Il trasferimento in Italia della sede di una società estera - adempimenti e controlli
Il trasferimento in Italia della sede di una società estera – adempimenti e controlli [nota 1]
di Paolo Pasqualis
Notaio in Portogruaro
Quali sono gli adempimenti a cui il notaio deve provvedere quando una società comunitaria vuole trasferire la sede in Italia, affinché sia effettivo il diritto di libertà di stabilimento? In principio, come abbiamo sentito stamattina, la società può – se vuole – non adattare per niente il suo statuto alla legge italiana. Nella pratica, quindi, potremmo trovarci davanti ad una società che ha semplicemente già deliberato di fissare la sua sede in Italia, e chiede al notaio di curare gli adempimenti conseguenti. Il pensiero corre all’atto di deposito di documento, ai sensi dell’art. 106 n. 4 della legge notarile. Vige ancora, infatti, la regola generale prevista dalla nostra legge professionale – che sul punto è di stampo molto antico, ma in realtà sempre attuale, anche perché aggiornata non più di una decina di anni fa – la quale afferma che, per farne uso in Italia, un atto straniero deve essere depositato presso un notaio o presso un archivio notarile nel nostro Paese. Questa norma non è stata abrogata né superata dall’art. 68 della legge 218 del 1995, ossia dalla riforma del nostro sistema di diritto internazionale privato, che tratta espressamente di “esecuzione forzata” e di “attuazione” in Italia degli atti pubblici ricevuti dall’estero. L’art. 68, infatti, è molto scarno e innanzi tutto ci fa capire come l’esecuzione forzata di un atto notarile proveniente dall’estero, e che già costituisca titolo esecutivo nel Paese d’origine, in Italia venga parificata all’esecuzione forzata di una sentenza. La questione non è nuova, ed ha la sua origine proprio in diritto comunitario, poiché l’equivalenza tra sentenza esecutiva e atto pubblico costituente titolo esecutivo nasce nell’ambito della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, sul riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia civile e commerciale. L’art. 68 della l. 218/95, però, parla anche della “attuazione” dell’atto notarile, e fa rinvio alle norme previste per le decisioni giudiziarie o per i provvedimenti di volontaria giurisdizione. Ma non dice molto di più e soprattutto non abroga né fa venir meno la funzione dell’art. 106 n. 4 l.n. Quest’ultimo si applicherà, pertanto, anche quando dall’estero arriva un atto di trasferimento di sede di società, come nel caso che trattiamo, come pure potrebbe essere, ad esempio, nel caso di un atto di fusione. L’atto di deposito rappresenta la soluzione di carattere generale per l’ingresso e la circolazione in Italia – e in particolare per l’ingresso destinato agli adempimenti nei pubblici registri italiani – di un atto proveniente dall’estero. La dottrina notarile, e comunque quella che in generale si è occupata del problema, infatti, ha sempre ritenuto che la locuzione “farne uso in Italia” contenuta nell’art. 106 n. 4, e la “attuazione” di cui parla l’art. 68 della l. 218, stiano a significare una utilizzazione qualificata dell’atto proveniente dall’estero, segnatamente quella destinata ai pubblici registri e/o quella destinata comunque ad una pubblica autorità in Italia; restando esclusi, invece, i casi di circolazione a fini commerciali dei documenti provenienti dall’estero. Facciamo il caso, allora, di un documento che proviene dall’estero, e che porta il trasferimento della sede di una società da un Paese diverso in Italia. Il notaio, quindi, si appresta a redigere il verbale ai sensi dell’art 106 n. 4 l.n., in seguito al quale avranno luogo anche gli adempimenti successivi come, ad esempio, l’iscrizione al registro delle imprese. Come prevede la legge, l’atto andrà accompagnato dalla traduzione italiana e dalla legalizzazione o dalla apostille ai sensi della Convenzione dell’Aia del 5 ottobre 1961, e ciò a seconda del Paese di provenienza; ovvero da nessuna di queste due formalità quando con il Paese di provenienza ci sia una convenzione bilaterale con l’Italia o multilaterale che esoneri da queste formalità. Nonostante l’apparente semplicità del procedimento, qualche profilo critico deve essere segnalato. Accettiamo come presupposto che la deliberazione sia stata assunta conformemente alla legge nazionale di origine dell’atto. È evidente, infatti, che se una società francese, inglese, tedesca o spagnola decide di trasferire la propria sede in Italia la cosa più naturale sarà quella che essa assuma la deliberazione nella forma prevista dalla legge del suo Paese. Ci sono, però, sistemi giuridici i quali prevedono che non sia necessaria per le modifiche degli atti societari la forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata. In questi casi, allora, viene messo in evidenza quello che è il fondamentale problema della circolazione dell’atto notarile all’interno dello spazio giuridico europeo (e non solo europeo). Si può immaginare, infatti, l’esistenza un ordinamento che, per il tipo di modifiche societarie di cui stiamo parlando, non preveda nessuna particolare forma, ma solo una deliberazione scritta, ad esempio, in un libro, o un verbale su fogli sciolti. A quel punto, come si deve comportare il notaio per dare seguito al deposito dell’atto, ai sensi dell’art 106 n. 4? Questo è, a mio parere, un aspetto fondamentale che dovrebbe essere messo in discussione proprio nell’ambito del diritto comunitario. A mio avviso in questi casi – ricorrenti non solo per le società ma anche in altri campi, come quello immobiliare – occorre guardare al valore tutelato da parte delle norme che intervengono a disciplinare la fattispecie. Nel nostro caso, poiché stiamo parlando di trasferimento di sede di una società dall’estero in Italia, sappiamo che l’atto deve giungere al registro delle imprese italiano e, che per fare questo, esso deve avere di regola una certa forma qualificata (per noi, atto pubblico o scrittura privata autenticata). Il documento che ci viene presentato, quindi, sia pure “legittimo” secondo le norme del Paese di origine, ma non rivestito della forma “minima” necessaria per l’iscrizione al registro italiano, non si può ritenere sufficiente per accedere al nostro registro delle imprese, né si può dire che diventi tale in seguito al verbale di deposito ai sensi dell’art. 106, n. 4 l.n. Questo è lo snodo più critico. Sul punto occorrerebbe avere il tempo per discutere molto più approfonditamente. Una soluzione (de iure condendo) potrebbe essere quella di immaginare un sistema di circolazione degli atti all’interno dello spazio giuridico europeo basato su regole minime comuni. Altra osservazione che aggiunge elementi di perplessità: le nostre norme nazionali, che richiedono particolari formalità per l’accesso ai registri delle imprese, potrebbero benissimo costituire norme di applicazione necessaria, alla stregua dell’art. 17 della legge 218/95, dove si dice che vi sono norme che, per il loro oggetto e il loro scopo, devono essere comunque rispettate nel nostro sistema, quindi anche per gli atti (legittimamente) provenienti dall’estero. Ancora, alla stregua del diritto comunitario, si potrebbe considerare che questo tipo di norma sulla forma, come prevista dal nostro sistema, sia da considerare come dettata per la protezione di determinati valori di sicurezza giuridica e di tutela dell’impresa e del consumatore, essendo alla base della certezza che scaturisce dal registro delle imprese stesso. Così argomentando, quindi, e nonostante l’atto si presenti in una forma perfettamente legittima secondo la legge del suo Paese di origine, si potrà richiedere che per entrare nel nostro sistema qualche cosa in più debba essergli “aggiunta”. Se vi è questa necessità, allora occorre ricercare, anche in quegli ordinamenti che non lo conoscono, qualcosa che somigli al nostro atto notarile, affinché esso possa avere ingresso nel sistema italiano dei pubblici registri. Qui si coglie l’esigenza diffusa, approfonditamente studiata anche di recente nel campo del diritto internazionale privato, della definizione ed individuazione di una sorta di “equivalenza funzionale” tra documenti che nascono in sistemi giuridici diversi tra loro (civil law e common law, ad esempio). Ciò si può cercare di fare, a mio avviso, individuando alcuni elementi minimi che – se realizzati – consentano di dire che un certo documento raggiunge una sua “equivalenza” rispetto alla forma richiesta nel sistema italiano. L’esempio migliore dell’impiego di questo metodo ci viene, a mio avviso, proprio dal diritto comunitario che ha elaborato una definizione di “atto pubblico”, contenuta oggi nel regolamento 805/2004 sul titolo esecutivo europeo, che ci torna molto utile. Questa definizione prende le mosse innanzi tutto dalla necessità che l’atto venga redatto da un pubblico ufficiale, o comunque da un’autorità investita di pubblici poteri, richiede poi che l’autenticità dell’atto sia attestata sia per quanto riguarda la sottoscrizione che per quanto riguarda il suo contenuto, volendosi così richiamare, a mio parere, il controllo di legalità del suo contenuto. Questa nozione è stata sviluppata proprio in ambito comunitario, ed esaminando specificamente i problemi della circolazione dell’atto notarile. Come già ho ricordato, infatti, l’atto notarile costituente titolo esecutivo è da tempo equiparato (da più di quarant’anni) nel diritto comunitario alla sentenza del giudice, per tutto quanto attiene alla sua esecuzione forzata. Questa norma esisteva nell’art. 50 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre del 1968 sulla competenza e sul riconoscimento delle decisioni in materia civile e commerciale. Questa Convenzione - che è una sorta di codice di procedura civile nell’ambito del diritto comunitario - già prevedeva che gli atti pubblici costituenti titolo esecutivo potevano essere eseguiti in qualsiasi Paese europeo alla stregua di una sentenza. Su questa Convenzione e sulla nozione di atto pubblico si è in seguito pronunciata la Corte di Giustizia, con la sentenza Unibank del 17 giugno 1999, la quale meglio qualificava il documento cui si riferiva l’art. 50 della Convenzione stessa, precisando che l’equiparazione tra atto pubblico e sentenza era giustificata solo in ragione della “fiducia” che il diritto comunitario riponeva nell’intervento di una pubblica autorità, che avesse ricevuto l’atto e nelle cautele che questa doveva prestare nel riceverlo e nel verificare non solo l’autenticità formale della sottoscrizione, ma anche il contenuto dell’atto. Dalla sentenza Unibank, la nozione è passata ad essere codificata al momento di emanare il Regolamento sul titolo esecutivo europeo, cioè l’805 del 2004, che nell’ambito delle definizioni – come anticipavo – prevede la definizione specifica di atto pubblico come atto ricevuto da una pubblica autorità, che vaglia l’autenticità della sottoscrizione e la legalità del contenuto. Si arriva così, tra l’altro ad una nozione di atto pubblico di diritto comunitario del tutto parallela a quella del nostro stesso sistema e degli altri sistemi di diritto civile. Gli elementi minimi che concorrono a formarlo sono, quindi, l’intervento del pubblico ufficiale, il controllo di legalità e l’autenticità. Credo che su queste stesse basi potremmo iniziare a creare un sistema di circolazione degli atti notarili all’interno dello spazio giuridico europeo, in modo che queste nozioni ci consentano di distinguere gli ordinamenti che sono in grado o meno di fornire questo tipo di atto per la sua circolazione. Occorre fare la massima attenzione a questi aspetti di “garanzia minima”, altrimenti si finisce per indebolire il sistema di accesso ai pubblici registri e consentire poi una sorta di “forum shopping” degli atti. Infatti se si individua il sistema nel quale ci si può procurare un atto che non abbia le caratteristiche minime richiamate o le nostre caratteristiche di autenticità e poi, grazie ad un (presunto) generale regime comunitario di “riconoscimento mutuo” dei documenti, riesco a farlo circolare anche negli altri Paesi, costringendoli ad accettarlo per evitare discriminazioni, direi che ne viene indebolito non poco tutto il sistema. Al di là degli aspetti pratici, presenti in tutti i casi di deposito degli atti provenienti dall’estero, come la traduzione, la legalizzazione, l’apostille e qualche volta anche la necessità di integrazione dell’atto, che come sappiamo qualche nostra norma specifica consente, il mio allarme è legato alla vigilanza innanzitutto sulla natura dell’atto che riceviamo, individuata conformemente alla sua legge d’origine, sulla sua effettiva equivalenza, per lo meno in termini minimi al nostro atto, e quindi sulla sua effettiva possibilità di accedere ad un livello paritario al nostro sistema dei pubblici registri, ancorché con l’aiuto, per gli aspetti pratici, del verbale di deposito.
[nota 1] Trascrizione a cura della Fondazione Italiana per il Notariato autorizzata dall’Autore.
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