Mutuo e recesso. (Nella teoria degli effetti riduttivi)
Mutuo e recesso.
(Nella teoria degli effetti riduttivi)
di Mauro Orlandi
Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato Comparato Università di Roma "Tor Vergata"
La facoltà legale di recedere dai rapporti di durata
Si legge nell'art. 10, comma 2, della legge 4 agosto 2006, n. 248 che ha novellato l'art. 118 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Tub): «in ogni caso, nei contratti di durata, il cliente ha sempre la facoltà di recedere dal contratto senza penalità e senza spese di chiusura» [nota 1].
La norma parrebbe banale. Essa prevede una facoltà di recesso di fonte legale, la quale prende luogo dell'eventuale silenzio del contratto, e consente al cliente di sciogliere il vincolo attraverso una dichiarazione unilaterale.
La letteratura è ricca di contributi intorno ai fenomeni dell'estinzione del rapporto obbligatorio, i quali offrono criteri preziosi per orientare l'analisi del nostro problema.
Estinguere il rapporto implica il venir meno dell'obbligo e del diritto. Gioverà guardarsi dalla trappola della metafora, secondo cui l'estinzione di situazioni giuridiche è intuitivamente e inconsapevolmente assimilata alla distruzione di cose. Il rapporto obbligatorio e le correlative situazioni di debito e di credito non sono altro che qualifiche di condotta, le quali mettono capo al comportamento futuro delle parti. L'estinzione del rapporto implica sul piano analitico la inapplicabilità delle alla condotta futura delle parti di obblighi e diritti, e la inammissibilità logica di un inadempimento.
Queste semplici notazioni già suscitano il problema dell'applicabilità di tale disposizione al contratto di mutuo. Non sembra infatti che - postulando come ammissibile (sul piano dogmatico) il recesso - il mutuatario perda l'obbligo di adempiere. Egli perderà semmai il c.d. beneficio del termine, trovandosi astretto all'obbligo di adempiere statim et integraliter. Su questa linea una circolare ministeriale di "chiarimento" - singolare modalità di interpretazione (para) autentica di una disposizione di rango primario - parrebbe escludere il mutuo dal novero dei contratti di durata [nota 2].
L'intelligenza del fenomeno potrà guadagnarsi attraverso l'analisi delle vicende riduttive, che trovano nel mutuo uno degli istituti elettivi di applicazione.
Contratto di mutuo e concetto di fonte
Lo scambio tra predicati e cose della realtà lascia intuire un errore dagli effetti imprevedibili; e per meglio valutare le conseguenze di questo equivoco, sarà utile descrivere la premessa del nostro discorso.
Dovere e potere si risolvono in qualifiche di comportamenti, i quali, per propria natura, si collocano in uno spazio ed in un tempo (potere e dovere qui, ora, in questo modo).
La condotta umana è, non semplicemente descritta, ma "predicata" [nota 3], cioè qualificata secondo una certa modalità; il debitore non fa o dà, ma deve fare o dare; l'espressione "avere un obbligo" assume carattere metaforico, convertendosi, a rigore, in un "essere nell'obbligo" [nota 4].
L'assunzione del fatto nella fattispecie implica necessariamente un come, un dove, un quando; la qualifica di doverosità, conseguente alla sussunzione (se A allora B), è, e rimane, elemento della norma, e condivide con lo schema di fatto il medesimo carattere astratto ed astorico: si direbbe che il congegno normativo tenga insieme un'ipotesi di fatto ed un'ipotesi di effetto, sicché al verificarsi della prima si svolgerebbe la seconda, secondo una relazione di causalità giuridica [nota 5].
Se dalla descrizione di tale congegno si passa ad un concreto applicare appare evidente l'insufficienza di una previsione astratta dell'effetto: l'art. 1813, c.c. descrive bensì l'obbligo del mutuatario di restituire il tantundem, ma non designa le singole persone del mutuante e mutuatario, né individua le res da consegnare, né il tempo, né il modo, né il luogo della consegna [nota 6].
è dato disgiungere effetto 'astratto', ricavabile dalla lettura della norma, intrinsecamente omogeneo alla fattispecie ed iterabile infinite volte; ed effetto 'concreto', come qualifica individuale e storica, applicabile una sola vòlta nel proprio spazio e nel proprio tempo. L'effetto, inteso come il prodursi, modificarsi, estinguersi delle situazioni giuridiche [nota 7], implica la descrizione di un comportamento "qui ed ora", con i relativi termini e modalità di svolgimento [nota 8]. Se la norma, quale categoria astratta, è di per sé incapace di stabilire codesta storicizzazione, si apre il problema del come passare dall'effetto astratto all'effetto concreto, quale vicenda di una qualifica individuale, del singolo debitore o creditore.
Viene in rilievo il concetto di fonte: parola che, con plastica evidenza, evoca la dinamica della disciplina concreta del rapporto, e cioè lo scaturire ed il fissarsi dei termini concreti (in senso lato: modalità; tempi; persone; luoghi), attraverso cui è reso possibile lo svolgimento dell'effetto [nota 9]. Sarebbe anche da pensare ad una fonte legale del rapporto, sicché, quando non vi provvedano le parti, potrà il legislatore stesso introdurre le clausole della disciplina [nota 10]; ancorché debba precisarsi come - a rigore - la concreta disciplina non possa logicamente prescindere dalla singolarità ed irripetibilità delle persone e delle cose reali. In altre parole, anche quando la legge detti una disciplina, essa per propria natura appartiene al mondo dell'astratto, perennemente ripetibile, e sempre attende un riferimento storico [nota 11] che ne renda possibile l'applicazione [nota 12].
Il realizzarsi dell'ipotesi «rompe la neutralità della storia futura», poiché il diritto «attende che, in un istante o periodo di tempo avvenire, il soggetto indicato dal fatto adegui il proprio contegno ad una descrizione normativa» [nota 13]. Non altro l'obbligo esprime che questa valutazione dei comportamenti; più precisamente, esso pone un comportamento come dovuto, e così consente di valutare (in questo senso, esso si costituisce a canone valutativo) [nota 14] conformità o difformità del futuro contegno rispetto a quello dovuto.
Segue. Concetto di inesigibilità. Le obbligazioni ridotte
Si danno fattispecie (termine di adempimento; condizione sospensiva; prescrizione) nelle quali si configura un'asimmetria tra adempimento ed inadempimento: rileva soltanto la prestazione conforme, che produce l'effetto di estinguere il rapporto; mentre l'inadempimento rimane neutro ed inqualificato. Notiamo come nell'un caso si configura una rilevanza - diremo - "semplice" (rilevanza del solo adempimento); nell'altro, "complessa" (adempimento + inadempimento), secondo che si riduca od accresca lo spettro dei fatti efficienti previsti dalla norma.
Più che impossibile, l'inadempimento del debito sub die appare insuscettibile di qualificazione, cioè estraneo ad una fattispecie normativa; esso - diremo - è irrilevante, e perciò incapace di produrre effetti: se Tizio non adempie prima della scadenza del termine, il suo contegno non è qualificabile come inadempimento, cioè non integra la fattispecie, che lascia discendere dalla condotta difforme l'ulteriore effetto risarcitorio; ma se Tizio paga, la sua condotta configurerà adempimento, determinando l'estinzione del rapporto.
Dire di un diritto senza pretesa o di un debito senza obbligo [nota 15] è tradurre in termini metaforici e soggettivistici la rilevanza "asimmetrica" degli atti debitorî, e descrivere quelle situazioni in cui soltanto l'adempimento assuma rilevanza. Adempimento ed inadempimento ci apparivano lati indisgiungibili di uno stesso fenomeno, ed il difetto dell'uno corrisponderebbe a quello dell'altro, sicché l'adempimento implicherebbe la possibilità logica dell'inadempimento, e viceversa. Sarebbe da riflettere, a contrario, che adempimento ed inadempimento non si trovano in rerum natura, non sono fatti della storia che il diritto raccolga e disciplini; sono piuttosto qualifiche o predicati normativi, cui l'ordine giuridico collega effetti intrinsecamente diversi: l'adempimento, estingue il rapporto; l'inadempimento, costituisce un altro rapporto [nota 16].
Parrebbe di registrare un duplice fenomeno: da un lato l'obbligazione - per così dire - "integra", che implica la descrizione del contegno dovuto e delle conseguenze giuridiche del contegno difforme, ed è perciò suscettibile d'inadempimento; dall'altro, l'obbligazione "ridotta", che non condivide l'intero spettro degli effetti, prevedendosi unicamente l'eventualità dell'adempimento e delle relative conseguenze. Su questa linea, il pactum costituisce fonte di un'obbligazione "ridotta".
Si profila una diversa rilevanza della condotta del debitore: prima del termine, l'eventuale inadempimento non integra alcuna fattispecie, e perciò non comporta effetti. In termini nomologici, il fenomeno si converte nel postulare fattispecie d'inesigibilità, dalle quali dipenda la configurazione di un rapporto, suscettivo del solo adempimento: rapporto, appunto, "ridotto". Lasciando emergere l'asimmetria tra adempimento ed inadempimento, questa angolatura parrebbe mettere a nudo l'arbitrio logico, nascosto dietro la pretesa unicità fenomenologica delle due figure: mentre è vero che l'inadempimento implica la possibilità logica dell'adempimento, non è vero il contrario, giacché l'adempimento non necessariamente comporta la possibilità dell'inadempimento.
Prevedere una determinata vicenda del rapporto significa porre un nuovo titolo che la descriva [nota 17]. La vicenda del rapporto implica una successione di fonti, cioè di statuti giuridici del rapporto. L'apposizione di un termime o la sua abrogazione implica una diverso statuto giuridico del rapporto: dato un termine a favore del debitore, il creditore non può pretendere, ma soltanto ricevere; ed il debitore non dovrà, ma potrà dare. Donde l'interrogativo: cos'è questo poter ricevere senza il poter esigere; e, ancor più, questo poter dare senza dover dare?
Parrebbe tornare la dicotomia debito-responsabilità, della quale anche Carnelutti si è servito per indagare la natura delle obbligazioni naturali [nota 18]. Come per la prescrizione, l'adempimento del debitore sub die sembrerebbe potersi fondare sulla permanenza dell'originario titolo quale causa adquirendi; mentre l'impossibilità giuridica dell'inadempimento dipenderebbe dal venir meno della "responsabilità", intesa come soggezione del debitore alle conseguenze dell'inadempimento. Non potremmo, tuttavia, ignorare le gravi critiche della dottrina, che sembra avere definitivamente respinto il dualismo debito-responsabilità [nota 19]. Impensabile sarebbe un debito non accompagnato dalla responsabilità, non protetto da un'azione contro l'inadempimento [nota 20]; ingiustificabile, un vincolo rimesso alla volontà del debitore, che finirebbe per trasformarsi in una pseudo-obbligazione di uno pseudo-debitore. In tanto il rapporto si configura come obbligatorio, in quanto il creditore abbia la possibilità giuridica di tutelare il proprio diritto contro la volontà del debitore.
Ma se assumiamo l'angolatura della rilevanza, questa sorta di indebolimento potrebbe trovare una spiegazione. La vicenda modificativa dell'obbligazione si risolve in una successione di fonti: all'accadere di un certo fatto (termine, pactum, prescrizione) mutano gli effetti ricollegabili all'originario titolo; esso non produrrà più un rapporto "coercibile", ma sopravviverà come causa retinendi, cioè quale causa giustificativa dell'attribuzione patrimoniale [nota 21]. Il fenomeno potrebbe esprimersi come "riqualificazione" del titolo, con la sostituzione parziale, cioè l'integrazione dell'originario statuto giuridico ed il mutamento della concreta disciplina del rapporto. Su questa linea, affermare che al rapporto viene sottratta la responsabilità potrebbe forse destare qualche perplessità sul piano storiografico, apparendo ormai superata l'idea di una tale scindibilità; ma non su quello propriamente dogmatico: nulla impedisce di pensare ad una riqualificazione del titolo, con una modificazione dei predicati associabili al contegno del debitore [nota 22]. Codesta riqualificazione si lascia esprimere sotto una duplice angolatura: come mutamento delle posizioni attiva e passiva del rapporto; come mutamento della rilevanza della condotta del creditore e del debitore. Sotto il primo profilo - servendoci della terminologia bettiana - potremmo dire di una vicenda estintiva della pretesa (dal lato attivo); e dell'obbligo (dal lato passivo), la quale non travolgerebbe nè il credito nè il debito [nota 23]. Per sfuggire al descrittivismo di queste ricostruzioni, ignorate o respinte dalla letteratura, torna utile considerare il fenomeno sotto altro profilo, analitico: non più situazioni attive e passive, ma canoni di valutazione, che permettono di separare le future condotte del debitore in conformi o difformi rispetto a quella prevista, e di isolare gli effetti associabili alle une ed alle altre. Se all'adempimento corrisponde una soluti retentio, all'inadempimento non corrisponde l'obbligo risarcitorio, secondo un fenomeno che designamo quale rilevanza asimmetrica; e giova sottolineare come l'adempimento "spontaneo" estinguerà il rapporto "ridotto", sicché l'eventuale successivo annullamento del contratto originario, o la risoluzione del rapporto, o la remissione del debito faranno venir meno il diritto di ritenzione dell'accipiens.
L'effetto del titolo originario non sta - per dirla con Betti - nella costituzione della sola "pretesa", ma anche del diritto di ritenzione dell'accipiens; segnatamente, insieme all'adempimento, il titolo costituisce un coelemento necessario della fattispecie (causa adquirendi), da cui dipende il diritto di ritenzione: la soluti retentio parrebbe discendere da una fattispecie complessa (titolo + adempimento). Su questa linea, non si oppongono ostacoli ad un'estinzione dell'obbligo non seguìta dalla estinzione del ius retinendi. Far rifluire l'intero spettro degli effetti nelle qualifiche di pretesa ed obbligo, suscettibili di coercizione, si dimostra privo di fondamento. Il titolo, al contrario, parrebbe assumere una duplice "efficienza": costituire il rapporto; costituire il diritto di ritenzione, cioè il diritto dell'accipiens di trattenere il bene ricevuto. La vicenda estintiva del rapporto non implicherà necessariamente un venir meno del titolo, che può conservare il valore di causa retentionis, e così trascorrere da una rilevanza "complessa" ad una rilevanza "semplice".
Il rapporto si dimostra suscettibile di una duplice vicenda negativa: "estinzione" concernente l'intero arco degli effetti (debito; credito e pretesa; diritto di ritenzione); "riduzione", concernente soltanto alcune qualifiche. Come si diceva, il fenomeno si lascia esprimere in due modi: o secondo le vicende delle situazioni soggettive, che si riducono, passando da un'originaria "complessità" (credito + pretesa; debito + obbligo) ad una successiva "semplicità" (credito senza pretesa; debito senza obbligo); o secondo la rilevanza della condotta debitoria, che diviene suscettibile soltanto di adempimento. Si potrebbe anche parlare di credito ridotto e debito ridotto, così da esprimere la sottrazione della pretesa dal lato attivo, e dell'obbligo dal lato passivo. Il passaggio dal profilo soggettivistico a quello analitico appare utile per giustificare l'idea di un adempimento senza obbligo. Adempimento ed obbligo non appaiono come una coppia logica, per propria natura indisgiungibile, ed possono pensarsi l'uno senza l'altro: come accade nei fenomeni tipici dell'obbligazione naturale o del debito prescritto, in cui il debitore non è tenuto alla prestazione, ma l'eventuale adempimento produce effetti. Su questa linea, il rapporto si presta ad una triplice vicenda: costituzione, come posizione - per dirla in termini soggettivistici - di credito e pretesa - debito ed obbligo; riduzione, come scomparsa di pretesa ed obbligo; estinzione, come negazione di ogni qualifica.
Recesso e riqualificazione legale della fonte
La riduzione del rapporto si traduce in una forma di riqualificazione del titolo: dopo il termine, il titolo vale come fatto costitutivo, non già dell'obbligazione esigibile, ma della soluti retentio. In questo modo, riesce di cogliere il nucleo di verità nascosto nelle dottrine intorno alla trasformazione del vincolo da civile in naturale: trattarsi di un'obbligazione, ridotta attraverso il termine; il titolo perde il proprio effetto obbligatorio, conservando la qualifica di causa retinendi [nota 24]. Non sfuggirà come il termine riduzione agevoli l'evocazione ellittica del fenomeno. Esso esprime il passaggio dal regime dell'esigibilità a quello dell'inesigibilità: mutamento di statuti giuridici, secondo una prospettiva, che parrebbe muovere dalla logica dell' "avere" (Tizio ha il diritto; Caio ha l'obbligo), a quella dell' "essere giudicati" (il contegno di Tizio è valutabile come doveroso [nota 25]: post diem il contegno difforme da quello atteso non sarà valutabile come inadempimento).
Dalla configurazione del rapporto - e così del diritto soggettivo e dell'obbligo - come un insieme di qualifiche, parrebbe derivare la coessenzialità della fonte. Il concetto di predicato non può andare disgiunto dal predicante, cioè dalla descrizione delle qualifiche [nota 26], allo stesso modo che nessuna qualifica è pensabile fuori dalla propria fonte, cioè dalla propria oggettiva posizione [nota 27]; in tanto posso affermare che Tizio deve a Caio la somma x entro il termine y, in quanto apprendo la descrizione di queste qualifiche dalla fonte del rapporto (ad esempio, dal documento contrattuale) [nota 28].
Sembra emergere la debolezza delle metafore dell'appartenenza e della causalità, secondo cui l'obbligo "ha" una fonte, o "discende" da una fonte [nota 29]; mentre si direbbe, a rigore, come l'obbligo - e così il diritto, ed ogni altra situazione che si reputi rilevante - sia la propria fonte, ed interamente si risolva nella propria disciplina, nelle concrete e singolari modalità del contegno descritte dalla fonte [nota 30]. Soltanto un ingenuo ed inconsapevole realismo, entificando i concetti di fonte e di rapporto, può separarli l'uno dall'altro, ed evocare la metafora di un nesso di materiale produzione; una volta "prodotto", il rapporto vivrebbe un'autonoma esistenza, così come l'acqua abbandona la sorgente seguendo il proprio corso. Il nesso tra fonte e rapporto appare, non come derivazione o causalità, bensì come continenza: risolto il rapporto in un insieme di qualifiche [nota 31], la fonte si pone come il testo che contiene e descrive una concreta disciplina delle qualifiche, soggetti storicamente determinati, modalità, tempi, luoghi; se qualificare significa "predicare" [nota 32], la fonte è - appunto - il predicante, attraverso cui le qualifiche sono applicate a termini concreti ed attuali [nota 33].
Il rapporto fuori della propria fonte è logicamente impensabile, perché esso è costituito nel suo concreto e specifico disegno soltanto attraverso il progetto, o "programma" [nota 34], posto dalle parti o dalla legge. L'essere creditore o debitore non è stralciabile dalla relativa disciplina, attraverso la quale è dato di conoscere i requisiti e le modalità dei contegni, e di valutarne la conformità o difformità; non si è creditori, o debitori, se non di questa prestazione, secondo certi termini e determinate modalità.
Che significa sotto questa luce recedere dal contratto di mutuo?
La efficacia estintiva del recesso ha riguardo - nella logica analitica appena delineata - alla fonte del rapporto. E cioè determina la disapplicazione pro futuro dello statuto giuridico stabilito dalle parti con il contratto.
Non si tratta - è appena da precisare - di un fenomeno empirico, quasi che dalla storia degli uomini sia stralciato l'accordo contrattuale sottoscritto in un determinato momento; bensì di un fenomeno squisitamente giuridico, che si risolve nella perdita di validità per il futuro della fonte di regolazione del rapporto [nota 35]. Sicché alla domanda se il rapporto tra le parti (mutuante e mutuatario) sia regolato dal contratto di mutuo dovrà darsi risposta negativa.
Se dunque non vige più l'originaria fonte, che ne è del rapporto, e segnatamente della obbligazione di restituzione del tantudem?
La domanda mette capo ad una delle pagine più sottili e delicate del diritto civile, e in particolare al nesso tra consegna del bene dato a mutuo e realità della stipulazione. Senza ripercorre qui la densa e complessa storia delle dottrine, diremo che la consegna del danaro non perde il proprio titolo, e rimane segnata dagli originari caratteri della onerosità e costitutività.
La consegna della cosa (ormai ferma nel proprio irrevocabile passato) rimane sempre "a titolo" di mutuo, e cioè implica la contestuale costituzione della obbligazione restitutoria del tantundem che qualifica causalmente il mutuo ai sensi dell'art. 1813 c.c., e del pari rimane "a titolo" oneroso, ossia prevede un corrispettivo della consegna.
Qui si deve ragionare in punto di penna, ponendo vigile attenzione alle formule della pratica. Di "costo del credito" si legge all'art. 125 Tub [nota 36]; ma potremmo anche parlare di remunerazione del credito. Il quale in termini rigorosi si tradurrà: prestazione pecuniaria corrispettiva della consegna del bene dato a mutuo. La consegna (a titolo di mutuo) produce due obbligazioni: restituire il tantudem secondo tempi e modalità stabiliti dal contratto; pagare un corrispettivo, anche qui secondo tempi e modalità contrattuali.
La facoltà di recedere dell'art. 118, comma 2 Tub (nella tesi che vorrebbe estenderla a qualsiasi contratto di mutuo, siccome rapporto di durata) [nota 37] si rivela allora una causa di riqualificazione della fonte, ed implica la modificazione delle obbligazioni restitutoria e feneratizia.
Tali obbligazioni non sono estinte dalla abrogazione del titolo per via di recesso, dacché esse si sono già prodotte. è invece che non vige più il titolo che regola le modalità di esazione ed adempimento delle due obbligazioni e che configurava una causa di riduzione del rapporto, ossia di inesigibilità uno tempore della prestazione restitutoria.
Il recesso parrebbe allora risolversi all'esito dell'analisi in una causa di esigibilità sopravvenuta dell'obbligazione restitutoria, attraverso una riqualificazione della fonte del rapporto, la quale non più prevede il differimento nel tempo dell'obbligo di restituire il tantundem. Non appare questa una semplice perdita del beneficio del termine ma di mutamento oggettivo della prestazione, la quale risulta quantitativamente diversa da quella primitiva.
Recesso ed estinzione del rapporto di mutuo. Estinzione legale dell'obbligazione feneratizia?
L'art. 10, comma 2, della legge 4 agosto 2006, n. 246 si rivela così spurio e bisognevole di traduzione giuridica. Dobbiamo escludere il recesso estintivo del titolo di mutuo, dacché si darebbe un'abnorme estinzione dell'obbligo di restituzione del tantundem. Il recesso parrebbe allora aver riguardo agli obblighi ridotti e segnatamente alla disciplina della inesigibilità del debito restitutorio.
Dichiarato che sia il recesso, il giurista è alla (necessaria) ricerca della diversa fonte che regoli la obbligazione di restituzione e la obbligazione di pagamento del corrispettivo. L'obbligazione restitutoria non è più regolata secondo le modalità cronologiche recate dal contratto, ma in mancanza di altre fonti parrebbe rifluire nella disciplina generale del codice civile. Permanendo il titolo di mutuo, e cioè l'obbligo di restituzione del tantundem, esso risulterebbe regolato dalle norme del codice civile applicabili a qualsiasi credito pecuniario esigibile.
Statim debetur, ai sensi dell'art. 1183; e si applicherà il tasso convenzionale a titolo di mora ai sensi dell'art. 1224 primo comma dal tempo del recesso, che coincide con il tempo della esigibilità integrale del credito restitutorio.
Il recesso produce allora effetti che dovremo designare come espansivi. Si tratta di una vicenda speculare alla riduzione, ossia del passaggio dalla inesigibilità originaria alla esigibilità piena della obbligazione restitutoria.
Possiamo a questo punto formulare un'alternativa ricostruttiva.
Da un lato, una teoria unitaria dell'obbligo restitutorio, sicché l'obbligazione di restituzione sarebbe configurabile in modo compatto ed inscindibile, e sarebbe determinata attraverso una funzione del tempo (il tasso d'interesse); d'altro lato, una teoria dualistica, che vorrebbe distinguere obbligazione di restituzione del capitale e obbligazione di pagamento degli interessi.
Questa seconda obbligazione feneratizia configura appunto il profitto che muove la banca a concedere il mutuo, e che rifluisce nel sinallagma causale risolvendosi nel titolo oneroso del rapporto. Il concedente non avrebbe alcun interesse (non si dimentichi mai che, in linea analitica, l'interesse è un concetto puramente oggettivo) a stipulare un contratto che preveda l'erogazione della somma capitale verso la restituzione gratuita del tantundem. Ed anzi il mutuante professionale offre piani di ammortamento concepiti per conseguire un determinato profitto, configurando ex ante la durata del rapporto e la correlativa fruttuosità in tutto l'arco temporale stabilito.
D'altronde, ai sensi dell'art. 1816 c.c. «il termine per la restituzione si presume stipulato a favore di entrambe le parti». Il favore del termine ha un significato diverso per debitore e creditore: per il primo, esso esprime la inesigibilità del credito, sicché non può configurarsi inadempimento prima della scadenza; per il secondo, esso sembra invece implicare il diritto al tempo degli adempimenti, che si traduce appunto in diritto al profitto dipendente dal maturare degli interessi nel tempo.
Già dicemmo che il recesso, inteso come fatto estintivo dell'obbligo tout court, sia inconcepibile poiché si risolverebbe nella estinzione dell'obbligazione restitutoria con una insensata locupletazione del mutuatario. Potremmo allora concepire un recesso parziale, relativo non già all'obbligo restitutorio unitariamente considerato, ma alla sola (e separabile) obbligazione feneratizia originariamente convenuta?
Se per estinzione dovessimo intendere il brutale venir meno dell'obbligo di pagare interessi, avremmo una sorta di mutuo liberale (nel senso di donativo) ex lege, sicché i mutuanti dovrebbero sopportare il diritto potestativo del mutuatario di pagare o non pagare interessi. Il termine "a favore" del mutuante implica un diritto del mutuante al termine, ossia alla struttura diacronica del rapporto la quale si traduce in profitto calcolabile e dedotto in contratto. Si direbbe sotto questa luce che con il contratto il mutuante consegue il diritto al profitto, ossia ad una certa misura di interesse. è appena da considerare come il piano di ammortamento costituisca la tavola economica del rapporto, la quale appunto esprime la misura del profitto che il contratto assicura al mutuante. Modificare il piano di ammortamento significa mutare il sinallagma economico del rapporto.
Diritto alla remunerazione del credito
Emerge dunque l'interrogativo radicale: è configurabile un diritto della banca al profitto dedotto in contratto?
Un'apparente alternativa. O concepiamo (come sarebbe secondo criteri di autonomia privata) un diritto (contrattuale) alla misura degli interessi e delle relative modalità di maturazione, ed allora dovremmo logicamente escludere qualsiasi incompatibile diritto potestativo al recesso del cliente, ossia a liberarsi dal vincolo attraverso un decisione potestativa; o postuliamo il diritto potestativo del cliente di recedere e così liberarsi dal piano di ammortamento, ed allora dovremmo escludere il diritto della banca al profitto atteso.
La norma sul diritto gratuito di recesso implica la seconda soluzione. Attribuendo al cliente il diritto potestativo di recedere dal contratto, essa esclude per logica necessità il diritto della banca al profitto previsto con il piano di ammortamento. Tale profitto non è dunque deducibile in una situazione giuridica di diritto ma di semplice aspettativa, che dipende dalla decisione potestativa del soggetto (pseudo) obbligato; quest'ultimo, potrà in qualunque momento decidere di sciogliere la fonte del rapporto e così liberarsi dal vincolo del piano di ammortamento.
Né potremmo dire che il diritto dura fino al recesso. Essere titolari di un diritto significa configurare una correlativa posizione di obbligo nella sfera altrui, la quale implica la coercibilità dell'altrui volere.
Affermare che il mutuante ha diritto alla remunerazione del credito, secondo le modalità e la misura originariamente prevista, significa postulare un obbligo del mutuatario di corrispondere gli interessi con le medesime modalità e misura; obbligo che non fa appello ad un inconcepibile si volam, e non potrebbe dipendere da una decisione individuale del mutuatario.
Il fenomeno va osservato dal punto di vista del debitore. Stipulato il contratto di mutuo, questi si troverebbe dinanzi ad una duplice qualifica: dover adempiere, in ragione dell'originario vincolo; avere diritto di non adempiere, in ragione del diritto di recesso ex lege. La medesima prestazione sarebbe dedotta, in pari tempo, quale obbligo positivo di dover fare o dare, e quale facoltà negativa, di non fare o di non dare, secondo un dualismo logicamente contraddittorio. L'essere obbligati ad una prestazione, infatti, contraddice ex se l'aver il diritto di non adempiere la medesima prestazione; si tratta di una contraddictio in terminis in senso proprio, sicché le due formulazioni si escludono a vicenda, ed alla verità dell'una corrisponde la falsità dell'altra [nota 38]. è ben vero che - a rigore - il diritto negativo (di non adempiere) non coincide con l'inesistenza dell'obbligazione (non essere obbligati a); è vero che altro è negare l'obbligo (non sono obbligato a); altro, affermare l'esistenza di un diritto ad una prestazione contraria (ho il diritto di non fare, di non dare): ma contra dicere non significa soltanto negare mercé una preposizione negativa [nota 39], bensì anche affermare una qualifica, incompatibile con la precedente [nota 40].
La domanda sarà: si può essere insieme titolari di un obbligo di prestare x, e di un diritto di non prestare x? Se ogni qualifica di doverosità limita lo spazio della libertà giuridica [nota 41], il debitore resta vincolato a soddisfare, mediante l'adempimento, l'altrui interesse; tra l'interesse positivo del creditore ad un fare del debitore, e l'interesse negativo del debitore ad un non fare, l'ordinamento lascia prevalere il primo, con il sacrificio del secondo. Ma allora restituire libertà al debitore, mediante la previsione di un diritto di non dare (attraverso l'esercizio di una decisione potestativa), implicherà l'estinzione dell'obbligo, e la corrispondente estinzione del diritto del creditore, giacché le due qualifiche (diritto di non dare; obbligo di dare) sono reciprocamente incompatibili.
Donde il corollario: che la previsione di un diritto di recesso o di estinzione anticipata del mutuo (che valgono il medesimo in ordine al diritto feneratizio del mutuante) senza corrispettivo, esclude il diritto del mutuante alla remunerazione del credito, ossia al pagamento degli interessi secondo il piano di ammortamento originariamente stabilito.
Tre tipi di mutuo. Mutuo ordinario insuscettibile di recesso legale
L'analisi sistematica della disciplina conduce a isolare tre statuti giuridici del contratto di mutuo.
Il mutuo ordinario, disciplinato dal codice civile, il quale non appare suscettibile di recesso. Qui potrà venire in rilievo una eccessiva onerosità sopravvenuta; e forse varranno per questo rapporto i termini - ancora incerti e mutevoli - del dibattito intorno alle sopravvenienze nei contratti a lungo termine [nota 42].
Il contratto di mutuo fondiario, regolato dagli artt. 40 e ss. del Tub [nota 43], il quale registra il diritto ex lege del cliente di estinguere anticipatamente il rapporto verso il corrispettivo di un prezzo, rimesso alla determinazione del Cicr.
Il contratto di mutuo previsto dall'art. 7 della legge 2 aprile 2007, n. 40 [nota 44], che vorremmo designare come "mutuo sociale", segnato dall'assenza di un diritto del mutuante alla remunerazione del credito in caso di estinzione anticipata.
«Il contratto ha forza di legge tra le parti», solennemente ammonisce l'art. 1372 c.c.
La parola contratto può esprimere due accezioni. Contratto come fatto storico: il consentire su un determinato rapporto; contratto come effetto: vincolo (non sfuggirà la metafora) giuridico, dal quale nessuna delle parti potrebbe liberarsi potestativamente, ossia mercè scelta unilaterale.
L'art. 1372 c.c. postula icasticamente la seconda accezione. A torto gli interpreti snobbano come retorica e inutile la "forza di legge": la quale invece esprime con il vigore di uno slogan l'efficacia meta-individuale del contratto, capace di trascendere le parti e d'imporsi ad esse, a prescindere da successivi ripensamenti o dubbi.
Il contratto-accordo dura il tempo del proprio accadere, e si restringe e risolve nella istantanea manifestazione dei consensi. Il contratto-rapporto si distende nel futuro, e copre tutto il tempo stabilito.
Il pensiero debole dei nostri giorni ci ha come assuefatti al diritto di recesso, alla stregua di una naturale libertà di scelta del cliente. Ma il civilista non può che respingere questa semplificazione, la quale risulta giuridicamente insensata. Il contratto-rapporto, ciò che metaforicamente chiamiamo "vincolo", sta proprio in ciò: di dedurre nel diritto di una parte e nel correlativo obbligo dell'altra una determinata prestazione, la quale diviene appunto dovuta e suscettibile di coazione indipendentemente dalla volontà di ciascuna di esse.
Sicché essere nel diritto di conseguire la prestazione, con le modalità stabilite in contratto, significa pretendere l'adempimento secondo tali modalità di misura tempo luogo, e poterlo imporre giudizialmente.
La facoltà legale di recedere dal contratto di mutuo si rivela concettualmente incompatibile con il vincolo contrattuale, e perciò eccezionale rispetto al principio di forza normativa stabilito dall'art. 1372 c.c. L'art. 10, comma 2, della legge 4 agosto 2006, n. 246 deve in primo luogo considerarsi norma eccezionale in senso stretto: la quale cioè sottrae alla forza di legge (coessenziale al contratto) una cerchia di rapporti qualificati come di "durata".
La norma lascia emergere didascalicamente una insanabile divaricazione, e fors'anche una ontologica incompatibilità, tra razionalità economica e razionalità giuridica: quella, che parrebbe rispondere ad un principio di libertà individuale di cambiare idea in ogni momento e così estinguere ad libitum il rapporto; questa, che postula una stabilità del vincolo "contratto" in origine e la correlativa e strutturale perdita di libertà per il futuro.
Il carattere eccezionale della norma ne suggerisce una interpretazione restrittiva. La "durata" dell'art. 10, comma 2, della legge 4 agosto 2006, n. 246 parrebbe risolversi in assenza di un termine finale, sicché il rapporto risulti sine die. La norma finirebbe così per rifluire nella corrente di pensiero che immagina una clausola di recesso ex re in tutti i casi nei quali manchi il termine finale di un rapporto con adempimento differito nel tempo [nota 45].
Il diritto di recesso nei contratti di mutuo appare coerente con la evoluzione giudiziale del concetto, la quale postula la facoltà di estinguere il rapporto di durata. Altro è un rapporto di durata o a prestazione continuate o periodiche, il quale non è per definizione sine die e prevede tempi successivi prestabiliti esattamente dal contratto e un termine finale; altro è un rapporto di durata sine certum tempus, il quale si protende nel futuro senza una scadenza finale.
Il corollario di tale interpretazione appare chiaro. Che la norma non risulta applicabile al contratto di mutuo, il quale è segnato dai termini certi del piano di ammortamento.
Segue. Mutuo con facoltà legale alternativa. Mutui fondiari e credito al consumo
Di un certo interesse si svela la disciplina del mutuo fondiario e del credito al consumo. La quale postula una doppia e alternativa fonte del rapporto. Da un lato, il contratto originario, che stabilisce le modalità di restituzione del tantundem così determinando la misura e i modi di pagamento della remunerazione; d'altro lato, la fonte legale dell'obbligazione di restituzione, la quale costituisce il Cicr nel ruolo di arbitratore chiamato a stabilire la misura dell'equo compenso del credito nel caso di estinzione anticipata del debito da parte del mutuatario.
Dovremmo a rigore distinguere tra recesso ed estinzione anticipata. I quali sul piano concettuale non appartengono alla medesima categoria. Il recesso è infatti una dichiarazione recettizia che, per propria natura, appartiene al mondo dei fatti; l'estinzione anticipata è semmai un effetto, che appunto si risolve nel venir meno del debito di restituzione conformato secondo i criteri e la misura originariamente previsti.
Ed allora parrebbero ammissibili - almeno sul piano concettuale - due casi. Che il mutuatario estingua in anticipo il debito offrendo la somma capitale residua, ed allora si darà luogo all'obbligazione accessoria del compenso del credito secondo i criteri stabiliti dal Cicr; che il mutuatario dichiari recesso, ed allora - ad ammettere tale facoltà - si determinerebbe la decadenza dal beneficio del termine con applicazione del tasso convenzionale di mora (ai sensi dell'art. 1224, primo comma, c.c.).
Il mutuatario, titolare della facoltà legale di estinzione anticipata, si trova così a poter scegliere due statuti giuridici dell'obbligazione di restituzione: il piano originario di ammortamento; e appunto la restituzione anticipata del capitale e di un ulteriore somma compensativa secondo la misura determinata dal Cicr. Sembra sotto questa luce che la norma si lasci ricondurre al generale ambito delle obbligazioni con facoltà alternativa (riconducibili nella sfera di applicazione dell'art. 1197 c.c.).
Ne segue che - secondo la communis opinio della letteratura - si darebbe una duplice modalità di adempimento, attraverso dationes alternative del debitore (pagamento rateale; estinzione uno tempore con compenso del credito stabilito dal Cicr), cui la legge attribuisce la medesima efficacia estintiva.
Questa ricostruzione implica un duplice interrogativo. In primo luogo se il mutuatario abbia facoltà di estinzione parziale, e così possa pretendere di estinguere il debito di capitale imputando il pagamento anticipato in modo difforme dai criteri legali d'imputazione previsti dall'art. 1194 c.c. (il quale richiede il consenso del creditore e, in mancanza, stabilisce la preventiva imputazione agli interessi). Il tenore dell'art. 40 Tub, il quale demanda al Cicr la determinazione dell'obbligazione feneratizia, parrebbe tuttavia implicare un'imputazione ex lege al capitale, dacché la obbligazione feneratizia è sostituita dal compenso stabilito dal Cicr (con un fenomeno analogo alla c.d. surrogazione reale) [nota 46].
Rimane il dubbio se nel nostro caso possa darsi applicabilità dell'art. 1197, comma secondo, c.c., sicché il mutuante che riceva una somma inferiore a quella dovuta possa "preferire" (per dirla con l'art. 1197 c.c.) il pagamento originariamente previsto, ossia l'adempimento secondo il piano di ammortamento primitivo. La soluzione negativa parrebbe postulare l'estinzione del rapporto originario, e - per meglio dire, secondo l'analisi svolta sopra - della fonte originaria dell'obbligazione restitutoria. Tuttavia se concepiamo una duplice e coesistente fonte dell'obbligazione restitutoria, deducibile nella facoltà alternativa del mutuatario (il quale dunque può scegliere ex lege se adempire secondo il piano di ammortamento o anticipatamente con imputazione al capitale e interessi stabiliti dal Cicr), allora il corollario parrebbe di dover ammettere in caso di inadempimento della prestazione in facultate il diritto del creditore mutuante a pretendere la prestazione originaria.
Segue. Mutuo sociale non feneratizio
Recita l'art. 7, comma 1, legge 2 aprile 2007, n. 40 (Estinzione anticipata dei mutui immobiliari e divieto di clausole penali): «è nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, ivi incluse le clausole penali, con cui si convenga che il mutuatario, che richieda l'estinzione anticipata o parziale di un contratto di mutuo per l'acquisto o per la ristrutturazione di unità immobiliari adibite ad abitazione ovvero allo svolgimento della propria attività economica o professionale da parte di persone fisiche, sia tenuto ad una determinata prestazione a favore del soggetto mutuante».
Il giurista non potrà che confessare le proprie perplessità.
Ed in particolare non riesce di isolare una ratio - con il carico problematico che tal lemma porta con sé - la quale riesca a spiegare la preclusione di ogni diritto del mutuante alla remunerazione del credito nel caso previsto dall'art. 7. Il quale peraltro a seguire il tenore letterale della disposizione parrebbe estendersi ai mutui di destinazione stipulati da qualunque persona fisica, a prescindere dalla qualifica di consumatore.
Il profitto non è un accadimento della storia (come trovare del danaro in terra); esso si converte e risolve in termini giuridici nel diritto suscettibile di coazione a conseguire una determinata prestazione pecuniaria. Il profitto si risolve in un situazione giuridica deducibile in contratto.
La preclusione legale di tal diritto implica una clausola si volam, e riduce il contratto ad uno statuto normativo il quale disciplina la mera eventualità che il mutuatario decida di proseguire il rapporto secondo il piano di ammortamento originario.
Appena da considerare come l'assenza di un'obbligazione feneratizia si riferisce alla coercibilità del piano di ammortamento, ossia alla coercibilità dello statuto convenzionale della obbligazione restitutoria. Essa non concerne il tasso d'interesse in sé considerato, che, secondo la generale disciplina della decadenza dal beneficio del termine, comincerà a decorrere dal tempo della esigibilità integrale del credito restitutorio [nota 47].
La differenza tra statuto legale del credito restitutorio nei due mutui (mutuo fondiario e mutuo sociale) appare tuttavia non banale: poiché l'estinzione anticipata del mutuo sociale sembra accompagnata da un divieto legale di prestazioni a favore del mutuante che parrebbe estendersi a qualsiasi remunerazione compensativa per il venir meno dell'originario piano di ammortamento.
Anche qui la norma ha carattere eccezionale, poiché preclude il diritto alla remunerazione feneratizia che dobbiamo certamente annoverare nei naturalia negotii ai sensi dell'art. 1815 c.c.
Potremmo allora pensare ad un'interpretazione restrittiva, la quale congiunga rubrica (riferita al divieto di clausole penali) e testo della disposizione, e così restringa e risolva codesta «determinata prestazione a favore del soggetto mutuante» in clausola penale per l'estinzione anticipata. Sotto questa luce, risulterebbe bensì nulla la determinazione convenzionale del risarcimento del danno da inadempimento dell'originaria obbligazione restitutoria, senza tuttavia venir meno il diritto alla remunerazione del credito. Nel caso in cui i contratti dell'art. 7 comma 1, legge 2 aprile 2007, n. 40 appartengano al novero dei mutui fondiari, troverà in ogni caso applicazione l'art. 40 Tub, sicché la remunerazione del credito sarà demandata all'arbitraggio legale del Cicr.
Recesso e rinegoziazione del mutuo
La durata degli effetti nel tempo suscita l'antico problema delle c.d. "sopravvenienze" e della correlativa resistenza del vincolo ad un «futuro indomabile» [nota 48].
Lo scorcio d'anni intorno al terzo millennio rinnova l'attenzione degli studiosi verso l'antico duello tra i principi del rebus sic stantibus e del pacta sunt servanda. Da un lato, il vincolo indisponibile a ciascuna delle parti che vorrebbe prescindere dai rovesci della storia; d'altro lato, il sopravvenire di fatti o circostanze suscettibili di incidere sul sinallagma economico, che rendono l'adempimento troppo oneroso per uno dei contraenti.
La contemporaneità rifugge dalle sottigliezze intellettuali e và al sodo: il "rimedio" manutentivo, ossia la modificazione di una o più clausole del contratto, appare giusto e preferibile, poiché evita la traumatica risoluzione del rapporto e soddisfa il comune interesse a contrarre - e dunque a conservare il rapporto - originariamente costituito.
Si affaccia così, messo a disposizione della parte "svantaggiata" (altra metafora ormai tralaticia), un diritto alla rinegoziazione, cioè alla modificazione delle prestazioni dedotte in contratto.
Su questa linea, la stessa dottrina che rinnova il dibattito ben coglie il corollario radicale, e s'interroga intorno all'incidenza delle clausole generali (e segnatamente la buona fede) sul nesso sinallagmatico, stabilito in principio e vulnerato dalle successive vicende del tempo.
Da un lato, la disciplina dell'art. 1457 c.c., che combina insieme diritto alla risoluzione ed offerta di riduzione ad equità della parte "svantaggiata"; d'altro lato, una posizione di principio, che vorrebbe estendere a qualsiasi vicenda del rapporto (di lunga durata) il bisogno di una rinegoziazione in buona fede, che preservi l'originaria proporzione tra le prestazioni reciproche [nota 49]. La rinegoziazione dei contratti a lungo termine diventa uno dei paradigmi della debolezza del vincolo, il quale non avrebbe più forza di legge tra le parti, ma parrebbe suscettivo di una continua revisione ab externo, una sorta di controllo eteronomo della sua conformità a buona fede.
Un'analisi semplificatrice, che nel superiore interesse del conoscere correrà il rischio della banalizzazione, giunge così a delineare con nettezza di contorni due contrapposte visioni del fenomeno: il diritto alla estinzione del rapporto, sottoposto alla condizione sospensiva della riduzione ad equità, nei casi straordinari e imprevedibili dell'art. 1457 c.c.; contro il diritto alla modificazione del rapporto divenuto iniquo, secondo criteri mutevoli affidati alla saggezza concreta (caso per caso) del giudice. La risoluzione appare allora un evento straordinario e imprevedibile; la modificazione un modo di conservazione del vincolo.
Nelle pagine che precedono dicemmo come non sia concepibile un vincolo astratto dalla concreta disciplina delle situazioni giuridiche attive e passive, ossia dallo specifico e concreto contenuto delle prestazioni dedotte in contratto. Il rapporto non esiste stralciato dalla propria fonte.
La scomposizione analitica del fenomeno rivela allora una difficoltà logica. Che il diritto a rinegoziare equivale al diritto di rifiutare l'adempimento secondo le previsioni negoziali, e dunque il venir meno del vincolo originario. Negandosi la stessa configurabilità di un rapporto astratto, si affaccia la netta alternativa: o si concepisce un diritto a non adempiere, ed allora potrà ammettersi il correlativo diritto a rinegoziare; o non può concepirsi un diritto a non adempiere, ed allora perderà senso il diritto a rinegoziare.
La pretesa di rinegoziare parrebbe su questa linea implicare di necessità una causa di estinzione del rapporto, inteso come concreto statuto delle reciproche situazioni originariamente dedotte.
Il corollario del diritto a rinegoziare sta allora in ciò: che dovremmo postulare una causa di estinzione del rapporto concreto, ossia delle situazioni giuridiche e del loro specifico contenuto previste dalle parti. E il diritto di rinegoziare dovrà implicare la sua stessa coercibilità; la quale metterà capo - in linea logica - alla possibilità che il giudice decida in luogo delle parti il nuovo oggetto delle prestazioni, sulla base di criteri equitativi [nota 50].
Torna qui il fenomeno della durata, inteso come categoria di contratti i quali non si esauriscono nello scambio istantaneo di prestazioni ma continuano nel tempo. Ed anzi proprio la durata del mutuo, segnato da una particolare profondità diacronica, parrebbe suscitare più d'altri il bisogno di adeguamento e conservazione dell'equilibrio contrattuale, racchiusi nel (intrinsecamente e consapevolmente) vago concetto di buona fede in executivis.
Un esempio potrà chiarire i termini del problema: quid se - stipulato un contratto a tasso fisso - la discesa dei tassi rendesse progressivamente grave l'onere economico a carico del mutuatario? La risposta appare agevole e per certi versi anche banale: dato che secondo una razionalità mercantile al mutuatario non potrà essere negato il diritto potestativo di cambiare banca scegliendo l'offerta reputata più conveniente. Diritto presidiato dal solerte paternalismo legislativo, attraverso il divieto di penali per il recesso e la nullità di eventuali clausole difformi. Ma questa disciplina sarebbe applicabile - secondo la linea qui seguita - al solo mutuo sociale.
Nel caso di mutuo ordinario, il quale non ammette recesso, si aprirebbe allora lo spazio concettuale per un' espansione dommatica del principio di buona fede nell'adempimento delle obbligazioni ed una disapplicazione giudiziale dell'art. 1457, attraverso la costituzione (dottrinale) di un diritto alla riconduzione ad equità alla sfera giuridica di entrambi i contraenti [nota 51].
Si stagliano così dinanzi a noi due ipotesi di lavoro, non necessariamente alternative:
che il mutamento delle condizioni di mercato giustifichi in ogni caso il recesso e così la estinzione del vincolo in modo che il mutuario riguadagni la propria libertà contrattuale;
che il mutamento delle condizioni di mercato attribuisca al contraente un diritto alla rinegoziazione del proprio contratto con la propria banca.
La complessa disciplina dei tipi di mutuo, sopra considerata, parrebbe invero escludere la rinegoziazione equitativa del contratto in ragione della durata. Il mutuo è un rapporto relativamente aleatorio, ove il cliente assume per la natura stessa vincolo l'alea della variazione dei tassi e della relativa convenienza; e non potrebbe perciò stesso invocare un diritto diacronico alla medesime condizioni primitive.
Parrebbe suffragare (flebilmente) questa conclusione l'art. 8, comma 3, della legge 2 aprile 2007, n. 40 (come modificato dall'art. 2, comma 450 legge 24 dicembre 2007, n. 244), secondo cui «Resta salva la possibilità del creditore originario e del debitore di pattuire la variazione, senza spese, delle condizioni del contratto di mutuo in essere, mediante scrittura privata anche non autenticata». La norma demanda all'accordo delle parti la variazione delle condizioni (ossia la rinegoziazione dell'originario contratto), secondo una logica conforme al principio generale dell'art. 1372 c.c. Disposizione inutile; il cui unico scopo parrebbe di escludere l'onere della forma solenne [nota 52].
Su questa linea, potrebbero a tutto dire affacciarsi i problemi legati all'attività d'impresa, ed ai casi in cui le linee di credito risultino nel tempo talmente onerose da precludere lo stesso equilibrio economico dell'impresa finanziata. Alla mera applicazione dell'art. 1457 c.c. potrebbe affiancarsi l'ipotesi del c.d. "terzo contratto" [nota 53], ossia della estensione analogica o sistematica di norme a tutela del contraente-imprenditore debole.
Ma sarebbe aprire un capitolo eccentrico rispetto all'economia di queste pagine.
[nota 1] Il mito della concorrenza suggerisce al legislatore dei nostri giorni la necessità di continui interventi, i quali annunciano nuovi "scenari" per esigere appena dopo la propria riforma. L'art. 10 riprodotto nel testo non sembra sfuggire a tale nichilismo legislativo.
[nota 2] La nota del Ministero dello sviluppo economico n. 5574 del 21 febbraio 2007 precisa che per «contratti di durata debbono intendersi i contratti a tempo indeterminato o a esecuzione continuata e periodica quali il conto corrente, il conto titoli, il deposito (purché non vincolato o non espresso nella forma del certificato di deposito), l'apertura di credito, il servizio bancomat e il servizio di carta di credito. L'equiparazione fra contratti a tempo indeterminato e contratti ad esecuzione continuata o periodica non è di per sé condivisibile, posto che nel caso di contratto a tempo determinato la durata costituisce una componente essenziale del negozio e la concessione di un diritto di recesso anzitempo incide sul sinallagma stesso dell'operazione». Sulla scorta delle stesse notazioni, la nota esclude espressamente che nel novero dei contratti di durata possano includersi i contratti di mutuo, considerata la natura peculiare del negozio contratto e la specialità della relativa disciplina (artt. 40 e 125 Tub).
[nota 3] V. SIMONE, Fondamenti di linguistica, 2° ed., Bari, 1992, p. 359-360: «in logica si indica con questo termine la parte di proposizione che PREDICA qualcosa a proposito del soggetto, cioè ne enuncia le caratteristiche trasformando una pura e semplice NOMINAZIONE in una PREDICAZIONE. Mentre il cavallo è un semplice nome (in linguistica, più propriamente, un sintagma nominale), il cavallo galoppa è una predicazione (o proposizione predicativa), perché al nome soggetto si è aggiunto un predicato (galoppa), cioè un costituente che dice qualcosa a proposito del soggetto. Quella di predicato è quindi una nozione relazionale, perché il predicato non esiste se non in rapporto ad un soggetto» (corsivo e maiuscole nel t.).
[nota 4] «L'espressione Tizio ha l'obbligo di consegnare a Caio la cosa venduta si rivela ellittica e deviante; essa va risolta in ciò: che, in un dato tempo futuro, la consegna della cosa ... sarà oggetto di una valutazione di conformità al diritto»: IRTI, Sul concetto di titolarità (persona fisica ed obbligo giuridico), in Norme e fatti, Milano, 1984, p. 8.
[nota 5] MAIORCA, Introduzione alla dinamica giuridica, Napoli, 1978, p. 35 e ss.
[nota 6] «Di fronte ad un negozio di compravendita - leggiamo in IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all'arbitrio altrui, Milano, 1967, p. 173 -, non basta dire che l'effetto ha carattere traslativo, ma bisogna precisare di quale bene viene trasferita la proprietà e quale è la persona del nuovo titolare». E poco oltre: «Il contenuto rende l'effetto invididuo e non ripetibile; e separa l'effetto concreto dall'effetto tipico, quale si trova nella proposizione normativa».
[nota 7] Isoliamo nella letteratura due filoni teorici: di restringere e risolvere l'effetto in vicenda del rapporto (da consultare le incalzanti pagine di ALLARA, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, Torino, 1999, nella nuova ristampa curata da IRTI, p. 20, 67; di considerare le vicende del rapporto come uno dei possibili effetti (v. BETTI, Diritto romano, I, Parte generale, Padova, 1935, p. 6). Su questo tema v. ora le riflessioni di IRTI, «La teoria delle vicende del rapporto (per la ristampa di un libro di Mario Allara)», in Riv. dir. civ., 1999, p. 420-421; ed in prefazione alla ristampa allariana, p. 13-14.
[nota 8] «Ogni conseguenza giuridica viene imputata ad un soggetto e riferita ad un oggetto»: FALZEA, La condizione e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941, p. 156.
[nota 9] Avvertendo che «... il contratto determina il contenuto dei poteri e degli obblighi assunti dalle parti, ma il titolo, o, se si preferisce un'altra espressione, la fonte di tali poteri ed obblighi è sempre nella norma che rende giuridicamente valido il contratto»: CAMMARATA, Il significato e la funzione del fatto nell'esperienza giuridica, ora in Formalismo e sapere giuridico, Studi, Milano, 1963, p. 279. Cfr. anche FALZEA, Efficacia giuridica, in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1970, spec. p. 291-294.
[nota 10] V. IRTI, «La teoria delle vicende del rapporto…», cit., p. 421: «non più astratto dovere ed astratto diritto, ma, ad esempio, l'obbligo di consegnare questa cosa e il potere di pretendere la consegna di questa cosa»; oltre: «il rapporto giuridico non è altro dalla soggettivante trascrizione di un contenuto di disciplina. Il rapporto non può costituirsi modificarsi estinguersi fuori dalla disciplina (legislativa o negoziale) che lo prevede e istituisce» (corsivi nel testo). Il fenomeno è assai diffuso: si pensi al tempo dell'adempimento («se non è determinato il tempo della prestazione ...»: art. 1183 c.c. - quod sine die ... -); al luogo («se il luogo nel quale la prestazione deve essere eseguita non è determinato ...»: art. 1182 c.c.).
[nota 11] Di "procedimento indiretto", secondo cui la norma determina «... gli effetti giuridici, che essa collega ad un dato fatto, mediante ... un riferimento al fatto stesso» scrive G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, 5° ed., Padova, 1958, p. 270.
[nota 12] Si aprirebbe, a questo punto, il dilemma circa la latitudine del termine 'effetto', se cioè esso si restringa a vicenda del rapporto (ALLARA, Vicende del rapporto giuridico; fattispecie, fatti giuridici, Torino, 1941, p. 125; sul quale v. ora i rilievi di IRTI, op. loc. cit.), ovvero debba espandersi ad ogni qualifica, applicata a termini della realtà (cose o persone: BETTI, Diritto romano, I, Parte generale, op. loc. cit.). La risposta sembra derivare dalla stessa logica interna del discorso. Risolto l'effetto in una categoria del giudizio, appunto in una qualifica, la limitazione alle qualifiche proprie del rapporto (obbligo e diritto) appare estrinseca ed infondata, mancando per definizione un criterio discriminante, che permetta di ridurre alla sola sfera del rapporto codesta qualificazione normativa. In altre parole, che una qualifica si risolva in "effetto" soltanto ove determini modifichi od estingua un rapporto giuridico (e così determini un obbligo, o lo estingua, o ne immuti il contenuto) potrà costituire un postulato dell'interprete, ma non un dato della realtà normativa; la quale, accanto a quelle di obbligo e diritto, conosce pure qualifiche diverse, "qualità di persone e di cose" previste ed assegnate dalla legge.
[nota 13] IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 24.
[nota 14] V. PERASSI, Introduzione allo studio delle scienze giuridiche, Padova, 1990 (rist. inalt.), p. 31 e ss.; PEKELIS, Il diritto come volontà costante, Padova, 1931, p. 70 e ss.; SCOGNAMIGLIO, «Fatto giuridico e fattispecie complessa (considerazioni critiche intorno alla dinamica del diritto)», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, I, p. 350; ESPOSITO, «Lineamenti di una dottrina del diritto», in Annali Un. Camerino, IV (1930), p. 5 e ss.; ALLORIO, «L'ordinamento giuridico nel prisma dell'accertamento giudiziale», in Problemi del diritto, I, Milano, 1957, p. 14-18; AGO, Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950, p. 67-75.
[nota 15] Per BETTI, Il concetto dell'obbligazione costruito dal punto di vista dell'azione, Pavia, 1920, p. 128-129, un debito «pagabile e non esigibile è da qualificare come giuridicamente rilevante, nel senso che è sanzionato, ex postfacto, da un imperativo di diritto (ad esempio, il divieto di ripetizione) ed è, in virtù di tale sanzione, causa di certi limitati effetti giuridici, quale la esclusione della ripetizione: quantunque non vi sia un imperativo di diritto che lo crei e ne imponga l'adempimento». «Esiste perciò - soggiunge Betti - un debito pagabile ma non esiste un obbligo al pagamento di esso, né quindi una pretesa di adempimento, non importando esso debito una responsabilità giuridica per l'inadempimento».
[nota 16] Se sia un nuovo rapporto, o la prosecuzione del precedente, è problema aperto: v., da ultimo, V. DI GRAVIO, Prevedibilità del danno e inadempimento doloso, Roma, 1999, spec. p. 32 e ss.
[nota 17] Il "titolo", in altre parole, non sta propriamente nel fatto in sé, ma nel fatto come pensato attraverso una coscienza ordinatrice (che, per i normativisti, non sarà altro dalla fattispecie). Di qui tale sorta di elasticità, la quale ben può ammettersi come mutamento della rilevanza, cioè del valore che il fatto assume per l'ordinamento. Idea confortata da FALZEA, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XVI, Milano, 1965, p. 455 e ss. Per il nesso tra fatto ed effetto, CAMMARATA, Il significato e la funzione del fatto nell'esperienza giuridica, ora in Formalismo e sapere giuridico, Studi, Milano, 1963, p. 279; DE GIOVANNI, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1958, p. 25; IRTI, voce Rilevanza giuridica, ora in Norme e fatti…, cit., p. 45, che propone il già ricordato "principio di relatività dei fatti giuridici". Da altra angolatura WEININGER, Die philosophie des Als Ob, Hamburg, 1922, tra it. di F. VOLTAGGIO, La filosofia del come se (sistema delle finzioni scientifiche, etico pratiche e religiose del genere umano), Roma, 1967., p. 29 e ss. (p. 82: «se si vuol parlare in genere della realtà, allora la si deve indicare con una categoria, altrimenti non solo è impensabile, ma è addirittura anche inesprimibile»). V. ancora CARNELUTTI, «Appunti sulle obbligazioni», in Riv. dir. comm., 1915, I, p. 528 e ss.
[nota 18] CARNELUTTI, op. ult. cit., p. 528 e ss.
[nota 19] V. BIANCA, Diritto civile, 3, L'obbligazione, Milano, p. 26, il quale ricorda che «le norme di diritto positivo hanno a loro fondamento l'esigenza di tale tutela, negando che il debitore possa essere reso immune da tale responsabilità e consentendo invece alcune limitazioni di essa sempreché sia fatto salvo un minimo inderogabile di tutela del credito». Cfr. RESCIGNO, voce Obbligazioni, (dir. civ.), Milano, 1988, p. 194 e ss., spec. 206; GIORGIANNI, L'obbligazione, I, Milano, 1968, p. 176 e ss.; ROPPO, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 1043 e ss.
[nota 20] Da rammentare la nota contrapposizione tra le teorie c.d. 'patrimoniali' secondo cui l'oggetto del credito starebbe, non nel contegno del debitore, ma nella prestazione in sé, «anche adempibile da altri, considerata come idonea a conferire una tipica utilità della vita di relazione» (BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1954, p. 133; CARNELUTTI, op. cit., p. 528, secondo il quale l'azione è il potere di appropriarsi del bene atteso); e le teorie 'personali', che risolvono il diritto di credito come "pretesa all'adempimento" (BIANCA, op. cit., p. 39; ove ult. rif. alle p. 35 e ss.).
[nota 21] Intesa propriamente come causa retinendi, o retentionis, cioè come fondamento dell'atto attributivo, secondo una veduta ampiamente dibattuta, specie tra i romanisti {v. BONFANTE, Corso di diritto romano, II, Roma, 1928, p. 181 e ss., che spiega la dicotomia tra causa prossima (l'accordo negoziale alla base del pagamento) e causa remota (cioè l'obbligazione che si adempie); SANFILIPPO, Condictio indebiti. I. Il fondamento dell'obbligazione da indebito, Milano, 1943, p. 53 (per il quale la causa prossima sta nel pagamento, non come negozio ma come mero fatto), e lo stesso BETTI, Istituzioni di diritto romano, II, Padova, 1960, p. 111 e ss. (che inclina per questa ultima soluzione). Il dibattito è analizzato da BRECCIA, La ripetizione dell'indebito, Milano, 1974, p. 78 e ss., spec. 82-90.}
[nota 22] Sarebbe, a rigore, da distinguere il venir meno della responsabilità in senso stretto, cioè della soggezione del debitore alle azioni esecutive, dal venir meno della pretesa, come soggezione all'azione di adempimento: se è vero che il difetto della pretesa implica l'impossibilità dell'azione esecutiva, non è vero il contrario, sicché l'ipotetica preclusione dell'esecuzione non necessariamente discenderà dalla estinzione della pretesa.
[nota 23] Si tratterebbe di un "debito senza obbligo".
[nota 24] Tale "riduzione" del rapporto si presenta come "provvisoria", in duplice accezione: essa è accompagnata dall'onus exceptionis, sicché dipende dall'eccezione del debitore; essa appare reversibile, attraverso un successiva decisione di ricostituire l'obbligo di adempiere. Si tratta di fenomeni incomunicanti, poiché, se il primo attiene all'exceptio del debitore, il secondo dipende da un'ulteriore accordo, che ripristini l'originaria situazione.
[nota 25] Dire Tizio ha l'obbligo di pagare, significa dire che il comportamento futuro di Tizio sarà valutato secondo la propria conformità o difformità rispetto a quello dedotto in obbligazione; ove esso sia conforme, allora (prestazioni di dare) il pagamento implicherà soluti retentio; nel caso sia difforme, allora si daranno le conseguenze, che si riassumono nel termine "responsabilità".
[nota 26] Secondo la teoria della norma come «criterio di valutazione», che «permette di attribuire a fatti ed a contegni umani una rilevanza, di cui altrimenti sarebbero privi» (IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 13). Si distingue tra valutazione "normativa", «che eleva i comportamenti umani al piano di doverosità»; e valutazione "applicativa", quale criterio di rilevanza (giuridica) di fatti naturali ed eventi storici. Da consultare CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, I, Padova, 1970, p. 11.
[nota 27] «è giuridico quel fatto che non è definibile per sé, ma solo osservato in rapporto di logica subordinazione al criterio che lo individua e lo qualifica come giuridico ... La scienza non conosce il fatto in sé, ma solo il fatto relativo ad un sistema teorico» (corsivo nel testo): DE GIOVANNI, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1958, p. 25 ; L'IRTI della voce Rilevanza giuridica, in Noviss. Dig. it., XX, Torino, 1968, p. 1105 e ss., ora in Norme e fatti…, cit., p. 45, avverte un «principio di relatività dei fatti giuridici, che sono appunto tali secondo l'ordinamento dal cui punto di vista ci si pone» (corsivo nel t.).
[nota 28] Non la percezione sensoriale dello scritto (od, allo stesso modo, del parlato), ma il momento logicamente successivo dell'interpretazione del messaggio (il quale si varrà congiuntamente delle fonti negoziale e legale: che, appunto, sarà un apprendere il contenuto - o "programma" - del rapporto).
[nota 29] Metafora della causalità, cui pure si ricorre per descrivere il nesso tra fattispecie ed effetto. Una serrata critica leggiamo in CAMMARATA, Il significato e la funzione del fatto nell'esperienza giuridica, cit. p. 267: «è assurdo parlare di connessione causale tra un fatto e una serie di fatti e qualcosa che, nella relazione in esame, ben lungi dall'atteggiarsi come fatto, si pone in un ordine di valutazioni, o qualificazioni che si dica, dell'attività umana. La causalità è ammissibile tra due fatti, cioè tra due elementi appartenenti ad un medesimo ordine di fenomeni, non tra due entità che risultano prima facie irriducibili ad un unico genus proximus»; v. pure DE GIOVANNI, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 137 e ss.; CATAUDELLA, voce Fattispecie, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 926 e ss.
[nota 30] BIANCA, Diritto civile, 3, L'obbligazione, cit., p. 13 scrive d'integrazione necessaria tra disciplina dell'obbligazione e della fonte.
[nota 31] PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 41, reputa che «ogni qualifica giuridica si concreta in certi effetti giuridici». IRTI torna ora sul tema con La teoria delle vicende del rapporto giuridico (per la ristampa di un libro di Mario Allara), cit., ove si legge (p. 420): «non meno minacciante e sterile, l'insidia (sempre denunciata dal Betti) di distacco e separazione. Il rapporto, eretto a 'cosa' e risultato di una produzione, è strappato dalla sua fonte, dalla fattispecie generatrice e dalle norme che lo prevedono e disciplinano». Oltre, con limpida coerenza: «Le vicende del rapporto si risolvono in vicende di statuti giuridici, che toccano i contegni di soggetti e su oggetti, individuati dalle fonti generatrici ... La concreta conformazione del rapporto non si lascia ridurre al mero legame di dovere e diritto; essa involge tutta intera la disciplina, che non è del rapporto ma è il rapporto» (corsivi nel t.).
[nota 32] CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, p. 15 («il fatto è soggetto e la fattispecie è predicato»). CORDERO, voce Giudizio, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1975, p. 882, segnala la necessaria «premessa di una successiva valutazione, destinata a svolgersi non più in ipotesi ma sul terreno di un dato reale, storicamente apprezzabile». IRTI, Rilevanza giuridica…, cit., p. 23, segnala la «rilevanza dei dati, che vengono pensati secondo i criteri normativi».
[nota 33] Per una veduta storicizzante del fenomeno obbligatorio ed un attento richiamo alla disciplina concreta della fonte v. PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall'adempimento, Bologna, 1975, p. 42-43; ID., «Recenti prospettive nel diritto delle obbligazioni», in Vita not., 1976, p. 1027 e ss.; ID., «Le obbligazioni: tra vecchi e nuovi dogmi», in Rass. dir. civ., 1989, p. 83 e ss. Da segnalare la ricostruzione di CATTANEO, La cooperazione del creditore all'adempimento, Milano, 1964, p. 21, 25.
[nota 34] Il termine programma, come previsione e definizione del contenuto (non già di "un", ma) di "quel" rapporto, accomuna dottrine italiana e germanica. Di sicuro rilievo pare PUGLIATTI, FALZEA, I fatti giuridici, revisione e aggiornamento di Falzea, nell'edizione curata da Irti per Giuffré, Milano, 1996 (v. in prefazione, IRTI, La scuola di Messina in un libro sui fatti giuridici, p. XIV-XV, che sottolinea come il concetto di 'programma' segni una estrema depsicologizzazione dell'atto); come pure i più vicini contributi di PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni, cit., p. 29 e ss.; ID., Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 437 e ss.; DI MAJO, Obbligazioni in generale, Bologna, 1985, p. 87; ; anche CANNATA, Le obbligazioni in generale, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, 9, I, Torino, 1984, pone l'accento sul programma obbligatorio, ricavabile dalla fonte. D'altro lato, come ben segnalato da GER. ROMANO, Interessi del debitore e adempimento, Napoli, 1995, p. 370 (nt. 167), non sfugge alla letteratura tedesca il profilo programmatico del rapporto: v. GERNHUBER, Bürgerliches Recht, München, 1991, p. 131 e ss.; SCHLECHTRIEM, Schuldrecht. Allgemeiner Teil, Tübingen, 1992, p. 41 e ss. Altri rif. in ROMANO, op. loc. cit.
[nota 35] Da meditare le pagine di IRTI, «Concetto giuridico di "comportamento" e invalidità dell'atto», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1054 e ss., il quale avverte: «L'indigenza del linguaggio lascia credere che l'atto ci sia, e venga soltanto accompagnato da un aggettivo (appunto invalido); ma in verità l'atto non c'è, poiché il criterio della sua esistenza, del suo valere per il diritto, è in quello schema, in quel modello tipico, a cui esso non si è adeguato». Ogni atto invalido è allora «un vuoto, un'assenza, non posseduti né possedibili dalla norma che descrive l'atto e ne stabilisce i requisiti» (op. loc. ult. cit.). Sulla tesi di Irti v. ora FEMIA, Classificare il divenire: autonomia cognitiva del contratto e plusvalore politico dello scambio, ined. letto grazie alla cortesia dell'autore, p. 43 del dattiloscritto, secondo il quale «è la stessa equazione invalidità/inesistenza a respingere una lettura classicamente metafisica di questa teoria fondamentale: è o non è qui rappresenta il dilemma non dell'essere o non essere ma la descrizione del valere o non valere (cioè dell'essere - o del non essere per un sistema culturale: il diritto) e valere o non valere sta per essere o non essere segno del sistema di riferimento, significare o non significare giuridicamente».
Femia introduce qui il concetto di "destituzione semantica", inteso - se non erro - come venir meno per il mondo del diritto del testo dal quale trarre la disciplina del caso. Collocherei in questa logica il conflitto tra fonti analizzato in queste pagine. Se la legge prevede un modello di condotta (devi non fare X) incompatibile con il modello ricavabile dal contratto (devi fare X), si apre il conflitto tra fonti; la necessità di scegliere la fonte "valida" e destituire semanticamente la fonte - ossia il testo - incompatibile. Validità e invalidità sono riferibili non già a comportamenti ma a fonti: non è dato di sensatamente predicare la nullità di un fatto o di una condotta.
[nota 36] A tenore del quale «Se il consumatore esercita la facoltà di adempimento anticipato, ha diritto a un'equa riduzione del costo complessivo del credito, secondo le modalità stabilite dal Cicr».
[nota 37] Ma v. infra, § Tre tipi di mutuo. Mutuo ordinario in suscettibile di recesso legale.
[nota 38] V. BOBBIO, Teoria generale del diritto, 1993 (ove si raccolgono i corsi di teoria della norma giuridica e teoria dell'ordinamento giuridico, tenuti presso l'Università di Torino gli anni 1957-58, e 1959-60), p. 212: «Se definiamo norme incompatibili quelle che non possono essere entrambe vere, rapporti di incompatibilità normativa si verificano in questi tre casi: 1. tra una norma che comanda di fare alcunché e una norma che proibisce di farlo (contrarietà); 2. tra una norma che comanda di fare e una che permette di non fare (contraddittorietà); 3. tra una norma che proibisce di fare e una che permette di fare (contraddittorietà)» (corsivi nel t.). Il nostro caso pare collocabile sub n. 3, configurandosi una coesitenza di un comando di non fare (obbligo de non petendo) ed un permesso di fare (facoltà di esigere), secondo un nesso che Bobbio designa di contraddittorietà. A p. 213, Bobbio formula un esempio calzante: «l'art. 502 c.p. considera lo sciopero come un reato; l'art. 40 Cost. dice che "Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". Ciò che la prima norma proibisce, la seconda considera lecito, cioè permette di fare ... Anche queste due norme sono incompatibili per contraddittorietà».
[nota 39] BOBBIO, op. cit., p. 151-153.
[nota 40] BOBBIO, op. cit., p. 210-211.
[nota 41] Il concetto di "libertà giuridica" assume una duplice accezione. Da un lato, in assenza di qualificazione normativa, come spazio vuoto dal diritto (v. BERGBOHN, K, Jurisprudenz und Rechtsphilosophic, I, Leipzig, 1892, p. 371 e ss.; in Italia dal SANTI ROMANO, Osservazioni sulla completezza dell'ordinamento giuridico, Modena, 1925, p. 4-5; ID., L'ordinamento giuridico, 2° ed., rist., Firenze, 1951, p. 129, ove si legge: «... può darsi che l'ordinamento giuridico dello Stato, da una parte, non vieti a ciascuno dei suoi sudditi (così come non impone) un'attività, che rimane per conseguenza libera, ma, d'altra parte, non vieti neppure ai rimanenti soggetti di esplicare un'attività contraria alla prima. Esso, in tal caso, rimane indifferente di fronte allo svolgersi di due attività che contrastano e non possono quindi considerarsi come oggetto di veri e proprî diritti». Dall'altro, un generale dovere di non interferenza degli altri consociati, cui corrisponde un diritto all'astensione altrui (IRTI, Società civile, Milano, 1992, p. 111: «la libertà non è l'irrilevante né il vuoto, poiché essa postula ed, anzi, è propriamente un fascio di obblighi di astensione, stabiliti a carico degli altri consociati»).
[nota 42] Infra, § Recesso e rinegoziazione del mutuo.
[nota 43] Recita l'art. 40 Tub sul mutuo fondiario (Estinzione anticipata e risoluzione del contratto): «I debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il proprio debito, corrispondendo alla banca esclusivamente un compenso onnicomprensivo per l'estinzione contrattualmente stabilito. I contratti indicano le modalità di calcolo del compenso, secondo i criteri stabiliti dal Cicr al solo fine di garantire la trasparenza delle condizioni».
[nota 44] Recita l'art. 7, comma 1, legge 2 aprile 2007, n. 40 (Estinzione anticipata dei mutui immobiliari divieto di clausole penali): «è nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, ivi incluse le clausole penali, con cui si convenga che il mutuatario, che richieda l'estinzione anticipata o parziale di un contratto di mutuo per l'acquisto o per la ristrutturazione di unità immobiliari adibite ad abitazione ovvero allo svolgimento della propria attività economica o professionale da parte di persone fisiche, sia tenuto ad una determinata prestazione a favore del soggetto mutuante».
[nota 45] Sui problemi legati allo scioglimento dei rapporti di durata v. da ultimo PAGLIANTINI, La risoluzione dei contratti di durata, Milano, 2006, spec. p. 47 e ss. Indispensabile OPPO, «I contratti di durata», in Riv. dir. comm., 1943, I, p. 146 e ss.
[nota 46] Si tratterebbe, dunque, di una ipotesi di modificazione (legale) oggettiva di un rapporto di fonte negoziale, in cui, al mutamento della prestazione originaria, non corrisponderebbe l'estinzione del rapporto contrattuale: «tale rapporto rimane fermo pur se modificato, e il nuovo obbligo avrà quindi la fonte regolatrice nel contratto originario». Come avverte C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, l'obbligazione, cit., p. 455, circa i rapporti tra novazione dell'obbligazione e novazione del contratto. In questo senso, per tutti, L.V. MOSCARINI, voce Surrogazione reale, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1968, p. 975, il quale afferma: «al dato fenomenico del succedere, nella realtà economica, di una somma di denaro ad una cosa, o viceversa, corrisponde, nella valutazione dell'ordinamento, un'ipotesi di surrogazione reale, in tutti i casi in cui si presenti come meritevole di tutela giuridica l'interesse al conseguimento del valore economico della cosa». Sul fenomeno della surrogazione reale cfr., inoltre, F. SANTORO-PASSARELLI, «La surrogazione reale», in Riv. it. sc. giur., 1926, p. 8 e ss. estr.; A. MAGAZZÙ, La surrogazione reale, Milano, 1968, p. 14 e ss.
[nota 47] V. Cass., sez. I, 21 ottobre 2005, n. 20449, in Foro it. Rep., 2005, voce Credito fondiario, n. 8 ad avviso della quale «il mutuo va reputato - seguendo le indicazioni della prevalente dottrina - contratto di durata agli effetti dell'art. 1458 c.c., in considerazione del carattere non istantaneo, ma prolungato, in ragione della durata del prestito, dell'utilità per il mutuatario consistente nel godimento del danaro - retribuito dalla controprestazione, del pari durevole, degli interessi - assicuratogli dal mutuante per il tempo convenuto. La risoluzione, dunque, non opera retroattivamente, ma opera per il futuro anticipando la scadenza dell'obbligazione di rimborso del capitale, la quale, però, conserva il suo titolo contrattuale; con la conseguente applicabilità, in caso di ulteriore ritardo nel rimborso stesso, degli interessi di mora al tasso in precedenza convenuto nel contratto, ai sensi dell'art. 1224, primo comma, ult. parte, c.c.»; Trib. Napoli 1 marzo 1997, in Foro it., 1998, I, c. 612; Trib. Modica 13 novembre 1987, in Giur. mer., 1989, p. 36. Da ultimo Cass. civ. , Sez. Un., 19 maggio 2008 , n. 12639, in Giust. civ., 2008, 6, p. 1391, ove leggiamo: «In tema di mutuo fondiario, in ipotesi di inadempimento del mutuatario, l'esercizio della "condizione risolutiva" da parte dell'Istituto di credito mutuante determina la risoluzione del rapporto di mutuo. Ne discende l'obbligo del mutuatario di provvedere alla immediata restituzione della intera somma ricevuta, essendo venuto meno il meccanismo di rateizzazione previsto nel contratto ormai risolto. Ciò rende inattuale ogni discussione in ordine al preteso carattere unitario ed inscindibile delle rate di mutuo. Ne consegue altresì che alla banca compete il diritto di ricevere, oltre all'importo integrale delle semestralità già scadute (non travolte dalla risoluzione, che non opera retroattivamente nei contratti di durata, quale è da ritenersi il mutuo), la sola quota di capitale residua, ma non anche gli interessi conglobati nelle semestralità a scadere e che sul credito così determinato si dovranno calcolare gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello già previsto nel contratto, se superiore al tasso legale, in ossequio al disposto dell'art. 1224, comma 1, c.c.».
[nota 48] Leggo la suggestiva formula in R. PARDOLESI, «Regole di default e razionalità limitata: per un (diverso) approccio di analisi economica al diritto dei contratti», in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 460 e ss. Per tutti ovviamente MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 35 e ss.; ID., voce Revisione e rinegoziazione del contratto, in Enc. dir., ann. II. T. II, p. 1026 e ss. Da ultimo F. GAMBINO, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004, passim; ID., «Revisione del conrtatto e autonomia privata», in Riv. dir. priv., 2007, p. 347 e ss.
[nota 49] Per una efficace sintesi dei diversi profili v. MACARIO, op. ult. cit., spec. p. 1053 e ss.
[nota 50] O che affidi all'ortopedia risarcitoria il diritto della parte a conseguire prestazioni diverse e meno onerose: v. le pagine di MACARIO, op. ult. cit., p. 1053 e ss.
[nota 51] V. MACARIO, op. ult. cit., p. 1054-1057. Contra, D'ANDREA, L'offerta di equa modificazione del contratto, Milano, 2006, spec. p. 147.
[nota 52] Vi è poi l'inciso "senza spese". Che parrebbe qui doversi risolvere in un divieto di clausole penali per la rinegoziazione, in ragione della estinzione del primitivo rapporto.
[nota 53] V. AA. VV. , Il terzo contratto, Bologna, Mulino, 2008, passim.
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