizione da parte del nostro legislatore lascia non pochi margini di incertezza.
Un discorso analogo potrebbe ripetersi per la convocazione dell’assemblea o l’integrazione dell’ordine del giorno su richiesta della minoranza. Il cui diritto in proposito è nella s.p.a. riconosciuto solo in vista di deliberazioni che non richiedano un previo progetto o proposta o relazione degli amministratori, laddove nel Regolamento istitutivo della SE non risulta alcuna restrizione.

V. Perché in Italia si possono costituire Società Europee

Se è vero che la mancanza di norme interne di accoglimento della normativa comunitaria spiega abbondantemente perché in Italia si è riluttanti a costituire Società Europee, va comunque detto a chi si dimostri interessato che in Italia si possono costituire Società Europee: ciò in quanto quasi tutte le lacune che risultano dal Regolamento istitutivo sono colmabili facendo riferimento ai principi comunitari, ivi inclusi quelli derivanti dallo stesso Regolamento, e a quelli desumibili dalla normativa interna della società per azioni, a cui la SE sempre si rapporta e da cui essa non può essere troppo distanziata per esplicita volontà codificata nell’art. 10 del Regolamento istitutivo.
In primo luogo nessuna difficoltà si incontra nel ricorso alla modalità costitutiva più utilizzata a livello europeo: la fusione. A tal riguardo non si lamenta (più) alcuna incompletezza, perché la fusione costitutiva di una Società Europea, oltre ad essere destinataria di molteplici disposizioni del Regolamento SE, beneficia - per quanto non sia contenuto nel Regolamento – di quanto dispongono la direttiva 2005/56/CE sulla fusione transfrontaliera e la normativa italiana di attuazione di cui al d. lgs. 108/2008. Ciò perché la fusione che dà luogo ad una Società Europea è una fusione transfrontaliera, in quanto realizzata da società per azioni di almeno due Stati membri diversi. Al riguardo mi limito a rinviare agli argomenti e alle conclusioni altrove sviluppati [nota 8].
Non c’è dubbio che si possa procedere alla costituzione di una Società Europea anche per trasformazione di una società italiana già esistente.
Né si può dubitare che si possa procedere alla costituzione di una Società Europea per iniziativa di una società italiana che voglia costituire una “SE affiliata”, cioè una società dalla prima controllata di diritto, purché sia riscontrabile uno dei presupposti richiesti: che la sede della SE sia posta in altro Stato membro o che la costituzione avvenga in compartecipazione con società di altro Stato membro o che già si abbiano delle “affiliate” in altri Stati membri.
In tutte le accennate modalità costitutive il notaio è l’autorità a cui compete di verificare la conformità alla normativa applicabile e rilasciare quegli attestati e certificazioni che danno conto della positiva esecuzione di tale controllo.
Lo stesso è a dirsi per il trasferimento di sede transfrontaliero, per il quale va ribadito che ogni lacuna al riguardo è colmabile sul piano interpretativo.
Del resto non mancano certo motivi di interesse per la costituzione di Società Europee con sede in Italia. L’etichetta europea, su cui molto si insiste, può effettivamente agevolare l’attività d’impresa in diversi mercati internazionali e favorire l’afflusso di capitali dall’estero. Inoltre l’adozione della forma organizzativa in discorso può servire a facilitare eventuali futuri trasferimenti di sede transfrontalieri, dal momento che, pur con tutte le libertà di cui godiamo grazie al Trattato CE, manca ancora una direttiva sul trasferimento di sede transfrontaliero che agevoli la soluzione di problemi e il superamento di ostacoli comunque frapposti da molti ordinamenti.
Ancora, la scelta potrebbe giustificarsi con l’intento di sfruttare - e qui si riprende un punto precedentemente trattato (si pensi alle autorizzazioni dell’organo di vigilanza che potrebbero essere richieste dallo statuto per il compimento di talune operazioni gestorie) - quelle divergenze già esistenti, e che in futuro potrebbero anche divenire più marcate, tra Società Europea e società per azioni tutte le volte che la disciplina della Società Europea fosse giudicata più conveniente o più adeguata agli interessi di chi ricorre allo strumento societario.
Infine, non è detto che il coinvolgimento dei lavoratori, soprattutto se confinato nei limiti dell’informazione e della consultazione, non possa servire a favorire le migliori relazioni interne alla società, accrescendo le possibilità di buona riuscita dell’impresa: al punto che quanto attualmente viene per lo più considerato un fattore di debolezza della SE abbia a mutarsi in un fattore di forza e di successo.


[nota 1] Trascrizione a cura della Fondazione Italiana per il Notariato autorizzata dagli Autori.

[nota 2] Cfr. il rapport italien di M. BENEDETTELLI e G.A. RESCIO, in N. LENOIR, La Societas Europea ou SE. Pour une citoyenneté européenne de l’entreprise, rapport au garde de Sceaux, ministre de la Justice, Paris, 2007, p. 272 ss.

[nota 3] Il cui statuto si legge in RDS – Rivista di Diritto Societario, 1/2007, p. 191 ss.

[nota 4] G.A. RESCIO, La partecipazione di società italiane alla costituzione di SE (Società Europee), in Società, 2007, p. 366 s. (studio 3-2006/A approvato dalla Commissione Affari Europei e Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato il 3-3-2006, e già pubblicato in Studi e Materiali, 1/2006, p. 621 ss.).

[nota 5] Cfr. G.A. RESCIO, La Società Europea tra diritto comunitario e diritto nazionale, in Riv. soc., 2003, p. 990 ss.; G. ARNO’ – S. CANCARINI, La società europea, Egea, 2007, p. 78 ss.

[nota 6] Cfr. M. MIOLA, Lo statuto di Società europea nel diritto societario comunitario: dall’armonizzazione alla concorrenza tra ordinamenti, in Riv. soc., 2003, p. 364.

[nota 7] Per il relativo dibattito si rinvia a G.A. RESCIO, op. ult. cit., p. 991 s.

[nota 8] Oltre allo studio citato a nt. 3, da consultare anche per la giustificazione delle affermazioni che seguono nel testo, cfr. G.A. RESCIO, Dalla libertà di stabilimento alla libertà di concentrazione: riflessioni sulla direttiva 2005/56/Ce in materia di fusione transfrontaliera, in RDSRivista di Diritto Societario, 1/2007, p. 49 s. (studio 1-2007/A approvato dalla Commissione Affari Europei e Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato il 2-2-2007, e pubblicato in Studi e Materiali, 1/2007, p. 410 s.).

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